Giovanni Boccaccio

 

Teseida

 

 

Edizione di riferimento: Giovanni Boccaccio: Teseida delle nozze d'Emilia, a cura di A. Limentani, in Tutte le opere, a cura di V. Branca, vol. II, Mondadori, Milano 1964

 

 

 

TESEIDA DELLE NOZZE D'EMILIA

 

 

A FIAMMETTA

 

Come che a memoria tornandomi le felicità trapassate, nella miseria vedendomi dov'io sono, mi sieno di grave dolore manifesta cagione, non m'è per tanto discaro il riducere spesso nella faticata mente, o crudel donna, la piacevole imagine della vostra intera bellezza. La quale, più possente che il mio proponimento, di sé e d'amore, giovane d'anni e di senno, mi fece suggetto. E quella, quante volte vi viene, con intero animo contemplando, più tosto celestiale che umana figura esser con meco dilibero; e che essa quello che io considero sia, il suo effetto ne porge argomento chiarissimo, però che ella, con gli occhi della mia mente mirata, nel mezzo delle mie pene ingannando non so con che ascosa soavità l'aflitto core, li fa quasi le sue continue amaritudini obliare, e in quello di se medesima genera un pensiero umilissimo, il qual mi dice: "Questa è quella Fiammetta, la luce de' cui belli occhi prima i nostri accese, e già fece contenti con gli atti suoi gran parte de' nostri ferventi disii". Oh, quanto allora, me a me togliendo di mente, parendomi essere ne' primi tempi, li quali io non immerito ora conosco essere stati felici, sento consolazione! E certo, se non fossero le pronte sollecitudini delle quali la nemica fortuna m'ha circundato, che non una volta ma mille in ogni picciolo momento di tempo con punture non mai provate mi spronano, io credo che così contemplando, quasi gli ultimi termini della mia beatitudine abracciando, morre'mi. Tirato adunque da quello a che, quantunque sia stato lungo lo spazio, appena essere stato mi pare, quale io rimanga, Amore, che i miei sospiri conosce, il può vedere. Il quale, ancora che voi ingiustamente di piacevole sdegnosa siate tornata, però non m'abandona. Né possono né potranno le cose avverse, né il vostro turbato aspetto, spegnere nell'anima quella fiamma la quale mediante la vostra bellezza esso v'accese; anzi essa, più fervente che mai, con isperanza verdissima vi nutrica: sono adunque del numero de' suoi sogetti, com'io solea.

 

Vero è che dove bene avventurato già fui, ora infelicissimo mi ritruovo, sì come voi volete, di tanto solamente appagato che torre non mi potete ch'io non mi tenga pur vostro e ch'io non v'ami, posto che voi per vostro mi rifiutate, e il mio amarvi forse più gravezza che piacere riputiate. E tanto m'hanno oltre a questo le cose traverse di conoscimento lasciato, che io sento che per umiltà ben servendo ogni durezza si vince e merita uom guiderdone. La qual cosa non so se a me s'averrà, ma come che seguir me ne debba, né da sé mi vedrà diviso umiltade, né fedel servire stanco giammai. E acciò che l'opera sia verissimo testimonio alle parole, ricordandomi che già ne' dì più felici che lunghi io vi sentii vaga d'udire e tal volta di leggere una e altra istoria, e massimamente l'amorose, sì come quella che tutta ardavate nel fuoco nel quale io ardo – e questo forse faciavate acciò che i tediosi tempi con ozio non fossero cagione di pensier più nocevole –, come volonteroso servidore, il quale non solamente il comandamento aspetta dal suo maggiore, ma quello, operando quelle cose che crede che piacciano, previene, trovata una antichissima istoria e alle più delle genti non manifesta, bella sì per la materia della quale parla, che è d'amore, e sì per coloro de' quali dice, che nobili giovani furono e di real sangue discesi, in latino volgare e per rima, acciò che più dilettasse, e massimamente a voi che già con sommo titolo le mie esaltaste, con quella sollecitudine che conceduta mi fu da l'altre più gravi, disiderando di piacervi, ho ridotta. E che ella da me per voi sia compilata, due cose fra l'altre il manifestano. L'una si è che ciò che sotto il nome dell'uno de' due amanti e della giovane amata si conta essere stato, ricordandovi bene, e io a voi di me e voi a me di voi, se non mentiste, potreste conoscere essere stato detto e fatto in parte: quale de' due si sia non discuopro, ché so che ve ne avvedrete. Se forse alcune cose soperchie vi fossero, il volere bene coprire ciò che non è onesto manifestare da noi due infuori e il volere la storia seguire ne son cagioni; e oltre, a ciò dovete sapere che solo il bomere aiutato da molti ingegni fende la terra. Potrete adunque e qual fosse innanzi e quale sia stata poi la vita mia che più non mi voleste per vostro, discernere. L'altra si è il non avere cessata né storia né favola né chiuso parlare in altra guisa, con ciò sia cosa che le donne sì come poco intelligenti ne sogliano essere schife, ma però che per intelletto e notizia delle cose predette voi dalla turba dell'altre separata conosco, libero mi concessi il porle a mio piacere. E acciò che l'opera, la quale alquanto par lunga, non sia prima rincresciuta che letta, disiderando di disporre con afezione la vostra mente a vederla, se le già dette cose non l'avessero disposta, sotto brevità sommariamente qui appresso di tutta l'opera vi pongo la contenenza.

 

Dico adunque che dovendo narrare di due giovani nobilissimi tebani, Arcita e Palemone, come, innamorati d'Emilia amazona, per lei combattessero, primamente posta la invocazione poetica, mi parve da dimostrare e donde la donna fosse e come ad Attene venisse, e chi fossero essi e come quivi venissero similemente; laonde sì come premessioni alla loro istoria due se ne pongono. E primamente dopo la invocazione predetta, disegnato il tempo nel quale le seguenti cose furono, la battaglia fatta da Teseo con Ipolita, reina dell'Amazzone, e la cagione d'essa e la vittoria seguitata discrivo; procedendo oltre, come Teseo, presa Ipolita per isposa, con lei insieme Emilia sua sorella triunfando ne menò ad Attene; quinci, acciò che onde e come i due amanti venissero sia aperto, un'altra battaglia, e la felice vittoria di quella seguita, fatta da Teseo co' Tebani, premessa la cagione, si disegna; e, come appare, i due giovani, presi in quella parte del triunfo di Teseo, vennero in Attene. Dove come da lui; imprigionati fossero e come e in che tempo d'Emilia s'innamorassono, procedendo si legge; pervenendo poi da questo alla diliberazione fatta d'Arcita a' prieghi di Peritoo e al pellegrinaggio suo in Egina e alla sua vita e alla tornata d'esso sconosciuto ad Attene e al suo dimorar con Teseo; quindi scrivendo qual Palemone rimanesse, come a lui la tornata d'Arcita sotto cambiato nome si discoprisse e come per lo ingegno di Panfilo suo famigliare elli uscisse de la prigione, e la battaglia con lui fatta nel bosco; mostrando apresso come da Emilia prima combattendo veduti, e poi da Teseo, e riconosciuti, manifestandosi essi medesimi, fossero, e quello che Teseo con lor componesse, e la loro tornata in Attene; dichiarando poi qual fosse la vita loro, e l'avenimento di molti prencipi ad una battaglia futura, e i sacrificii fatti e da loro e da Emilia, e poi la loro battaglia e chi vincesse; e dopo a tutte queste cose lo infortunio d'Arcita, il suo triunfo, la liberazione di Palemone, la sponsalizia d'Emilia e la morte d'Arcita si pongono interamente; giungendosi ad esse l'onore publico fattoli da Teseo e dagli altri greci prencipi al sepellire, e il mirabile tempio nel quale le sue ceneri furon poste. E ultimamente come Emilia conceduta fosse a Palemone, e le sue nozze, e de' prencipi la partita finendo si truova. Le quali cose se tutte insieme e ciascuna per sé, o nobilissima donna, da voi con sana mente saranno pensate, potrete quello che di sopra dissi conoscere, e quindi la mia affezione discernendo, potrete il preso orgoglio lasciare, e, lasciatolo, potrete la mia miseria in disiderata felicità ritornare. Ma se pure gravi vi fossero le dette cose e vincesse la vostra altierezza la mia umilità, in questa una sola cosa per suppremo dono addomando, che, dando ad essa luogo, il presente picciolo libretto, poco presento alla vostra grandezza ma grande alla mia picciolezza, tegnate. Questo se 'l fate, alcuna volta ne' miei affanni sarà di rifrigerio cagione, pensando che in quelle dilicate mani nelle quali io più non oso venire, una delle mie cose alcuna volta pervenga. Io procederei a molti più prieghi, se quella grazia la quale io ebbi già in voi non se ne fosse andata; ma però che io del niego dubito con ragione, non volendo che a quello uno che di sopra ho fatto, e che io spero d'ottenere sì come giusto, gli altri nocessono, e sanza essermene niuno conceduto mi rimanessi, mi taccio, ultimamente pregando colui che mi vi diede, allora che io primieramente vi vidi, che se in lui quelle forze sono che già furono, raccendendo in voi la spenta fiamma, a me vi renda, la quale, non so per che cagione, inimica fortuna m'ha tolta.

 

 

SONETTO

 

Nel quale si contiene un argomento generale a tutto il libro

 

Nel primo vince Teseo l'Amazone,

nel secondo Creon certanamente;

nel terzo amore Arcita e Palemone

occupa, e 'l quarto mostra la dolente                                       4

 

vita d'Arcita uscito di prigione;

il quinto la battaglia virilmente

da Penteo fatta col suo compagnone,

e 'l sesto poi convoca molta gente                                           8

 

alla battaglia; il settimo li afrena,

l'ottavo l'un di lor fa vincitore,

il nono mostra il triunfo e la pena                                             11

 

d'Arcita, e l'altro il suo mortal dolore;

e l'undecimo Arcita al rogo mena;

l'ultimo Emilia dona all'amadore.                                              14

 

 

 

LIBRO PRIMO

 

 

Sonetto nel quale si contiene uno argomento particulare del primo libro

 

La prirna parte di questo libretto

a chi 'l riguarda mostra apertamente

la cagion che Teseo fece fervente

dell'Amazone a vengiare il difetto;                                            4

 

e come el fosse in Scizia provetto

col suo navilio e con l'armata gente,

e come il suo scender primamente

dall'Amazone gli fosse interdetto;                                             8

 

mostrando appresso come discendesse

per viva forza, e come combattendo

con quelle donne poscia le vincesse,                                        11

 

l'assedio poi alla città ponendo;

e come a patti Ipolita si desse,

con pace lui per marito prendendo.                                         14

 

 

Incomincia il primo libro del Teseida delle nozze d'Emilia. E prima la invocazione dell'autore

 

1

 

O sorelle castalie, che nel monte

Elicona contente dimorate,

dintorno al sacro gorgoneo fonte,

sottesso l'ombra delle frondi amate

da Febo, delle quali ancor la fronte

spero d'ornarmi, sol che 'l concediate:

le sante orecchi a' miei prieghi porgete

e quelli udite come voi dovete.

 

2

 

E' m'è venuto in voglia con pietosa

rima di scrivere una istoria antica,

tanto negli anni riposta e nascosa

che latino autor non par ne dica,

per quel ch'io senta, in libro alcuna cosa;

dunque sì fate che la mia fatica

sia graziosa a chi ne fia lettore

o in altra maniera ascoltatore.

 

3

 

Siate presenti, o Marte rubicondo,

nelle tue armi rigido e feroce,

e tu, madre d'Amor, col tuo giocondo

e lieto aspetto, e 'l tuo figliuol veloce

co' dardi suoi possenti in ogni mondo;

e sostenete e la mano e la voce

di me che 'ntendo i vostri effetti dire

con poco bene e pien d'assai martire.

 

4

 

E voi, nel cui conspetto il dir presente

forse verrà com'io spero, ancora

quant'io più posso priego umilemente,

per quel signor che' gentili innamora,

che attendiate con intera mente;

voi udirete come elli scolora

ne' casi avversi ciascun suo seguace

e come dopo affanno e' doni pace.

 

5

 

E questo con assai chiara ragione

comprenderete, udendo raccontare

d'Arcita i fatti e del buon Palemone,

di real sangue nati, come appare,

e amendun tebani, e a quistione,

parenti essendo, per soverchio amare

Emilia bella, vennero, amazona;

donde l'un d'essi perdeo la persona.

 

 

Seguita il tempo e la cagione nel quale e per che Teseo, duca d'Attene, andò adosso alla reina delle donne amazone

 

6

 

Al tempo che Egeo re d'Attene era,

fur donne in Scizia crude e dispietate,

alle qua' forse parea cosa fiera

esser da' maschi lor signoreggiate;

per che, adunate, con sentenzia altiera

diliberar non esser soggiogate,

ma di voler per lor la signoria;

e trovar modo a fornir lor follia.

 

7

 

E come fer le nepoti di Belo

nel tempo cheto alli novelli sposi,

così costor, ciascuna col suo telo

de' maschi suoi li spirti sanguinosi

cacciò, lasciando lor di mortal gielo

tututti freddi, in modi dispettosi;

e 'n cotal guisa libere si fero,

ben che poi mantenersi non potero.

 

8

 

Recato adunque co' ferri ad effetto

lor malvoler, voller maestra e duce

che correggesse ciascun lor difetto

e a ben viver desse forma e luce;

né a tal voglia dier lungo rispetto,

ma delle donne che 'l luogo produce

elesser per reina en la lor terra

Ipolita gentil, mastra di guerra.

 

9

 

La quale, ancora che femina fosse

e di bellezze piena oltre misura,

prese la signoria, e sì rimosse

da sé ciascuna feminil paura,

e in tal guisa ordinò le sue posse,

che 'l regno suo e sé fece sicura;

né di vicine genti avea dottanza,

sì si fidava nella sua possanza.

 

10

 

Regnando adunque animosa costei,

alle sue donne fé comandamento

che Greci, Trazii, Egizii o Sabei,

né uomini altri alcun nel tenimento

entrar lasciasser, se esse avean di lei

la grazia cara; ma ciascuno spento

di vita fosse che vi s'appressasse,

se subito il terren non isgombrasse.

 

11

 

Se per ventura lì fosser venute

femine, di qual parte si volesse,

da lor benignamente ricevute

comandò fossero e, se lor piacesse

d'esser con loro insieme, ritenute

dovessono esser, sì che si riempiesse

il luogo di color che lì morieno

di quelle che d'altronde lì venieno.

 

12

 

Sotto tal legge più anni quel regno

istette, e' porti furon ben guardati,

sicché non vi venia nave né legno,

o da fortuna o da altro menati

che fosser lì, che non lasciasser pegno

oltre al parer loro; e malmenati

li conveniva del luogo fuggire,

se non volevan miseri morire.

 

13

 

A questo scotto i Greci assai sovente

incappavan per lor disaventura;

per che a Teseo, allor signor possente,

duca d'Attene, spesso con rancura

eran posti richiami di tal gente

e di lor crudeltate a dismisura;

ond'elli, in sé di ciò forte crucciato,

propose di purgar cotal peccato.

 

14

 

Marte tornava allora sanguinoso

dal bosco dentro al qual guidati avea,

con tristo agurio del re furioso

di Tebe, l'aspra schiera, e si tenea

lo scudo di Tideo, il qual pomposo

della vittoria, sì come potea,

ad una quercia l'aveva appiccato

cotal qual era, a Marte consecrato.

 

15

 

E 'n cotal guisa, in Trazia ritornando,

si fé sentire al crucciato Teseo,

in lui di sé un fier caldo lasciando;

e col suo carro avanti procedeo,

dovunque giva lo cielo infiammando;

poi nelle valli del monte Rifeo,

ne' templi suoi posando, si raffisse,

sperando ben che ciò che fu seguisse.

 

16

 

Quinci Teseo magnanimo chiamare

li baron greci fé, e lor propose

ch'elli intendeva voler vendicare

la crudeltà e l'opere noiose

delle donne amazone; e a ciò fare

richiese lor, nelle cui virtuose

opere si fidava; e ciascun tosto

rispose sé al suo piacer disposto.

 

17

 

Commossi adunque i popoli dintorno,

qual per dovere e qual per amistate,

tutti ad Attene in un nomato giorno

si ragunar, con quella quantitate

ch'ognun poteva; e, sanza far sogiorno,

sopra le navi già apparecchiate

cavalli e arme ciascun caricava

con ciò che a fare oste bisognava.

 

 

Come Teseo co' suoi entrò in mare e andò sopra le donne amazone

 

18

 

E quando parve tempo al buon Teseo

di navigar vedendol chiaro e bello,

tutta la gente sua raccoglier feo

con debito dover, sì come quello

che altra volta il buon partito e 'l reo

avea provato del mar piano e fello;

e nel mar col suo stuol tutto si trasse,

vento aspettando ch'al gir gli aiutasse.

 

19

 

Essendo a tal partito sopra l'onde

la greca gente bene apparecchiata,

la notte che le cose ci nasconde

aveva l'aer tututta occuppata;

onde alcun dorme, e tal guarda e risponde,

e così infino alla stella levata;

la qual sì tosto com'ella appario,

l'amiraglio dell'oste si sentio;

 

20

 

e a guardare il ciel col viso alzato

tutto si diè, e quindi fé chiamare

li marinar, dicendo: – Egli è levato

prospero vento, onde mi par d'andare

a nostra via, e però sia spiegato

ciaschedun vel sanza più dimorare. –

E e' fu fatto il suo comandamento,

e quindi si partir con util vento.

 

 

Come ad Ipolita reina pervenne che Teseo s'apparecchiava d'andarle adosso.

 

21

 

Ma la corrente fama, che transporta,

con più veloce corso ch'altra cosa,

qualunque opera fatta, dritta o torta,

sanza mai dare alli suoi passi posa,

cotal novella tosto la rapporta

ad Ipolita bella e graziosa,

e in pensier la pon di sua difesa

di mal talento e di furore accesa.

 

22

 

Ma poi che l'ira alquanto fu affreddata

con utile consiglio immantanente

di volersi difendere avvisata,

fece chiamar ciascuna, di presente,

donna che nel suo regno era pregiata,

e tutte a sé venirle tostamente;

alle qua' poi in publico consiglio

a parlar cominciò con cotal piglio.

 

 

Diceria d'Ipolita alle donne sue

 

23

 

– Perciò che voi in questo vostro regno

coronata m'avete, e' s'appartiene

a me di porre e la forza e lo 'ngegno

per la salute vostra u' si convene,

sanza passar di mio dovere il segno

nel prestar guiderdoni o porger pene

ond'io, a ciò sollecita, chiamate

v'ho, perché voi e me con voi atiate.

 

24

 

Non vede il sol, che sanza dimorare

dintorno sempre ci si gira in terra

donne quanto voi sete da pregiare;

le qua', se 'n ciò il mio parer non erra,

per voler virile animo mostrare,

contro a Cupido avete presa guerra,

e quel ch'a l'altre più piace fuggite,

uomini fatti, non femine ardite.

 

25

 

E che questo sia vero, assai aperto

non ha gran tempo ancora il dimostraste,

allor ch'amor, né paura, né merto

non vi ritenne che voi non mandaste

a compimento il vostro pensier certo,

quando da servitù vi dilibraste;

nell'arme sempre esercitate poi,

cacciando ogni atto feminil da voi.

 

26

 

Ma se mai virile animo teneste,

ora bisogno fa, per quel ch'io senta,

perciò che voi, sì com'io, intendeste

che 'l gran Teseo di venir s'argomenta

sopra di noi, avendoci moleste

perché nostro piacer non si contenta

di quel che l'altre, ciò è suggiacere

a gli uomini, faccendo il lor volere.

 

27

 

Al suo inimicarci altra cagione

veder non so, né voi credo veggiate,

perciò che mai alcuna offensione

ver lui non commettemmo, onde assaltate

dovessomo essere; e questa ragione

assai è vota di degna onestate,

perciò che non fa mal que' che s'aiuta

per raver libertà, se l'ha perduta.

 

28

 

Ma qual che sia la cagion che il mova,

a noi il difender resta solamente,

sì che non vinca per forza la pruova;

laond'io vi richeggio umilemente

e priego, se in tal vita vi giova

di viver qual noi tegniamo al presente,

che l'animo, lo 'ngegno e ogni possa

mettiate contro a chi guerra v'ha mossa.

 

29

 

Né vi metta paura conscienza

d'aver peccato negli uomini vostri,

ché morte lor la loro isconoscenza

lecita impetrò nelli cor nostri,

che non stimavan che d'equal semenza

con lor nascessim, ma come da mostri,

da quercie, over da grotte partorite,

eravam poco qui da lor gradite.

 

30

 

E' si tenevan l'altezze e gli onori

sanza participarle a noi giammai,

le quali eravam degne di maggiori

ch'alcun di loro, a dir lo vero, assai;

per che di ciò gl'iddii superiori

rison che noi facemmo, e sempre mai

n'avranno per miglior, l'altre schernendo

che per viltà si van sottomettendo.

 

31

 

Né vi spaventi il nome di costoro,

perch'e' sien Greci; ché non son guarniti

di forza divisata da coloro

che nel passato fur vostri mariti;

se fiere vi mostrate verso loro,

e' non saranno inver di voi arditi,

ché niun può più ch'un uom, chi ch'el sia;

però da voi cacciate codardia.

 

32

 

Non risparmiate qui, donne, il valore

non risparmiate l'armi, non l'ardire;

non risparmiate il morire ad onore

considerate ciò che può seguire

dell'esser vigorose o con timore;

voi non avrete aguale a far morire

padri o figliuo' che vi faccian pietose,

ma inimiche genti a voi odiose.

 

33

 

Ritorni in voi agual quella fierezza

che quella notte fu, quando ciascuna

mai non usata usò crudele asprezza

ne' padri e ne' figliuo'; né sia nessuna

che qui, se dell'iddii la forza prezza,

istea, per aver nosco equal fortuna;

usi pietà altrove, ché qui morta

la comando io in ogni donna accorta.

 

34

 

Ben che forse l'iddii non ne saranno

contrarii per la nostra gran ragione;

anzi, se giusti son, n'aiuteranno,

dimenticando quel, se fu offensione

e se atarci forse non vorranno,

il danno suppliran nostre persone

contra colui che si move a gran torto

per navigare inverso il nostro porto.

 

35

 

E acciò ch'io non ponga in più parole

il tempo, il qual ne bisogna al presente,

a ciascheduna che libertà vole

ricordo e priego ch'ella sia valente;

e a qual morte per libertà dole,

dipartasi da noi immantanente;

noi varrem molto me' sanza di lei. –

E così detto si tacque colei.

 

36

 

Grande fu tra le donne il favellare,

quasi pendendo tutte in tal sentenza:

del dover pure a Teseo dimostrare

quanta e qual fosse la lor gran potenza,

se e' si ardisse a' lor porti appressare;

per che, sanza alcun'altra resistenza,

sé offerse ciascuna infino a morte

alla reina vigorosa e forte.

 

 

Come Ipolita, fatta la diceria, guarnì le terre sue

 

37

 

Ipolita, poi le proferte intese,

sanza dimoro i porti fé guarnire,

e le miglior del regno alle difese

sanza nessuno indugio fece gire;

e in tal guisa armò il suo paese,

ch'assai sicura poteva dormire,

se soverchio di gente oltre pensata

non fosse, come fu, su quello entrata.

 

38

 

Né altramenti il cinghiar c'ha sentiti

nel bosco i can fremire e' cacciatori,

i denti batte e rugghia e gli spediti

sentieri a sua salute cerca e, pe' romori

ch'egli ha in qua in là in giù e 'n su uditi,

non sa qua' vie per lui si sien migliori,

ma ora in giù e ora in su correndo,

fino al bisogno, incerto, va fuggendo

 

39

 

che facesse colei per lo suo regno,

in dubbio da qual parte quivi vegna

Teseo, o con che arte overo ingegno;

onde a gire in ciascuna non disdegna,

né di pregar che ciascheduna al segno

di quel c'ha imposto ben ferma si tegna;

però che, s'a tal punto son vincenti,

più non cal lor curar mai d'altre genti.

