Giovanni Boccaccio
Teseida
Edizione di riferimento: Giovanni Boccaccio: Teseida
delle nozze d'Emilia, a cura di A. Limentani, in Tutte le opere,
a cura di V. Branca, vol. II, Mondadori, Milano 1964
TESEIDA DELLE NOZZE D'EMILIA
A FIAMMETTA
Come che a memoria tornandomi le felicità
trapassate, nella miseria vedendomi dov'io sono, mi sieno di grave dolore
manifesta cagione, non m'è per tanto discaro il riducere spesso nella faticata
mente, o crudel donna, la piacevole imagine della vostra intera bellezza. La
quale, più possente che il mio proponimento, di sé e d'amore, giovane d'anni e
di senno, mi fece suggetto. E quella, quante volte vi viene, con intero animo
contemplando, più tosto celestiale che umana figura esser con meco dilibero; e
che essa quello che io considero sia, il suo effetto ne porge argomento
chiarissimo, però che ella, con gli occhi della mia mente mirata, nel mezzo
delle mie pene ingannando non so con che ascosa soavità l'aflitto core, li fa
quasi le sue continue amaritudini obliare, e in quello di se medesima genera un
pensiero umilissimo, il qual mi dice: "Questa è quella Fiammetta, la luce
de' cui belli occhi prima i nostri accese, e già fece contenti con gli atti
suoi gran parte de' nostri ferventi disii". Oh, quanto allora, me a me
togliendo di mente, parendomi essere ne' primi tempi, li quali io non immerito
ora conosco essere stati felici, sento consolazione! E certo, se non fossero le
pronte sollecitudini delle quali la nemica fortuna m'ha circundato, che non una
volta ma mille in ogni picciolo momento di tempo con punture non mai provate mi
spronano, io credo che così contemplando, quasi gli ultimi termini della mia
beatitudine abracciando, morre'mi. Tirato adunque da quello a che, quantunque
sia stato lungo lo spazio, appena essere stato mi pare, quale io rimanga,
Amore, che i miei sospiri conosce, il può vedere. Il quale, ancora che voi ingiustamente
di piacevole sdegnosa siate tornata, però non m'abandona. Né possono né
potranno le cose avverse, né il vostro turbato aspetto, spegnere nell'anima
quella fiamma la quale mediante la vostra bellezza esso v'accese; anzi essa,
più fervente che mai, con isperanza verdissima vi nutrica: sono adunque del
numero de' suoi sogetti, com'io solea.
Vero è che dove bene avventurato già fui, ora
infelicissimo mi ritruovo, sì come voi volete, di tanto solamente appagato che
torre non mi potete ch'io non mi tenga pur vostro e ch'io non v'ami, posto che
voi per vostro mi rifiutate, e il mio amarvi forse più gravezza che piacere
riputiate. E tanto m'hanno oltre a questo le cose traverse di conoscimento
lasciato, che io sento che per umiltà ben servendo ogni durezza si vince e
merita uom guiderdone. La qual cosa non so se a me s'averrà, ma come che seguir
me ne debba, né da sé mi vedrà diviso umiltade, né fedel servire stanco
giammai. E acciò che l'opera sia verissimo testimonio alle parole, ricordandomi
che già ne' dì più felici che lunghi io vi sentii vaga d'udire e tal volta di
leggere una e altra istoria, e massimamente l'amorose, sì come quella che tutta
ardavate nel fuoco nel quale io ardo – e questo forse faciavate acciò che i
tediosi tempi con ozio non fossero cagione di pensier più nocevole –, come
volonteroso servidore, il quale non solamente il comandamento aspetta dal suo
maggiore, ma quello, operando quelle cose che crede che piacciano, previene,
trovata una antichissima istoria e alle più delle genti non manifesta, bella sì
per la materia della quale parla, che è d'amore, e sì per coloro de' quali
dice, che nobili giovani furono e di real sangue discesi, in latino volgare e
per rima, acciò che più dilettasse, e massimamente a voi che già con sommo titolo
le mie esaltaste, con quella sollecitudine che conceduta mi fu da l'altre più
gravi, disiderando di piacervi, ho ridotta. E che ella da me per voi sia
compilata, due cose fra l'altre il manifestano. L'una si è che ciò che sotto il
nome dell'uno de' due amanti e della giovane amata si conta essere stato,
ricordandovi bene, e io a voi di me e voi a me di voi, se non mentiste,
potreste conoscere essere stato detto e fatto in parte: quale de' due si sia
non discuopro, ché so che ve ne avvedrete. Se forse alcune cose soperchie vi
fossero, il volere bene coprire ciò che non è onesto manifestare da noi due
infuori e il volere la storia seguire ne son cagioni; e oltre, a ciò dovete
sapere che solo il bomere aiutato da molti ingegni fende la terra. Potrete
adunque e qual fosse innanzi e quale sia stata poi la vita mia che più non mi
voleste per vostro, discernere. L'altra si è il non avere cessata né storia né
favola né chiuso parlare in altra guisa, con ciò sia cosa che le donne sì come
poco intelligenti ne sogliano essere schife, ma però che per intelletto e
notizia delle cose predette voi dalla turba dell'altre separata conosco, libero
mi concessi il porle a mio piacere. E acciò che l'opera, la quale alquanto par
lunga, non sia prima rincresciuta che letta, disiderando di disporre con
afezione la vostra mente a vederla, se le già dette cose non l'avessero
disposta, sotto brevità sommariamente qui appresso di tutta l'opera vi pongo la
contenenza.
Dico adunque che dovendo narrare di due giovani
nobilissimi tebani, Arcita e Palemone, come, innamorati d'Emilia amazona, per
lei combattessero, primamente posta la invocazione poetica, mi parve da
dimostrare e donde la donna fosse e come ad Attene venisse, e chi fossero essi
e come quivi venissero similemente; laonde sì come premessioni alla loro
istoria due se ne pongono. E primamente dopo la invocazione predetta, disegnato
il tempo nel quale le seguenti cose furono, la battaglia fatta da Teseo con
Ipolita, reina dell'Amazzone, e la cagione d'essa e la vittoria seguitata discrivo;
procedendo oltre, come Teseo, presa Ipolita per isposa, con lei insieme Emilia
sua sorella triunfando ne menò ad Attene; quinci, acciò che onde e come i due
amanti venissero sia aperto, un'altra battaglia, e la felice vittoria di quella
seguita, fatta da Teseo co' Tebani, premessa la cagione, si disegna; e, come
appare, i due giovani, presi in quella parte del triunfo di Teseo, vennero in
Attene. Dove come da lui; imprigionati fossero e come e in che tempo d'Emilia
s'innamorassono, procedendo si legge; pervenendo poi da questo alla
diliberazione fatta d'Arcita a' prieghi di Peritoo e al pellegrinaggio suo in
Egina e alla sua vita e alla tornata d'esso sconosciuto ad Attene e al suo
dimorar con Teseo; quindi scrivendo qual Palemone rimanesse, come a lui la
tornata d'Arcita sotto cambiato nome si discoprisse e come per lo ingegno di
Panfilo suo famigliare elli uscisse de la prigione, e la battaglia con lui
fatta nel bosco; mostrando apresso come da Emilia prima combattendo veduti, e
poi da Teseo, e riconosciuti, manifestandosi essi medesimi, fossero, e quello
che Teseo con lor componesse, e la loro tornata in Attene; dichiarando poi qual
fosse la vita loro, e l'avenimento di molti prencipi ad una battaglia futura, e
i sacrificii fatti e da loro e da Emilia, e poi la loro battaglia e chi
vincesse; e dopo a tutte queste cose lo infortunio d'Arcita, il suo triunfo, la
liberazione di Palemone, la sponsalizia d'Emilia e la morte d'Arcita si pongono
interamente; giungendosi ad esse l'onore publico fattoli da Teseo e dagli altri
greci prencipi al sepellire, e il mirabile tempio nel quale le sue ceneri furon
poste. E ultimamente come Emilia conceduta fosse a Palemone, e le sue nozze, e
de' prencipi la partita finendo si truova. Le quali cose se tutte insieme e ciascuna
per sé, o nobilissima donna, da voi con sana mente saranno pensate, potrete
quello che di sopra dissi conoscere, e quindi la mia affezione discernendo,
potrete il preso orgoglio lasciare, e, lasciatolo, potrete la mia miseria in
disiderata felicità ritornare. Ma se pure gravi vi fossero le dette cose e
vincesse la vostra altierezza la mia umilità, in questa una sola cosa per
suppremo dono addomando, che, dando ad essa luogo, il presente picciolo
libretto, poco presento alla vostra grandezza ma grande alla mia picciolezza,
tegnate. Questo se 'l fate, alcuna volta ne' miei affanni sarà di rifrigerio
cagione, pensando che in quelle dilicate mani nelle quali io più non oso
venire, una delle mie cose alcuna volta pervenga. Io procederei a molti più
prieghi, se quella grazia la quale io ebbi già in voi non se ne fosse andata;
ma però che io del niego dubito con ragione, non volendo che a quello uno che
di sopra ho fatto, e che io spero d'ottenere sì come giusto, gli altri
nocessono, e sanza essermene niuno conceduto mi rimanessi, mi taccio,
ultimamente pregando colui che mi vi diede, allora che io primieramente vi
vidi, che se in lui quelle forze sono che già furono, raccendendo in voi la
spenta fiamma, a me vi renda, la quale, non so per che cagione, inimica fortuna
m'ha tolta.
SONETTO
Nel quale si contiene un argomento generale a
tutto il libro
Nel primo vince Teseo l'Amazone,
nel secondo Creon certanamente;
nel terzo amore Arcita e Palemone
occupa, e 'l quarto mostra la dolente 4
vita d'Arcita uscito di prigione;
il quinto la battaglia virilmente
da Penteo fatta col suo compagnone,
e 'l sesto poi convoca molta gente 8
alla battaglia; il settimo li afrena,
l'ottavo l'un di lor fa vincitore,
il nono mostra il triunfo e la pena 11
d'Arcita, e l'altro il suo mortal dolore;
e l'undecimo Arcita al rogo mena;
l'ultimo Emilia dona all'amadore. 14
LIBRO PRIMO
Sonetto nel quale si contiene uno argomento
particulare del primo libro
La prirna parte di questo libretto
a chi 'l riguarda mostra apertamente
la cagion che Teseo fece fervente
dell'Amazone a vengiare il difetto; 4
e come el fosse in Scizia provetto
col suo navilio e con l'armata gente,
e come il suo scender primamente
dall'Amazone gli fosse interdetto; 8
mostrando appresso come discendesse
per viva forza, e come combattendo
con quelle donne poscia le vincesse, 11
l'assedio poi alla città ponendo;
e come a patti Ipolita si desse,
con pace lui per marito prendendo. 14
Incomincia il primo libro del Teseida delle
nozze d'Emilia. E prima la invocazione dell'autore
1
O sorelle castalie, che nel monte
Elicona contente dimorate,
dintorno al sacro gorgoneo fonte,
sottesso l'ombra delle frondi amate
da Febo, delle quali ancor la fronte
spero d'ornarmi, sol che 'l concediate:
le sante orecchi a' miei prieghi porgete
e quelli udite come voi dovete.
2
E' m'è venuto in voglia con pietosa
rima di scrivere una istoria antica,
tanto negli anni riposta e nascosa
che latino autor non par ne dica,
per quel ch'io senta, in libro alcuna cosa;
dunque sì fate che la mia fatica
sia graziosa a chi ne fia lettore
o in altra maniera ascoltatore.
3
Siate presenti, o Marte rubicondo,
nelle tue armi rigido e feroce,
e tu, madre d'Amor, col tuo giocondo
e lieto aspetto, e 'l tuo figliuol veloce
co' dardi suoi possenti in ogni mondo;
e sostenete e la mano e la voce
di me che 'ntendo i vostri effetti dire
con poco bene e pien d'assai martire.
4
E voi, nel cui conspetto il dir presente
forse verrà com'io spero, ancora
quant'io più posso priego umilemente,
per quel signor che' gentili innamora,
che attendiate con intera mente;
voi udirete come elli scolora
ne' casi avversi ciascun suo seguace
e come dopo affanno e' doni pace.
5
E questo con assai chiara ragione
comprenderete, udendo raccontare
d'Arcita i fatti e del buon Palemone,
di real sangue nati, come appare,
e amendun tebani, e a quistione,
parenti essendo, per soverchio amare
Emilia bella, vennero, amazona;
donde l'un d'essi perdeo la persona.
Seguita il tempo e la cagione nel quale e per
che Teseo, duca d'Attene, andò adosso alla reina delle donne amazone
6
Al tempo che Egeo re d'Attene era,
fur donne in Scizia crude e dispietate,
alle qua' forse parea cosa fiera
esser da' maschi lor signoreggiate;
per che, adunate, con sentenzia altiera
diliberar non esser soggiogate,
ma di voler per lor la signoria;
e trovar modo a fornir lor follia.
7
E come fer le nepoti di Belo
nel tempo cheto alli novelli sposi,
così costor, ciascuna col suo telo
de' maschi suoi li spirti sanguinosi
cacciò, lasciando lor di mortal gielo
tututti freddi, in modi dispettosi;
e 'n cotal guisa libere si fero,
ben che poi mantenersi non potero.
8
Recato adunque co' ferri ad effetto
lor malvoler, voller maestra e duce
che correggesse ciascun lor difetto
e a ben viver desse forma e luce;
né a tal voglia dier lungo rispetto,
ma delle donne che 'l luogo produce
elesser per reina en la lor terra
Ipolita gentil, mastra di guerra.
9
La quale, ancora che femina fosse
e di bellezze piena oltre misura,
prese la signoria, e sì rimosse
da sé ciascuna feminil paura,
e in tal guisa ordinò le sue posse,
che 'l regno suo e sé fece sicura;
né di vicine genti avea dottanza,
sì si fidava nella sua possanza.
10
Regnando adunque animosa costei,
alle sue donne fé comandamento
che Greci, Trazii, Egizii o Sabei,
né uomini altri alcun nel tenimento
entrar lasciasser, se esse avean di lei
la grazia cara; ma ciascuno spento
di vita fosse che vi s'appressasse,
se subito il terren non isgombrasse.
11
Se per ventura lì fosser venute
femine, di qual parte si volesse,
da lor benignamente ricevute
comandò fossero e, se lor piacesse
d'esser con loro insieme, ritenute
dovessono esser, sì che si riempiesse
il luogo di color che lì morieno
di quelle che d'altronde lì venieno.
12
Sotto tal legge più anni quel regno
istette, e' porti furon ben guardati,
sicché non vi venia nave né legno,
o da fortuna o da altro menati
che fosser lì, che non lasciasser pegno
oltre al parer loro; e malmenati
li conveniva del luogo fuggire,
se non volevan miseri morire.
13
A questo scotto i Greci assai sovente
incappavan per lor disaventura;
per che a Teseo, allor signor possente,
duca d'Attene, spesso con rancura
eran posti richiami di tal gente
e di lor crudeltate a dismisura;
ond'elli, in sé di ciò forte crucciato,
propose di purgar cotal peccato.
14
Marte tornava allora sanguinoso
dal bosco dentro al qual guidati avea,
con tristo agurio del re furioso
di Tebe, l'aspra schiera, e si tenea
lo scudo di Tideo, il qual pomposo
della vittoria, sì come potea,
ad una quercia l'aveva appiccato
cotal qual era, a Marte consecrato.
15
E 'n cotal guisa, in Trazia ritornando,
si fé sentire al crucciato Teseo,
in lui di sé un fier caldo lasciando;
e col suo carro avanti procedeo,
dovunque giva lo cielo infiammando;
poi nelle valli del monte Rifeo,
ne' templi suoi posando, si raffisse,
sperando ben che ciò che fu seguisse.
16
Quinci Teseo magnanimo chiamare
li baron greci fé, e lor propose
ch'elli intendeva voler vendicare
la crudeltà e l'opere noiose
delle donne amazone; e a ciò fare
richiese lor, nelle cui virtuose
opere si fidava; e ciascun tosto
rispose sé al suo piacer disposto.
17
Commossi adunque i popoli dintorno,
qual per dovere e qual per amistate,
tutti ad Attene in un nomato giorno
si ragunar, con quella quantitate
ch'ognun poteva; e, sanza far sogiorno,
sopra le navi già apparecchiate
cavalli e arme ciascun caricava
con ciò che a fare oste bisognava.
Come Teseo co' suoi entrò in mare e andò sopra
le donne amazone
18
E quando parve tempo al buon Teseo
di navigar vedendol chiaro e bello,
tutta la gente sua raccoglier feo
con debito dover, sì come quello
che altra volta il buon partito e 'l reo
avea provato del mar piano e fello;
e nel mar col suo stuol tutto si trasse,
vento aspettando ch'al gir gli aiutasse.
19
Essendo a tal partito sopra l'onde
la greca gente bene apparecchiata,
la notte che le cose ci nasconde
aveva l'aer tututta occuppata;
onde alcun dorme, e tal guarda e risponde,
e così infino alla stella levata;
la qual sì tosto com'ella appario,
l'amiraglio dell'oste si sentio;
20
e a guardare il ciel col viso alzato
tutto si diè, e quindi fé chiamare
li marinar, dicendo: – Egli è levato
prospero vento, onde mi par d'andare
a nostra via, e però sia spiegato
ciaschedun vel sanza più dimorare. –
E e' fu fatto il suo comandamento,
e quindi si partir con util vento.
Come ad Ipolita reina pervenne che Teseo
s'apparecchiava d'andarle adosso.
21
Ma la corrente fama, che transporta,
con più veloce corso ch'altra cosa,
qualunque opera fatta, dritta o torta,
sanza mai dare alli suoi passi posa,
cotal novella tosto la rapporta
ad Ipolita bella e graziosa,
e in pensier la pon di sua difesa
di mal talento e di furore accesa.
22
Ma poi che l'ira alquanto fu affreddata
con utile consiglio immantanente
di volersi difendere avvisata,
fece chiamar ciascuna, di presente,
donna che nel suo regno era pregiata,
e tutte a sé venirle tostamente;
alle qua' poi in publico consiglio
a parlar cominciò con cotal piglio.
Diceria d'Ipolita alle donne sue
23
– Perciò che voi in questo vostro regno
coronata m'avete, e' s'appartiene
a me di porre e la forza e lo 'ngegno
per la salute vostra u' si convene,
sanza passar di mio dovere il segno
nel prestar guiderdoni o porger pene
ond'io, a ciò sollecita, chiamate
v'ho, perché voi e me con voi atiate.
24
Non vede il sol, che sanza dimorare
dintorno sempre ci si gira in terra
donne quanto voi sete da pregiare;
le qua', se 'n ciò il mio parer non erra,
per voler virile animo mostrare,
contro a Cupido avete presa guerra,
e quel ch'a l'altre più piace fuggite,
uomini fatti, non femine ardite.
25
E che questo sia vero, assai aperto
non ha gran tempo ancora il dimostraste,
allor ch'amor, né paura, né merto
non vi ritenne che voi non mandaste
a compimento il vostro pensier certo,
quando da servitù vi dilibraste;
nell'arme sempre esercitate poi,
cacciando ogni atto feminil da voi.
26
Ma se mai virile animo teneste,
ora bisogno fa, per quel ch'io senta,
perciò che voi, sì com'io, intendeste
che 'l gran Teseo di venir s'argomenta
sopra di noi, avendoci moleste
perché nostro piacer non si contenta
di quel che l'altre, ciò è suggiacere
a gli uomini, faccendo il lor volere.
27
Al suo inimicarci altra cagione
veder non so, né voi credo veggiate,
perciò che mai alcuna offensione
ver lui non commettemmo, onde assaltate
dovessomo essere; e questa ragione
assai è vota di degna onestate,
perciò che non fa mal que' che s'aiuta
per raver libertà, se l'ha perduta.
28
Ma qual che sia la cagion che il mova,
a noi il difender resta solamente,
sì che non vinca per forza la pruova;
laond'io vi richeggio umilemente
e priego, se in tal vita vi giova
di viver qual noi tegniamo al presente,
che l'animo, lo 'ngegno e ogni possa
mettiate contro a chi guerra v'ha mossa.
29
Né vi metta paura conscienza
d'aver peccato negli uomini vostri,
ché morte lor la loro isconoscenza
lecita impetrò nelli cor nostri,
che non stimavan che d'equal semenza
con lor nascessim, ma come da mostri,
da quercie, over da grotte partorite,
eravam poco qui da lor gradite.