 

 

Come Teseo navigando pervenne nel regno dell'Amazone

 

40

 

L'alto duca Teseo, con tempo eletto

a suo viaggio, lieto navigava;

passando pria Macron sanza interdetto,

ad Andro le sue prode dirizzava;

il qual lasciato, con sommo diletto

pervenne a Tenedòs e quel passava,

entrando poi nel mar ch'a l'abideo

Leandro fu soave e poscia reo.

 

41

 

E oltre quel cammin che Frisso tenne

allor che la sorella cadde in mare,

servò, finch'a Bisanzio pervenne

Quivi fatta sua gente rinfrescare,

per picciola stagion vi si ritenne;

e come nel mar Tanao ad intrare

incominciò, così delle donzelle

le terre vide graziose e belle.

 

42

 

E come leoncel cui fame punge,

il qual più fier diventa e più ardito

come la preda conosce da lunge,

vibrando i crin, con ardente appetito

e l'unghie e' denti aguzza infin l'agiunge

cotal Teseo, rimirando espedito

il regno di color, divenne fiero,

volonteroso a fare il suo pensiero.

 

43

 

Esso mandò solenni avvisatori

a discerner la più leggiera scesa;

li qua', mirate dintorno e di fori

le rive tutte con la mente intesa,

tornarono, avvisati de' migliori

dove discender con minore offesa

potessero, e al duca il raccontaro;

e 'n quella parte lo stuol dirizzaro.

 

 

Come Teseo mandò ambasciadori alla reina, e la risposta

 

44

 

Quindi Teseo, per due de' suoi baroni,

significare ad Ipolita feo

la sua venuta e ancor le cagioni;

e oltre a questo, sì le concedeo

termine a poter fare eccezioni

ne' patti fatti a lei, se per men reo

consiglio forse le fosse piaciuta

la pace, pria che fosse scombattuta.

 

45

 

Ma di que' patti che e' domandava

da lei niun non ne fu accettato;

anzi di lui assai si ramarcava

pur di quel tanto ch'aveva operato,

riprendendol di ciò, che s'impacciava,

fuor del suo regno, dell'altrui stato;

ma che, s'ella potesse, ancor pentere

nel faria tosto; e ciò l'era in calere.

 

46

 

Tornaron que' con sì fatta risposta

qual fu lor data, sanza star niente,

e a Teseo davanti l'han proposta;

il qual l'udì mal pazientemente,

dicendo: – Poco a questa donna costa

così risponder; ma certanamente

io la trarrò d'error, se 'l cuor non erra. –

Quinci gridò: – Signori, ogni uomo a terra! –

 

 

Come Teseo, volendo scendere in terra, fosse dalle donne impedito

 

47

 

A questa voce i legni fur tirati

quasi in sul lito; e voleano smontare,

e già le scale ponean, quando, alzati

gli occhi, d'un bel castel vicino al mare

sopra una montagnetta, onde calati

i ponti, genti vidono avvallare

bene a cavallo armati, e 'n su la rena

in prima fur che 'l vedessero appena,

 

48

 

e quasi presi d'ogni parte i passi,

con gli archi in mano, or qua or là correndo,

traendo le saette de' turcassi,

con viva forza givan difendendo

tagliate avanti fatte, e di gran sassi

i balzi a grosse schiere provedendo;

Arpalice era questa che 'l facea,

a cui commesso Ipolita l'avea.

 

49

 

Il gran Teseo, magnifico barone,

poi che co' suoi alle terre pervenne,

vedendole guarnite per ragione,

per savie donne en l'animo le tenne;

e alquanto mutato d'oppinione,

fra mare il suo stuol fermo ritenne,

poi fé ciascun de' suoi apparecchiare,

pur dilivrando di volervi entrare.

 

50

 

Poi che ciascun fu bene apparecchiato,

inverso il porto si tiraro i legni;

e per iscender nel luogo avvisato

si fero avanti li baron più degni;

e in quel modo ch'avean divisato

gittaro in terra scale e altri ingegni;

ma troppo fu più forte lor la scesa

che non fu divisar cotale impresa!

 

51

 

Egli eran quasi con le poppe in terra

delli lor legni i Greci tutti quanti,

e con ogni artificio utile a guerra

arditamente si traeno avanti;

ma bene era risposto, se non erra

la mente mia, a lor da tutti i canti,

però che quelle donne saettando

forte gli gieno ognora dammeggiando.

 

52

 

Esse gittavan fuoco spessamente

sovra l'armate navi, il quale acceso

molto offendeva i Greci; e similmente,

con artifici, pietre di gran peso,

che rompevan le navi di presente

dove giugnean, se non era difeso;

e oltre a questo, pece, olio e sapone

sopra lo stuol gittavano a fusone.

 

53

 

Battaglia manual nulla non v'era,

perciò ch'ancora non avean potuto

prender li Greci di quella rivera

parte nessuna; e 'l conforto e l'aiuto

del buon Teseo per niente gli era;

anzi pareva ciaschedun perduto,

di quelle donne mirando le schiere

crescere ognora e diventar più fiere.

 

54

 

Di dardi, di saette e di quadrella

non fo menzion, che 'l ciel n'era coverto

e occupata tutta l'aere bella,

gittando l'uno a l'altro; e per lo certo

battaglia non fu mai sì dura e fella,

né in alcuna mai tanto sofferto;

molti ve ne fedien le donne accorte,

ben che di loro alcune fosser morte.

 

55

 

Grandi eran quivi le grida e 'l romore

che le donne faceano e' marinari,

tal che Nettunno o Glauco mai maggiore

sentito non l'aveano; e' duoli amari,

ch'a' marinar feriti gieno al cuore,

eran cagion di molto, perché rari

ve n'eran che nel capo o nel costato

o in altra parte non fosse piagato.

 

56

 

E 'l sangue lor vedevan sopra l'onde

con trista schiuma molto rosseggiare

e male a' Greci l'aviso risponde,

poi che così si veggon malmenare;

e qual più cuore aveva or si nasconde

temendo delle donne il saettare,

perciò ch'ell'eran di cotal mestiere,

più ch'altre, somme e vigorose e fiere.

 

 

Come Teseo, vedendo a' suoi fare falsa pruova, prima verso Marte e poi a' suoi cavalieri turbato parlò, gittandosi poi solo sopra il lito

 

57

 

Teseo che d'alta parte riguardava

la falsa punta della greca gente,

di rabbia tutto in sé si consumava,

maladicendo il duro convenente,

e d'ultima vergogna dubitava,

e quasi uscia per doglia della mente;

per che sdegnoso al cielo il viso tolto,

così parlò alto gridando molto:

 

58

 

– O fiero Marte, o dispettoso iddio,

nemico alle nostre armi, io mi vergogno

d'aprirti con parole il mio disio;

e certo priego per cotal bisogno

non averai, né sacrificio pio;

ma sanza te la vittoria ch'agogno

farò d'avere, o l'alma sanguinosa

ad Acheronta n'andrà dolorosa.

 

59

 

Opera omai in male i tuoi rossori,

e contro a me le femine fa forti

con l'arte che in Flegra i successori

d'Anteo vincesti; e fa che le conforti

quanto tu sai, e piovi i tuoi vapori

sopra li miei, ch'or fossero e' già morti;

però che sol mi credo me' valere

che io non fo con tutto lor potere.

 

60

 

E tu, Minerva, che il sommo loco

tra l'iddii tien nella nostra cittade,

non aspettar da me altar né foco,

né ch'io ti liti bestie in quantitade,

né che per te io ordini alcun gioco

in onor fatto di tua maestade;

aiuta pure a queste le qua' sono

teco d'un sesso, e me lascia in bandono.

 

61

 

Poi si rivolse a' suoi con vista viva,

con piggior piglio, e cominciò a dire:

– Ahi, vitupero della gente achiva,

ov'è fuggito il vostro grande ardire?

é la forza di voi tanto cattiva

che molli donne vi faccian fuggire?

Tornate adunque nelle vostre case,

e qua le donne vengan, là rimase.

 

62

 

Il chiaro Appollo e 'l cielo e 'l salso mare

fien testimoni etterni e immortali

del vostro vile e tristo adoperare;

e porterà la fama i vostri mali

con perpetuo nome, e voi mostrare

farà a dito a genti disiguali,

dicendo: "Vedi i cavalier dolenti,

che vinti fur dall'amazone genti".

 

63

 

Fuggitevi di qui, vituperati,

poi Marte, più che voi, donne sovene;

e delli vostri arnesi dispogliati,

li lasciate vestire a chi convene;

or non v'era e' miglior che onorati

di morte aveste sostenute pene,

che con vergogna indietro rinculare

e a donzelle lasciarvi avanzare?

 

64

 

Entri nell'armi adunque chi n'è degno

(l'altro le lasci che non vole onore)

morte pigliando per fuggire sdegno;

e a cui piace più con disinore

vita che pregio, non segua il mio segno;

vivasi quanto vuol sanza valore,

ch'io sarò troppo più, solo, onorato

ch'essendo da cotali accompagnato.

 

65

 

Or che avreste voi fatto se avversi

vi fosser forse i Centauri usciti

o i Lapiti, popoli diversi,

turba dolente, o uomini scherniti?

Credo nel mar vi sareste sommersi,

poiché per donne vi sete fuggiti.

Or vi tornate e fate novo duca,

e Marte me, sì come vuol, conduca. –

 

66

 

E questo detto, sotto l'arme chiuso,

tirar fe' la sua nave inver lo lito,

e sanza scala por ne saltò giuso,

né si curò perché fosse ferito

da molte parti; ma, come duca uso

di tal mestier, più si mostrava ardito,

sé riparando e di sopra e dintorno;

e fuor dell'acqua uscì sanza sogiorno.

 

67

 

Non altramente si gittano in mare

li marinari il cui legno già rotto

per la fortuna sentono affondare,

e chi più può, sanza a gli altri far motto,

briga, notando, di voler campare,

che' Greci si gittar tutti di botto

dietro a Teseo nell'acqua lui vedendo,

né ben né male al suo dir rispondendo.

 

68

 

E sì gli aveva vergogna spronati

con le parole del fiero Teseo,

ch'egli eran presti e arditi tornati;

per che ciascun com più tosto poteo,

così com'eran tututti bagnati

e ta' feriti, al suo duca si feo

vicino; e fero in sul lito una schiera

subitamente assai possente e fiera.

 

 

Come Teseo per battaglia ottenne il lito

 

69

 

Fatta la schiera tal quale e' poteano,

nel marin lito ov'essi eran discesi,

perciò che bene i luoghi non sapeano,

né seco avevan tutti i loro arnesi,

a lor poter le donne sosteneano,

d'alto vigor ne' loro animi accesi,

disposti a far gran cose in poca d'ora,

pur che le donne lì faccian dimora.

 

70

Le donne in su' cava' forti e isnelli

givano armate in abiti dispari

(e que' correan come volano uccelli),

faccendo spesso li lor colpi amari

sentire a' Greci, che ne' campi belli

eran discesi a piè non avea guari,

or qua or là correndo e ritornando,

spesso e rado i Greci molestando.

 

71

 

Così pugnavano a la morte loro,

poi che potuto non avean la scesa

con le lor forze vietare a coloro;

li qua', sentendo ognor crescer l'offesa,

chieser di poter gir, sanza dimoro,

dal duca lor, ver quelle in lor difesa;

e poi a piè entr'alle donne entraro

e a combatter fieri incominciaro.

 

72

 

E' ferirono a loro arditamente,

sì come que' che ben lo sapean fare;

e a' lor colpi non valea neente

di quelle donne a' colpi riparare;

e se non fosse ch'eran poca gente

a rispetto del lor multiplicare,

tosto l'avrebber del campo cacciate,

o morte tutte, over prese e legate.

 

73

 

Ma il numero di lor, ch'era infinito,

ogni ora la battaglia rinfrescava;

questo contra Teseo fiero e ardito

il campo lungamente sostentava;

esso sanza riposo e ispedito

ferendo, or qua or là correndo andava,

e ammirar di sé ciascun facea

che 'n quello stormo mirar lo potea.

 

74

 

Né altramente infra le pecorelle

si ficca il lupo per fame rabbioso,

col morso strangolando or queste or quelle,

fin c'ha saziato il suo disio guloso,

che faceva Teseo tra le donzelle

a piè con la sua spada furioso,

coperto dello scudo, ognor ferendo,

or questa or quella misera uccidendo.

 

75

 

Così Teseo fieramente andando

co' suoi compagni infra le donne ardite,

molte ne gian per terra scavallando,

e morte quelle e quelle altre ferite

lasciando per lo campo, indi montando

sopr'a' cava' ch'a redine sbandite,

le lor donne lasciate, si fuggieno

or qua or là sì come e' potieno.

 

76

 

E già di lor gran parte eran montati

per tal procaccio sopra i buon destrieri,

e tutti in sé di ciò riconfortati,

contra color ferivan volontieri;

e esse, lor vedendo inanimati

più ch'al principio non erano e feri,

temendo cominciarono a voltare,

e 'l campo a' Greci del tutto lasciare.

 

77

 

Fuggiensi adunque in quel castel tututte,

e dietro ad esse la duchessa loro;

e sopra l'alte mura fur ridutte,

armate, sanza fare alcun dimoro,

fra lor dicendo: – Noi sarem distrutte

se a le man pervegnàn di costoro. –

E la sconfitta lor quasi non suta,

a ben guardar si dier la lor tenuta.

 

78

 

Era la terra forte, e ben murata

da ogni parte, e dentro ben guarnita

per sostener assedio ogni fiata,

lunga stagion, ch'ella fosse assalita;

però ciascuna dentro bene armata

non temeva né morte né ferita;

chiuse le porti al riparo intendeano

e quasi i Greci niente temeano.

 

 

Come Teseo, sconfitte le donne e preso il lito, s'acampò

 

79

 

Come Teseo le vide fuggire,

in un raccolse tutta la sua gente,

e comandò che le lasciasser gire;

poi fé cercare il campo prestamente,

e fece i corpi morti sepellire;

e le ferite assai benignamente

lasciò andar, sanza ingiuria nessuna,

là dove piacque di gire a ciascuna.

 

80

 

E 'n cotal guisa avendo preso il lito

con la sua gente, malgrado di quelle,

in su un picciol poggio fu salito,

dirimpetto al castel delle donzelle;

e comandò che quel fosse guarnito,

sì che resister si potesse ad elle

senza battaglia, infin che scaricate

sien le galee e le genti posate.

 

81

 

Li Greci prestamente scaricaro

tutte le navi delli arnesi loro,

e altri in brieve il poggetto afforzaro

quanto poteron sanza alcun dimoro;

né dì né notte mai non riposaro,

infin ch'ebber fornito lor lavoro;

ben fer le donne loro ingombro assai,

che d'assalirli non calavan mai.

 

82

 

Poscia che' Greci furono afforzati

sì, che le donne neente temeano,

e' legni loro in mar furon tirati

per corseggiar dintorno ove poteano,

e i feriti furon medicati,

e quelli ancor che 'l mar temuto aveano

posati fur, parve a Teseo che stare

quivi poria più nuocer che giovare.

 

83

 

Esso, ch'ognor con sollecita cura

al suo più presto spaccio più pensava,

imaginò che, se 'ntorno alle mura

di quella terra il suo campo fermava,

e' potrebbe avvenir per l'avventura

che sanza utile il tempo trapassava;

però che quando pure elli avvenisse,

poco avea fatto perché lor vincesse.

 

84

 

E tornandoli a mente come Alcide

a l'ldra, che de' suoi danni crescea,

avea la vita tolta, seco vide

che là dov'era Ipolita volea

sua pruova far; perché, se lei conquide

più contasto nessun non vi sapea;

e per cotal pensiero il campo mosse

per colà gir dove Ipolita fosse.

 

 

Come Ipolita, sentendo la venuta di Teseo, aspettò sicura l'asedio

 

85

 

Corse la fama per tutto il paese

della sconfitta stata tostamente,

per che ciascuna sé alle difese

si metteva di sé velocemente;

ma quella cui tal cosa più offese

Ipolita è da creder certamente;

la qual, poi che così la cosa andare

vide, propose di volersi atare.

 

86

 

Né fu stordita per quella sciagura,

ma le sue donne a sé chiamò dicendo

– Or ciascuna convene esser sicura,

non dico in campo Teseo combattendo,

ma in difender ben le nostre mura,

le quali ad assalir vien, com'io intendo,

perciò che non potrà lunga stagione

dimorar qui, per nulla condizione.

 

87

 

Noi siam di ciò ch'al vivere ha mestiere

fornite bene, e la terra è sì forte,

che non è sì ardito cavaliere,

se al guardar vorremo essere accorte,

ch'appressar ci si possa, che pentere

non nel facciam forse con trista morte.

quando ci fieno stati e vederanno

il nostro ardir, per vinti se ne andranno.

 

88

 

Dunque, se mai amaste libertate

se vi fu caro mai il mio onore,

ora mostrate vostra probitate,

ora si scopra l'ardire e 'l valore

ver chi s'appressa alla vostra cittate

per voler noi di quella trarre fore.

Etterna fama ora acquistar potete,

se ben contra Teseo vi difendete. –

 

89

 

E questo detto, niente interpose,

ma ciò che seco aveva divisato

fece, dando ordine a tutte le cose;

per le mura ponendo in ogni lato,

a guardia, donne savie e valorose,

faccendo ancor ciascuno altro apparato

ch'a tal cosa bisogna, sempre andando

or queste or quelle tutte confortando.

 

90

 

E per salute ancor delle sue genti

gran doni a' templi poi fece portare,

l'iddii pregando che negli emergenti

casi dovesser lor pietosi atare;

quinci, operando tutti altri argomenti

ch'a sua difesa potevan giovare,

e guarnita così come poteo,

con le sue donne aspettò poi Teseo.

 

 

Come Teseo assediò Ipolita

 

91

 

Poi che Teseo si fu di quel loco

partito onde le donne avea cacciate,

a la città sen venne in tempo poco,

dove Ipolita e molte erano armate;

e lì giurò per Vulcan, dio del foco,

di non partirsi mai, se conquistate

da lui non fosser per forza o per patti

prima elli e' suoi vi sarebber disfatti.

 

92

 

E' fé tender trabacche e padiglioni

e afforzar suo campo di steccati,

a' cavalier dicendo e a' pedoni

che si facesser e tende e frascati;

e che niun di lor mai non ragioni

di ritornare a' suoi liti lasciati,

se Ipolita pria non si vincea,

così come con lor proposto avea.

 

93

 

E' fé drizzar trabocchi e manganelle

e torri per combattere a le mura,

e fé far gatti, e a le mura belle

spesso faceva con essi paura,

e con battaglia spesso le donzelle

assaliva con sua gente sicura;

ma di tal cuor guarnite le trovava,

che poco assalto o altro li giovava.

 

94

 

Elli stette più mesi a tal berzaglio

e poco v'acquistò, anzi niente,

fuor che paura e onta con travaglio,

perché le donne dentro assai sovente

di morte si metteano a ripentaglio,

predando sopra loro arditamente

cotanto s'eran già assicurate

per lo non potere esser soperchiate!

 

95

 

Di ciò era Teseo assai crucciato,

e nel pensiero sempre gia cercando

come potesse abbatter loro stato.

Un dì avvenne che e' cavalcando

a la terra dintorno, fu avvisato

ch'ella s'avrebbe sotterra cavando,

per che, avendo mastri di tali arti,

cavar la fé da una delle parti.

 

 

Come Ipolita scrisse a Teseo

 

96

 

Quando la donna del cavare intese,

dubbiò, e tosto di mura novelle

un cerchio dentro più stretto comprese,

il qual fer tosto e donne e damigelle;

appresso inchiostro e carta tosto prese

e con le mani dilicate e belle

una pìstola scrisse; e trovar feo

due savie donne, e mandolla a Teseo.

 

97

 

Eran le donne belle e di gran core,

con compagnia leggiadra disarmate,

vestite in drappi di molto valore;

le qua', giunte nel campo, fur menate

da' maggior Greci davanti al signore,

al quale, assai da lui prima onorate,

le lettere lor diero, e la risposta

addomandaron graziosa e tosta.

 

98

 

Teseo le prese assai benignamente,

e innanzi a sé chiamati i suoi baroni

insieme con molta altra buona gente,

disse: – Signori, le donne amazzoni

queste lettere mandan veramente;

però l'udite, e con belle ragioni

lor si risponda. – E poi le fé aprire,

e legger sì ch'ognun poteva udire.

 

 

Il tenore della lettera mandata da Ipolita a Teseo

 

99

 

La lettera era di cotal tenore:

"A te, Teseo, alto duca d'Attene,

Ipolita, reina di valore,

salute, se a te dir si convene,

e crescimento sempre di tuo onore,

sanza mancar di quel che m'appartiene,

e pace con ciascuno, e ancor meco

che ho ragion d'aver guerra con teco.

 

100

 

Io ho veduta la tua gente forte

ne' porti miei con isforzata mano,

tal ch'essi avrebber paura di morte

data a qualunque popol più sovrano,

fuor ch'alle donne mie, di guerra scorte

più ch'altra gente che al mondo siano;

le qua' di que' cacciasti assai superbo,

delle qua' meco una parte ne serbo.

 

101

 

E poi venuto se' ad assediarmi,

come nemica d'ogni tuo piacere,

e hai più volte provate tue armi

a le mie mura, e ancora potere

da quelle non avesti di cacciarmi;

per che, per adempier lo reo volere

c'hai contro a me, la terra fai cavare,

per poi potermi sanza arme pigliare.

 

102

 

Certo di ciò la cagion non conosco,

ch'io non ti offesi mai, né son Medea

che per invidia ti voglia dar tosco;

anzi la tua virtute mi piacea

quando si ragionava talor nosco,

e di vederti gran disio avea,

e ancor disiava tua contezza,

tanto gradiva tua somma prodezza.

 

103

 

Ma di ciò veggo contrario l'effetto,

considerando la tua nuova impresa,

pensando ch'io non abbia il difetto

commesso, e sia subitamente offesa,

sanza di te avere alcun sospetto;

di che nel core non poco mi pesa,

e non men forse per la tua virtute

che faccia per la mia propia salute.

 

104

 

Tu non hai fatto come cavaliere

che contro a par piglia debita guerra,

ma come disleale uom barattiere

subitamente assalisti mia terra,

e come vile e cattivo guerriere

mai non pensasti, se 'l mio cor non erra

che 'l guerregiar con donne e aver vittoria

del vincitore è più biasmo che gloria.

 

105

 

Ben ti dovresti di ciò vergognare,

se figliuol se', com dì, del buono Egeo;

né ti dovresti con arme appressare

a le mie mura; e già se ne penteo

chi ha volute mie forze provare,

però che mal sembiante mai non feo

nessuna ancora delle mie donzelle,

ma tutte sono ardite, prodi e snelle.

 

106

 

Ma poscia c'hai le tue forze provate,

e 'l tuo pensiero hai ritrovato vano,

diverse vie hai sotterra trovate

per avermi in prigione a salva mano

ma non sarà così in veritate,

ché già c'è preso rimedio sovrano;

e di combattere in oscura parte

non è di buon guerrier mestier né arte.

 

107

 

Dunque mi lascia in pace per tuo onore,

sanza voler più tua fama guastare,

ch'io ti perdono ciascun disinore

che fatto m'hai o mi volessi fare;

e se nol fai, per forza e con dolore

io ti farò la mia terra sgombrare;

né qui mi troverai qual festi al lito,

perch'io ti giucherò d'altro partito".