30
E' si tenevan l'altezze e gli onori
sanza participarle a noi giammai,
le quali eravam degne di maggiori
ch'alcun di loro, a dir lo vero, assai;
per che di ciò gl'iddii superiori
rison che noi facemmo, e sempre mai
n'avranno per miglior, l'altre schernendo
che per viltà si van sottomettendo.
31
Né vi spaventi il nome di costoro,
perch'e' sien Greci; ché non son guarniti
di forza divisata da coloro
che nel passato fur vostri mariti;
se fiere vi mostrate verso loro,
e' non saranno inver di voi arditi,
ché niun può più ch'un uom, chi ch'el sia;
però da voi cacciate codardia.
32
Non risparmiate qui, donne, il valore
non risparmiate l'armi, non l'ardire;
non risparmiate il morire ad onore
considerate ciò che può seguire
dell'esser vigorose o con timore;
voi non avrete aguale a far morire
padri o figliuo' che vi faccian pietose,
ma inimiche genti a voi odiose.
33
Ritorni in voi agual quella fierezza
che quella notte fu, quando ciascuna
mai non usata usò crudele asprezza
ne' padri e ne' figliuo'; né sia nessuna
che qui, se dell'iddii la forza prezza,
istea, per aver nosco equal fortuna;
usi pietà altrove, ché qui morta
la comando io in ogni donna accorta.
34
Ben che forse l'iddii non ne saranno
contrarii per la nostra gran ragione;
anzi, se giusti son, n'aiuteranno,
dimenticando quel, se fu offensione
e se atarci forse non vorranno,
il danno suppliran nostre persone
contra colui che si move a gran torto
per navigare inverso il nostro porto.
35
E acciò ch'io non ponga in più parole
il tempo, il qual ne bisogna al presente,
a ciascheduna che libertà vole
ricordo e priego ch'ella sia valente;
e a qual morte per libertà dole,
dipartasi da noi immantanente;
noi varrem molto me' sanza di lei. –
E così detto si tacque colei.
36
Grande fu tra le donne il favellare,
quasi pendendo tutte in tal sentenza:
del dover pure a Teseo dimostrare
quanta e qual fosse la lor gran potenza,
se e' si ardisse a' lor porti appressare;
per che, sanza alcun'altra resistenza,
sé offerse ciascuna infino a morte
alla reina vigorosa e forte.
Come Ipolita, fatta la diceria, guarnì le terre
sue
37
Ipolita, poi le proferte intese,
sanza dimoro i porti fé guarnire,
e le miglior del regno alle difese
sanza nessuno indugio fece gire;
e in tal guisa armò il suo paese,
ch'assai sicura poteva dormire,
se soverchio di gente oltre pensata
non fosse, come fu, su quello entrata.
38
Né altramenti il cinghiar c'ha sentiti
nel bosco i can fremire e' cacciatori,
i denti batte e rugghia e gli spediti
sentieri a sua salute cerca e, pe' romori
ch'egli ha in qua in là in giù e 'n su uditi,
non sa qua' vie per lui si sien migliori,
ma ora in giù e ora in su correndo,
fino al bisogno, incerto, va fuggendo
39
che facesse colei per lo suo regno,
in dubbio da qual parte quivi vegna
Teseo, o con che arte overo ingegno;
onde a gire in ciascuna non disdegna,
né di pregar che ciascheduna al segno
di quel c'ha imposto ben ferma si tegna;
però che, s'a tal punto son vincenti,
più non cal lor curar mai d'altre genti.
Come Teseo navigando pervenne nel regno
dell'Amazone
40
L'alto duca Teseo, con tempo eletto
a suo viaggio, lieto navigava;
passando pria Macron sanza interdetto,
ad Andro le sue prode dirizzava;
il qual lasciato, con sommo diletto
pervenne a Tenedòs e quel passava,
entrando poi nel mar ch'a l'abideo
Leandro fu soave e poscia reo.
41
E oltre quel cammin che Frisso tenne
allor che la sorella cadde in mare,
servò, finch'a Bisanzio pervenne
Quivi fatta sua gente rinfrescare,
per picciola stagion vi si ritenne;
e come nel mar Tanao ad intrare
incominciò, così delle donzelle
le terre vide graziose e belle.
42
E come leoncel cui fame punge,
il qual più fier diventa e più ardito
come la preda conosce da lunge,
vibrando i crin, con ardente appetito
e l'unghie e' denti aguzza infin l'agiunge
cotal Teseo, rimirando espedito
il regno di color, divenne fiero,
volonteroso a fare il suo pensiero.
43
Esso mandò solenni avvisatori
a discerner la più leggiera scesa;
li qua', mirate dintorno e di fori
le rive tutte con la mente intesa,
tornarono, avvisati de' migliori
dove discender con minore offesa
potessero, e al duca il raccontaro;
e 'n quella parte lo stuol dirizzaro.
Come Teseo mandò ambasciadori alla reina, e la
risposta
44
Quindi Teseo, per due de' suoi baroni,
significare ad Ipolita feo
la sua venuta e ancor le cagioni;
e oltre a questo, sì le concedeo
termine a poter fare eccezioni
ne' patti fatti a lei, se per men reo
consiglio forse le fosse piaciuta
la pace, pria che fosse scombattuta.
45
Ma di que' patti che e' domandava
da lei niun non ne fu accettato;
anzi di lui assai si ramarcava
pur di quel tanto ch'aveva operato,
riprendendol di ciò, che s'impacciava,
fuor del suo regno, dell'altrui stato;
ma che, s'ella potesse, ancor pentere
nel faria tosto; e ciò l'era in calere.
46
Tornaron que' con sì fatta risposta
qual fu lor data, sanza star niente,
e a Teseo davanti l'han proposta;
il qual l'udì mal pazientemente,
dicendo: – Poco a questa donna costa
così risponder; ma certanamente
io la trarrò d'error, se 'l cuor non erra. –
Quinci gridò: – Signori, ogni uomo a terra! –
Come Teseo, volendo scendere in terra, fosse
dalle donne impedito
47
A questa voce i legni fur tirati
quasi in sul lito; e voleano smontare,
e già le scale ponean, quando, alzati
gli occhi, d'un bel castel vicino al mare
sopra una montagnetta, onde calati
i ponti, genti vidono avvallare
bene a cavallo armati, e 'n su la rena
in prima fur che 'l vedessero appena,
48
e quasi presi d'ogni parte i passi,
con gli archi in mano, or qua or là correndo,
traendo le saette de' turcassi,
con viva forza givan difendendo
tagliate avanti fatte, e di gran sassi
i balzi a grosse schiere provedendo;
Arpalice era questa che 'l facea,
a cui commesso Ipolita l'avea.
49
Il gran Teseo, magnifico barone,
poi che co' suoi alle terre pervenne,
vedendole guarnite per ragione,
per savie donne en l'animo le tenne;
e alquanto mutato d'oppinione,
fra mare il suo stuol fermo ritenne,
poi fé ciascun de' suoi apparecchiare,
pur dilivrando di volervi entrare.
50
Poi che ciascun fu bene apparecchiato,
inverso il porto si tiraro i legni;
e per iscender nel luogo avvisato
si fero avanti li baron più degni;
e in quel modo ch'avean divisato
gittaro in terra scale e altri ingegni;
ma troppo fu più forte lor la scesa
che non fu divisar cotale impresa!
51
Egli eran quasi con le poppe in terra
delli lor legni i Greci tutti quanti,
e con ogni artificio utile a guerra
arditamente si traeno avanti;
ma bene era risposto, se non erra
la mente mia, a lor da tutti i canti,
però che quelle donne saettando
forte gli gieno ognora dammeggiando.
52
Esse gittavan fuoco spessamente
sovra l'armate navi, il quale acceso
molto offendeva i Greci; e similmente,
con artifici, pietre di gran peso,
che rompevan le navi di presente
dove giugnean, se non era difeso;
e oltre a questo, pece, olio e sapone
sopra lo stuol gittavano a fusone.
53
Battaglia manual nulla non v'era,
perciò ch'ancora non avean potuto
prender li Greci di quella rivera
parte nessuna; e 'l conforto e l'aiuto
del buon Teseo per niente gli era;
anzi pareva ciaschedun perduto,
di quelle donne mirando le schiere
crescere ognora e diventar più fiere.
54
Di dardi, di saette e di quadrella
non fo menzion, che 'l ciel n'era coverto
e occupata tutta l'aere bella,
gittando l'uno a l'altro; e per lo certo
battaglia non fu mai sì dura e fella,
né in alcuna mai tanto sofferto;
molti ve ne fedien le donne accorte,
ben che di loro alcune fosser morte.
55
Grandi eran quivi le grida e 'l romore
che le donne faceano e' marinari,
tal che Nettunno o Glauco mai maggiore
sentito non l'aveano; e' duoli amari,
ch'a' marinar feriti gieno al cuore,
eran cagion di molto, perché rari
ve n'eran che nel capo o nel costato
o in altra parte non fosse piagato.
56
E 'l sangue lor vedevan sopra l'onde
con trista schiuma molto rosseggiare
e male a' Greci l'aviso risponde,
poi che così si veggon malmenare;
e qual più cuore aveva or si nasconde
temendo delle donne il saettare,
perciò ch'ell'eran di cotal mestiere,
più ch'altre, somme e vigorose e fiere.
Come Teseo, vedendo a' suoi fare falsa pruova,
prima verso Marte e poi a' suoi cavalieri turbato parlò, gittandosi poi solo
sopra il lito
57
Teseo che d'alta parte riguardava
la falsa punta della greca gente,
di rabbia tutto in sé si consumava,
maladicendo il duro convenente,
e d'ultima vergogna dubitava,
e quasi uscia per doglia della mente;
per che sdegnoso al cielo il viso tolto,
così parlò alto gridando molto:
58
– O fiero Marte, o dispettoso iddio,
nemico alle nostre armi, io mi vergogno
d'aprirti con parole il mio disio;
e certo priego per cotal bisogno
non averai, né sacrificio pio;
ma sanza te la vittoria ch'agogno
farò d'avere, o l'alma sanguinosa
ad Acheronta n'andrà dolorosa.
59
Opera omai in male i tuoi rossori,
e contro a me le femine fa forti
con l'arte che in Flegra i successori
d'Anteo vincesti; e fa che le conforti
quanto tu sai, e piovi i tuoi vapori
sopra li miei, ch'or fossero e' già morti;
però che sol mi credo me' valere
che io non fo con tutto lor potere.
60
E tu, Minerva, che il sommo loco
tra l'iddii tien nella nostra cittade,
non aspettar da me altar né foco,
né ch'io ti liti bestie in quantitade,
né che per te io ordini alcun gioco
in onor fatto di tua maestade;
aiuta pure a queste le qua' sono
teco d'un sesso, e me lascia in bandono.
61
Poi si rivolse a' suoi con vista viva,
con piggior piglio, e cominciò a dire:
– Ahi, vitupero della gente achiva,
ov'è fuggito il vostro grande ardire?
é la forza di voi tanto cattiva
che molli donne vi faccian fuggire?
Tornate adunque nelle vostre case,
e qua le donne vengan, là rimase.
62
Il chiaro Appollo e 'l cielo e 'l salso mare
fien testimoni etterni e immortali
del vostro vile e tristo adoperare;
e porterà la fama i vostri mali
con perpetuo nome, e voi mostrare
farà a dito a genti disiguali,
dicendo: "Vedi i cavalier dolenti,
che vinti fur dall'amazone genti".
63
Fuggitevi di qui, vituperati,
poi Marte, più che voi, donne sovene;
e delli vostri arnesi dispogliati,
li lasciate vestire a chi convene;
or non v'era e' miglior che onorati
di morte aveste sostenute pene,
che con vergogna indietro rinculare
e a donzelle lasciarvi avanzare?
64
Entri nell'armi adunque chi n'è degno
(l'altro le lasci che non vole onore)
morte pigliando per fuggire sdegno;
e a cui piace più con disinore
vita che pregio, non segua il mio segno;
vivasi quanto vuol sanza valore,
ch'io sarò troppo più, solo, onorato
ch'essendo da cotali accompagnato.
65
Or che avreste voi fatto se avversi
vi fosser forse i Centauri usciti
o i Lapiti, popoli diversi,
turba dolente, o uomini scherniti?
Credo nel mar vi sareste sommersi,
poiché per donne vi sete fuggiti.
Or vi tornate e fate novo duca,
e Marte me, sì come vuol, conduca. –
66
E questo detto, sotto l'arme chiuso,
tirar fe' la sua nave inver lo lito,
e sanza scala por ne saltò giuso,
né si curò perché fosse ferito
da molte parti; ma, come duca uso
di tal mestier, più si mostrava ardito,
sé riparando e di sopra e dintorno;
e fuor dell'acqua uscì sanza sogiorno.
67
Non altramente si gittano in mare
li marinari il cui legno già rotto
per la fortuna sentono affondare,
e chi più può, sanza a gli altri far motto,
briga, notando, di voler campare,
che' Greci si gittar tutti di botto
dietro a Teseo nell'acqua lui vedendo,
né ben né male al suo dir rispondendo.
68
E sì gli aveva vergogna spronati
con le parole del fiero Teseo,
ch'egli eran presti e arditi tornati;
per che ciascun com più tosto poteo,
così com'eran tututti bagnati
e ta' feriti, al suo duca si feo
vicino; e fero in sul lito una schiera
subitamente assai possente e fiera.
Come Teseo per battaglia ottenne il lito
69
Fatta la schiera tal quale e' poteano,
nel marin lito ov'essi eran discesi,
perciò che bene i luoghi non sapeano,
né seco avevan tutti i loro arnesi,
a lor poter le donne sosteneano,
d'alto vigor ne' loro animi accesi,
disposti a far gran cose in poca d'ora,
pur che le donne lì faccian dimora.
70
Le donne in su' cava' forti e isnelli
givano armate in abiti dispari
(e que' correan come volano uccelli),
faccendo spesso li lor colpi amari
sentire a' Greci, che ne' campi belli
eran discesi a piè non avea guari,
or qua or là correndo e ritornando,
spesso e rado i Greci molestando.
71
Così pugnavano a la morte loro,
poi che potuto non avean la scesa
con le lor forze vietare a coloro;
li qua', sentendo ognor crescer l'offesa,
chieser di poter gir, sanza dimoro,
dal duca lor, ver quelle in lor difesa;
e poi a piè entr'alle donne entraro
e a combatter fieri incominciaro.
72
E' ferirono a loro arditamente,
sì come que' che ben lo sapean fare;
e a' lor colpi non valea neente
di quelle donne a' colpi riparare;
e se non fosse ch'eran poca gente
a rispetto del lor multiplicare,
tosto l'avrebber del campo cacciate,
o morte tutte, over prese e legate.
73
Ma il numero di lor, ch'era infinito,
ogni ora la battaglia rinfrescava;
questo contra Teseo fiero e ardito
il campo lungamente sostentava;
esso sanza riposo e ispedito
ferendo, or qua or là correndo andava,
e ammirar di sé ciascun facea
che 'n quello stormo mirar lo potea.
74
Né altramente infra le pecorelle
si ficca il lupo per fame rabbioso,
col morso strangolando or queste or quelle,
fin c'ha saziato il suo disio guloso,
che faceva Teseo tra le donzelle
a piè con la sua spada furioso,
coperto dello scudo, ognor ferendo,
or questa or quella misera uccidendo.
75
Così Teseo fieramente andando
co' suoi compagni infra le donne ardite,
molte ne gian per terra scavallando,
e morte quelle e quelle altre ferite
lasciando per lo campo, indi montando
sopr'a' cava' ch'a redine sbandite,
le lor donne lasciate, si fuggieno
or qua or là sì come e' potieno.
76
E già di lor gran parte eran montati
per tal procaccio sopra i buon destrieri,
e tutti in sé di ciò riconfortati,
contra color ferivan volontieri;
e esse, lor vedendo inanimati
più ch'al principio non erano e feri,
temendo cominciarono a voltare,
e 'l campo a' Greci del tutto lasciare.
77
Fuggiensi adunque in quel castel tututte,
e dietro ad esse la duchessa loro;
e sopra l'alte mura fur ridutte,
armate, sanza fare alcun dimoro,
fra lor dicendo: – Noi sarem distrutte
se a le man pervegnàn di costoro. –
E la sconfitta lor quasi non suta,
a ben guardar si dier la lor tenuta.
78
Era la terra forte, e ben murata
da ogni parte, e dentro ben guarnita
per sostener assedio ogni fiata,
lunga stagion, ch'ella fosse assalita;
però ciascuna dentro bene armata
non temeva né morte né ferita;
chiuse le porti al riparo intendeano
e quasi i Greci niente temeano.
Come Teseo, sconfitte le donne e preso il lito,
s'acampò
79
Come Teseo le vide fuggire,
in un raccolse tutta la sua gente,
e comandò che le lasciasser gire;
poi fé cercare il campo prestamente,
e fece i corpi morti sepellire;
e le ferite assai benignamente
lasciò andar, sanza ingiuria nessuna,
là dove piacque di gire a ciascuna.
80
E 'n cotal guisa avendo preso il lito
con la sua gente, malgrado di quelle,
in su un picciol poggio fu salito,
dirimpetto al castel delle donzelle;
e comandò che quel fosse guarnito,
sì che resister si potesse ad elle
senza battaglia, infin che scaricate
sien le galee e le genti posate.
81
Li Greci prestamente scaricaro
tutte le navi delli arnesi loro,
e altri in brieve il poggetto afforzaro
quanto poteron sanza alcun dimoro;
né dì né notte mai non riposaro,
infin ch'ebber fornito lor lavoro;
ben fer le donne loro ingombro assai,
che d'assalirli non calavan mai.
82
Poscia che' Greci furono afforzati
sì, che le donne neente temeano,
e' legni loro in mar furon tirati
per corseggiar dintorno ove poteano,
e i feriti furon medicati,
e quelli ancor che 'l mar temuto aveano
posati fur, parve a Teseo che stare
quivi poria più nuocer che giovare.
83
Esso, ch'ognor con sollecita cura
al suo più presto spaccio più pensava,
imaginò che, se 'ntorno alle mura
di quella terra il suo campo fermava,
e' potrebbe avvenir per l'avventura
che sanza utile il tempo trapassava;
però che quando pure elli avvenisse,
poco avea fatto perché lor vincesse.
84
E tornandoli a mente come Alcide
a l'ldra, che de' suoi danni crescea,
avea la vita tolta, seco vide
che là dov'era Ipolita volea
sua pruova far; perché, se lei conquide
più contasto nessun non vi sapea;
e per cotal pensiero il campo mosse
per colà gir dove Ipolita fosse.
Come Ipolita, sentendo la venuta di Teseo,
aspettò sicura l'asedio
85
Corse la fama per tutto il paese
della sconfitta stata tostamente,
per che ciascuna sé alle difese
si metteva di sé velocemente;
ma quella cui tal cosa più offese
Ipolita è da creder certamente;
la qual, poi che così la cosa andare
vide, propose di volersi atare.
86
Né fu stordita per quella sciagura,
ma le sue donne a sé chiamò dicendo
– Or ciascuna convene esser sicura,
non dico in campo Teseo combattendo,
ma in difender ben le nostre mura,
le quali ad assalir vien, com'io intendo,
perciò che non potrà lunga stagione
dimorar qui, per nulla condizione.
87
Noi siam di ciò ch'al vivere ha mestiere
fornite bene, e la terra è sì forte,
che non è sì ardito cavaliere,
se al guardar vorremo essere accorte,
ch'appressar ci si possa, che pentere
non nel facciam forse con trista morte.
quando ci fieno stati e vederanno
il nostro ardir, per vinti se ne andranno.
88
Dunque, se mai amaste libertate
se vi fu caro mai il mio onore,
ora mostrate vostra probitate,
ora si scopra l'ardire e 'l valore
ver chi s'appressa alla vostra cittate
per voler noi di quella trarre fore.
Etterna fama ora acquistar potete,
se ben contra Teseo vi difendete. –
89
E questo detto, niente interpose,
ma ciò che seco aveva divisato
fece, dando ordine a tutte le cose;
per le mura ponendo in ogni lato,
a guardia, donne savie e valorose,
faccendo ancor ciascuno altro apparato
ch'a tal cosa bisogna, sempre andando
or queste or quelle tutte confortando.
90
E per salute ancor delle sue genti
gran doni a' templi poi fece portare,
l'iddii pregando che negli emergenti
casi dovesser lor pietosi atare;
quinci, operando tutti altri argomenti
ch'a sua difesa potevan giovare,
e guarnita così come poteo,
con le sue donne aspettò poi Teseo.