 

 

Come Teseo rispose ad Ipolita, e mostrò alle messaggiere le cave

 

108

 

Quando Teseo la lettera ebbe udita,

a' suoi baroni e' disse sorridendo:

– Beato me, che campata ho la vita

mercé di questa donna, ch'amonendo

mi manda acciò che mia fama fiorita

tra le genti dimori, me vivendo! –

Poi si rivolse a quelle donne e disse:

– Risposto tosto fia a chi ne scrisse.

 

 

Il tenore della risposta di Teseo

 

109

 

E 'n cotal guisa fé scrivere allora:

"Ipolita, reina alta e possente,

la quale il popol feminile onora,

Teseo, duca d'Attene, e la sua gente,

salute, quale ella ti bisogna ora,

cioè la grazia mia veracemente:

una tua lettera e messi vedemmo

per questa ad essa così rispondemo

 

110

 

chi 'l nostro popol uccide e discaccia

dalle sue terre, a noi fa villania;

però s'adoperiam le nostre braccia

in far vendetta, grande onor ne fia;

né viltà nulla i nostri cori impaccia,

se sottoterra cerchiam di far via,

per tuo orgoglio volere abbassare;

ma facciam quel che buon guerrier suol fare,

 

111

 

cioè prender vantaggio, acciò che' suoi

più salvi sieno, e vincasi il nemico;

e tosto ci vedrai ne' cerchi tuoi

della città, non miga come amico,

se non t'arrendi tostamente a noi,

uccidendo e tagliando; ond'io ti dico

che 'l mio comando facci, e avrai pace,

ché in altra maniera non mi piace".

 

112

 

E poi che l'ebbe scritte e suggellate,

le lettere donò alle donzelle,

e quali avanti avea molto onorate;

e a cavallo poi salì con quelle,

e tutte le sue forze ha lor mostrate,

e similmente en le cave con elle

entrò, e fece lor chiaro vedere

le mura puntellate per cadere.

 

113

 

Poi disse loro: – O messaggiere care,

a la reina vostra tornerete,

e 'n verità potrete raccontare

ciò che apertamente ora vedete;

sì che le piaccia di non farmi fare

asprezza contro a quantunque voi sete,

e contro a lei, la qual mi par valente;

ch'io ne sarei poi più di voi dolente. –

 

 

Come le damigelle, partendosi da Teseo, tornarono ad Ipolita

 

114

 

Le danmigelle allor preson commiato,

dicendo: – Signor nostro, volentieri. –

E nella terra per occulto lato

si ritornar, non pe' mastri sentieri;

e a la donna lor tutto han contato,

ciò c'han veduto infra li lor guerrieri.

e poi le lettere hanno presentate,

le qua fur tosto lette e ascoltate.

 

115

 

Poi che di quelle Ipolita il tenore

ebbe compreso, e 'l dir delle donzelle,

nel cor sentì gravissimo dolore,

e simile sentiron tutte quelle

ch'eran presenti, ch'avesser valore,

pensose assai e nello aspetto felle;

ma dopo alquanto Ipolita, chiedendo

con mano udirsi, incominciò dicendo

 

 

Diceria d'Ipolita a le donne sue

 

116

 

– Chiaro vedete, donne, a qual partito

ci abbian gl'iddii recate, e non a torto.

Se di ciascuna qui fosse il marito,

fratel, figliuolo o padre che fu morto

da tutte noi, non saria stato ardito

Teseo mai d'appressarsi al nostro porto;

ma perché non ci son, ci ha assaltate,

come vedete, e ancora assediate.

 

117

 

Venere, giustamente a noi crucciata,

col suo amico Marte il favoreggia;

e tanta forza a lui hanno donata,

che contro a nostro grado signoreggia

dintorno a noi la città assediata,

e come vuole ognora ne dammeggia,

e perciò che vie più che noi è forte,

se noi non ci rendiam, minaccia morte.

 

118

 

Però a noi bisogna di pigliare

de' due partiti l'un subitamente

o contra lui ancora riprovare

le forze nostre in campo virilmente,

o a lui, poi ci vuol, ci vogliàn dare,

perciò che qui più tenerci niente

noi non possiam, ché, come voi udite,

le mura tosto in terra vederite.

 

119

 

E 'l dir che noi con esso combattiamo

mi par che sia assai folle pensiero,

perciò che tutte quante conosciamo

la gente sua e lui ardito e fiero;

e se ancora ben ci ricordiamo

e con noi stesse vogliam dir lo vero,

noi il provammo non ha molto ancora;

di che noi ci pentemmo in poca d'ora.

 

120

 

E oltre a questo, egli ha seco l'aiuto

degli alti iddii, che noi han per nemiche

e noi l'avemo assai chiaro veduto,

ché orazion, vigilie, né fatiche,

forza di corpo o atto proveduto,

campar non ci han potuto che mendiche

della sua grazia esser non ci convegna,

se noi vogliam che 'n vita ci sostegna.

 

121

 

Però terrei consiglio assai migliore

renderci a lui, che del valor mondano,

per quel ch'io senta, ha il pregio e l'onore,

e è, a chi s'umilia, umile e piano;

e già non ci sarà e' desinore

se vinte siam da uom così sovrano,

perciò ch'ogn'uom per femine ci tiene,

come noi siamo, e lui duca d'Attene. –

 

122

 

Tacquesi qui; ma un gran mormorio

infra le donne surse, lei udita,

ch'una reputa buono e altra rio

cotal consiglio; ma nessuna ardita

è di dir contra o d'aprir suo disio;

per che cotal sentenzia diffinita

per le più sagge fu, che si mandasse

chi con Teseo per lor patti trattasse.

 

 

Come Ipolita trattò patti con Teseo e poi li si arrendé

 

123

 

Poi che cotal sentenzia fu fermata,

Ipolita due donne fé venire,

Polisto e Dinastora, e informata

ebbe ciascuna di ciò c'hanno a dire

e poi che lor libertà ebbe data

quanta ne bisognava a ciò fornire,

disse: – Omai, donne, a vostra posta andate,

ma sanza pace qui non ritornate. –

 

124

 

Fur costoro a Teseo, e e' con esse

e dopo lungo d'una e d'altra cosa

parlar, fermarsi che esso prendesse

Ipolita per sua etterna sposa,

e che la terra per lui si tenesse,

sotto le leggi della valorosa

Ipolita reina, e accordarsi

con molti altri più patti e ritornarsi.

 

125

 

Ipolita era a maraviglia bella

e di valore accesa nel coraggio;

ella sembiava matutina stella

o fresca rosa del mese di maggio

giovine assai e ancora pulcella,

ricca d'avere, e di real legnaggio,

savia e ben costumata, e per natura

nell'armi ardita e fiera oltre misura.

 

126

 

A cui le donne, da Teseo venute,

e a molte altre i patti raccontaro,

recando a tutte da Teseo salute;

il che fu alle più grazioso e caro.

E poi che fur le parole compiute,

le donne l'arme di botto lasciaro,

e ella comandò, per suo amore,

ch'a Teseo e a' suoi sia fatto onore.

 

 

Come Teseo, fermati i patti, entrò nella città, e ricevuto onorevolemente da Ipolita, la sposò, e i suoi cavalieri sposaro dell'altre.

 

127

 

Poscia che furono i patti fermati,

Teseo co' suoi montati in su' destrieri,

i più di loro essendo disarmati,

a picciol passo e lieti i cavalieri,

sanza contasto en la città menati,

nella qual ricevuti volontieri,

umili d'essa preser possessione,

sanza fare ad alcuna offensione.

 

128

 

Incontro venne, sopra un bel destriere,

al suo Teseo Ipolita reina,

e più bella che rosa di verziere

con lei veniva una chiara fantina,

Emilia chiamata, al mio parere,

d'Ipolita sorella picciolina;

e dopo lor molte altre ne venieno,

ornate e belle quanto più poteno.

 

129

 

E 'n cotal guisa con solenne onore

ricevetter Teseo e la sua gente;

né fu guari di lì lontano Amore,

ma co' suoi dardi molte prestamente

e molti ancora ne ferì nel core.

E' se ne andaron tutti lietamente

fino al palagio, e quivi dismontaro,

e in su quel Teseo accompagnaro.

 

130

 

Egli era bello e d'ogni parte ornato

di drappi ad oro e d'altri cari arnesi,

per ogni cosa ricco e bene agiato;

ma Teseo gli occhi non teneva attesi

a ciò guardar, ma il viso dilicato

d'Ipolita mirando, con accesi

sospir dicea: "Costei trapassa Elena,

cui io furtai, d'ogni bellezza piena".

 

131

 

Elli avea già nel cor quella saetta

la qual Cupido suole aver più cara;

e seco nella mente si diletta

d'aver per cotal donna tanta amara

fatica sostenuta; e lieto aspetta

d'avere in braccio quella stella chiara,

parendoli colei assai più degno

acquisto che tututto l'altro regno.

 

132

 

Le donne avevan cambiati sembianti,

ponendo in terra l'arme rugginose,

e tornate eran quali eran davanti,

belle, leggiadre, fresche e graziose;

e ora in lieti motti e dolci canti

mutate avean le voci rigogliose,

e' passi avevan piccioli tornati,

che pria nell'armi grandi erano stati.

 

133

 

E la vergogna, la qual discacciata

avean la notte orribile, uccidendo

li lor mariti, loro era tornata

ne' freschi visi, gli uomini vedendo;

e sì era del tutto transmutata

la real corte, a quel che prima, essendo

sanza uomini le femine, parea,

ch'appena alcuna di loro il credea.

 

134

 

Ripresi adunque i lasciati ornamenti,

di Citerea il tempio fero aprire,

serrato ne' lor primi mutamenti;

lì fé Teseo Ipolita venire;

e dati sacrifici reverenti

a Venere, sposò con gran disire

Ipolita, l'aiuto d'Imeneo

chiamando quivi i baron di Teseo.

 

135

 

Molte altre donne a greci cavalieri

si sposarono allora lietamente,

e per signor li preser volontieri,

com'avean gli altri avuti primamente;

con iuramenti santissimi e veri

lor promettendo che, al lor vivente,

nella prima follia non tornerieno

e che lor cari sempre mai avrieno.

 

136

 

Tra l'altre belle vedove e donzelle

che fossero in quel loco, una ve n'era

che di bellezze passava le belle,

come la rosa i fior di primavera;

la qual Teseo, vedendola tra quelle,

fé prestamente domandar chi era.

Detto li fu: – Sorella alla reina,

Emilia nominata è la fantina. –

 

137

 

Piacque a Teseo la bella donzelletta

non men che alcuna altra che vi fosse,

ancor che li paresse giovinetta;

e nella mente sua seco proposse

che ad Acate, sua cosa distretta,

per moglie la darà; quindi si mosse,

e al palagio real ritornaro,

dove pien di letizia ogn'uom trovaro.

 

138

 

Le nozze furon grandi e liete molto,

e più tempo durò il festeggiare,

e ciascun dalla sua fu ben raccolto,

e a tutti pareva bene stare,

perché fortuna avea cambiato volto;

e le donne sapeano or che si fare,

sé ristorando del tempo perduto

mentre nel regno non era uomo issuto.

 

Qui finisce il libro primo

 

 

 

LIBRO SECONDO

 

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del secondo libro

 

Questo secondo mostra il ritornare

che fé Teseo di Scizia vincente;

e delle Greche il tristo lagrimare,

col priego insieme d'Evannès dolente;                                      4

 

per lo qual, sanza del carro smontare,

con picciola orazione a la sua gente

persuadendo, si mosse ad andare

contra Creon, re di Tebe possente;                                         8

 

e come, in campo vinto, a lui la vita

tolse e a' corpi fé dar sepoltura,

avendo Tebe a le donne largita;                                               11

 

e poi, feriti, per loro sciagura,

presi da lui Palemone e Arcita

mostra, mettendo poi loro in chiusura.                                     14

 

 

Incomincia il libro secondo di Teseida. E prima perché e come Teseo si partisse di Scizia per tornare ad Attene con Ipolita e con Emilia

 

1

 

Il sole avea due volte dissolute

le nevi en gli alti poggi, e altrettante

Zeffiro aveva le frondi rendute

e i be' fiori alle spogliate piante,

poi che d'Attena s'eran dipartute

le greche navi, Africo spirante,

da cui Teseo co' suoi furon portati

nelli scitichi porti conquistati;

 

2

 

quando esso con la sua novella sposa

in lieta vita e dolce dimorava,

sanza pensiero d'alcuna altra cosa,

e appena d'Atene si curava;

ma il piacer divin più gloriosa

vittoria assai che quella li serbava;

onde li fé nuova vision vedere,

per che del ritornar li fu in calere.

 

3

 

Nel dolce tempo che il ciel fa belle

le valli e' monti d'erbette e di fiori,

e le piante riveste di novelle

frondi, sopra le quali i loro amori

cantan gli uccelli, e le gaie donzelle

di Citerea più senton gli ardori,

era Teseo da dolce amor distretto,

in un giardin, pensando a suo diletto.

 

4

 

Nel qual da una parte solo stando

gli parve seco con viso cruccioso

tener per man Peritoo ragionando,

dicendo a lui: – Che fai tu ozioso

con Ipolita in Scizia dimorando,

sotto amore offuscando il tuo famoso

nome? Perché in Grecia oramai

non torni, ove più gloria avrai assai?

 

5

 

Essi da te quell'animo gentile,

ch'ancor simile ad Ercul prometteva

di farti, dipartito? Se' tu vile

tornato nella tua età primeva?

E stando entra la turba feminile,

la tua prodezza, la qual già sapeva

ciaschedun regno, hai qui messa in oblio

d'Ipolita nel grembo e nel disio? –

 

6

 

A cui Teseo volendo dar risposta

e iscusar la sua lunga dimora,

subito agli occhi suoi si fu nascosta

la imagine di quel che parlava ora;

per che e' dubbioso col passo si scosta

dal loco ove era, a sé mirando ancora

dintorno, per veder se el vedea

colui che quivi parlato gli avea.

 

7

 

Ma poi che la paura luogo diede

a l'animal vertù, si ruppe il velo

della 'gnoranza, e con intera fede,

che non lì Peritoo, ma che dal cielo,

da qualche deità la qual provede

al suo onor con caritevol zelo,

era venuto cotal ragionare;

onde pensò ad Atene tornare.

 

8

 

Ad Ipolita adunque il suo volere

con donnesco parlar fé manifesto;

la qual rispose ad ogni suo piacere

essere apparecchiata e anche a questo;

ond'elli, allor ch'a lui fu in parere,

il suo navilio fé preparar presto,

e poi dispose del regno lo stato,

per modo che alle donne fu a grato.

 

9

 

E fatto questo, entrò sanza dimoro

in mare, e 'nsieme Ipolita reina;

e tra più donne ne menar con loro

la bella Emilia, stella matutina;

quindi spirando tra Borea e Coro

ottimo vento da quella marina

li tolse, lor portando verso Attene

il più del tempo con le vele piene.

 

 

Transgressione dalla propria materia, per mostrare qual fosse la cagione per la quale Teseo andasse contra Creonte.

 

10

 

Ma Marte, il quale i popoli lernei

con furioso corso avea commossi

sopra' Tebani, e' miseri trofei

donati avea de' prencipi percossi

più volte già, e de' Greci plebei

ritenuti talvolta e tal riscossi,

con asta sanguinosa fieramente

trista avea fatta l'una e l'altra gente;

 

11

 

perciò che, dopo Anfiorao, Tideo

stato era ucciso, e 'l buono Ippomedone,

e similmente il bel Partenopeo,

e più Teban, de' qua' non fo menzione,

innanzi e dopo al fiero Campaneo;

e dietro a tutti, in doloroso agone,

Etiocle e Polinice, ferito,

morti, e Adastro ad Argo era fuggito;

 

12

 

onde 'l misero regno era rimaso

voto di gente e pien d'ogni dolore;

ma in picciola ora da Creonte invaso

fu, che di quel si fé re e signore,

con tristo agurio, e 'n doloroso caso

recò insieme e 'l suo regno e l'onore

per fiera crudeltà da lui usata,

mai da nullo altro davanti pensata.

 

13

 

Esso, con fiero cuor li Greci odiando,

poi che fur morti in lor l'odio servava,

per ch'elli avea con gravissimo bando

vietato a chi sua grazia disiava,

ch'a nullo corpo quivi morto stando

fuoco si desse, e 'mputridir lasciava

lor sozzamente sanza sepoltura

qual delle fiere pria non fu pastura.

 

14

 

Onde le donne argoliche, le quali

venien dolenti a far lo stremo ofizio

con somma maestà di tutti i mali,

anzi giungesser quivi, ebbero indizio

dello editto crudele; e però tali

quali eran, triste di tal malefizio,

proposer con le lagrime pregare

Teseo a tale ingiuria vendicare.

 

15

 

E quindi i passi ad Attena drizzaro,

atate dal dolor nella fatica

e a quella venute, con amaro

segno mostrar la fortuna nemica.

Gli Atteniesi assai si marvigliaro

di quella turba, d'ogni ben mendica,

e domandaron di ciò la cagione,

perché venute e di qual regione.

 

16

 

I qua', poscia ch'udir la nobiltate

di quelle donne e la cagion del pianto,

con tenerezza lor prese pietate

di veder loro in tormento cotanto;

e gli alti cittadini apparecchiate

proferser lor le case d'ogni canto,

finché Teseo in Attene tornava,

che d'ora in ora in essa s'aspettava.

 

17

 

Esse non voller da nessuno onore,

ma solo il tempio cercar di Clemenza

e in quel con gravissimo dolore

istanche e lasse fecer residenza,

aspettando con lagrime il signore,

assai crucciose della sua assenza;

e le donne atteniesi in compagnia

di loro stetter quivi tuttavia.

 

 

Come Teseo ritornò triunfando in Attene, e la festa che vi si fece

 

18

 

Teseo, con vento fresco a suo viaggio,

contento ritornava inverso Attene

con gran partita del suo baronaggio

e con colei che 'l suo cuor guida e tene,

Ipolita reina; e 'l suo passaggio

tosto fornito fu e sanza pene;

né prima giunto fu alla marina

che si seppe in Attene, la mattina.

 

19

 

Gli Atteniesi, che lui attendieno

con gran disio, per la sua ritornata

mirabil festa preparata avieno,

la qual fu incontanente incominciata;

secondo il lor poter, ch'assai potieno,

fu la lor terra tutta quanta ornata

di drappi ad oro e d'altri paramenti,

con infiniti canti e istrumenti.

 

20

 

Quanto le donne allor fossero ornate,

ne' teatri, ne' templi e a' balconi

e per le vie mostrando lor biltate,

nol potrieno spiegare i miei sermoni;

la lor presenzia tal solennitate

facea maggior per diverse ragioni;

e 'n brieve in ogni parte si cantava

e con somma allegrezza si festava.

 

21

 

Gli alti suoi cittadini apparecchiare

li fero un carro ricco e triunfale,

il qual gli fer là dov'era menare;

né altro ne fu mai a quello equale

veduto per alcuno; e apprestare

li fer con esso vesta imperiale

e corona d'allor, significante

che per vittoria venia triunfante.

 

22

 

Teseo adunque, come fu smontato

di mare in terra, in sul carro salio,

degli ornamenti reali addobbato;

e sopra quello appresso il suo disio,

Ipolita, gli stette dall'un lato,

da l'altro Emilia fu, al parer mio;

poi l'altre donne e' cavalier con loro

a cavallo il seguir sanza dimoro.

 

23

 

In diverse brigate festeggiando,

a cavallo e a piè erano andati

gli Atteniesi inver di lui cantando,

di varii vestimenti divisati,

con infiniti suoni ogn'uom festando,

e con esso in Attene rientrati:

diritto andò al tempio di Pallade

a reverir di lei la deitade.

 

24

 

Quivi con reverenza offerse molto,

e le sue armi e l'altre conquistate;

e poi per altra via il carro volto,

alquanto circuendo la cittate,

con infinito d'uomini tomolto,

ovunque gia, con grida eran lodate

l'opere sue magnifiche, e con gloria

le dicean degne d'etterna memoria.

 

 

Come a Teseo si fero incontro le donne greche piagnendo

 

25

 

E mentre ch'elli in cotal guisa giva,

per avventura davanti al pietoso

tempio passò, nel quale era l'achiva

turba di donne in abito doglioso;

la qual udendo che quindi veniva,

su si levar con atto furioso:

con alte grida e pianto e gran romore

pararsi innanzi al carro del signore.

 

26

 

– Chi son costor ch'a' nostri lieti eventi

co' crini sparti, battendosi il petto,

di squalor piene in atri vestimenti,

tutte piangendo, come se 'n dispetto

avesson la mia gloria, a l'altre genti,

sì com'io veggo, cagion di diletto? –,

disse Teseo stupefatto stando;

a cui una rispose lagrimando:

 

27

 

– Signor, non ammirar l'abito tristo

che 'nnanzi a tutti ci fa dispettose,

né creder pianger noi del tuo acquisto,

né d'alcun tuo onore esser crucciose;

ben che l'averti in cotal gloria visto

pe' nostri danni ne faccia animose

a pianger più che non faremmo forse,

essendo pur dal primo dolor morse. –

 

28

 

– Dunque chi sete? – disse a lor Teseo,

– e perché sì nella publica festa

sole piangete? – Allora oltre si feo

Evannès, più che nessuna altra mesta,

dicendo: – Isposa fui di Campaneo,

e qualunque altra ancora vedi in questa

turba, di re fu moglie o madre o suora

o figlia; e aprirotti che ci accora.

 

29

 

La perfida nequizia del tiranno

figliuol d'Edippo, contro a Polinice,

suo unico fratello, e 'l fiero inganno

del regno, degli Argivi lo 'nfelice

esercito tirò al suo gran danno,

che è maggiore assai che non si dice,

davanti a Tebe, dove trista sorte

ciascuno alto baron tolto ha con morte.

 

30

 

E dove noi, invano, speravamo

con quello onor vederli ritornare

alle lor terre ch'agual te veggiamo

nella tua laurato triunfare,

nell'abito dolente in che noi siamo

a sepellirli ci conviene andare;

ma l'aspra tirannia di que' c' ha preso

il regno dietro a lor ciò ci ha difeso.

 

31

 

Il perfido Creon, a cui più dura

l'odio ch' a' morti non fece la vita,

a' greci corpi nega sepoltura

(crudeltà, credo, non mai più udita),

e di qua l'ombre a la padule oscura

di Stigia ritiene; onde infinita

doglia ci assal tra gli altri nostri mali,

sentendoli mangiare agli animali.

 

32

 

Pietose adunque a questo estremo onore

voler donar, d'Acaia ci movemmo;

ma come a noi contato fu il tenore

di tale editto, i passi qua volgemmo

e porger prieghi a te, pio signore,

di tale oltraggio con noi proponemmo

i qua' l'abito nostro per noi doni

a te in prima, e poi a' tuoi baroni.

 

33

 

Se alto valor, come crediam, dimora

in te, a questo punto sie pietoso;

tu n'averai alto merito ancora,

e oltre a ciò, ciò che uom virtuoso

de' far, farai. Deh, s'altro da te infora

far lo volesse, en dovresti cruccioso

essere e impedirlo, acciò ch'avessi

la gloria tu di punir tali eccessi.

 

34

 

Deh, se l'abito nostro e il lagrimare

non ti movon, né prieghi, né ragione

a far che 'l pio oficio possiam fare,

movati almen la trista condizione

di que' che già fur re; non gli lasciare

nella futura fama in dirisione:

 

         TESEIDA

 

di Stigia ritiene; onde infinita

doglia ci assal tra gli altri nostri mali,

sentendoli mangiare agli animali.

 

32

 

Pietose adunque a questo estremo onore

voler donar, d'Acaia ci movemmo;

ma come a noi contato fu il tenore

di tale editto, i passi qua volgemmo

e porger prieghi a te, pio signore,

di tale oltraggio con noi proponemmo

i qua' l'abito nostro per noi doni

a te in prima, e poi a' tuoi baroni.