Come Teseo assediò Ipolita
91
Poi che Teseo si fu di quel loco
partito onde le donne avea cacciate,
a la città sen venne in tempo poco,
dove Ipolita e molte erano armate;
e lì giurò per Vulcan, dio del foco,
di non partirsi mai, se conquistate
da lui non fosser per forza o per patti
prima elli e' suoi vi sarebber disfatti.
92
E' fé tender trabacche e padiglioni
e afforzar suo campo di steccati,
a' cavalier dicendo e a' pedoni
che si facesser e tende e frascati;
e che niun di lor mai non ragioni
di ritornare a' suoi liti lasciati,
se Ipolita pria non si vincea,
così come con lor proposto avea.
93
E' fé drizzar trabocchi e manganelle
e torri per combattere a le mura,
e fé far gatti, e a le mura belle
spesso faceva con essi paura,
e con battaglia spesso le donzelle
assaliva con sua gente sicura;
ma di tal cuor guarnite le trovava,
che poco assalto o altro li giovava.
94
Elli stette più mesi a tal berzaglio
e poco v'acquistò, anzi niente,
fuor che paura e onta con travaglio,
perché le donne dentro assai sovente
di morte si metteano a ripentaglio,
predando sopra loro arditamente
cotanto s'eran già assicurate
per lo non potere esser soperchiate!
95
Di ciò era Teseo assai crucciato,
e nel pensiero sempre gia cercando
come potesse abbatter loro stato.
Un dì avvenne che e' cavalcando
a la terra dintorno, fu avvisato
ch'ella s'avrebbe sotterra cavando,
per che, avendo mastri di tali arti,
cavar la fé da una delle parti.
Come Ipolita scrisse a Teseo
96
Quando la donna del cavare intese,
dubbiò, e tosto di mura novelle
un cerchio dentro più stretto comprese,
il qual fer tosto e donne e damigelle;
appresso inchiostro e carta tosto prese
e con le mani dilicate e belle
una pìstola scrisse; e trovar feo
due savie donne, e mandolla a Teseo.
97
Eran le donne belle e di gran core,
con compagnia leggiadra disarmate,
vestite in drappi di molto valore;
le qua', giunte nel campo, fur menate
da' maggior Greci davanti al signore,
al quale, assai da lui prima onorate,
le lettere lor diero, e la risposta
addomandaron graziosa e tosta.
98
Teseo le prese assai benignamente,
e innanzi a sé chiamati i suoi baroni
insieme con molta altra buona gente,
disse: – Signori, le donne amazzoni
queste lettere mandan veramente;
però l'udite, e con belle ragioni
lor si risponda. – E poi le fé aprire,
e legger sì ch'ognun poteva udire.
Il tenore della lettera mandata da Ipolita a
Teseo
99
La lettera era di cotal tenore:
"A te, Teseo, alto duca d'Attene,
Ipolita, reina di valore,
salute, se a te dir si convene,
e crescimento sempre di tuo onore,
sanza mancar di quel che m'appartiene,
e pace con ciascuno, e ancor meco
che ho ragion d'aver guerra con teco.
100
Io ho veduta la tua gente forte
ne' porti miei con isforzata mano,
tal ch'essi avrebber paura di morte
data a qualunque popol più sovrano,
fuor ch'alle donne mie, di guerra scorte
più ch'altra gente che al mondo siano;
le qua' di que' cacciasti assai superbo,
delle qua' meco una parte ne serbo.
101
E poi venuto se' ad assediarmi,
come nemica d'ogni tuo piacere,
e hai più volte provate tue armi
a le mie mura, e ancora potere
da quelle non avesti di cacciarmi;
per che, per adempier lo reo volere
c'hai contro a me, la terra fai cavare,
per poi potermi sanza arme pigliare.
102
Certo di ciò la cagion non conosco,
ch'io non ti offesi mai, né son Medea
che per invidia ti voglia dar tosco;
anzi la tua virtute mi piacea
quando si ragionava talor nosco,
e di vederti gran disio avea,
e ancor disiava tua contezza,
tanto gradiva tua somma prodezza.
103
Ma di ciò veggo contrario l'effetto,
considerando la tua nuova impresa,
pensando ch'io non abbia il difetto
commesso, e sia subitamente offesa,
sanza di te avere alcun sospetto;
di che nel core non poco mi pesa,
e non men forse per la tua virtute
che faccia per la mia propia salute.
104
Tu non hai fatto come cavaliere
che contro a par piglia debita guerra,
ma come disleale uom barattiere
subitamente assalisti mia terra,
e come vile e cattivo guerriere
mai non pensasti, se 'l mio cor non erra
che 'l guerregiar con donne e aver vittoria
del vincitore è più biasmo che gloria.
105
Ben ti dovresti di ciò vergognare,
se figliuol se', com dì, del buono Egeo;
né ti dovresti con arme appressare
a le mie mura; e già se ne penteo
chi ha volute mie forze provare,
però che mal sembiante mai non feo
nessuna ancora delle mie donzelle,
ma tutte sono ardite, prodi e snelle.
106
Ma poscia c'hai le tue forze provate,
e 'l tuo pensiero hai ritrovato vano,
diverse vie hai sotterra trovate
per avermi in prigione a salva mano
ma non sarà così in veritate,
ché già c'è preso rimedio sovrano;
e di combattere in oscura parte
non è di buon guerrier mestier né arte.
107
Dunque mi lascia in pace per tuo onore,
sanza voler più tua fama guastare,
ch'io ti perdono ciascun disinore
che fatto m'hai o mi volessi fare;
e se nol fai, per forza e con dolore
io ti farò la mia terra sgombrare;
né qui mi troverai qual festi al lito,
perch'io ti giucherò d'altro partito".
Come Teseo rispose ad Ipolita, e mostrò alle
messaggiere le cave
108
Quando Teseo la lettera ebbe udita,
a' suoi baroni e' disse sorridendo:
– Beato me, che campata ho la vita
mercé di questa donna, ch'amonendo
mi manda acciò che mia fama fiorita
tra le genti dimori, me vivendo! –
Poi si rivolse a quelle donne e disse:
– Risposto tosto fia a chi ne scrisse.
Il tenore della risposta di Teseo
109
E 'n cotal guisa fé scrivere allora:
"Ipolita, reina alta e possente,
la quale il popol feminile onora,
Teseo, duca d'Attene, e la sua gente,
salute, quale ella ti bisogna ora,
cioè la grazia mia veracemente:
una tua lettera e messi vedemmo
per questa ad essa così rispondemo
110
chi 'l nostro popol uccide e discaccia
dalle sue terre, a noi fa villania;
però s'adoperiam le nostre braccia
in far vendetta, grande onor ne fia;
né viltà nulla i nostri cori impaccia,
se sottoterra cerchiam di far via,
per tuo orgoglio volere abbassare;
ma facciam quel che buon guerrier suol fare,
111
cioè prender vantaggio, acciò che' suoi
più salvi sieno, e vincasi il nemico;
e tosto ci vedrai ne' cerchi tuoi
della città, non miga come amico,
se non t'arrendi tostamente a noi,
uccidendo e tagliando; ond'io ti dico
che 'l mio comando facci, e avrai pace,
ché in altra maniera non mi piace".
112
E poi che l'ebbe scritte e suggellate,
le lettere donò alle donzelle,
e quali avanti avea molto onorate;
e a cavallo poi salì con quelle,
e tutte le sue forze ha lor mostrate,
e similmente en le cave con elle
entrò, e fece lor chiaro vedere
le mura puntellate per cadere.
113
Poi disse loro: – O messaggiere care,
a la reina vostra tornerete,
e 'n verità potrete raccontare
ciò che apertamente ora vedete;
sì che le piaccia di non farmi fare
asprezza contro a quantunque voi sete,
e contro a lei, la qual mi par valente;
ch'io ne sarei poi più di voi dolente. –
Come le damigelle, partendosi da Teseo,
tornarono ad Ipolita
114
Le danmigelle allor preson commiato,
dicendo: – Signor nostro, volentieri. –
E nella terra per occulto lato
si ritornar, non pe' mastri sentieri;
e a la donna lor tutto han contato,
ciò c'han veduto infra li lor guerrieri.
e poi le lettere hanno presentate,
le qua fur tosto lette e ascoltate.
115
Poi che di quelle Ipolita il tenore
ebbe compreso, e 'l dir delle donzelle,
nel cor sentì gravissimo dolore,
e simile sentiron tutte quelle
ch'eran presenti, ch'avesser valore,
pensose assai e nello aspetto felle;
ma dopo alquanto Ipolita, chiedendo
con mano udirsi, incominciò dicendo
Diceria d'Ipolita a le donne sue
116
– Chiaro vedete, donne, a qual partito
ci abbian gl'iddii recate, e non a torto.
Se di ciascuna qui fosse il marito,
fratel, figliuolo o padre che fu morto
da tutte noi, non saria stato ardito
Teseo mai d'appressarsi al nostro porto;
ma perché non ci son, ci ha assaltate,
come vedete, e ancora assediate.
117
Venere, giustamente a noi crucciata,
col suo amico Marte il favoreggia;
e tanta forza a lui hanno donata,
che contro a nostro grado signoreggia
dintorno a noi la città assediata,
e come vuole ognora ne dammeggia,
e perciò che vie più che noi è forte,
se noi non ci rendiam, minaccia morte.
118
Però a noi bisogna di pigliare
de' due partiti l'un subitamente
o contra lui ancora riprovare
le forze nostre in campo virilmente,
o a lui, poi ci vuol, ci vogliàn dare,
perciò che qui più tenerci niente
noi non possiam, ché, come voi udite,
le mura tosto in terra vederite.
119
E 'l dir che noi con esso combattiamo
mi par che sia assai folle pensiero,
perciò che tutte quante conosciamo
la gente sua e lui ardito e fiero;
e se ancora ben ci ricordiamo
e con noi stesse vogliam dir lo vero,
noi il provammo non ha molto ancora;
di che noi ci pentemmo in poca d'ora.
120
E oltre a questo, egli ha seco l'aiuto
degli alti iddii, che noi han per nemiche
e noi l'avemo assai chiaro veduto,
ché orazion, vigilie, né fatiche,
forza di corpo o atto proveduto,
campar non ci han potuto che mendiche
della sua grazia esser non ci convegna,
se noi vogliam che 'n vita ci sostegna.