 

33

 

Se alto valor, come crediam, dimora

in te, a questo punto sie pietoso;

tu n'averai alto merito ancora,

e oltre a ciò, ciò che uom virtuoso

de' far, farai. Deh, s'altro da te infora

far lo volesse, en dovresti cruccioso

essere e impedirlo, acciò ch'avessi

la gloria tu di punir tali eccessi.

 

34

 

Deh, se l'abito nostro e il lagrimare

non ti movon, né prieghi, né ragione

a far che 'l pio oficio possiam fare,

movati almen la trista condizione

di que' che già fur re; non gli lasciare

nella futura fama in dirisione:

e' furon teco già d'un sangue nati,

e come te ancor Greci chiamati. –

 

35

 

Le lagrime non eran mai mancate,

perché parlasse, agli occhi di costei,

ma sempre in quantità multiplicate;

e 'l simile era a l'altre dietro a lei,

le qua' con forza avean messa pietate

in ciaschedun di que' baroni attei;

per che con seco ognun forte dannava

la crudeltà la qual Creon usava.

 

36

 

Teseo attento le parole dette

racogliea tutte, l'abito mirando

di quelle donne, e ben che lor neglette

vedesse, chiaro assai, seco stimando,

la maestà nascosa conoscette;

e greve duol nel cor gli venne quando

udì de' re la morte; e dopo alquanto

così rispose al doloroso canto:

 

 

La risposta di Teseo alle donne greche

 

37

 

– L'abito oscuro e 'l piangere angoscioso,

e 'l voi conoscer pe' vostri maggiori,

e 'l ricordarmi il vostro esser pomposo,

gli agi e' diletti e' regni e' servidori

e de' re vostri il regnar glorioso,

hanno trovato ne' miei sommi onori

luogo a' vostri prieghi, e la mutata

fortuna trista di lieta tornata.

 

38

 

Io vorrei ben poter nel primo stato

e in vita li vostri re tornare,

com'io credo poter far che fia dato

onor di sepoltura a cui donare

vel piacerà; e l'orgoglio abbassato

di colui fia che ciò vi vuol negare;

però, se a male avuto può conforto

vendetta porger, per me vi fia porto.

 

39

 

Fortificate gli animi dolenti

con isperanza buona, ch'io vi giuro,

prima che io o' miei baron possenti

ci riposiam d'Attene dentro al muro,

di ciò faremo interi esperimenti;

e io son già di vittoria sicuro,

non tanto avendo in mie forze fidanza,

quanto mi dà di Creon la fallanza. –

 

 

Come Teseo dispose Ipolite ed Emilia del carro, per gire a Tebe

 

40

 

E detto questo, con benigno aspetto

si rivolse ad Ipolita, dicendo:

– Bene hai udito, donna, ciò c'han detto

queste donne reali a noi piangendo:

priegoti adunque non ti sia dispetto

se al presente a lor giustizia intendo.

Dismonta, e col mio padre ti starai

finché tornato me qui vederai. –

 

41

 

A cui così Ipolita rispose:

– Caro signor, ben ch'io sia amazona,

io non son sì crudel, ch'a cota' cose

volentier non mettessi la persona

per vendicarle, sì son dispettose,

se vero è ciò che delle donne sona

il tristo ragionar, sol ch'io credesse

che 'n ciò il mio portare arme ti piacesse.

 

42

 

Però, signor, secondo il tuo piacere

opera omai, e s'elli è di tal fretta

qual esse dicon, non soprasedere;

va e fa ciò ch'al tuo enore aspetta,

ché ciò m'è più ch'altra gioia in calere. –

E questo detto, intra la turba eletta

di molte donne che l'accompagnaro,

essa e Emilia del carro smontaro.

 

43

 

Poi che Teseo le donne ebbe posate

del carro suo, tenendo il viso fitto

nella miseria delle sconsolate,

da intima pietà nel cor trafitto,

sopra 'l carro si volse a le pregiate

schiere de' suoi sanz'altro alcun respitto;

e con voce alta, di furore acceso,

parlò sì che da tutti fu inteso:

 

 

Diceria di Teseo a' cavalieri suoi per andare sopra Creonte

 

44

 

– Tanto è nel mondo ciascun valoroso,

quanto virtute li piace operare;

dunque ciascun di vivere ozioso

si guardi che in fama vuol montare;

e noi, acciò che stato glorioso

intra' mondan potessimo acquistare,

venimmo al mondo, e non per esser tristi

come bruti animali e 'ntra lor misti.

 

45

 

Adunque, cari e buon commilitoni

che meco in tante perigliose cose

istati sete in dubbie condizioni,

per far le vostre memorie famose

a le future nuove nazioni,

ora li cuori all'opre gloriose

vi priego dispognate, né vi caglia

prender riposo d'avuta travaglia.

 

46

 

Udito avete tutti, sì com' io,

ciò che le donne ne dicon presenti;

certo ciascun ne dovrebbe esser pio,

e al vengiar dovreste esser ferventi,

ché l'aspre nimistà e il disio

del nuocer debbon ciaschedune genti

lasciare e obliar, poi l'uomo è morto;

ma or Creon fa nuovo a' morti torto.

 

47

 

Andiamo adunque, e lui, fiero Creonte,

umil facciàn con le spade tornare,

sì che e' lasci l'ombre ad Acheronte,

poi fien sepulti i corpi, trapassare;

noi non andiamo acciò che a Demofonte

rimanga regno, a l'altrui usurpare,

ma a ragion rilevare in sua gloria;

per che l'iddii ne daranno vittoria.

 

48

 

E' non fu più lasciato avanti dire,

ch'un romor surse che il ciel toccava

– Tutti siam presti di voler morire

dintorno a te, e già molto ne grava

che 'nver Creonte non prendiamo a gire,

poi ch'opera commette così prava:

voi vederete nell'operar nostro,

signor, se ci fia caro l'onor vostro. –

 

 

Come Teseo andò contra Creonte, re di Tebe

 

49

 

Teseo adunque, sanza rivedere

il vecchio padre o parente o amico,

uscì d'Attene, né li fu in calere

d'Ipolita l'amor dolce e pudico,

né altro alcun riposo, per potere

gloria acquistar sopra 'l degno nemico;

e com'elli era entrato nella terra,

così n'uscì a la novella guerra.

 

50

 

Le 'nsegne, che ancora ripiegate

non eran, si drizzaron di presente;

e' cavalier con le schiere ordinate,

dietro a la sua ciascuno acconciamente,

ne givano, e le donne sconsolate

lor precedean, di ciò molto contente;

e dopo giorno alcun giunsero a Tebe,

e fermar campo in su le triste glebe.

 

51

 

Sentì Teseo l'aere corrotto

pe' corpi ch'eran senza sepoltura;

onde mandò a Creonte di botto

che e' lasciasse aver de' morti cura,

o s'aprestasse, sanza più dir motto,

della battaglia dispietata e dura.

I messi andaro e fecer l'ambasciata;

a' qua' Creon cotal risposta ha data:

 

52

 

– Dite a Teseo ch'io sono apparecchiato

della battaglia, e ch'elli avrà a fare

con franco popol tutto bene armato,

e non si creda qui donne trovare,

come in altra parte egli ha trovato;

e però venga, qualora gli pare,

che corpi fuoco non avranno, e esso

giacer farò con loro assai di presso. –

 

53

 

Il buon Teseo la risposta intese

superba assai, della quale e' si rise;

e al pian campo con li suoi discese,

e in tre parti tutti i suoi divise,

e fece loro il loro affar palese;

quindi davanti a tututti si mise;

e bene in concio ne gir ver Creonte,

che con sua gente lor veniva a fronte.

 

 

La battaglia intra Teseo e Creonte, e come Teseo fu vincitore

 

54

 

Allora trombe, nacchere e tamburi

sonaron forte d'una e d'altra parte;

fremivano i cavalli, e i securi

cavalier tutti gridavano: – O Marte,

or si parranno li tuoi colpi duri,

ora conoscerassi la tua arte. –

Allora lance e saette pungenti

cominciarsi a gittar tra le due genti.

 

55

 

E' cavalieri insieme si scontraro

con tal romore e con sì gran tempesta,

che 'nsino al ciel le voci risonaro;

e con le lance ciaschedun s'infesta

di vender bene il romper quelle caro;

poi con le spade battaglia molesta

incominciar, dove molti moriro

nel primo assalto che 'nsieme feriro.

 

56

 

Il buon Teseo, sopra un alto destriere,

con una mazza in man pel campo andava

ferendo forte ciascun cavaliere

e abbattendo cui elli incontrava,

e spesso confortando le sue schiere:

col suo ben far tutti l'incoraggiava,

porgendo arme sovente a chi l'avesse

perdute e rimontando chi cadesse.

 

57

 

E ben vedea chi con tremante mano

moveva i ferri, e chi arditamente

sovra' nemici suoi valor sovrano

combattendo mostrava, e chi niente

pigro operava dimorando invano;

li qua' gridando spregiava vilmente,

lodando gli altri, e per nome chiamando

or questo or quel, gli giva confortando.

 

58

 

Da l'altra parte il simile facea

Creonte, come ardito conduttore,

e quasi in sé del nemico credea

sanza alcun fallo farsi vincitore.

L'un contra l'altro ben si difendea

arditamente e con sommo valore;

ma sì andando, insieme si scontraro

Creon e 'l buon Teseo, e si sgridaro.

 

59

 

Corsorsi adosso li due cavalieri,

chiusi nell'armi e valorosamente

si cominciaro a ferire i guerrieri,

com'uomin che s'odiavan mortalmente,

e come que' ch'avrebber volentieri

l'un l'altro a morte dato certamente;

e già co' colpi tutte magagnate

s'avevan l'armi, e le carni tagliate.

 

60

 

Teseo di cruccio tutto quanto ardeva,

vedendo di Creon il gran durare,

e fra se stesso fremendo diceva:

– Deh, de'mi questi a la fine menare? –

Poi tutte in sé sue forze raccoglieva,

e furioso li si lascia andare

adosso, e lui per sì gran forza fiere,

che lì il gittò per morto del destriere.

 

61

 

Teseo allora da caval discese,

dicendo: – O fier tiranno, or è venuto

il dì che 'l tuo mal viver tanto attese;

ora sarà tuo fallo conosciuto,

or fien punite le già fatte offese

da te, or fia il tuo viver compiuto;

e le tue arme io sacrerò a Marte,

benigno iddio a me in ogni parte.

 

62

 

E' corpi contra i qua' fosti spietato

arsi saranno, e 'l tuo regno distrutto,

e 'l nome tuo di memoria privato;

e a le donne, a cui cagion di lutto

fosti, sarà il tuo corpo donato,

ch'esse ne facciano il lor piacer tutto:

così la tua superbia fia abbattuta,

ch'a rispondermi fu cotanto arguta. –

 

63

 

Non spaventar le parole Creonte,

perch'abattuto si vedesse in terra,

né sembianza mutò l'ardita fronte,

né mitigossi nel cuor la sua guerra;

anzi più fiero, e con parole pronte,

aspra risposta parlando diserra

a que' che sopra il petto fier li stava

e col suo ferro morte gli aprestava;

 

64

 

dicendo a lui: – Fanne tuo piacere,

pur che io muoia avanti che vittoria

io veggia a te e a tua gente avere;

ché l'alma mia almeno alcuna gloria

ne porterà con seco nel parere,

e segnato terrà nella memoria

che 'n dubbio i tuoi e' miei lascio d'onore;

e credo che li miei hanno il migliore.

 

65

 

Questo ne porterò a l'infernali

iddii, quasi contento; e se e' fia

il corpo mio donato agli animali

sanz'altro foco, ciò l'alma disia;

però che parte delli miei gran mali

di qua dalla riviera oscura e ria,

la qual vuo' far passare a' regi morti,

io celerò, se non fia chi men porti.

 

66

 

Or fa omai quel che più t'è in grato,

ch'io non men curo. – E tacque; e intratanto

l'avea Teseo già tutto disarmato,

e quasi tutto del sangue e del pianto

il vide il duca nel viso cambiato;

e già era freddato tutto quanto:

per che conobbe l'anima dolente

esser partita dal corpo spiacente.

 

67

 

Il quale e' lasciò quivi, e risalio

sopra 'l destriere, e fra' suoi ritornossi;

e tutto quanto ardendo nel disio

d'aver vittoria, focoso ficcossi

tra li nemici, e 'l primo che ferio

a li suoi piedi morto coricossi;

e 'l simil fece a' più degli altri fare,

per che nessun l'ardiva d'aspettare.

 

68

 

E' suoi facevan nell'armi gran cose,

contra' nemici gran forze mostrando;

e per lo campo le genti orgogliose

uccidendo, ferendo e scavallando

andavan, pur pensando a le pietose

donne ch'avean vedute lagrimando;

tal che non li potean più sofferire

li Teban, salvo chi volea morire.

 

69

 

E d'altra parte già saputo aveno

del lor signor la morte dolorosa,

per che che farsi tra lor non sapeno;

laonde in fuga trista e angosciosa,

sì come gente che più non poteno,

si volser tutti, ché nessun non osa

volversi indietro o insieme aspettarsi,

tanto di presso vedean seguitarsi.

 

70

 

I miseri cacciati non fuggiro

nella città per quivi aver riparo,

ma per li monti Ogigii se ne giro,

chi per lo bosco ove Tideo assediaro,

e qua' su Citeron se ne saliro,

altri ne' cavi monti s'appiattaro;

e 'n cotal guisa con greve dolore

tutti fuggir davanti al vincitore.

 

71

 

Questo vedendo, i cittadin tebani,

le donne e' vecchi e' piccioli figliuoli

rimasi in quella miseri e profani,

di quella usciron faccendo gran duoli,

li suoi seguendo pe' luoghi silvani;

e così tristi per diversi stuoli

lasciar di Bacco e d'Ercule la terra

nelle man di Teseo in tanta guerra.

 

72

 

Al buon Teseo non piacque seguitare

que' che fuggien, ma tosto se ne gio

inver la terra, de la qual nello entrare

nessuno incontro con arme gli uscio.

Passato adunque dentro, ad ammirare

cominciò i templi di qualunque iddio,

l'antiche rocche di Cadmo cercando,

e l'altre cose mire riguardando.

 

73

 

E poi ch'egli ebbe vedute le cose

magnifiche a ciascun quelle guardante,

fuor se n'uscì, e a le sue vogliose

genti di rubar quella rimirante

licenzia diè; ver è ched elli impose

che tutte salve sien le case sante

delli tebani iddii: per che cercata

fu tosto tutta e per tutto rubata.

 

 

Come Teseo fé sepellire Creon, e concedette a le donne d'andare a sepellire cui esse volessero, concedendo loro, oltre a questo, Tebe

 

74

 

Teseo sé veggendo vincitore,

sopra Asopo il suo campo fé porre,

e de' vincenti chetato il romore,

del campo il corpo di Creon fé torre,

e con esequie degne grande onore

li fé, e fé la cenere riporre

dentro ad una urna, e poscia di Lieo

nel tempio in Tebe collocar la feo,

 

75

 

dicendo: – I' vo' che all'ombre infernali

possi di me miglior testimonianza

render, che quelli eccelsi e gran reali,

a' qua' negavi con grande arroganza

gli ultimi onori e' fuochi funerali,

di te non posson, per la tua fallanza. –

E questo fatto, a sé fece chiamare

le greche donne, e lor prese a parlare:

 

76

 

– Donne, gl'iddii a la nostra ragione

hanno prestata debita vittoria,

e però con dovuta oblazione

tenuti siam d'esaltar la lor gloria,

perciò mettete ad esecuzione

ciò che de' vostri faceste memoria;

date alli vostri re l'uficio pio,

secondo che avete nel disio.

 

77

 

E questo fatto, la terra prendete

che cagion fu di morte a' vostri regi,

e sì ne fate ciò che voi volete,

come di nido di tutti i dispregi;

sicuramente in quella andar potete,

ch'alcun non v'è ch'al gir vi privilegi. –

Le donne quasi liete il ringraziaro,

e quindi a fare il loro oficio andaro.

 

 

Come le donne, arsi i corpi e Tebe, si tornarono ad Argo

 

78

 

Esse giron nel campo doloroso,

dove gli argivi re morti giaceano;

e ben che fosse a l'olfato noioso

per lo fiato che' corpi già rendeano,

non fu però a lor punto gravoso

cercar pe' morti che elle voleano,

in qua in là or questo or quel volgendo,

il suo ciascuna intra molti caendo

 

79

 

Il quale in prima non avean trovato

che, dopo molto pianto, mille volte

non si ristavan sì l'avean basciato,

usando ne' lor pianti voci molte,

qua' soglion far le donne a cotal piato;

quindi, de' corpi le parti raccolte,

prima ne' fiumi li bagnavan tutti,

poi li ponean sopra li roghi estrutti.

 

80

 

E sopra lor, carissimi ornamenti

quali a ciascun di lor si confacea,

arme, corone, scettri e vestimenti,

di quelle donne ciascuna ponea;

e dietro a tutto, con pianti dolenti,

ne' roghi ornati fuoco si mettea,

dicendo versi di maniere assai,

appartenenti tutti a tristi guai.

 

81

 

E 'n cotal guisa la turba piangente

co' fuochi i corpi morti consumaro,

e poi le cener diligentemente

dentro da l'urne, con dolore amaro,

ch'avean portate, miser di presente,

e per portarle ad Argo le serbaro;

ma prima giro in Tebe, e non potendo

altra vendetta far, la giro ardendo.

 

82

 

Quindi a Teseo tornate, una di loro

incominciò: – Valoroso signore,

della vendetta c'hai fatta in ristoro

del nostro inestimabile dolore,

grazie ti rendan l'iddii e coloro

c'hanno o avranno mai di ciò valore,

e noi, in ciò che femine han potere,

l'onestà salva, siamo al tuo piacere.

 

83

 

L'eccelsa gloria de' nostri reali,

che morti sono in questo tristo loco,

cui noi aspettavàn con triunfali

solennità, con doloroso foco

avèn tornata in ceneri, le quali,

ristrette tutte in vassello assai poco

ce ne portiamo; e tu riman con dio,

il quale adempia ciascun tuo disio.

 

84

 

Così sen giro; ma Teseo cercare

fatto avea il campo, e ciaschedun ferito

che fu trovato fatto medicare,

e ogni morto aveva sepellito;

e quindi a sé avea fatto recare

ciò ch'avean guadagnato, e quel partito

secondo i merti tra' suoi cavalieri,

liberamente el diede e volontieri.

 

 

Come Arcita e Palemone furono trovati e menati a Teseo

 

85

 

Mentre li Greci i lor givan cercando,

e ruvistando il campo sanguinoso,

e' corpi sottosopra rivoltando,

per avventura in caso assai dubbioso

due giovani feriti dolorando

quivi trovaron, sanza alcun riposo;

e ciaschedun la morte domandava,

tanto dolor del lor mal gli agravava.

 

86

 

E' non eran da sé guari lontani,

armati tutti ancora, e a giacere;

i qua', come coloro a le cui mani

pervenner prima, udendo lor dolere,

gli vider, si pensar che de' sovrani

esser doveano; e ciò fecer vedere

le lucenti armi e loro altiero aspetto

che dio nell'ira lor facea dispetto.

 

87

 

E' s'appressaro ad essi e umilmente,

quasi già certi di lor condizione,

né disarmarli, come l'altra gente

nemica avevan fatta e cui in prigione

avevan messi; e poi benignamente

recatilisi in braccio, con ragione

gli ripigliavan del disperar loro;

e menarli a Teseo sanza dimoro.

 

88

 

I qua' Teseo come gli ebbe veduti,

d'alto affar li stimò, lor dimandando

se del sangue di Cadmo fosser suti.

E l'un di loro altiero al suo dimando

rispose: – In casa sua nati e cresciuti

fummo, e de' suo' nepoti semo; e quando

Creon contra di te l'empie arme prese,

fummo con lui, co' nostri, a sue difese. –

 

89

 

Ben conobbe Teseo nel dir lo sdegno

real ch'avean costor, ma non seguio

però l'effetto a cotale ira degno;

ma verso lor più ne divenne pio,

e co' medici suoi, con ogni ingegno,

fé sì che tutte lor piaghe guario;

e poi con gli altri in prigion li ritenne,

lor riservando al triunfo solenne.

 

 

Come Teseo triunfando tornò ad Attene

 

90

 

Poi che parve a Teseo del ritornare,

distrutta Tebe e data sepoltura

a cui vi fu da dovergliele dare,

raccolti i suoi con diligente cura,

inver d'Attene si mise ad andare;

né prima fur vicini alle sue mura

che ciò ch'all'altra festa era mancato,

a quel punto trovaron ristorato.

 

91

 

Gli Atteniesi un carro li menaro

più ricco assai che 'l primo, e tutti quanti

generalmente inverso lui andaro

con allegrezza, e con solenni canti

di vittoria doppia il commendaro;

e 'n cotal guisa, andandoli davanti,

entrarono in Attene, e quivi Egeo,

suo vecchio padre, incontro li si feo.

 

92

 

Esso davanti al suo carro fé gire

Arcita e Palemon, presi baroni,

a' qua' facea tutti gli altri seguire

ch'avea nel campo presi per prigioni;

e dietro al carro faceva venire

di preda onusti i suoi commilitoni;

ma al carro d'ogni lato era ripieno

di donne assai che gran festa facieno.

 

93

 

A così alto e magnifico onore

Teseo vegnendo, Ipolita reina

li venne in petto, il suo alto valore

mostrando più che mai quella mattina;

la quale e' vide con allegro core,

e Emilia con lei, rosa di spina,

con altre donne assai e cavalieri,

li quali ora nomar non fa mestieri.

 

94

 

A cotal festa e sì lieto sembiante

fu Teseo ricevuto e onorato

da tutti i suoi, e così triunfante

quasi per tutto con gioia menato;

ma com di Marte al tempio fu davante,

quivi li piacque che fosse arrestato

il carro suo, e in terra discese,

e 'n quello entrò a tututti palese.

 

95

 

Lì si fé dare l'arme che a Creonte

avea nel campo teban dispogliate,

e a Marte l'offerse, e dalla fronte

con man le frondi di Pennea levate

diè similmente, e con parole pronte

delle vittorie da lui acquistate

grazie rendé a Marte copiose,

offerendoli vittime pietose.

 

96

 

Quindi uscì poi, e al mastro palagio

tornò, accompagnato dal suo padre;

quivi prendendo gioco e festa e agio,

alla reina le cose leggiadre

narrava ch'avea fatte e 'l suo disagio,

spesso assalito dalle luci ladre

di quella donna, che 'l mirava fiso;

per ch'esser li pareva in paradiso.

 

 

Come Teseo fece mettere in prigione Palemone e Arcita

 

97

 

Riposato più giorni in lieta vita,

il buon Teseo si fé innanzi venire

il teban Palemone e 'l bello Arcita,

e ciascun vide molto da gradire

e nello aspetto di sembianza ardita;

per che pensò di farli ambo morire,

dubbiando che s'andare e' li lasciasse,

non forse ancora molto li noiasse.

 

98

 

Poi fra sé disse: «Io farei gran peccato,

nullo di loro essendo traditore»;

e in se stesso fu diliberato

che li terrà in prigion per lo migliore;

e tosto al prigioniere ha comandato

che ben li guardi e faccia loro onore.

Così da lui Arcita e Palemone

dannati furo ad etterna prigione.

 

99

 

Li prigion furon tutti incarcerati

e dati a guardia a chi 'l sapea ben fare;

e questi due furon riservati

per farli alquanto più ad agio stare,

perché di sangue reale eran nati;

e felli dentro al palagio abitare

e così in una camera tenere,

faccendo lor servire a lor piacere.