121
Però terrei consiglio assai migliore
renderci a lui, che del valor mondano,
per quel ch'io senta, ha il pregio e l'onore,
e è, a chi s'umilia, umile e piano;
e già non ci sarà e' desinore
se vinte siam da uom così sovrano,
perciò ch'ogn'uom per femine ci tiene,
come noi siamo, e lui duca d'Attene. –
122
Tacquesi qui; ma un gran mormorio
infra le donne surse, lei udita,
ch'una reputa buono e altra rio
cotal consiglio; ma nessuna ardita
è di dir contra o d'aprir suo disio;
per che cotal sentenzia diffinita
per le più sagge fu, che si mandasse
chi con Teseo per lor patti trattasse.
Come Ipolita trattò patti con Teseo e poi li si
arrendé
123
Poi che cotal sentenzia fu fermata,
Ipolita due donne fé venire,
Polisto e Dinastora, e informata
ebbe ciascuna di ciò c'hanno a dire
e poi che lor libertà ebbe data
quanta ne bisognava a ciò fornire,
disse: – Omai, donne, a vostra posta andate,
ma sanza pace qui non ritornate. –
124
Fur costoro a Teseo, e e' con esse
e dopo lungo d'una e d'altra cosa
parlar, fermarsi che esso prendesse
Ipolita per sua etterna sposa,
e che la terra per lui si tenesse,
sotto le leggi della valorosa
Ipolita reina, e accordarsi
con molti altri più patti e ritornarsi.
125
Ipolita era a maraviglia bella
e di valore accesa nel coraggio;
ella sembiava matutina stella
o fresca rosa del mese di maggio
giovine assai e ancora pulcella,
ricca d'avere, e di real legnaggio,
savia e ben costumata, e per natura
nell'armi ardita e fiera oltre misura.
126
A cui le donne, da Teseo venute,
e a molte altre i patti raccontaro,
recando a tutte da Teseo salute;
il che fu alle più grazioso e caro.
E poi che fur le parole compiute,
le donne l'arme di botto lasciaro,
e ella comandò, per suo amore,
ch'a Teseo e a' suoi sia fatto onore.
Come Teseo, fermati i patti, entrò nella città,
e ricevuto onorevolemente da Ipolita, la sposò, e i suoi cavalieri sposaro
dell'altre.
127
Poscia che furono i patti fermati,
Teseo co' suoi montati in su' destrieri,
i più di loro essendo disarmati,
a picciol passo e lieti i cavalieri,
sanza contasto en la città menati,
nella qual ricevuti volontieri,
umili d'essa preser possessione,
sanza fare ad alcuna offensione.
128
Incontro venne, sopra un bel destriere,
al suo Teseo Ipolita reina,
e più bella che rosa di verziere
con lei veniva una chiara fantina,
Emilia chiamata, al mio parere,
d'Ipolita sorella picciolina;
e dopo lor molte altre ne venieno,
ornate e belle quanto più poteno.
129
E 'n cotal guisa con solenne onore
ricevetter Teseo e la sua gente;
né fu guari di lì lontano Amore,
ma co' suoi dardi molte prestamente
e molti ancora ne ferì nel core.
E' se ne andaron tutti lietamente
fino al palagio, e quivi dismontaro,
e in su quel Teseo accompagnaro.
130
Egli era bello e d'ogni parte ornato
di drappi ad oro e d'altri cari arnesi,
per ogni cosa ricco e bene agiato;
ma Teseo gli occhi non teneva attesi
a ciò guardar, ma il viso dilicato
d'Ipolita mirando, con accesi
sospir dicea: "Costei trapassa Elena,
cui io furtai, d'ogni bellezza piena".
131
Elli avea già nel cor quella saetta
la qual Cupido suole aver più cara;
e seco nella mente si diletta
d'aver per cotal donna tanta amara
fatica sostenuta; e lieto aspetta
d'avere in braccio quella stella chiara,
parendoli colei assai più degno
acquisto che tututto l'altro regno.
132
Le donne avevan cambiati sembianti,
ponendo in terra l'arme rugginose,
e tornate eran quali eran davanti,
belle, leggiadre, fresche e graziose;
e ora in lieti motti e dolci canti
mutate avean le voci rigogliose,
e' passi avevan piccioli tornati,
che pria nell'armi grandi erano stati.
133
E la vergogna, la qual discacciata
avean la notte orribile, uccidendo
li lor mariti, loro era tornata
ne' freschi visi, gli uomini vedendo;
e sì era del tutto transmutata
la real corte, a quel che prima, essendo
sanza uomini le femine, parea,
ch'appena alcuna di loro il credea.
134
Ripresi adunque i lasciati ornamenti,
di Citerea il tempio fero aprire,
serrato ne' lor primi mutamenti;
lì fé Teseo Ipolita venire;
e dati sacrifici reverenti
a Venere, sposò con gran disire
Ipolita, l'aiuto d'Imeneo
chiamando quivi i baron di Teseo.
135
Molte altre donne a greci cavalieri
si sposarono allora lietamente,
e per signor li preser volontieri,
com'avean gli altri avuti primamente;
con iuramenti santissimi e veri
lor promettendo che, al lor vivente,
nella prima follia non tornerieno
e che lor cari sempre mai avrieno.
136
Tra l'altre belle vedove e donzelle
che fossero in quel loco, una ve n'era
che di bellezze passava le belle,
come la rosa i fior di primavera;
la qual Teseo, vedendola tra quelle,
fé prestamente domandar chi era.
Detto li fu: – Sorella alla reina,
Emilia nominata è la fantina. –
137
Piacque a Teseo la bella donzelletta
non men che alcuna altra che vi fosse,
ancor che li paresse giovinetta;
e nella mente sua seco proposse
che ad Acate, sua cosa distretta,
per moglie la darà; quindi si mosse,
e al palagio real ritornaro,
dove pien di letizia ogn'uom trovaro.
138
Le nozze furon grandi e liete molto,
e più tempo durò il festeggiare,
e ciascun dalla sua fu ben raccolto,
e a tutti pareva bene stare,
perché fortuna avea cambiato volto;
e le donne sapeano or che si fare,
sé ristorando del tempo perduto
mentre nel regno non era uomo issuto.
Qui finisce il libro primo
LIBRO SECONDO
Sonetto nel quale si contiene l'argomento
particulare del secondo libro
Questo secondo mostra il ritornare
che fé Teseo di Scizia vincente;
e delle Greche il tristo lagrimare,
col priego insieme d'Evannès dolente; 4
per lo qual, sanza del carro smontare,
con picciola orazione a la sua gente
persuadendo, si mosse ad andare
contra Creon, re di Tebe possente; 8
e come, in campo vinto, a lui la vita
tolse e a' corpi fé dar sepoltura,
avendo Tebe a le donne largita; 11
e poi, feriti, per loro sciagura,
presi da lui Palemone e Arcita
mostra, mettendo poi loro in chiusura. 14
Incomincia il libro secondo di Teseida. E prima
perché e come Teseo si partisse di Scizia per tornare ad Attene con Ipolita e
con Emilia
1
Il sole avea due volte dissolute
le nevi en gli alti poggi, e altrettante
Zeffiro aveva le frondi rendute
e i be' fiori alle spogliate piante,
poi che d'Attena s'eran dipartute
le greche navi, Africo spirante,
da cui Teseo co' suoi furon portati
nelli scitichi porti conquistati;
2
quando esso con la sua novella sposa
in lieta vita e dolce dimorava,
sanza pensiero d'alcuna altra cosa,
e appena d'Atene si curava;
ma il piacer divin più gloriosa
vittoria assai che quella li serbava;
onde li fé nuova vision vedere,
per che del ritornar li fu in calere.
3
Nel dolce tempo che il ciel fa belle
le valli e' monti d'erbette e di fiori,
e le piante riveste di novelle
frondi, sopra le quali i loro amori
cantan gli uccelli, e le gaie donzelle
di Citerea più senton gli ardori,
era Teseo da dolce amor distretto,
in un giardin, pensando a suo diletto.
4
Nel qual da una parte solo stando
gli parve seco con viso cruccioso
tener per man Peritoo ragionando,
dicendo a lui: – Che fai tu ozioso
con Ipolita in Scizia dimorando,
sotto amore offuscando il tuo famoso
nome? Perché in Grecia oramai
non torni, ove più gloria avrai assai?
5
Essi da te quell'animo gentile,
ch'ancor simile ad Ercul prometteva
di farti, dipartito? Se' tu vile
tornato nella tua età primeva?
E stando entra la turba feminile,
la tua prodezza, la qual già sapeva
ciaschedun regno, hai qui messa in oblio
d'Ipolita nel grembo e nel disio? –
6
A cui Teseo volendo dar risposta
e iscusar la sua lunga dimora,
subito agli occhi suoi si fu nascosta
la imagine di quel che parlava ora;
per che e' dubbioso col passo si scosta
dal loco ove era, a sé mirando ancora
dintorno, per veder se el vedea
colui che quivi parlato gli avea.
7
Ma poi che la paura luogo diede
a l'animal vertù, si ruppe il velo
della 'gnoranza, e con intera fede,
che non lì Peritoo, ma che dal cielo,
da qualche deità la qual provede
al suo onor con caritevol zelo,
era venuto cotal ragionare;
onde pensò ad Atene tornare.
8
Ad Ipolita adunque il suo volere
con donnesco parlar fé manifesto;
la qual rispose ad ogni suo piacere
essere apparecchiata e anche a questo;
ond'elli, allor ch'a lui fu in parere,
il suo navilio fé preparar presto,
e poi dispose del regno lo stato,
per modo che alle donne fu a grato.
9
E fatto questo, entrò sanza dimoro
in mare, e 'nsieme Ipolita reina;
e tra più donne ne menar con loro
la bella Emilia, stella matutina;
quindi spirando tra Borea e Coro
ottimo vento da quella marina
li tolse, lor portando verso Attene
il più del tempo con le vele piene.
Transgressione dalla propria materia, per
mostrare qual fosse la cagione per la quale Teseo andasse contra Creonte.
10
Ma Marte, il quale i popoli lernei
con furioso corso avea commossi
sopra' Tebani, e' miseri trofei
donati avea de' prencipi percossi
più volte già, e de' Greci plebei
ritenuti talvolta e tal riscossi,
con asta sanguinosa fieramente
trista avea fatta l'una e l'altra gente;
11
perciò che, dopo Anfiorao, Tideo
stato era ucciso, e 'l buono Ippomedone,
e similmente il bel Partenopeo,
e più Teban, de' qua' non fo menzione,
innanzi e dopo al fiero Campaneo;
e dietro a tutti, in doloroso agone,
Etiocle e Polinice, ferito,
morti, e Adastro ad Argo era fuggito;
12
onde 'l misero regno era rimaso
voto di gente e pien d'ogni dolore;
ma in picciola ora da Creonte invaso
fu, che di quel si fé re e signore,
con tristo agurio, e 'n doloroso caso
recò insieme e 'l suo regno e l'onore
per fiera crudeltà da lui usata,
mai da nullo altro davanti pensata.