 

Qui finisce il secondo libro

 

 

 

LIBRO TERZO

 

 

Sonetto nel quale si contiene uno argomento particulare del terzo libro

 

Nel terzo a Marte dona alcuna posa

l'autore, e discrive come Amore

d'Emilia, bella più che fresca rosa,

a' duo prigion con li suoi dardi il core                                       4

 

ferendo, elli accendesse in amorosa

fiamma, mostrando poi l'aspro dolore

del soverchio disio e l'animosa

voglia di far sentire il lor valore.                                               8

 

E poi, pregando il figliuol d'Isione

il gran Teseo, suo amico caro,

Arcita fa fuor trarre di prigione;                                               11

 

e mostra i patti che con lui fermaro

e poi, preso congio da Palemone,

d'Attene il mostra uscir con duolo amaro.                                14

 

 

Incomincia il libro terzo di Teseida

 

1

 

Poi che alquanto il furor di Iunone

fu per Tebe distrutta temperato,

Marte nella sua fredda regione

con le sue Furie insieme s'è tornato

per che omai con più pio sermone

sarà da me di Cupido cantato

e delle sue battaglie, il quale io priego

che sia presente a ciò che di lui spiego.

 

2

 

Ponga ne' versi miei la sua potenza

quale e' la pose ne' cuor de' Tebani

imprigionati, sì che differenza

non sia da essi alli loro atti insani;

li qua', lontani a degna sofferenza,

venir li fero a l'ultimo a le mani,

in guisa che a ciascun fu discaro,

e a l'un fu di morte caso amaro.

 

3

 

In cotal guisa adunque imprigionati

i due Tebani, in supprema tristizia

e quasi più che ad altro al pianger dati,

del tutto d'ogni futura letizia

dovere aver giammai più disperati,

maladicean sovente la malizia

dello 'nfortunio loro, e 'l tempo e l'ora

ch'al mondo venner bestemmiando ancora,

 

4

 

morte chiamando seco spessamente

che gli uccidesse, se fosse valuto.

E in istato cotanto dolente

presso che l'anno avevan già compiuto,

quando per Vener, nel suo ciel lucente,

d'altri sospir dar lor fu proveduto;

né prima fu cotal pensiero eletto,

che al proposto seguitò l'effetto.

 

 

Il tempo prima, e poi come Arcita e Palemone s'innamorarono d'Emilia.

 

5

 

Febo, salendo con li suoi cavalli

del ciel teneva l'umile animale,

ch'Europa portò sanza intervalli

là dove il nome suo dimora aguale;

e con lui insieme graziosi stalli

Venus facea de' passi con che sale,

per che il cielo rideva tutto quanto

d'Amon, che 'n Pisce dimorava intanto.

 

6

 

Da questa lieta vista delle stelle

prendea la terra graziosi effetti,

e rivestiva le sue parti belle

di nuove erbette e di vaghi fioretti.

e le sue braccia le piante novelle

avean di fronde rivestite, e stretti

eran dal tempo gli alberi a fiorire

e a far frutto e 'l mondo ribellire.

 

7

 

E gli uccelletti ancora i loro amori

tututti avean cominciato a cantare,

giulivi e gai, nelle frondi e ne' fiori;

e gli anima' nol potevan celare,

anzi 'l mostravan con sembianti fori;

e' giovinetti lieti, che ad amare

eran disposti, sentivan nel core

fervente più che mai crescere amore.

 

8

 

quando la bella Emilia giovinetta,

a ciò tirata da propria natura

non che d'amore alcun fosse constretta,

ogni mattina, venuta l'aurora,

in un giardin se n'entrava soletta

ch'allato alla sua camera dimora

faceva, e 'n giubba e scalza gia cantando

amorose canzon, sé diportando.

 

9

 

E questa vita più giorni tenendo

la giovinetta semplicetta e bella,

con la candida man talor cogliendo

d'in su la spina la rosa novella,

e poi con quella più fior congiugnendo

al biondo capo fando ghirlandella,

avvenne nova cosa una mattina

per la bellezza di questa fantina.

 

10

 

Un bel mattin ch'ella si fu levata

e' biondi crin ravolti alla sua testa,

discese nel giardin, com'era usata:

quivi cantando e faccendosi festa,

con molti fior, su l'erbetta assettata,

faceva sua ghirlanda lieta e presta,

sempre cantando be' versi d'amore

con angelica voce e lieto core.

 

11

 

Al suon di quella voce grazioso

Arcita si levò, ch'era in prigione

allato allato al giardino amoroso,

sanza niente dire a Palemone,

e una finestretta disioso

aprì per meglio udir quella canzone,

e per vedere ancor chi la cantasse,

tra' ferri il capo fuori alquanto trasse.

 

12

 

Egli era ancora alquanto il dì scuretto,

ché l'orizonte in parte il sol teneva,

ma non sì ch'elli con l'occhio ristretto

non iscorgesse ciò che lì faceva

la giovinetta con sommo diletto,

la quale ancora esso non conosceva;

e rimirando lei fisa nel viso,

disse fra sé: «Quest'è di paradiso!».

 

13

 

E ritornato dentro pianamente

disse: – O Palemon, vieni a vedere:

Vener è qui discesa veramente!

Non l'odi tu cantar? Deh, se 'n calere

punto ti son, deh, vien qua prestamente!

Io credo certo che ti fia in piacere

qua giù veder l'angelica bellezza,

a noi discesa della somma altezza. –

 

14

 

Levossi Palemon, che già l'udiva

con più dolcezza che que' non credea,

e con lui insieme alla finestra giva,

cheti amenduni, per veder la dea;

la qual come la vide, in voce viva

disse: – Per certo questa è Citerea;

io non vidi giammai sì bella cosa

tanto piacente né sì graziosa. –

 

15

 

Mentre costoro, sospesi e attenti,

gli occhi e gli orecchi pur verso colei

tenendo fissi facevan contenti,

forte maravigliandosi di lei,

e del perduto tempo in lor dolenti

passato pria sanza veder costei,

Arcita disse: – O Palemon, discerni

tu ciò ch'io veggo ne' belli occhi etterni? –

 

16

 

– Che? – li rispose allora Palemone.

Arcita disse: – Io veggo in lor colui

che già per Danne il padre di Fetone

ferì, se io non erro, e in man dui

istral dorati tene, e già l'un pone

sovra la corda, e non rimira altrui

che me; non so se forse li dispiace

ch'io miri questa che tanto mi piace. –

 

17

 

– Certo – rispose Palemone allora

– il veggo, ma non so s'ha saettato

l'un, ché non ha più che uno in mano ora. –

Arcita disse: – Sì, e' m'ha piagato

in guisa tal che di dolor m'acora,

se io non son da quella dea atato. –

Allora Palemon tutto stordito

gridò: – Omè, che l'altro m'ha ferito! –

 

18

 

A quello omè la giovinetta bella

si volse destra in su la poppa manca;

né prima altrove ch'alla finestrella

le corser gli occhi, onde la faccia bianca

per vergogna arrossò, non sappiendo ella

chi si fosser color; poi, fatta franca,

co' colti fiori in piè si fu levata,

e per andarsen si fu inviata.

 

19

 

Né fu nel girsen via sanza pensiero

di quello omè, e ben che giovinetta

fosse, più che non chiede amore intero,

pur seco intese ciò che quello affetta;

e parendole ciò saper per vero

d'esser piaciuta, seco si diletta,

e più se ne tien bella, e più s'adorna

qualora poi a quel giardin ritorna.

 

20

 

Dentro tornaron li due scudieri,

poscia che videro Emilia partita;

e, stati alquanto con nuovi pensieri,

pria cominciò così a dire Arcita:

– lo non so che nel cor quel fiero arcieri

m'ha saettato, che mi to' la vita,

e sentomi fallire a poco a poco,

acceso, lasso! non so in che foco.

 

21

 

E non mi si diparte della mente

l'imagine di quella creatura,

né pensiero ho d'altra cosa niente;

sì m'è fissa nel cor la sua figura,

e sì mi sta nell'animo piacente,

ch'io mi riputerei somma ventura

s'io le piacessi com'ella mi piace;

e sanza ciò mai non credo aver pace. –

 

22

 

Palemon disse: – Il simile m'avene

che tu racconti, e mai più nol provai;

per che io sento al cor novelle pene,

tal ch'io non credo si sentisser mai;

e veramente io credo che ci tene

quel signore in balia, che già assai

volte udi' ricordar, cioè Amore,

ladro sottil di ciascun gentil core.

 

23

 

E dicoti che già sua prigionia

m'è grave più che quella di Teseo;

già più d'affanno nella mente mia

sento, ch'io non credea che questo iddeo

donar potesse; e gran nostra follia

a quella finestretta far ci feo,

quando colei cantava tanto vaga,

che già per lei di morte il cor si smaga.

 

24

 

Io mi sento di lei preso e legato,

né per me trovo nessuna speranza;

anzi mi veggo qui imprigionato

e ispogliato d'ogni mia possanza;

dunque che posso far che le sia in grato?

Nulla; ma ne morrò sanza fallanza;

e or volesse Iddio ch'io fossi morto!

Questo mi fora sommo e gran conforto.

 

25

 

Oh, quanto ne sarieno a tal fedita

gli argomenti esculapii buoni e sani!

Il qual dice om che tornerebbe in vita

con erbe i lacerati corpi umani.

Ma che dich'io, poi ch'Apollo, sentita

cotal saetta, che' sughi mondani

tutti conobbe, non seppe vedere

medela a sé che potesse valere? –

 

26

 

Così ragionan li due nuovi amanti,

e l'un l'altro conforta nel parlare;

né san se questa è dea ne' regni santi

che sia qua giù venuta ad abitare,

o se donna mondana; e li suoi canti

e le bellezze li fan dubitare;

per che, ignoranti di chi sì gli ha presi,

molto si dolgon, da dolore offesi.

 

27

 

Né escon delle sicule caverne,

allora ch'Eol l'apre, sì furenti,

ora le basse e ora le superne

parti cercando, li rabbiosi venti,

come costor delle parti più interne

producean fuor sospiri assai cocenti,

ma con picciole voci, perché ancora

era la piaga fresca che gli accora.

 

28

 

Continuando adunque il gir costei,

sola tal volta e tal con compagnia,

nel bel giardino a diporto di lei,

nascosamente gli occhi tuttavia

drizzava alla finestra, ove l'omei

prima di Palemone udito avia:

non che a ciò amor la costrignesse,

ma per veder se altri la vedesse.

 

29

 

E se ella vedeva riguardarsi,

quasi di ciò non si fosse avveduta,

cantando cominciava a dilettarsi

in voce dilettevole e arguta;

e su per l'erbe con li passi scarsi

fra gli albuscelli, d'umiltà vestuta,

donnescamente giva e s'ingegnava

di più piacere a chi la riguardava.

 

30

 

Né la recava a ciò pensier d'amore

che ella avesse, ma la vanitate,

che innata han le femine nel core,

di fare altrui veder la lor biltate;

e quasi nude d'ogni altro valore,

contente son di quella esser lodate,

e per quel di piacer sé ingegnando,

pigliano altrui, sé libere servando.

 

31

 

Li due novelli amanti ogni mattino,

nello apparir primier dell'aurora

levati, rimiravan nel giardino

per veder se in quel venuta ancora

fosse colei il cui viso divino

oltre ad ogni misura gl'innamora;

né di quel loco si potean levare

mentre lei nel giardin vedeano stare.

 

32

 

E' si credevan, mirandola bene,

saziar l'ardente sete del disio

e minor far le lor gravose pene:

e essi più dal valoroso iddio

Cupido si stringean nelle catene;

e or con lieto aspetto e or con pio

si dimostravan rimirando quella,

sol per piacere a lei quanto a loro ella.

 

33

 

E come avven che 'l dente del serpente

pria lede altrui con picciola morsura,

sé dilatando poi subitamente

offusca il membro della sua mistura,

poi l'uno a l'altro successivamente,

infin che 'l corpo tutto quanto oscura;

così costor di dì in dì, mirando,

d'amore il fuoco gieno aumentando.

 

34

 

E sì per tutto l'avevan raccolto,

che ogni altro pensier dato avea loco

e a ciascun già si parea nel volto

per le vigilie lunghe e per lo poco

cibo che e' prendean; ma di ciò molto

davan la colpa a l'allegrezza e 'l gioco

ch'aver soleano, e ora eran prigioni;

così coprendo le vere cagioni.

 

35

 

E da' sospiri già a lagrimare

eran venuti, e se non fosse stato

che 'l loro amor non volean palesare,

sovente avrian per angoscia gridato.

E così sa Amore adoperare

a cui più per servigio è obligato:

colui il sa che tal volta fu preso

da lui e da cota' dolori offeso.

 

36

 

Era a costor della memoria uscita

l'antica Tebe e 'l loro alto legnaggio,

e similmente se n'era partita

la 'nfelicità loro, e il dammaggio

ch'avevan ricevuto, e la lor vita

ch'era cattiva, e 'l lor grande eretaggio;

e dove queste cose esser soleano

Emilia solamente vi teneano.

 

37

 

Né era lor troppo sommo disire

che Teseo gli traesse di prigione,

pensandosi ch'a lor converria gire

in esilio in qualch'altra regione,

né più potrebber veder né udire

il fior di tutte le donne amazone;

ver è ch'uscir di lì per sommo bene

disideravano, e starsi in Attene.

 

38

 

Così costor da amor faticati,

vedendo questa donna, il loro ardore

più leve sostenean; poi ritornati,

partita lei, nel lor primo furore,

in lor conforto versi misurati

sovente componean, l'alto valore

di lei cantando; e in cotale effetto

nelli lor mal sentieno alcun diletto.

 

39

 

E non sappiendo ben chi ella fosse

ancora, un dì un lor fante chiamaro,

al quale Arcita ta' parole mosse:

– Deh, dinne per amore, amico caro,

sai tu chi sia colei che dimostrosse

l'altrieri a noi, cantando tanto chiaro,

in quel giardino? Haila tu mai veduta

in altra parte, o è dal ciel venuta? –

 

40

 

Il valletto rispose prestamente:

– Questa è Emilia, suora alla reina,

più ch'altra che nel mondo sia piacente;

la qual, perché ancor molto fantina,

al giardin se ne vien sicuramente,

sanza fallir giammai, ogni mattina;

e canta me' che mai cantasse Appollo,

e io l'ho già udita, e così sollo. –

 

41

 

Disser fra lor costoro: – E' dice il vero;

ell'è bene essa che n'ha tolto il core

e a lei volto ogni nostro pensiero;

e ciaschedun di noi albergatore

di pianti e di sospiri e di severo

tormento ha fatti e d'ogni altro dolore

con tanta forza sé fa disiare

con la bellezza che in lei appare! –

 

42

 

Così li due amanti con sospiri

vivevan tutto il giorno discontenti,

e vegnente 'l mattino i lor martiri

avevan sosta, infin gli occhi lucenti

vedean d'Emilia, che li lor disiri

ciaschedun'ora facean più ferventi;

e così visser mentre fu la state,

con doglia insieme e con soavitate.

 

43

 

Ma poi ch'al mondo tolse la bellezza

Libra ch'aveva donata Ariete,

li due amanti perder la dolcezza

che quietava lor focosa sete,

ciò è vedere la somma chiarezza

che gli teneva d'amor nella rete;

donde rimaser dolorosi forte,

chiamando giorno e notte sempre morte.

 

44

 

Il tempo aveva cambiato sembiante

e l'aere piangea tutto guazzoso;

secche eran l'erbe e spogliate le piante,

e 'l popol d'Eol correa tempestoso

or qua or là nel tristo mondo errante;

per che Emilia col viso amoroso,

lasciati li giardin, sempre si stava

in camera e del tempo non curava.

 

45

 

Allor tornarono i martiri e' pianti,

gli aspri tormenti e le noie angosciose

in doppio a ciaschedun de' due amanti,

e non vedevan né udivan cose

che lor piacesse; e così tutti quanti

si consumavano in pene dogliose;

e ciaschedun disperar si volea,

ma pure in fine se ne ritenea.

 

46

 

Grandi erano i sospiri e il tormento

di ciascheduno, e l'esser prigionati

vie più che mai faceva discontento

ciascun di loro, a tal punto recati;

e ogni giorno lor pareva cento

che fosser morti o quindi liberati,

e per lor solo e unico conforto

Emilia chiamavan, lor diporto.

 

 

Come Arcita fu tratto di prigione ad istanzia di Peritoo

 

47

 

In questo tempo un nobil giovinetto,

chiamato Peritoo, venne a vedere

Teseo, suo caro amico; e con diletto

un dì si poser parlando a sedere;

e ragionando, a Teseo venne detto

de' due Teban li qua' facea tenere

imprigionati, Arcita e Palemone,

ciaschedun grande e nobile barone.

 

48

 

Allora Peritoo il prese a pregare

che li dovesse far veder costoro;

per che Teseo per lor fece mandare

e li si fé venir sanza dimoro.

Essi eran belli e di nobile affare,

e ben parea la gentilezza loro

nella forma e nell'abito ch'aveano,

posto ch'alquanto scolorati seano.

La forma e l'esser di Palemone.

 

49

 

Era Palemon grande e ben membruto,

brunetto alquanto e nello aspetto lieto,

con dolce sguardo e nel parlare arguto;

ma ne' sembianti umile e mansueto,

poi che fu innamorato, divenuto;

d'alto intelletto e d'operar secreto,

di pel rossetto e assai grazioso,

di moto grave e d'ardir copioso.

 

 

La forma e l'esser d'Arcita

 

50

 

Arcita era assai grande ma sottile,

non di soperchio, e di sembianza lieta;

bianco e vermiglio com rosa d'aprile,

e' cape' biondi e crespi, e mansueta

statura aveva, e abito gentile;

gli occhi avea belli e guardatura queta;

ma nel parlar gran coraggio mostrava,

e destro e visto assai a chi 'l mirava.

 

51

 

Conobbe Peritoo, nel lor venire,

Arcita e 'ncontro li si fu levato,

e abbracciollo e cominciolli a dire:

– O caro amico, come se' tu stato

qui tanto sanza farlomi sentire,

ché l'uscir di prigion t'avre' impetrato?

Mal grado n'abbi tu, ché ti sta bene

d'avere avute queste e maggior pene. –

 

52

 

Poi si rivolse a Teseo, suo amico,

dicendo: – Se giammai per mio amore

nulla facesti, quel ch'ora ti dico

ti priego facci, dolce mio signore,

che questo Arcita, mio compagno antico,

facci che di prigione egli esca fore;

io ten sarò tutto tempo tenuto,

e elli, in ciò che per te fia voluto. –

 

53

 

Teseo rispose: – Dolce amico caro,

ciò che tu mi domandi sarà fatto,

ma odi come, non ti sia discaro.

I' 'l trarrò di prigion con questo patto,

che nel mio regno e' non faccia riparo,

né ci venga giammai per nessuno atto;

ch'io l'ho disfatto e tenuto in prigione,

perch'a dritto di lui ho sospeccione.

 

54

 

S'io cel prendessi, io gli farò tagliare

la testa sanza fallo immantanente;

però, se vuol cotal patto pigliare,

vada dove li piace di presente

per lo tuo amor, che lo mi fai lasciare;

ché altramente mai al suo vivente

uscito non saria di prigionia,

ben lo ti giuro per la fede mia. –

 

55

 

Peritoo disse: – E io vo' ch'elli il faccia

e te ringrazio di cotanto dono. –

E tosto i ferri da' piè li dislaccia,

e libero lui lascia in abandono.

Arcita s'inginocchia e sì l'abraccia,

dicendo: – Peritoo, dovunque io sono,

son tutto tuo, e ciò ch'io posso fare,

sol che ti piaccia a me tuo comandare. –

 

56

 

Poi se n'andò innanzi al gran Teseo,

ginocchion disse: – Nobil signore,

se per me cosa incontro a te si feo

giammai, perdona per lo tuo onore,

ch'altro per me al ver non si poteo;

il danno che m'hai fatto e 'l disinore

i' 'l ti perdono, e ti ringrazio assai

di questa grazia ch'agual fatta m'hai.

 

57

 

E in che che parte io me ne debba gire,

son tutto tuo, quando ti sia in piacere;

non men che vita avrò caro il morire

per te, pur che ci sia il tuo volere.

A così grande e fervente disire

mi pinge Amor, che m'ha nel suo potere,

e a te e a' tuoi sì obligato,

ch'io sarò sempre tuo in ogni lato. –

 

58

 

Teseo cotal parlar non intendea

donde venisse, ma semplicemente

di puro cuor le parole prendea;

e però fé venir subitamente

nobili doni, e disse li piacea

che, oltre a quel ch'è 'ntra lor convenente,

e' pigliasse que' doni e glien portasse,

e del patto e di que' si ricordasse.

 

59

 

Arcita, a cui niente avea lasciato

la misera fortuna, bisognoso

ebbe i don di Teseo non poco a grato,

e poscia, con uno atto assai pietoso,

piangendo prese da Teseo commiato,

e del palagio discese doglioso,

pensando al suo esilio che 'l doveva

privar di veder ciò che li piaceva.

 

60

 

Ma Palemon, vedendo queste cose,

quasi nel cor moriva di dolore

per la fortuna sua, che più noiose

cose serbava al suo misero core,

e pel compagno suo, al qual gioiose

credea novelle del comune amore;

e quasi prese nova gelosia

di ciò ch'ancor non aveva in balia.

 

61

 

Esso fu rimenato alla prigione,

e Peritoo se ne gì con Arcita

e disse: – Caro amico e compagnone,

la voglia di Teseo tu l'hai udita;

ben che 'l tempo sia duro e la stagione,

e' si pur vuol pensar della partita;

ben me ne pesa, e sappi, s'io potessi,

non vorrei mai da me ti dividessi.

 

62

 

Io sì ti donerò arme e destrieri

di gran valore, belle e ben fornite,

per te e anco per li tuo' scudieri;

e poi, dove vi piace, ve ne gite;

tu se' di nobil sangue e buon guerrieri,

nato di genti valenti e ardite,

e non potrai fallire ad alto stato:

dove ch'arrivi, e' ti sarà donato. –

 

63

 

Arcita li rispose lagrimando

e ringraziollo del proferto onore,

e poi li disse: – Bello amico, quando

la mia partita è a grado al signore,

io la farò; ma sempre lamentando

andrò la mia fortuna con dolore,

poi c'ho perduto ciò ch'al mondo avea,

e converrà che d'altrui servo stea.

 

64

 

E certo io non conosco a cui servire

con maggior fede e con minor fatica

io possa ch'a Teseo, che dal morire

mi tolse, presso alla mia terra antica;

ma poi non vuol, convemmi intorno gire,

né so che farmi e vie men ch'io mi dica.

Or foss'io qui rimaso per servente

di chi si fosse, e non vi dria niente!

 

65

 

Non sai tu, Peritoo, come l'andare

attorno per lo mondo pien d'affanni

m'è conceduto? E' ti de' ricordare

ch'ancor non son trapassati due anni,

che sei gran re per lo nostro operare

fur morti a Tebe, e gravissimi danni

n'ebber gli Argivi e popoli altri assai,

per che odiati sarén sempre mai.

 

66

 

E oltre a ciò l'iddii ne sono avversi:

come tu sai, antica nimistate

serva Giunon ver noi, e diè perversi

mali a color che passar questa etate;

e noi ancor perseguendo ha somersi,

come tu vedi, in infelicitate

estrema; e Ercul né Bacco n'aiuta,

per che io tengo mia vita perduta. –

 

67

 

Queste parole facea dire Amore;

ma Peritoo non le conosceva,

sì come que' che non sapea l'ardore

che per Emilia dentro l'accendeva;

e però pur con purità di core

lui confortava, e spesso li diceva:

– Deh, non pensar che ti fallin l'iddii

che tu non abbi ancor quel che disii.

 

68

 

Molti altri regni ci ha dove potrai

miglior fortuna attender pianamente,

così com'io; e tu udito l'hai

che del qui rimaner saria niente

il ragionare, e a me parve assai

ricever pur quand'io liberamente

ti trassi di prigion; sie valoroso,

ché Dio non mancò mai a virtuoso. –

 

69

 

Poscia che Arcita, doppio ragionando

con Peritoo, sentì che 'l rimanere

non avea luogo, in sé stette pensando;

e tornandoli a mente che vedere

Emilia non potrebbe, essendo in bando,

quasi vicin fu a dir di volere

innanzi la prigion che tale esilio,

sospignendolo amore a tal consilio.

 

70

 

Ma la ragion, che subita prevenne

alla volontà folle di costui,

con tre buoni argomenti appena il tenne,

dicendo: «Se tu di' questo ad altrui,

e' non fia detto: "Amore il ci ritenne",

ma: "Non credendo sé valer, per lui

donato s'è a questa gran viltate,

prima ch'abbia voluta libertate".

 

71

 

E oltre a questo, se di prigion fora

se', molte cose potranno avvenire

che in istato ti porranno ancora;

e se 'n palese non potrai venire

in questa terra, come vorresti, ora,

forse altro tempo ci potrai reddire;

e se non in palese, almeno ascoso,

tanto che veggi il bel viso amoroso.

 

72

 

E se e' fosse tanta tua ventura

che 'n altro regno ella si maritasse,

non ti sarebbe soperchia sciagura

se in prigione allora ti trovasse?

Il che s'avien, con sollecita cura

esser potrai là dovunque ella andasse;

e posto che sua grazia non acquisti,

pur la vedranno almen gli occhi tuoi tristi».

 

73

 

Questi consigli distolser Arcita

dal suo sconcio e reo intendimento,

e confortossi l'anima invilita,

in ciò sperando; e preso il guarnimento

da Peritoo proferto, fé partita,

sé offerendo al suo comandamento,

dove che fosse, e sé raccomandando,

co' suoi scudier se ne gì sospirando.

 

 

Come Arcita, preso commiato da Palemone, uscì d'Attene

 

74

 

Da Peritoo partito, se ne gio

dov'era Palemone imprigionato,

e sì li disse: – Caro amico mio,

da te convien che io prenda commiato

e ch'io mi parta, contro al mio disio,

sì come fuor bandito e iscacciato;

né ci oserò, credo, tornar giammai,

ond'io morrò in dolorosi guai.

 

75

 

Io me ne vo, o caro compagnone,

con redine a fortuna abandonate,

e vorria inanzi certo esta prigione,

che isbandito usar mia libertate;

almen vedrei alla nuova stagione

colei che ha 'l mio core in potestate,

ché mai, partito, vederla non spero,

ond'io morrò di doglia, questo è 'l vero.

 

76

 

Io lascio l'alma qui innamorata

e fuor di me vagabundo piangendo

men vo, né so là dove l'adirata

fortuna mi porrà così languendo;

per ch'io ti priego, s'alcuna fiata

vedi colei per cu' i' ardo e incendo,

che tu le raccomandi pianamente

que' che morendo va per lei dolente. –

 

77

 

Mentre 'n tal guisa favellava Arcita,

Palemon sempre lagrimava forte,

dicendo: – Lassa, trista la mia vita!

Perché non mi confonde tosto morte,

acciò che prima della tua partita

fosse finita la mia trista sorte?

Ché sanza te in doglioso tormento

rimango, lasso! tristo e iscontento.

 

78

 

Ma tu, se savio se' sì come suoli,

dei di fortuna assai bene sperare

e alquanto mancar delli tuoi duoli,

pensando ch'assai puoi adoperare,

libero come se' di quel che vuoli,

là dove a me conviene ozioso stare:

tu vederai andando molte cose

ch'alleggeranno tue pene amorose.

 

79

 

Ma io, che sol rimango, a poco a poco

verrò mancando come cera ardente;

e ben che tal fiata mi dea gioco

il riguardare il bel viso piacente,

tutto mi fia uno accender più foco,

come a me più non dimorrà presente;

ond'io non so omai quel ch'io mi faccia,

e par che 'l cuore in corpo mi si sfaccia. –

 

80

 

Così piangean con amari sospiri

li due compagni forte innamorati,

e parean divenuti due disiri

di pianger forte, sì eran bagnati;

per che, tra lor crescendo i lor martiri,

da' lor valletti furon rilevati

e della lor follia forte ripresi

del mostrarsi d'amor cotanto accesi.

 

81

 

Allora i due compagni si levaro

per le parole de' loro scudieri,

e amenduni stretti s'abracciaro

di buono amor e di cuor volontieri,

e poco appresso in bocca si basciaro,

e più che prima nel lagrimar fieri,

con rotta voce si dissero addio.

E così quindi Arcita si partio.

 

82

 

Nulla restava a far più ad Arcita

se non di girsen via, e già montato

era a caval per far sua dipartita,

fra sé dicendo: «O lasso sconsolato!

Sol tanto fosse a Dio cara mia vita

ch'io solo un poco il viso dilicato

d'Emilia vedessi anzi 'l partire,

poi men dolente me ne potrei gire».

 

83

 

Passò i cieli allor quella preghiera,

e seguì tosto d'Arcita l'affetto,

ché quel giglio novel di primavera

sovr'un balcone appoggiata col petto

si venne a star, con una cameriera,

mirando il grazioso giovinetto

che in esilio dolente n'andava,

e compassione alquanto gli portava.

 

84

 

Ma esso dopo il priego alzò il viso,

incerto del futuro, e vide allora

l'angelico piacer di paradiso;

per ch'el disse con seco: «Omai se fora

di qui mi to' fortuna, e' m'è avviso

non poter male avere». E quindi ancora

la riguardò, dicendo: «Anima mia,

piangendo sanza te me ne vo via».

 

85

 

E così detto, per fornir la 'mposta

fattoli da Teseo, a cavalcare

incominciò; ma dolente si scosta

dal suo disio, il qual quanto mirare

poté il mirò, pigliando talor sosta,

vista faccendo di sé racconciare;

ma non avendo più luogo lo stallo,

uscì piangendo d'Attene a cavallo.

 

Qui finisce il terzo libro di Teseida

 

 

 

LIBRO QUARTO

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del quarto libro

 

 

Dimostra il quarto dipartito Arcita

con greve tempo, e 'l suo ramaricare,

mutato il nome per sicura vita,

e di Boezia a Corinto l'andare;                                                4

 

e quindi appresso la sua dipartita,

e in Mecena poscia l'arrivare,

dove con Menelao con ismarrita

mente si pose per famiglio a stare.                                           8

 

Quindi ad Egina a Pelleo se ne vene,

e con lui non potendo lungamente

durar, non conosciuto entrò in Attene,                                     11

 

e di Teseo diventò servente;

quindi dimostra la vita che tene,

faccendol noto a Panfil primamente.                                        14

 

 

Incomincia il libro quarto del Teseida. E prima come Arcita con tempestoso tempo, mutatosi nome, ramaricandosi se ne va.

 

1

 

Quanto può fare il tempo più guazzoso,

cotanto allora il faceva Orione,

molto nel cielo allora poderoso

con le Pliade in sua operazione;

e Eol d'altra parte più ventoso

il faceva che mai, in quella stagione

ch'uscì d'Attena il doloroso Arcita

sanza speranza mai di far reddita.

 

2

 

Grande era l'acqua, il vento e 'l balenare

quel dì che Arcita si partì d'Attene,

dal termine costretto dell'andare,

posto che 'l dove e' non sapesse bene;

ma non pertanto, sol per sodisfare

a Peritoo, avendo ancora spene

del ritornar, dolente a capo chino

inver Boezia prese suo cammino.

 

3

 

Poco era ancor dalla terra partuto,

quand'elli a' suo' scudieri: – Amici cari,

io non intendo d'esser conosciuto,

mentre che duran questi tempi amari;

però che forse, se fosse saputo

là dov'io fossi, io non viverei guari;

e però non Arcita, ma Penteo

mi nominate in questo tempo reo. –

 

4

 

E poi con tempo iniquo camminando,

lo 'nnamorato Arcita si voltava

ispesse volte la città mirando,

e quindi, lei veduta, sospirava,

seco sovente così ragionando:

"Deh, quanto pò amor, poi che mi grava

partir del loco ch'io dovrei odiare,

se degnamente volessi operare!".

 

5

 

E quinci alla cagion che a ciò il traeva,

ciò era Emilia bella e graziosa,

subitamente l'animo volgeva;

onde con voce alquanto più pietosa,

fra sé parlando, misero diceva:

"O nobile donzella, o amorosa

più ch'altra fosse mai, esemplo degno

delle bellezze dello etterno regno,

 

6

 

dove, partendom'io contra volere,

posto che tu giammai non fosse mia,

essendo io tuo, ti lascio, o bel piacere?

Perché non m'era la prigion men ria,

potendo alcuna volta te vedere,

ch'avere il mondo tutto in mia balia

sanza di te, che io più che me amo,

né altra cosa ch'al mondo sia bramo.

 

7

 

Deh, se io fossi en la mia libertate

dimorato in Attene tanto ch'io

un poco pur la tua novella etate

avessi, omè, accesa del disio

del quale io ardo, credo in veritate

ch'io sentire' il lungo esilio mio

con men dolor, sentendo que' sospiri

in te per me c'ho per te, e' disiri.

 

8

 

Ma tu appena non conosci amore

non che tu m'ami, e però non ti cale

del mio intollerabile dolore,

né puoi compassione al mio gran male

portare; e ciò che mi dà duol maggiore

e con asprezza più il cor m'asale,

è che mi par vederti maritata

ad uom che mai non t'avrà più amata.

 

9

 

E così 'l mio fedele e buon servire

sarà perduto, e angosciosamente

lontano a te mi converrà morire.

Deh, or foss'io pur certo solamente

che per tal morte tu dovessi dire:

"Certo costui amò ben fedelmente;

e' me ne incresce!". Poi, dove ch'io gissi,

altro che ben non credo ch'io sentissi.

 

10

 

Deh, lasso me!, or che vo io cercando

ne' sospir dispietati e angosciosi,

che in me ognora van multiplicando,

ciò che esser non pò? O tenebrosi

regni di Dite, s'alcun tormentando

in voi tenete, dite che si posi,

poiché vivendo io son colui che porto

sol pena più che altro vivo o morto".

 

11

 

Poi ad Amor le sue voci volgea

con troppo più orribile favella

dolendosi di lui; poscia dicea:

"Omè, Fortuna dispietata e fella,

che t'ho io fatto che sì mi se' rea?

O Morte trista, vien, che 'l cor t'appella;

coniugni me, col tuo colpo feroce,

co' miei passati nella infernal foce".

 

 

Come Penteo pervenne in Boezia, e quel che disse vedendo Tebe disabitata

 

12

 

Così piangendo con seco Penteo,

più doloroso assai che non appare,

il dì secondo del regno d'Egeo

uscì co' suoi, e cominciò a intrare

in quel nel qual già felice poteo,

cioè in Boezia; e dopo alquanto andare,

Parnaso avendo dietro a sé lasciato,

alla distrutta Tebe fu arrivato.

 

13

 

E' vide tutta quella regione

esser diserta allora d'abitanti,

per ch'elli incominciò: "O Anfione,

se tu, intanto che co' dolci canti

della tua lira, tocca con ragione,

per chiuder Tebe i monti circustanti

chiamasti, avessi immaginato questo,

forse ti saria suto il suon molesto.

 

14

 

Dove sono ora le case eminenti

del nostro primo Cadmo? Dove sono,

o Semelè, le camere piacenti

per te a quel che del più alto trono

governa il cielo, e per le qua' le genti

tebane mai non meritar perdono

da Iuno? E quelle dove son d'Almena,

che doppia notte volle a farsi plena?

 

15

 

Ove di Dionisio appaiono ora,

misero me, li triunfi indiani?

Deh, dove son gli eccelsi segni ancora

de' popoli silvestri libiani?

Nessun qui al presente ne dimora:

li re son morti, e voi, tristi Tebani,

dispersi gite, e 'n cenere è tornato

ciò che di voi fu già molto lodato.

 

16

 

Ov'è lo spesso popolo, ove Laio,

ove Edippo dolente, ove i figliuoli?

Ogni cosa ha distrutto il fuoco graio;

e per multiplicar li nostri duoli

con vergogna, le femine il primaio

v'accesero. O Iunon, dunque che vuoli

del nostro miser sangue più omai?

Non ti pare aver fatto ancora assai?

 

17

 

Piccola forza omai al tuo furore

finire ha luogo, ch'io e Palemone,

né altro più, del sangue d'Agenore

rimasi siamo; e elli è in prigione,

e io in tristo esilio; né piggiore

stato potresti donarci, o Iunone,

fuor se ci uccidi; e questo per conforto

disidera ciascun, d'esser già morto".

 

 

Come Penteo, partitosi di Boezia, andò a Corinto, e quindi in Mecena

 

18

 

E detto ciò, con ira sospirando,

da quella torse il viso disdegnoso,

co' suo' scudieri inver Corinto andando;

nella qual giunto, assai piccol riposo

fece, ma ver Mecena cavalcando,

in essa quasi fuor di sé pensoso

pervenne, e quivi così sconosciuto

a servir Menelao fu ricevuto.

 

19

 

Egli era ancora molto giovinetto,

sì come il barba non aver mostrava;

bello era assai e di gentile aspetto,

e a gran pena quel ch'era celava;

ben l'avea fatto alquanto palidetto

l'amorosa fatica che portava,

ma non sì ch'elli molto non piacesse

a chiunque era que' che lui vedesse.

 

20

 

Egli era già vicin d'uno anno stato

con Menelao in gran doglia e tormento,

né mai, ben che n'avesse domandato

celatamente, del suo intendimento

niuna cosa n'aveva spiato;

per che ad Egina li venne in talento

d'andar, là dove reggeva Pelleo,

e, concedendol Menelao, il feo.

 

21

 

Quivi sperava di potere udire

d'Emilia novelle tal fiata;

questa sola cagion vel fece gire.

Elli avea già la forma sì mutata,

né di sé cosa alcuna sentia dire,

sì ch'a fidanza con la sua brigata

prese 'l cammino e gissene ad Egina,

là dove giunse la terza mattina.

 

 

Come Penteo in guisa di povero valletto si pose a stare con Pelleo

 

22

 

Quivi in maniera di pover valletto,

non delli suoi maggior ma compagnone,

al servigio del re sanza sospetto

fu ricevuto e messo in commessione

e ubidendo a ciò che gli era detto,

si fece a modo che un vil garzone,

acciò che e' potesse lì durare,

fin che fortuna li volesse atare.

 

23

 

Quivi con seco sovente piangeva

la sua fortuna e la sua trista vita,

e spesse volte con sospir diceva:

"Ahi, doglioso più ch'altro e tristo Arcita!

Se' fatto fante, laddove soleva

esser tua casa di fanti guarnita;

così fortuna insieme e povertate

t'ha concio, e il voler tua libertate.

 

24

 

Per libero esser, più servo che mai

se' divenuto, misero dolente!

Ahi, real sangue, che vitupero hai

sed e' mi conoscesse questa gente!

Certo per mio peccar nol meritai,

ma di Creon la dispietata mente

di questo, lasso!, m' è cagione stato,

e ancor dello stare imprigionato".

 

25

 

Così senza nell'animo riposo

aver giammai, in doglia sempre stava;

e l'esser già istato glorioso

vie più che gli altri danni il tormentava;

e vorria inanzi sempre bisognoso

essere stato e in vita trista e prava,

ch'avere avuto tal fiata bene

e ora sostener noiose pene.

 

26

 

E ben che di più cose e' fosse afflitto

e che di viver gli giovasse poco,

sopra ogn'altra cosa era trafitto

d'amor nel core, e non trovava loco;

e giorno e notte sanza alcun respitto

sospir gittava caldi come foco,

e lagrimando sovente doleasi,

e ben nel viso il suo dolor pareasi.

 

27

 

Egli era tutto quanto divenuto

sì magro, che assai agevolmente

ciascun suo osso si saria veduto;

né credo ch'Erisitone altramente

fosse nel viso che esso paruto

nel tempo della sua fame dolente;

e non pur solamente palido era,

ma la sua pelle parea quasi nera.

 

28

 

E nella testa appena si vedeano

gli occhi dolenti; e le guance, lanute

di folto pelo e nuovo, non pareano;

e le sue ciglia pelose e acute

a riguardare orribile il faceano

le come tutte rigide e irsute;

e sì era del tutto tramutato,

che nullo non l'avria raffigurato.

 

29

 

La voce similmente era fuggita

e ancora la forza corporale;

per che a tutti una cosa reddita

qua su di sopra dal chiostro infernale

parea, più tosto ch'altra stata in vita;

né la cagion onde venia tal male

giammai da lui nessun saputa avea,

ma una per un'altra ne dicea.

 

30

 

Come d'Attene lì nessun venia,

onestamente e con savio parlare

di molte cose domandandol pria,

d'Emilia trascorrea nel ragionare,

addomandando s'ella fosse o fia

nelli tempi vicin per maritare,

e d'altre cose circustanti molte;

ben che ciò gli avenisse rade volte.

 

 

Come e perché Penteo si dispose di tornare ad Attene

 

31

 

Ma i dolenti fati, i qua' tirando

gian d'una in altra miseria costui,

vegnendosi il suo fine appropinquando,

con poca festa rallegraron lui,

diversamente l'opere menando

quando per esso e quando per altrui;

fin ch'al veduto termine pervenne,

dove si ruppe il fil che 'n vita il tenne.

 

32

 

Per avventura un dì, come era usato,

Penteo soletto alla marina gio,

e 'nverso Attene col viso voltato

mirava fisamente e con disio;

e quasi il vento ch'indi era spirato

più ch'altro li pareva mite e pio,

e ricevendol dicea seco stesso:

"Questo fu ad Emilia molto appresso".

 

33

 

E mentre che 'n tal guisa dimorava,

una barchetta dentro al porto entrare

vide; laonde ad essa s'appressava,

e cominciò di loro a domandare

donde venisse; e un che 'n essa stava

disse: – D'Attene, e là crediam tornare

assai di corto; s'tu vorrai venire,

qui su potrai con esso noi salire. –

 

34

 

A cotal voce sospirò Penteo;

poi, tratto quel da parte, pianamente

il domandò che era di Teseo,

e di più cose diligentemente,

a le qua' tutte que' li sodisfeo;

ma poi della reina ultimamente

e della bella Emilia domandando,

così que' li rispose al suo domando.

 

35

 

– Qualunque dea nel cielo è più bella,

nel cospetto di lei parrebbe oscura;

ell'è più chiara che alcuna stella,

né dicesi che mai bella figura

fosse veduta tanto come quella;

ver è che per la sua disaventura

l'altrier morì Acate, a cui sposa

esser doveva quella fresca rosa. –

 

36

 

E altre cose molte più li disse,

le qua' misor Penteo in gran pensiero;

e 'l tramortito amor quasi rivisse,

e il disio più focoso e più fiero

parve subitamente divenisse;

né ciò li parve a sostener leggiero,

e in sé conobbe che 'n tal disiare

non potrebbe or, come già fé, durare.

 

37

 

E' si sentiva sì venuto meno,

ch'appena si poteva sostenere;

onde, se a quelle pene che 'l coceno

nol medicasse l'Emilia vedere,

assai in brieve lui ucciderieno;

per che diliberò pur di volere

in ogni modo tornare ad Attene

ad alleggiare o a finir sue pene

 

38

 

fra sé dicendo: "Io son sì trasmutato

da quel ch'esser solea, che conosciuto

io non sarò, e vivrò consolato,

me ristorando del mal c'ho avuto,

vedendo il bello aspetto ove fu nato

il disio che mi tene e ha tenuto;

e s'al servigio di Teseo potessi

esser, non so che poi più mi chiedessi.

 

39

 

Se forse è sì crudel la mia ventura

ch'io sia riconosciuto, e' m'è il morire

vie più grazioso che vita sì dura,

come io fo in sempre mai languire".

Poi in su tal proposta s'asicura

e si dispon del tutto a ciò seguire;

e mille anni gli par che a ciò sia,

tanto vedere Emilia disia.

 

 

Come Penteo tornò in Attene

 

40

 

E' non tardò di metter ad effetto

cotal pensiero, anzi commiato prese,

e 'nver di quella navicò soletto;

e 'n pochi giorni lì giunto discese

in maniera di povero valletto,

e in Attene con tema si mise;

e acciò ch'elli Emilia vedesse,

stette più dì, né fu chi 'l conoscesse.

 

41

 

Quando s'avide ben ch'era del tutto

fuor delle menti di tutte persone,

e che l'angoscia e 'l doloroso lutto

ora li torna in consolazione,

disse fra sé: "Ancor sentirò frutto

della mia lunga tribulazione;

e la fortuna, a me stata nemica,

sotto altro aspetto mi fia forse amica".

 

 

Come Penteo andò nel tempio d'Apollo ad adorare

 

42

 

Quinci agli eccelsi templi se ne gio

del grande Appollo, e 'nnanzi alle sue are

s'inginocchiò, e con sembiante pio

volendo quivi li suoi prieghi dare,

subito pianto molto lo 'mpedio,

venutoli da nuovo memorare

quel che già fu e quel che egli ora era

poi cominciò in sì fatta maniera:

 

43

 

– O luminoso Iddio che tutto vedi,

il cielo e 'l mondo e l'acque parimente,

e con luce continua procedi

tal che tenebra non t'è resistente,

e sì tra noi col tuo girar provedi

ched e' ci vive e nasce ogni semente,

volgi ver me il tuo occhio pietoso

e questa volta mi sie grazioso.

 

44

 

A me non legne, non fuoco, né incenso,

non degno armento a la tua deitate,

non lauree corone, e or pur censo

mi fosse a sodisfar necessitate;

e quinci vien che con giusto compenso

non son da me le tue are onorate,

e tu il ti vedi, ché di ciò ingannare

non ti potrei, perch'i' 'l volessi fare.

 

45

 

Di lagrime, d'affanni e di sospiri,

d'ogni infortunio e povertate intera

son io fornito, e ancor di disiri

d'amor, vie più che bisogno non m'era;

di questi a te che l'universo giri

fo sacrificii con nuova maniera;

prendili per accetti, io te ne priego,

e al mio domandar non metter niego.

 

46

 

Sì come te alcuna volta Amore

costrinse il chiaro cielo abandonare

e lungo Anfrisio, in forma di pastore,

del grande Ameto a gli armenti guardare,

così or me il possente signore

qui in Attene ha fatto ritornare,

contra 'l mandato che mi fé Teseo,

allor ch'a Peritoo mi rendeo.

 

47

 

E ben ch'angoscia transformato m'abbia,

e 'l nuovo nome, di ciò ch'io solea

altra volta esser, la smarrita labbia

priego mi servi o nuova in me la crea,

sotto la qual coverta la mia rabbia,

vedendo Emilia, contento mi stea,

e a servir Teseo sia ricevuto,

sanza mai esser lì riconosciuto.

 

48

 

Se ciò mi fai, e io sia rivestito

giammai del mio, sì come tu se' degno

t'onorerò. – E fu esaudito

d'ogni suo priego, e cognobbene segno;

per che dal tempio tosto dipartito,

a fornir sua intenzion lo 'ngegno

pose, e pensò come fatto venisse

ch'esser potesse che Teseo servisse.

 

 

Come Penteo fu ricevuto al servigio di Teseo, e come elli prima rivide Emilia, da lei solamente riconosciuto

 

49

 

Com'elli avea con seco immaginato,

così lo immaginar seguì l'effetto;

e s'elli avesse a lingua dimandato

non gli saria sì ben venuto detto,

però che fu con Teseo allogato,

né fu dell'esser suo preso sospetto,

né domandato fu chi fosse o donde:

così gli andaron le cose seconde!

 

50

 

E' non fu prima a tal partito giunto,

che 'l suo aspetto un pochetto più chiaro

si fé che pria parea così compunto,

e dipartissi il suo dolore amaro

il qual l'avea col lagrimar consunto,

e le sue membra forze ripigliaro;

ma tutte altre allegrezze furon nulla

a petto a quando vide la fanciulla.