13
Esso, con fiero cuor li Greci odiando,
poi che fur morti in lor l'odio servava,
per ch'elli avea con gravissimo bando
vietato a chi sua grazia disiava,
ch'a nullo corpo quivi morto stando
fuoco si desse, e 'mputridir lasciava
lor sozzamente sanza sepoltura
qual delle fiere pria non fu pastura.
14
Onde le donne argoliche, le quali
venien dolenti a far lo stremo ofizio
con somma maestà di tutti i mali,
anzi giungesser quivi, ebbero indizio
dello editto crudele; e però tali
quali eran, triste di tal malefizio,
proposer con le lagrime pregare
Teseo a tale ingiuria vendicare.
15
E quindi i passi ad Attena drizzaro,
atate dal dolor nella fatica
e a quella venute, con amaro
segno mostrar la fortuna nemica.
Gli Atteniesi assai si marvigliaro
di quella turba, d'ogni ben mendica,
e domandaron di ciò la cagione,
perché venute e di qual regione.
16
I qua', poscia ch'udir la nobiltate
di quelle donne e la cagion del pianto,
con tenerezza lor prese pietate
di veder loro in tormento cotanto;
e gli alti cittadini apparecchiate
proferser lor le case d'ogni canto,
finché Teseo in Attene tornava,
che d'ora in ora in essa s'aspettava.
17
Esse non voller da nessuno onore,
ma solo il tempio cercar di Clemenza
e in quel con gravissimo dolore
istanche e lasse fecer residenza,
aspettando con lagrime il signore,
assai crucciose della sua assenza;
e le donne atteniesi in compagnia
di loro stetter quivi tuttavia.
Come Teseo ritornò triunfando in Attene, e la
festa che vi si fece
18
Teseo, con vento fresco a suo viaggio,
contento ritornava inverso Attene
con gran partita del suo baronaggio
e con colei che 'l suo cuor guida e tene,
Ipolita reina; e 'l suo passaggio
tosto fornito fu e sanza pene;
né prima giunto fu alla marina
che si seppe in Attene, la mattina.
19
Gli Atteniesi, che lui attendieno
con gran disio, per la sua ritornata
mirabil festa preparata avieno,
la qual fu incontanente incominciata;
secondo il lor poter, ch'assai potieno,
fu la lor terra tutta quanta ornata
di drappi ad oro e d'altri paramenti,
con infiniti canti e istrumenti.
20
Quanto le donne allor fossero ornate,
ne' teatri, ne' templi e a' balconi
e per le vie mostrando lor biltate,
nol potrieno spiegare i miei sermoni;
la lor presenzia tal solennitate
facea maggior per diverse ragioni;
e 'n brieve in ogni parte si cantava
e con somma allegrezza si festava.
21
Gli alti suoi cittadini apparecchiare
li fero un carro ricco e triunfale,
il qual gli fer là dov'era menare;
né altro ne fu mai a quello equale
veduto per alcuno; e apprestare
li fer con esso vesta imperiale
e corona d'allor, significante
che per vittoria venia triunfante.
22
Teseo adunque, come fu smontato
di mare in terra, in sul carro salio,
degli ornamenti reali addobbato;
e sopra quello appresso il suo disio,
Ipolita, gli stette dall'un lato,
da l'altro Emilia fu, al parer mio;
poi l'altre donne e' cavalier con loro
a cavallo il seguir sanza dimoro.
23
In diverse brigate festeggiando,
a cavallo e a piè erano andati
gli Atteniesi inver di lui cantando,
di varii vestimenti divisati,
con infiniti suoni ogn'uom festando,
e con esso in Attene rientrati:
diritto andò al tempio di Pallade
a reverir di lei la deitade.
24
Quivi con reverenza offerse molto,
e le sue armi e l'altre conquistate;
e poi per altra via il carro volto,
alquanto circuendo la cittate,
con infinito d'uomini tomolto,
ovunque gia, con grida eran lodate
l'opere sue magnifiche, e con gloria
le dicean degne d'etterna memoria.
Come a Teseo si fero incontro le donne greche
piagnendo
25
E mentre ch'elli in cotal guisa giva,
per avventura davanti al pietoso
tempio passò, nel quale era l'achiva
turba di donne in abito doglioso;
la qual udendo che quindi veniva,
su si levar con atto furioso:
con alte grida e pianto e gran romore
pararsi innanzi al carro del signore.
26
– Chi son costor ch'a' nostri lieti eventi
co' crini sparti, battendosi il petto,
di squalor piene in atri vestimenti,
tutte piangendo, come se 'n dispetto
avesson la mia gloria, a l'altre genti,
sì com'io veggo, cagion di diletto? –,
disse Teseo stupefatto stando;
a cui una rispose lagrimando:
27
– Signor, non ammirar l'abito tristo
che 'nnanzi a tutti ci fa dispettose,
né creder pianger noi del tuo acquisto,
né d'alcun tuo onore esser crucciose;
ben che l'averti in cotal gloria visto
pe' nostri danni ne faccia animose
a pianger più che non faremmo forse,
essendo pur dal primo dolor morse. –
28
– Dunque chi sete? – disse a lor Teseo,
– e perché sì nella publica festa
sole piangete? – Allora oltre si feo
Evannès, più che nessuna altra mesta,
dicendo: – Isposa fui di Campaneo,
e qualunque altra ancora vedi in questa
turba, di re fu moglie o madre o suora
o figlia; e aprirotti che ci accora.
29
La perfida nequizia del tiranno
figliuol d'Edippo, contro a Polinice,
suo unico fratello, e 'l fiero inganno
del regno, degli Argivi lo 'nfelice
esercito tirò al suo gran danno,
che è maggiore assai che non si dice,
davanti a Tebe, dove trista sorte
ciascuno alto baron tolto ha con morte.
30
E dove noi, invano, speravamo
con quello onor vederli ritornare
alle lor terre ch'agual te veggiamo
nella tua laurato triunfare,
nell'abito dolente in che noi siamo
a sepellirli ci conviene andare;
ma l'aspra tirannia di que' c' ha preso
il regno dietro a lor ciò ci ha difeso.
31
Il perfido Creon, a cui più dura
l'odio ch' a' morti non fece la vita,
a' greci corpi nega sepoltura
(crudeltà, credo, non mai più udita),
e di qua l'ombre a la padule oscura
di Stigia ritiene; onde infinita
doglia ci assal tra gli altri nostri mali,
sentendoli mangiare agli animali.
32
Pietose adunque a questo estremo onore
voler donar, d'Acaia ci movemmo;
ma come a noi contato fu il tenore
di tale editto, i passi qua volgemmo
e porger prieghi a te, pio signore,
di tale oltraggio con noi proponemmo
i qua' l'abito nostro per noi doni
a te in prima, e poi a' tuoi baroni.
33
Se alto valor, come crediam, dimora
in te, a questo punto sie pietoso;
tu n'averai alto merito ancora,
e oltre a ciò, ciò che uom virtuoso
de' far, farai. Deh, s'altro da te infora
far lo volesse, en dovresti cruccioso
essere e impedirlo, acciò ch'avessi
la gloria tu di punir tali eccessi.
34
Deh, se l'abito nostro e il lagrimare
non ti movon, né prieghi, né ragione
a far che 'l pio oficio possiam fare,
movati almen la trista condizione
di que' che già fur re; non gli lasciare
nella futura fama in dirisione:
TESEIDA
di Stigia ritiene; onde infinita
doglia ci assal tra gli altri nostri mali,
sentendoli mangiare agli animali.
32
Pietose adunque a questo estremo onore
voler donar, d'Acaia ci movemmo;
ma come a noi contato fu il tenore
di tale editto, i passi qua volgemmo
e porger prieghi a te, pio signore,
di tale oltraggio con noi proponemmo
i qua' l'abito nostro per noi doni
a te in prima, e poi a' tuoi baroni.
33
Se alto valor, come crediam, dimora
in te, a questo punto sie pietoso;
tu n'averai alto merito ancora,
e oltre a ciò, ciò che uom virtuoso
de' far, farai. Deh, s'altro da te infora
far lo volesse, en dovresti cruccioso
essere e impedirlo, acciò ch'avessi
la gloria tu di punir tali eccessi.
34
Deh, se l'abito nostro e il lagrimare
non ti movon, né prieghi, né ragione
a far che 'l pio oficio possiam fare,
movati almen la trista condizione
di que' che già fur re; non gli lasciare
nella futura fama in dirisione:
e' furon teco già d'un sangue nati,
e come te ancor Greci chiamati. –
35
Le lagrime non eran mai mancate,
perché parlasse, agli occhi di costei,
ma sempre in quantità multiplicate;
e 'l simile era a l'altre dietro a lei,
le qua' con forza avean messa pietate
in ciaschedun di que' baroni attei;
per che con seco ognun forte dannava
la crudeltà la qual Creon usava.
36
Teseo attento le parole dette
racogliea tutte, l'abito mirando
di quelle donne, e ben che lor neglette
vedesse, chiaro assai, seco stimando,
la maestà nascosa conoscette;
e greve duol nel cor gli venne quando
udì de' re la morte; e dopo alquanto
così rispose al doloroso canto:
La risposta di Teseo alle donne greche
37
– L'abito oscuro e 'l piangere angoscioso,
e 'l voi conoscer pe' vostri maggiori,
e 'l ricordarmi il vostro esser pomposo,
gli agi e' diletti e' regni e' servidori
e de' re vostri il regnar glorioso,
hanno trovato ne' miei sommi onori
luogo a' vostri prieghi, e la mutata
fortuna trista di lieta tornata.
38
Io vorrei ben poter nel primo stato
e in vita li vostri re tornare,
com'io credo poter far che fia dato
onor di sepoltura a cui donare
vel piacerà; e l'orgoglio abbassato
di colui fia che ciò vi vuol negare;
però, se a male avuto può conforto
vendetta porger, per me vi fia porto.