 

51

 

Teseo, faccendo una mirabil festa,

tra l'altre donne Emilia fé venire,

la qual più ch'altra leggiadra e onesta,

piacevol, bella e molto da gradire,

ornata assai in una verde vesta,

tal che di sé ciascuno uom facea dire

lode maravigliose, e tal dicea

che veramente ell'era Citerea.

 

52

 

Ma oltre a tutti gli altri con disio

la rimirava più lieto Penteo,

dicendo seco: – O Giove, sommo iddio,

se e' mi fa omai morir Teseo,

alli tuoi regni me ne verrò io;

omai non mi può nuocer tempo reo,

e di buon cuor perdono alla fortuna

se mai di mal mi fece cosa alcuna,

 

53

 

poi ch'ella m'ha condotto a cotal porto,

ch'io veggio il chiaro viso di colei

ch'è sommo mio diletto e mio conforto.

Fuggan da me e sospiri e gli omei,

fugga 'l disio ch'aveva d'esser morto,

siemi ben sommo il rimirar costei;

questo mi basti. – E sì dicendo, fiso

sempre mirava l'angelico viso.

 

54

 

Maggior letizia non credo sentisse

allor Tereo quando li fu concesso

per Pandion che Filomena en gisse

alla sua suora in Trazia con esso,

che or Penteo; ma come ch'avenisse,

essendogli ella non molto di cesso,

inver di lui alquanto gli occhi alzati,

ebbe li suoi di botto affigurati.

 

55

 

Mirabil cosa a dir quella d'amore,

che rade volte è che la cosa amata,

quantunque ella abbia male abile core

d'esser per tale obietto innamorata,

pur nella mente porta l'amadore;

e quantunque ella si mostri adirata,

non le dispiace, e se non ama altrui,

poco o assai conven ch'ami colui.

 

56

 

Era, com'è già detto, giovinetta

Emilia tanto, ch'ella non sentia

quanto nel core amor punge o diletta,

allor ch'Arcita pria se n'andò via

le' rimirando, come su si detta;

il quale, ancor che la fortuna ria

così deforme l'avesse renduto,

da essa sola fu riconosciuto.

 

57

 

Ella nol vide prima che ridendo

con seco disse: "Questi è quello Arcita

il quale io vidi dipartir piangendo.

Ahi, misera dolente la sua vita!

Che fa e' qui? Or che va e' caendo?

Non conosc'el che se fosse sentita

la sua venuta da Teseo, morire

gli converrebbe o in prigion reddire?".

 

58

 

Vero è che tanto fu discreta e saggia,

che più di ciò non parlò ad alcuno,

e a lui fa sembianti che non l'aggia

giammai veduto più in loco nessuno;

ma ben si maraviglia quale scaggia

di bianco l'abbia così fatto bruno

e dimagrato, che par pur la fame

nel suo aspetto e pien di tutte brame.

 

59

 

Incominciò il nobile Penteo,

ammaestrato da fervente amore,

sì a servir sollecito a Teseo

e ad ogni altro per lo suo valore,

ch'elli in tutto suo segreto il feo,

amando lui più ch'altro servidore;

e 'l simile l'amava la reina

di buono amor, e ancor la fantina.

 

60

 

E ben che la fortuna l'aiutasse

e fosse a lui benigna ritornata,

mai dal diritto senno lui non trasse,

né 'l fece folleggiare una fiata;

e posto che ferventemente amasse,

sempre teneva sua voglia celata,

tanto ch'alcun non se ne accorse mai,

ben che facesse per amore assai.

 

61

 

Come io dico, saviamente amava,

né si lasciava a voglia trasportare,

e a luogo e a tempo rimirava

Emilia bella, e ben lo sapea fare;

e ella savia talor se ne addava,

mostrando non saper che fosse amare;

ma pur l'età già era innanzi tanto,

che ella conoscea di ciò alquanto.

 

62

 

Esso cantava e faceva gran festa;

faceva pruove e vestia riccamente,

e di ghirlande la sua bionda testa

ornava e facea bella assai sovente;

e 'n fatti d'arme facea manifesta

la sua virtù, che assai era possente;

ma duol sentiva, in quanto esso credea

Emilia non sentir per cui il facea.

 

63

 

Né e' non gliele ardiva a discovrire,

e isperava e non sapea in che cosa,

donde sentiva sovente martire;

ma per celar ben sua voglia amorosa,

e per lasciar li sospir fuori uscire

che facean troppo l'anima angosciosa,

avea in usanza tal volta soletto

d'andarsene a dormire in un boschetto.

 

64

 

E questo aveva in costuma di fare

nel tempo caldo, ch'era fresco il loco,

e era sì rimoto da l'andare

di ciaschedun, che ben poteva il foco

d'amor con voci fuor lasciare andare

e a sua posta lungamente e poco;

e non era lontano alla cittate

oltre tre miglia giuste misurate.

 

65

 

Egli era bello, e d'alberi novelli

tutto fronzuto e di nova verdura;

e era lieto di canti d'uccelli,

di chiare fonti fresche a dismisura,

che sopra l'erbe facevan ruscelli

freddi e nemici d'ogni gran calura;

conigli, lepri, cervi e cavriuoli

vi si prendean con cani e con lacciuoli.

 

66

 

Come io dico, in quello assai sovente,

quando con arme e quando senza, gire

Penteo usava, e 'n su l'erba ricente

sotto un bel pin si poneva a dormire,

a ciò invitato da l'acqua corrente

che mormorava; ma del suo disire

focoso, in prima che s'adormentasse,

con Amor convenia si lamentasse.

 

67

 

E cominciava così a parlare:

– Io non pensava, Amor, che tu potessi

tanto in un cuor d'uno uomo adoperare,

ch'al piacer d'una donna sì 'l traessi,

ch'ogni altra cosa il facessi obliare,

e in potenzia di lei tutto il ponessi,

come hai posto tutto quanto il mio,

che altro che servirla non disio.

 

68

 

Ma tu m'hai fatto in alcun caso torto,

però ch'io amo e non son punto amato,

ond'io non spero mai d'aver conforto;

e haimi sì tutto l'ardir levato,

che dir non l'oso, e tu te ne se' accorto,

perché troppo m'hai posto in alto lato

a quel ch'a mia fortuna si convene,

ché non son ricco d'altro che di pene.

 

69

 

Deh, quanto mi saria stata più cara

la morte ch'aspettar la tua saetta!

Oh, quanto dicer può che l'abbia amara

qualunque è que' che dolente l'aspetta,

però che in essa poco ben ripara

a rispetto del mal che ella getta!

E però s'io mi dolgo, io ho ragione,

vedendo me legato in tua prigione.

 

70

 

Ma tu se' tanto e tal, caro signore,

ch'ogni mia doglia puoi volvere in pace,

faccendo ch'ella mi senta nel core

quale essa dentro al mio sentir si face;

e io, sì come umil servidore,

ti priego il facci, Amor, se e' ti piace.

Deh, chi sarà di me poi più contento,

se per me pruova quel ch'io per lei sento?

 

71

 

Io viverò tutto tempo gioioso,

né biasmerò giammai tua signoria;

io ti farò sacrificio pietoso,

signor mio caro, della vita mia,

e sempre il tuo onore in grazioso

verso da me lieto cantato fia:

adunque fallo, se di me ti cale,

ch'io mi consumo per soverchio male. –

 

72

 

Questo ripete spesso con sospiri,

chiamando Emilia, e nel dir si contenta,

e quasi in mezzo delli suoi martiri

istanco tutto quivi s'adormenta;

e mentre il ciel co' suoi etterni giri

l'aere tien di vera luce spenta,

si stava, e sempre si svegliava allora

che da Titon partita ven l'Aurora.

 

73

 

Allor, sentendo cantar Filomena

che si fa lieta del morto Tereo,

si drizza, e 'l polo con vista serena

mirato un pezzo, lauda Penteo

la man di Giove d'ogni grazia piena,

che lavoro sì bello e grande feo;

poi ad Emilia il suo pensier voltava,

vedendo Citerea che si levava

 

74

 

mostrando innanzi al sol la sua chiarezza,

alla qual gli occhi d'Emilia lucenti

assomigliava e la mira bellezza;

e gli augelletti, del giorno contenti,

davan, cantando in su' rami, dolcezza,

per che a Penteo i pensier più cocenti

si facevano ognora, e più a quelli

dava gli orecchi, sì gli parean belli.

 

75

 

E quando aveva gran pezza ascoltato,

mirava inver lo cielo e sì dicea:

– O chiaro Febo, per cui luminato

è tutto il mondo, e tu piacente dea

del cui valor m'ha tuo figliuol piagato

vie troppo più che io non mi credea,

mettete in me sì del vostro valore,

che io non pera per soverchio amore.

 

76

 

Deh, date al mio amar fine piacente,

sì ch'io non moia per fedelmente amare;

per glovanezza Emilia non sente

che cosa sia ancora innamorare,

né come piace conosce niente,

se ad Amor non gliel fate mostrare;

e io non l'oso più fare assentire,

tanta è la mia paura del morire.

 

77

 

E così vivo in speranza dubbiosa,

e 'l mio adoperare è sanza frutto;

per ch'io ti priego, o Venere amorosa,

entrale in core omai, e me che tutto

son sanza fallo suo, fa che pietosa

senta, sì che si termini il mio lutto;

e tu, Febo, la fa tanto discreta,

che la mia voglia in sé ritenga cheta. –

 

78

 

E queste e altre più parole ancora

metteva in nota lo giovine amante;

ma poi che e' vedeva chiara l'ora

e le stelle partite tutte quante,

sanza far quivi più lunga dimora,

se ne veniva ad Attene festante,

e alla cambra del signor n'andava

per lui servir, se nulla bisognava.

 

 

Come Penteo, nel boschetto ramaricandosi, fu conosciuto da Panfilo

 

79

 

Questa maniera teneva Penteo

molto sovente, fuor d'ogni paura,

e a grado servendo il gran Teseo,

di suo amore ognora avea più cura;

ma poco n'avanzava, e di ciò reo

li parea molto, onde di sua sventura

una mattina con greve parlare

così si cominciò a ramarcare:

 

80

 

– O misera Fortuna de' viventi,

quanti dai moti spessi alle tue cose!

Deh, come abbassi li sangui e le genti,

e quando vuoli ancora graziose

le vilissime fai, e non consenti

di legge avere in esse mervigliose,

sì come uom vede in me che son verace

esemplo del girar che fai fallace.

 

81

 

Di real sangue, lasso!, generato,

venni nel mondo d'ogni pena ostello,

e con gran cura in ricchezza allevato,

nella città di Bacco tapinello

vissi e con gioia tenni grande stato,

sanza pensare al tuo operar fello;

poi per l'altrui peccato, non per mio,

la gioia e 'l regno e 'l sangue mio perio.

 

82

 

E fui del campo per morto,doglioso

feruto, tolto e recato a Teseo,

il qual, sì come signor poderoso,

come li piacque, imprigionar mi feo;

quivi, per farmi peggio, l'amoroso

dardo m'entrò nel cor, focoso e reo,

per la bellezza d'Emilia piacente,

che mai di me non si curò niente.

 

83

 

E cominciai di novo a sospirare

per tal cagione, e a sostener pene;

né mi pareva assai avere a fare

di sostener di Teseo le catene,

delle qua' Peritoo mi fé cacciare;

onde convenne partirmi d'Attene,

credendo aver mio affar migliorato,

e di gran lunga il trovai piggiorato;

 

84

 

ch'io mi trovai povero e pellegrino

del regno mio cacciato, e per amore

gir sospirando a guisa di tapino;

e là dove altra volta fui signore,

servo divenni per lo gran dichino

della fortuna; e non potendo il core

più sofferir, da Pelleo fei partita,

Penteo essendo tornato d'Arcita.

 

85

 

E sì d'Emilia strinse la bellezza,

che di Teseo cacciai via la paura,

e qui mi misi per la mia mattezza

a ritornare con mente sicura,

essendo suo nemico; alla sua altezza

divenni servidor con somma cura,

sì ch'io Emilia vedessi sovente,

colei ch'è donna mia veracemente.

 

86

 

E essa, omè, del mio greve tormento

nulla si cura né pensa este cose,

sì che io servo vie peggio ch'al vento,

e stonne sempre in pene dolorose;

e or m'avesser sol fatto contento

d'un bel guardarmi le luci amorose!

Ma tu, crudel Fortuna, mi ci nuoci,

ch'ognor con nuovo foco più mi coci.

 

87

 

Di tanto sol seconda mi se' stata,

che 'l nome mio hai ben tenuto cheto;

e ha' mi ancor tanta grazia donata,

che al servir m'hai fatto mansueto;

e di Teseo la grazia m'hai prestata,

di che io son vivuto molto lieto;

ma tutto è nulla, s'Emilia non fai

che com'io l'amo conosca oramai.

 

88

 

Io ardo e 'ncendo per lei tutto quanto,

e dì né notte non posso aver posa,

ma mi consumo e in sospiri e 'n pianto;

né mi pò confortare alcuna cosa,

se non Emilia cui io amo tanto,

mostrandomi la sua faccia amorosa,

dalla qual, morto, lei mirando vita

riprendo, tanta speranza m'aita. –

 

89

 

Così di sopra da l'erbe e da' fiori

Penteo la sua fortuna biasimava

un bel mattin, nel venir degli albori.

Allor per avventura indi passava

Panfilo, ch'era l'un de' servidori

di Palemone, e intento ascoltava

dello scudiere il gran ramarichio

di sua fortuna e ancor del disio.

 

90

 

E fra se stesso si fu ricordato

chi fosse Arcita, e udì che Penteo

nel suo ramaricar s'era chiamato,

per che tantosto lo riconosceo,

e molto seco s'è maravigliato

com'elli avea la grazia di Teseo:

non disse nulla, ma ver la prigione

se ne tornò per dirlo a Palemone.

 

91

 

Ma il giovine Penteo, di ciò ignorante,

come ora fu in Attene sen venne,

e con allegro viso e con festante

al loco ove era il suo signor pervenne;

col qual di molte cose ragionante,

sì com'elli era usato, si ritenne;

poi, partito da lui, gì a sapere

s'un poco Emilia potesse vedere.

 

Qui finisce il libro quarto del Teseida

 

 

 

LIBRO QUINTO

 

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro quinto

 

Marte, che troppo s'era riposato,

entrato in Palemon novo sospetto

il suo compagno udendo ritornato,

dimostra il quinto a lui entrar nel petto;                                     4

 

quindi dichiara lo 'ngegno trovato

a sprigionarlo dal savio valletto,

poi dal medico suo il mostra armato,

e lui orante conduce al boschetto.                                            8

 

Poscia le lor carezze, e 'l quistionare

d'ognun volere Emilia, e 'l fiero Marte

può chiaro assai chi più legge trovare;                                      11

 

quindi venendo Emilia d'una parte,

vedendo lor, Teseo fece chiamare,

il qual con patto lor, già noti, sparte.                                        14

 

 

Incomincia il libro quinto del Teseida. E prima come Palemone, pensoso rimaso in prigione, seppe che Arcita era tornato

 

1

 

Rimase Palemon, partito Arcita,

com'è già detto di sopra, in prigione,

e poco cara aveva la sua vita,

tanta sentiva più sconsolazione

che altro, e simil per la dipartita

la qual già fatta avea il suo compagnone;

e 'l tempo suo in lagrime e sospiri

tutto spendeva, pien d'aspri martiri.

 

2

 

In parte paurosa gelosia

lo stimola che Arcita, dell'amore

d'Emilia forse rinvestito, sia

per suo sollecitar di prigion fore;

e quinci pensa ch'Arcita si fia

dileguato del mondo per temore

dell'aspra morte che Teseo dicea

di darli se lì giunger lo potea.

 

3

 

Poi d'altra parte lo stringeva assai

amor più che l'usato, e disiare

li facea ciò ch'a lui non parea mai

possibil di potere appressimare;

speranza d'altra parte li suoi guai

faceva alquanto più lievi passare;

così di cose varie si gravava

dentro al pensiero, e simil s'alleggiava.

 

4

 

E pur portava nel core speranza

che di prigion quando che sie uscirebbe,

della qual fuor, l'amor della sua amanza

sanz'alcun fallo crede acquisterebbe;

e quasi li parea sanza fallanza

ch'ancor per sua nel mondo la terrebbe;

e 'n cotal guisa sua vita menando,

viveva in doglia e 'n gioia talora stando.

 

5

 

Al qual Panfil, tornando del boschetto,

venne in prigione e d'una parte il trasse;

e ragionando con esso soletto,

molto il pregò che non si sconfortasse,

e poi li disse senza alcun difetto

come conobbe Arcita, e ciò che trasse

del suo parlare, e ch'e' servia Teseo

e faceasi per nome dir Penteo.

 

6

 

Maravigliossi Palemone assai,

e disse: – Panfil, guarda non errassi;

ché io non credo che Arcita mai

né tu né altri per qua lo scontrassi. –

Rispose Panfil: – Certo sì scontrai,

e ancora è nel boschetto e istassi,

e ben che sia molto transfigurato,

e' pure è desso, tanto l'ho mirato. –

 

7

 

Palemon disse allora: – Grande amore

e poco senno cel fa dimorare,

ché se venisse ad orecchie al signore,

tututto il mondo nol poria campare.

O sommo Giove, quanto l'amadore

al suo disio sé lascia tirare,

e quanti ingegni s'usan per venire

all'amoroso fin di tal disire! –

 

8

 

Poi disse a Panfil: – Guarda che non sia

sentito da nessun ciò che m'hai detto,

ché posto ch'elli a me per gelosia

sanza colpa di lui mi sia sospetto

per uscir di prigione, in fede mia

non vorre' io ch'egli avesse difetto;

se gl'iddii l'aman più che me non fanno,

abbiasi il pro' e mio si sia il danno. –

 

 

Come a Palemone venne del tutto in disio d'uscire di prigione, e il perché; e come Panfilo trovò il modo

 

9

 

Poi cominciò a pensar fortemente

sopra l'affar d'Arcita innamorato,

e crede che d'Emilia veramente

il lieto amore egli abbia guadagnato,

e poscia dice: "O me lasso dolente,

in che mal punto nel mondo fui nato!

Ch'io amo e sto in priglone, e altri face

quel ch'io faccendo poria sentir pace.

 

10

 

E or mi fosse un poco di speranza

rimasa, o mi venisse, dell'uscire

di questo loco! Io mi crederei, sanza

la doglia che io ho, gioia sentire,

e ancora la mia somma intendanza

sanz'alcun fallo crederei fornire;

ma sì m'è gran nemica la fortuna,

ch'io n'uscirò quando starà la luna!

 

11

 

E s'io di quinci uscissi per ventura,

da Arcita converria che io sapesse,

su buon cavallo e con forte armadura,

quel che tra lui e me esser dovesse

dell'amor della nobil creatura

che mi fa sentir pene così spesse;

e fermamente ella mi rimarrebbe,

o sopra il campo l'un di noi morrebbe.

 

12

 

Ma come avrei io ardir contro a lui,

che per uscirci giammai non tentai?

E el non cura lo star con colui

ch'è suo nemico per vederla, e mai

non ha posato di servire altrui

per servir lei; e io in trarre guai

ho speso il tempo, ov'io dovea più tosto

morir voler che sempre star nascosto".

 

13

 

E sì come Tesifone, chiamata

dal cieco Edippo nella oscura parte

dov'elli lunga notte avea menata,

a' due fratei del regno con su' arte

mise l'arsura, così a lui 'ntrata

con quel velen che 'l suo valor comparte,

d'Emilia aver, dicendo: – Signoria

né amore stan ben con compagnia. –

 

14

 

E subito così cambiò il pensiero,

e chiamò Panfil di cui si fidava,

e disse: – Amico, ora sappi per vero

che troppo qui l'adimorar mi grava,

e però fa che il mio dire intero

vegna, se puoi, sicch'io di questa prava

prigion mi parta e possa conquistare

per arme Emilia, se e' si può fare.

 

15

 

Questo pensier di novo m'è venuto

e sanza fallo il metterò ad effetto;

e se e' fia per ventura saputo

prima che sia con l'opera perfetto,

da me si dica che sia proceduto

ciò che farai, ché e' mi fia diletto

morire anzi che stare in tal tormento,

perciò ch'io fo il dì ben morti cento. –

 

16

 

Panfil rispose: – Caro signor mio,

morir per voi a me sarebbe vita,

e però penserò sì ch'al disio

di voi darò bene opera compita,

avvegnane che puote omai; ché s'io

ne dovessi morir, darovvi uscita

di questo loco; onde vi confortate

e di cuor lieto alquanto v'aspettate.

 

17

 

Elli uscì fori e gio in loco solo,

e 'nfra se stesso cominciò a pensare;

e pria li venne nel pensiero il volo

che Dedal fé con Icar per campare,

ma nol vide possibil; poi d'imbolo

s'immaginò lui di prigion cavare,

ma non li parve via ben ben sicura;

però non se ne mise in avventura.

 

18

 

Similemente pensò per denari

voler corromper le guardie vegghianti,

sentendo loro in generale avari;

ma mal pareali a fidarsi di tanti

quanti di nuovo lì venien vicari

sanza lunga dimora essere stanti;

e 'n brieve non vedea di poter fare

ciò che 'ntendea con le guardie trattare.

 

19

 

Ma pur li venne un modo in pensamento

che infra gli altri li parve migliore,

e dopo molto disaminamento

il si fermò con ordine nel core,

pensando che il suo intendimento

saria fornito e quel del suo signore;

al qual n'andò, là dov'era in prigione,

e così cominciò: – O Palemone,

 

20

 

e' non ha guar che qui venne Alimeto,

di medicina maestro sovrano,

uom d'alto senno e di vita quieto;

e so che esso fu nostro tebano,

e puolli l'uom ben dire ogni segreto

e da lui prender buon consiglio e sano:

questi ci fornirà il nostro fatto,

per mio avviso, e udite in che atto:

 

21

 

che voi v'infignerete esser malato

in sul mutar che le guardie si fanno,

e io avraggio ben lui informato

e avvisato dello nostro inganno,

e 'ncontanente a voi l'avrò menato,

perché e' curi voi del vostro affanno;

e' vestirà li miei panni, ma voi,

sì come mastro, vi vestite i suoi.

 

22

 

E sanza fare alcun dimostramento,

con lui fuor ve n'uscite baldanzoso,

e me lasciate qui sanza pavento

in vostro luogo, e dite ch'io riposo;

essi non fien di tanto avvedimento

che vi conoscan, se voi uscite oso;

poi se Arcita volete, soletto

voi il troverete nel lieto boschetto. –

 

23

 

– Tu hai ben detto – disse Palemone;

– però metti ad effetto queste cose. –

E malato si fece alla stagione

che Panfilo con lui insieme pose;

e Panfil, sanza far dimoragione,

ad Alimeto il loro affar dispose.

Egli era a Palemon fedele amico;

disse: – Io son presto, e farol com'io dico. –

 

 

Come Panfilo, inebriate le guardie, fece Palemone uscire di prigione

 

24

 

Panfilo allor si cominciò a dolere

con que' ch'avean Palemon a guardare,

che 'l suo signore è infermo, e a sedere

con lor si puose, e fé vino arrecare

a gran dovizia, e cominciò a bere;

e però che non l'aveano a pagare,

sanza ordine nessun n'hanno cioncato,

tanto ch'ognun s'è bene inebriato.

 

25

 

Allora Panfil fé il mastro venire,

il qual vi venne molto lietamente,

e tosto de' suo' panni il fé vestire,

e Palemone ancor similemente

di que' del mastro fece rifornire;

e sanza più addimorar niente,

Palemon, fatto medico, assai lieto

fuor di prigione uscì con Alimeto.

 

26

 

Le guardie allora incontro li si fanno,

e del prigion domandan come stava,

e e' con fermo viso dello inganno

che Panfil fatto aveva, ben s'adava,

e disse: – Certo egli ha assai affanno,

ma al presente alquanto si posava;

però il lasciate questa notte stare,

domattina il verrò a ricercare. –

 

 

Come Palemone, uscito di prigione, andò armato al boschetto

 

27

 

Lasciato adunque il suo buon servidore

Palemone in prigion, col suo maestro

se n'andò all'ostiere, e di bon core,

dimenticato già il tempo sinestro,

dormì alquanto, e già vegnenti l'ore

vicine al giorno su si levò destro;

e fattesi armi e buon caval ancora

prestar, quivi s'armò sanza dimora.

 

28

 

Alimeto sapeva il convenente,

sì come Palemon gli avea contato;

per ch'elli il lasciò fare, e prestamente

ben l'aiutò, però che n'era usato.

E quelli uscì d'Attene di presente,

e inverso il boschetto s'è avviato,

là dove Arcita allora si dormia

sicuro sì come faceva in pria.

 

29

 

Cheto era il tempo, e la notte le stelle

tutte mostrava ancora per lo cielo,

e 'l gran Chiron Aschiro avea, con quelle

che vanno seco, il pianeto che 'l gielo

conforta, il quale le sue corna belle

coperte aveva con lucente velo,

e quasi piena, ove Cenìt facea

il ciel, nel mezzo cerchio, rilucea.

 

30

 

Inver la qual, poi l'ebbe rimirata

alquanto, Palemon cominciò a dire:

– O di Latona prole inargentata,

che or meni i passi miei sanza fallire

con la tua luce meco accompagnata,

piacciati alquanto li miei prieghi udire;

e come in questo se' ver me pietosa,

così nell'altro mi sii graziosa.

 

31

 

Io vado tratto da quella fortezza

d'amor che trasse Pluto a innamorarsi

sopra Tifeo della tua gran bellezza,

allor che tu ne' prati con iscarsi

passi ten givi en la tua giovanezza

cogliendo i fiori per li campi sparsi.

Acciò che per battaglia io possa avere

l'amor di quella sol che m'è in calere,

 

32

 

guida li passi miei, come facesti

più volte in mar di Leandro i lacerti;

e sì col padre tuo fa che mi presti

quella virtù che fa gli uomini esperti;

e come tu del tuo lume mi vesti,

così da' colpi i membri fa coperti

che mi darà l'avversario potente,

sì ch'io di lui ne rimanga vincente. –

 

 

Come Palemone pervenne al bosco, ove trovò Arcita dormire

 

33

 

E mentre che così dicendo andava,

giunse nel bosco per gli albori ombroso,

e con intento sguardo in quel cercava

acciò ch'Arcita trovasse amoroso;

e mentre in dubbio fortuna il portava,

s'avenne sopra il prato ove riposo

prendeva Arcita, ch'ancora dormiva

e Palemon vegnente non sentiva.

 

34

 

E poi che fu di sopra la rivera

sotto il bel pino infra le fresche erbette

che lì avea produtte primavera,

vide dormire Arcita; onde ristette,

e appressato quivi dov'egli era,

il rimirava, e a ciò molto stette;

e sì nel viso li parea mutato,

che non l'avrebbe mai raffigurato.

 

35

 

Ma Febea, che chiara ancor lucea,

co' raggi suoi il viso li scopria,

sicché aperto Palemon vedea

perché il risomigliarlo li fuggia;

ma poi ch'alquanto mirato l'avea,

in sé la sua effigie risentia,

per che disse fra sé: "Desso è per certo,

né 'l può celar la barba ond'è coverto".

 

36

 

E' nol voleva miga risvegliare,

tanto pareva a lui che e' dormisse

soavemente; ma si pose a stare

allato a lui, e così fra sé disse:

"O bello amico molto da lodare,

se al presente tu ti risentisse,

tosto fra noi credo si finirebbe

qual di noi due per donna Emilia avrebbe".

 

 

Come, risvegliato, Penteo si fece carezze con Palemone, e il loro ragionare

 

37

 

E 'n questo il giorno a fare era già presso,

e a cantar gli uccelli han cominciato,

per che Penteo, risentendosi addesso,

in piè si fu prestamente levato.

Ver Palemon, che veniva verso esso,

con maraviglia tosto s'è voltato,

e disse: – Cavalier, che vai cercando

per questo bosco, sì armato andando? –

 

38

 

A cui tosto rispose Palemone:

– Cosa del mondo nulla altra cercava

se non di trovar te, o compagnone;

questo voleva e questo disiava,

e però sono uscito di prigione. –

E poi benignamente il salutava.

Penteo li rispose al suo saluto

e tostamente l'ha riconosciuto.

 

39

 

E 'nsieme si fer festa di buon core

e li loro accidenti si narraro;

ma Palemon, che tutto ardea d'amore,

disse: – Or m'ascolta, dolce amico caro;

io son sì forte preso del valore

d'Emilia bella col visaggio chiaro,

che io non trovo dì né notte loco,

anzi sempre ardo in amoroso foco.

 

40

 

E tu so ch'ancor l'ami similmente,

ma più che d'uno ella esser non poria;

per ch'io ti priego molto caramente

che tu consenta che ella sia mia;

e' mi dà 'l cuor di far sì fattamente,

se questo fai, che quel che ne disia

di lei 'l mio core avrò sanza tardanza;

lasciala dunque a me sol per amanza. –

 

41

 

Quando Penteo queste parole intese,

tutto si tinse e divenne fellone,

e d'ira dentro tutto il cor s'accese,

e poi rispose e disse: – Palemone,

e' ti puote esser certo assai palese

ch'i' ho messa mia vita a condizione

sol per poter ad Emilia servire,

cui io tanto amo, ch'i' nol poria dire.

 

42

 

Pero ti priego, se t'è la mia vita

niente cara, che quel che dimandi

tu il conceda al tuo parente Arcita,

il qual s'è messo a pericoli grandi

per procacciar di lei gioia compita;

e tu il sai se e' son ammirandi,

che uditi gli hai, raccontandotegli io:

fa dunque, caro amico, il mio disio. –

 

43

 

Palemon disse allor: – Veracemente

questa non è l'amistà ch'io credea

aver di te, poi sì palesemente

un don mi nieghi il quale io ti chiedea;

ma io ti giuro, per l'onipotente

Giove del cielo e per Venere dea,

che prima ch'io di qui faccia partenza,

co' ferri partirén tal differenza.

 

44

 

Però t'acconcia come me' ti piace

dell'arme omai, e tua ragion difendi,

ché di tal guerra non sarà mai pace,

poi quel di ch'io ti priego mi contendi,

e 'l core in corpo tutto mi si sface.

Perché tu peni e del campo non prendi

contra di me, che vincer o morire

per la mia donna porto nel disire? –

 

45

 

A cui Penteo disse: – O cavaliere,

perché vuo' por te e me in periglio

forse di morte (e non ti fa mestiere)?

Deh, noi possiam pigliar miglior consiglio,

che ciascun si procacci a suo potere

d'aver l'amor del grazioso giglio,

e a cui il concede la fortuna

colui se l'abbia sanza briga alcuna.

 

46

 

Tu sai che io son quiritto sbandito,

e tu hai rotta a Teseo la prigione;

però se 'l nostro affar fosse sentito,

non ci bisogneria far più ragione

d'Emilia bella col viso chiarito,

ma seremmo di morte a condizione;

e però piano amiamo intrambendui,

infin che Giove altro faccia di noi.

 

47

 

Forse le cose avranno mutamento,

e potremmo tornare in nostro stato;

o io partirmi e tu esser contento,

come fui io, da Teseo accettato,

e così alleggiarsi il tuo tormento;

o quello amor mancar che m'ha infiammato,

e sola Emilia a te si rimarebbe,

ch'essere in questo punto non potrebbe. –

 

48

 

Palemon più di ciò non volle udire,

anzi li disse tosto: – Vedi, Arcita,

se io dovessi qui oggi morire,

tra noi convien che ella sia partita;

chi me' saprà della spada ferire,

a lui rimanga la donna e la vita;

se tu mi fai per forza ricredente,

mai più non l'amerò veracemente. –

 

49

 

– Deh ! – disse Arcita, – Questo a dir che vene?

Pognàn che tu quiritta m'abbi morto,

che farai tu? Avrai tu minor pene?

Che ben te ne verrà o che conforto?

Io pur conosco che e' ti convene

in prigion ritornare, o, pel più corto

cammin che tu potrai, fuggirne via:

Emilia, poscia, che util ti fia?

 

50

 

E pognàm pur che tu fossi in amore

a Teseo com'io sono, è tua credenza

che le volesse te dar per signore?

Tu se' ingannato; egli ha più alta intenza!

Io sono stato e son suo servidore

quanto esser posso, e sempre sto in temenza,

dove ch'io sia, pur di rimirarla;

e tu come ardirai di domandarla?

 

51

 

E se io qui con fé ti promettessi

di non amarla, credi tu che fare

con tutto il mio ingegno io il potessi?

Certo più tosto sanza mai mangiare

crederei viver che d'amarla stessi;

e amor non si può così cacciare

come tu credi; e poco ama chi posa,

per impromessa, d'amare una cosa.

 

52

 

Dunque che vuoi pur far? Combatteremo,

e con le spade in man farén le parti

di quella cosa che noi non avemo?

Deh, perché lasci così abagliarti

al tuo folle consiglio? Omè, ch'io temo

lo 'mpedimento tuo, se non ti parti

prima che 'l giorno sia, né sicur sono,

s'io son riconosciuto, di perdono. –

 

53

 

– Di mia salute – disse Palemone,

– non aver tu pensier; del tutto, avanti

che io mi parta, la nostra quistione

si finirà, sì che l'un de' due amanti

solo d'amarla fia in possessione;

e' consigli che dai ho tutti quanti

esaminati meco, e son contento

più di morir che di vita in tormento.

 

54

 

Se tu fai quel ch'io cheggio, gelosia,

s'altro non me ne segue, avendo fede

in te come in amico, anderà via;

e ben nel tempo di ciò mi procede,

rendronne grazie alla fortuna mia;

dunque t'apresta, ché il mio cor crede

vittoria aver, se non vuogli altramente

in ciò far cosa che mi sia piacente. –

 

55

 

Allora disse Penteo sospirando:

– Omè, ch'io sento l'ira dell'iddii,

li quali ancor ne vanno minacciando

contrarii tutti alli nostri disii;

e la fortuna ci ha qui lusingando

menati con effetti lieti e pii,

e non Amore, a voler che moiamo

per le man nostre, come noi sogliamo.

 

56

 

Omè, che m'era assai maravigliosa

cosa a pensar che Iunon ci lasciasse

nostra vita menare in tanta posa,

e come i nostri noi non stimolasse,

de' quali alcun giammai a gloriosa

morte non venne, che si laudasse;

ond'io mi posso assai ramaricare,

vedendo noi a simil fin recare.

 

57

 

I primi nostri, che nacquer de' denti

seminati da Cadmo, d'Agenore

figlio, ver lor furon tanto nocenti,

che sanza riguardar fraterno amore

fra lor s'uccisero; e i can mordenti

Atteon disbranaron lor signore;

e Atamante i suoi figliuoli uccise,

tal Tesifone in lui fiera si mise!

 

58

 

Latona uccise i figliuoi d'Anfione

intorno a Niobè, madre dolente;

e la spietata nemica Iunone

arder fé Semelè miseramente;

e qual d'Agave e delle sue persone

fosse la rabbia, il si sa tutta gente;

e simile d'Edippo, il quale il padre

uccise e prese per moglie la madre.

 

59

 

Quai fosser poi fra loro i due fratelli,

d'Edippo nati, non cal raccontare:

il fuoco fé testimonianza d'elli,

nel qual fur messi dopo il lor mal fare

e 'l misero Creonte dopo quelli

molto non s'ebbe di Bacco a lodare;

or resta sopra noi, che ultimi siamo

del teban sangue, insieme n'uccidiamo.

 

60

 

E e' mi piace, poi che t'è in piacere,

che pure infra noi due battaglia sia;

io sarò presto a fare il tuo volere,

ma pria mi lascia addobbar l'arma mia

e ripigliare lo mio buon destriere;

quindi farén tutto ciò che disia

la mente folle che sì ti consiglia:

piangasi il danno a cui di ciò mal piglia. –

 

61

 

Isnellamente Penteo si fu armato,

se forse alcuna cosa li mancava,

e ebbe tosto il caval ripigliato,

e destramente sopra vi montava;

e inver Palemon si fu voltato,

che fiero e tutto ardente l'aspettava,

e sì li disse: – Omai, come ti piace,

prendi con meco o vuo' guerra o vuo' pace.

 

62

 

Ma siemi il ciel, che queste cose vede,

ver testimonio, e Appollo surgente,

e' Fauni e le Driade, se si crede

che 'n questo loco alcun ne sia possente;

e le stelle ch'io veggio faccian fede

come io son del combatter dolente,

e Priapo con esse, li cui prati

ci apparecchiàn di fare insanguinati.

 

63

 

Non mi si possa mai rimproverare

ch'io sia cagion di battaglia con teco;

tu mossa l'hai e tu pur la vuoi fare,

e pace schifi di voler con meco;

sallosi Iddio ch'io non poria lasciare

mai d'amar quella c'ha 'l mio cor con seco;

ma, così amando, volentier vorrei

con teco pace, e presto a ciò sarei. –

 

 

Come tra Penteo e Palemone, dopo lungo ragionare, si cominciò la battaglia

 

64

 

Dette queste parole, nulla cosa

rispose Palemon, ma inanzi al petto

lo scudo si recò, quindi l'ascosa

spada nel foder trasse, e 'l viso eretto,

inver Penteo con voce orgogliosa

disse: – Or si parrà chi più diletto

avrà d'amare Emilia. – A cui Penteo:

– Tu di' il vero; – e 'nver di lui si feo.

 

65

 

E' non avevan lance i cavalieri,

e però insieme giostrar non potero;

ma con li spron punsero i buon destrieri,

e con le spade in man presso si fero

l'un verso l'altro, e sì si scontrar fieri,

che maraviglia fu, a dir lo vero,

e sì de' petti i cava' si feriro,

che rinculando a forza in terra giro.

 

66

 

Ma non pertanto il valoroso Arcita

su l'elmo con la spada a Palemone

diede un tal colpo, ch'appena la vita

li rimanesse fu sua oppinione,

e ben credette alla prima ferita

che terminata fosse lor quistione;

ma poi che sotto il buon destrier caduto

si vide, su si levò sanza aiuto.

 

67

 

E Palemon, nel cader del cavallo,

percosse il capo sopra il verde prato;

il che acrebbe il gran mal sanza fallo

ch'aveva per lo colpo a lui donato

dal buon Penteo, per che di quello stallo

non si moveva, anzi parea passato

di questa vita, e a giacer si stava;

e 'l buon Penteo ardito l'aspettava.

 

68

 

Ma poi che elli il vide pur giacere,

disse fra sé: "Che potrebbe esser questo?"

E sanza indugio lui gì a vedere,

e trovol che non era ancora desto

dello spasmo profondo, e 'n suo parere

disse: "Morto è, ché troppo li fu infesto

il colpo della mia spada tagliente,

di ch'io sarò tutto tempo dolente".

 

69

 

Elli il tirava degli arcion di fori

soavemente, e l'elmo li traeva,

e 'n su l'erbetta fresca e sopra i fiori

teneramente a giacer lo poneva;

e poi con man delli freschi liquori

del vicin rivo a suo poter prendeva,

e 'l viso li bagnava acciò che esso,

se fosse vivo, si sentisse addesso.

 

70

 

Ma Palemone ancor non si sentia,

per che Penteo piangeva doloroso,

dicendo: – Lassa omai la vita mia!

Morto è il mio compagno valoroso;

ma di ciò testimon Febo mi sia,

che io non fui di ciò volonteroso,

né mai battaglia con lui disiai.

O me dolente, perché mai amai?

 

71

 

S'io questa donna non avessi amata,

com'io faceva, di tutto mio core,

questa battaglia non sarebbe stata;

ma per difendere il leale amore

che io porto ad Emilia, è incontrata

l'aspra giornata piena di dolore;

or foss'io morto il giorno che a Teseo

prima tornai, nominato Penteo! –

 

72

 

E 'n questo punto tornò Palemone

in sua memoria e 'n piè si fu levato,

ché non aveva altro che stordigione

per lo gran colpo in sé di mal provato;

e come ardito e franco e buon campione,

davanti al petto lo scudo recato,

si vide presso che forte piangea

il buon Penteo, a cui così dicea:

 

73

 

– Leva su, cavalier, che io non sono

ancora vinto, perch'io sia abbattuto;

e se della tua spada il greve trono

mi spaventò, in me son rivenuto;

e non creder però aver perdono

da me, perché pietoso t'ho veduto;

e' ti convien con forza e con valore

combatter meco d'Emilia l'amore. –

 

74

 

Maravigliossi allor Penteo assai,

e dentro al cor nascose la sua ira,

e disse: – Palemon, gran ragione hai

di mal volere a chi per te sospira,

ma d'altra foggia ti sarò omai;

però come tu vuo' così ti gira,

prendi come ti piace ogni vantaggio,

ché di te vincer ho fermo coraggio. –

 

75

 

Ciaschedun chiama in suo aiuto Marte

e Venere e Emilia insiememente,

e imprometton doni; e d'altra parte

ciascun si reca dentro alla sua mente

la nobiltà, l'ardire e la molta arte

delle battaglie e 'l ferir prestamente

e l'uno inver dell'altro de' baroni

s'andarono a ferir come dragoni.

 

76

 

Li scudi in braccio e le spade impugnate,

sopra l'erbette l'un l'altro ferendo,

sanza aver più l'un dell'altro pietate,

si gieno i due baroni e ricoprendo:

tututte l'armi s'aveano spezzate,

per la lunga battaglia combattendo

e poco s'era ancora conosciuto

ch'alcun vantaggio fra lor fosse suto.

 

 

Come ai due combattenti Emilia sopravenne

 

77

 

Ma come noi veggiam venire in ora

cosa che in mille anni non avvene,

così avvenne veramente allora

che Teseo con Emilia d'Attene

uscir con molti in compagnia di fora,

e qual di loro uccello e qual can tene,

e nel boschetto entraro, alcun cornando,

alcun compagni e alcun can chiamando.

 

78

 

E cominciar lor caccia e lor diletto,

e ciascun gia sì come li piacea

in qua in là per lo folto boschetto,

e chi uccelli e chi bestie prendea;

e in tal guisa, senza alcun sospetto,

con un falcone in pugno procedea,

per pervenire alla chiara rivera,

Emilia, ove per lei tal battaglia era.

 

79

 

Ell'era sopra d'un bel pallafreno

co' can dintorno, e un corno dallato

avea e dalla man contraria al freno,

dietro alle spalle, un arco avea legato

e un turcasso di saette pieno,

che era d'oro tratto lavorato;

e ghirlandetta di frondi novelle

copriva le sue treccie bionde e belle.

 

80

 

E sopravenne lì subitamente,

e s'arestò vedendo i cavalieri;

ma conosciuta fu immantanente

da ciaschedun delli due buon guerrieri;

li qua' però non ristetter niente,

ma ne divenner più forti e più fieri,

sì si raccese in ciaschedun l'ardore

della donzella ch'amavan di core.

 

81

 

Ella si stava quasi che stordita,

né giva avanti né 'ndietro tornava;

e sì per maraviglia era invilita,

ch'ella non si movea né non parlava,

ma poi ch'alquanto fu in sé reddita,

della sua gente a sé quivi chiamava,

e similmente ancor chiamar vi feo

a veder la battaglia il gran Teseo.

 

82

 

Il quale assai di maraviglia prese

chi fosser questi due che combatteano,

e a mirarli lungamente intese;

e stima ben che gran mal si voleano,

quando considerava ben l'offese

che essi insieme tra lor si faceano;

ma poi ch'egli ebbe assai ciascun mirato,

cavalcò oltre e lor si fu appressato.

 

 

Come Penteo e Palemone si palesassero a Teseo

 

83

 

Poi disse loro: – O cavalier, se Marte

vittoria doni a chi più la disia,

ciascun di voi si tragga d'una parte,

e s'elli è in voi alcuna cortesia,

mi dite chi voi sete e chi in tal parte

a battaglia v'induce tanto ria,

secondo ne mostrate nel ferire

che fate l'uno a l'altro da morire. –

 

84

 

Li cavalier quando vider Teseo

e lui udiro a lor così parlare,

ciascuno indietro volentier si feo,

e vorrebbero avere a cominciare

quella battaglia; ma il buon Penteo

prima così rispose al dimandare:

– Noi siam duo cavalier che per amore

con le spade proviàn nostro valore. –

 

85

 

Disse Teseo: – Ditene chi sete. –

A cui Penteo: – Noi 'l farem volentieri,

se voi, caro signor, ne promettete

la pace vostra, se a noi fia mestieri. –

A cui Teseo rispose: – Vo' l'avete,

perch'io vi veggio sì pro' cavalieri,

e combattete ancor per tal cagione,

ch'offendervi saria contra ragione. –

 

86

 

Allora que' rispose prestamente:

– Io sono il vostro Penteo che vi parlo,

il qual con questo cavalier valente,

per troppo amor, volendo soperchiarlo,

battaglia fo; e e' me similmente

vuol soperchiar, perch'io accompagnarlo

voglio ad amar; chi e' sia, ecco lui

che vel dirà assai me' che altrui. –

 

87

 

A Palemon pareva male stare;

ma non pertanto e' cacciò la paura

e disse: – Siri, io nol posso celare

chi io mi sia, e ancor mi sicura

vostra virtù che non vorrete usare

la vostra forza contro alla mia pura

mente, che per amor fuor di prigione

usci', e sono il vostro Palemone. –

 

88

 

Teseo, udendo nominar costoro,

prima sdegnò, poi ringraziolli assai

che s'eran nominati, e disse loro:

– Deh, non vi spiaccia, ditemi oramai

come Cupido con lo stral dell'oro

amendun vi ferì di pari guai,

con ciò sia cosa che l'un vien d'Egina,

l'altro fu preso a Tebe la meschina.

 

89

 

E se licito m'è ch'io sappia ancora

chi sia la donna, vi priego il diciate. –

Palemon sospirò, e disse allora

come le cose tutte erano andate;

e ciò Teseo vie più che l'altre accora

che prima gli erano state contate,

e disse: – Amor v'ha dato grande ardire,

poi non curate per lui il morire. –

 

90

 

A cui Palemon disse: – Alto signore,

saputo hai ciò che vuoli interamente

e a contarlo m'ha dato valore

disiderio di morte certamente,

la qual mi finiria l'aspro dolore

che sempre offende la mia trista mente

e io, che son di tua prigion fuggito,

ho d'esser morto molto ben servito. –

 

 

Come Teseo, perdonando loro, rispose, e i patti posti loro da lui

 

91

 

Allor Teseo: – Non piaccia a Dio che sia

ciò che dimandi, ben che meritato

l'aggiate per la vostra gran follia;

ché l'un contra 'l mandato è ritornato,

e l'altro ha rotta la mia prigionia,

sì ch'io non ne saria mai biasimato

se i' 'l facessi, né faria fallanza,

ma serverei l'antica buona usanza.

 

92

 

Ma però ch'io già innamorato fui

e per amor sovente folleggiai,

m'è caro molto il perdonare altrui,

perch'io perdon più fiate acquistai,

non per mio operar, ma per colui

pietà a cui la figlia già furtai;

però sicuri di perdono state:

vincerà il fallo la mia gran pietate.

 

93

 

Ma non fia assoluto il perdonare,

ch'io ci porrò piacevol condizione,

la qual voi mi prometterete fare,

se io perdono a vostra falligione. –

Essi il promisero, e e' fé giurare

lor di servarla sanza offensione,

e felli insieme far pace solenne;

poi in questo modo con lor si convenne.