39
Fortificate gli animi dolenti
con isperanza buona, ch'io vi giuro,
prima che io o' miei baron possenti
ci riposiam d'Attene dentro al muro,
di ciò faremo interi esperimenti;
e io son già di vittoria sicuro,
non tanto avendo in mie forze fidanza,
quanto mi dà di Creon la fallanza. –
Come Teseo dispose Ipolite ed Emilia del carro,
per gire a Tebe
40
E detto questo, con benigno aspetto
si rivolse ad Ipolita, dicendo:
– Bene hai udito, donna, ciò c'han detto
queste donne reali a noi piangendo:
priegoti adunque non ti sia dispetto
se al presente a lor giustizia intendo.
Dismonta, e col mio padre ti starai
finché tornato me qui vederai. –
41
A cui così Ipolita rispose:
– Caro signor, ben ch'io sia amazona,
io non son sì crudel, ch'a cota' cose
volentier non mettessi la persona
per vendicarle, sì son dispettose,
se vero è ciò che delle donne sona
il tristo ragionar, sol ch'io credesse
che 'n ciò il mio portare arme ti piacesse.
42
Però, signor, secondo il tuo piacere
opera omai, e s'elli è di tal fretta
qual esse dicon, non soprasedere;
va e fa ciò ch'al tuo enore aspetta,
ché ciò m'è più ch'altra gioia in calere. –
E questo detto, intra la turba eletta
di molte donne che l'accompagnaro,
essa e Emilia del carro smontaro.
43
Poi che Teseo le donne ebbe posate
del carro suo, tenendo il viso fitto
nella miseria delle sconsolate,
da intima pietà nel cor trafitto,
sopra 'l carro si volse a le pregiate
schiere de' suoi sanz'altro alcun respitto;
e con voce alta, di furore acceso,
parlò sì che da tutti fu inteso:
Diceria di Teseo a' cavalieri suoi per andare
sopra Creonte
44
– Tanto è nel mondo ciascun valoroso,
quanto virtute li piace operare;
dunque ciascun di vivere ozioso
si guardi che in fama vuol montare;
e noi, acciò che stato glorioso
intra' mondan potessimo acquistare,
venimmo al mondo, e non per esser tristi
come bruti animali e 'ntra lor misti.
45
Adunque, cari e buon commilitoni
che meco in tante perigliose cose
istati sete in dubbie condizioni,
per far le vostre memorie famose
a le future nuove nazioni,
ora li cuori all'opre gloriose
vi priego dispognate, né vi caglia
prender riposo d'avuta travaglia.
46
Udito avete tutti, sì com' io,
ciò che le donne ne dicon presenti;
certo ciascun ne dovrebbe esser pio,
e al vengiar dovreste esser ferventi,
ché l'aspre nimistà e il disio
del nuocer debbon ciaschedune genti
lasciare e obliar, poi l'uomo è morto;
ma or Creon fa nuovo a' morti torto.
47
Andiamo adunque, e lui, fiero Creonte,
umil facciàn con le spade tornare,
sì che e' lasci l'ombre ad Acheronte,
poi fien sepulti i corpi, trapassare;
noi non andiamo acciò che a Demofonte
rimanga regno, a l'altrui usurpare,
ma a ragion rilevare in sua gloria;
per che l'iddii ne daranno vittoria.
48
E' non fu più lasciato avanti dire,
ch'un romor surse che il ciel toccava
– Tutti siam presti di voler morire
dintorno a te, e già molto ne grava
che 'nver Creonte non prendiamo a gire,
poi ch'opera commette così prava:
voi vederete nell'operar nostro,
signor, se ci fia caro l'onor vostro. –
Come Teseo andò contra Creonte, re di Tebe
49
Teseo adunque, sanza rivedere
il vecchio padre o parente o amico,
uscì d'Attene, né li fu in calere
d'Ipolita l'amor dolce e pudico,
né altro alcun riposo, per potere
gloria acquistar sopra 'l degno nemico;
e com'elli era entrato nella terra,
così n'uscì a la novella guerra.
50
Le 'nsegne, che ancora ripiegate
non eran, si drizzaron di presente;
e' cavalier con le schiere ordinate,
dietro a la sua ciascuno acconciamente,
ne givano, e le donne sconsolate
lor precedean, di ciò molto contente;
e dopo giorno alcun giunsero a Tebe,
e fermar campo in su le triste glebe.
51
Sentì Teseo l'aere corrotto
pe' corpi ch'eran senza sepoltura;
onde mandò a Creonte di botto
che e' lasciasse aver de' morti cura,
o s'aprestasse, sanza più dir motto,
della battaglia dispietata e dura.
I messi andaro e fecer l'ambasciata;
a' qua' Creon cotal risposta ha data:
52
– Dite a Teseo ch'io sono apparecchiato
della battaglia, e ch'elli avrà a fare
con franco popol tutto bene armato,
e non si creda qui donne trovare,
come in altra parte egli ha trovato;
e però venga, qualora gli pare,
che corpi fuoco non avranno, e esso
giacer farò con loro assai di presso. –
53
Il buon Teseo la risposta intese
superba assai, della quale e' si rise;
e al pian campo con li suoi discese,
e in tre parti tutti i suoi divise,
e fece loro il loro affar palese;
quindi davanti a tututti si mise;
e bene in concio ne gir ver Creonte,
che con sua gente lor veniva a fronte.
La battaglia intra Teseo e Creonte, e come Teseo
fu vincitore
54
Allora trombe, nacchere e tamburi
sonaron forte d'una e d'altra parte;
fremivano i cavalli, e i securi
cavalier tutti gridavano: – O Marte,
or si parranno li tuoi colpi duri,
ora conoscerassi la tua arte. –
Allora lance e saette pungenti
cominciarsi a gittar tra le due genti.
55
E' cavalieri insieme si scontraro
con tal romore e con sì gran tempesta,
che 'nsino al ciel le voci risonaro;
e con le lance ciaschedun s'infesta
di vender bene il romper quelle caro;
poi con le spade battaglia molesta
incominciar, dove molti moriro
nel primo assalto che 'nsieme feriro.
56
Il buon Teseo, sopra un alto destriere,
con una mazza in man pel campo andava
ferendo forte ciascun cavaliere
e abbattendo cui elli incontrava,
e spesso confortando le sue schiere:
col suo ben far tutti l'incoraggiava,
porgendo arme sovente a chi l'avesse
perdute e rimontando chi cadesse.
57
E ben vedea chi con tremante mano
moveva i ferri, e chi arditamente
sovra' nemici suoi valor sovrano
combattendo mostrava, e chi niente
pigro operava dimorando invano;
li qua' gridando spregiava vilmente,
lodando gli altri, e per nome chiamando
or questo or quel, gli giva confortando.
58
Da l'altra parte il simile facea
Creonte, come ardito conduttore,
e quasi in sé del nemico credea
sanza alcun fallo farsi vincitore.
L'un contra l'altro ben si difendea
arditamente e con sommo valore;
ma sì andando, insieme si scontraro
Creon e 'l buon Teseo, e si sgridaro.
59
Corsorsi adosso li due cavalieri,
chiusi nell'armi e valorosamente
si cominciaro a ferire i guerrieri,
com'uomin che s'odiavan mortalmente,
e come que' ch'avrebber volentieri
l'un l'altro a morte dato certamente;
e già co' colpi tutte magagnate
s'avevan l'armi, e le carni tagliate.
60
Teseo di cruccio tutto quanto ardeva,
vedendo di Creon il gran durare,
e fra se stesso fremendo diceva:
– Deh, de'mi questi a la fine menare? –
Poi tutte in sé sue forze raccoglieva,
e furioso li si lascia andare
adosso, e lui per sì gran forza fiere,
che lì il gittò per morto del destriere.
61
Teseo allora da caval discese,
dicendo: – O fier tiranno, or è venuto
il dì che 'l tuo mal viver tanto attese;
ora sarà tuo fallo conosciuto,
or fien punite le già fatte offese
da te, or fia il tuo viver compiuto;
e le tue arme io sacrerò a Marte,
benigno iddio a me in ogni parte.
62
E' corpi contra i qua' fosti spietato
arsi saranno, e 'l tuo regno distrutto,
e 'l nome tuo di memoria privato;
e a le donne, a cui cagion di lutto
fosti, sarà il tuo corpo donato,
ch'esse ne facciano il lor piacer tutto:
così la tua superbia fia abbattuta,
ch'a rispondermi fu cotanto arguta. –
63
Non spaventar le parole Creonte,
perch'abattuto si vedesse in terra,
né sembianza mutò l'ardita fronte,
né mitigossi nel cuor la sua guerra;
anzi più fiero, e con parole pronte,
aspra risposta parlando diserra
a que' che sopra il petto fier li stava
e col suo ferro morte gli aprestava;
64
dicendo a lui: – Fanne tuo piacere,
pur che io muoia avanti che vittoria
io veggia a te e a tua gente avere;
ché l'alma mia almeno alcuna gloria
ne porterà con seco nel parere,
e segnato terrà nella memoria
che 'n dubbio i tuoi e' miei lascio d'onore;
e credo che li miei hanno il migliore.
65
Questo ne porterò a l'infernali
iddii, quasi contento; e se e' fia
il corpo mio donato agli animali
sanz'altro foco, ciò l'alma disia;
però che parte delli miei gran mali
di qua dalla riviera oscura e ria,
la qual vuo' far passare a' regi morti,
io celerò, se non fia chi men porti.
66
Or fa omai quel che più t'è in grato,
ch'io non men curo. – E tacque; e intratanto
l'avea Teseo già tutto disarmato,
e quasi tutto del sangue e del pianto
il vide il duca nel viso cambiato;
e già era freddato tutto quanto:
per che conobbe l'anima dolente
esser partita dal corpo spiacente.
67
Il quale e' lasciò quivi, e risalio
sopra 'l destriere, e fra' suoi ritornossi;
e tutto quanto ardendo nel disio
d'aver vittoria, focoso ficcossi
tra li nemici, e 'l primo che ferio
a li suoi piedi morto coricossi;
e 'l simil fece a' più degli altri fare,
per che nessun l'ardiva d'aspettare.
68
E' suoi facevan nell'armi gran cose,
contra' nemici gran forze mostrando;
e per lo campo le genti orgogliose
uccidendo, ferendo e scavallando
andavan, pur pensando a le pietose
donne ch'avean vedute lagrimando;
tal che non li potean più sofferire
li Teban, salvo chi volea morire.
69
E d'altra parte già saputo aveno
del lor signor la morte dolorosa,
per che che farsi tra lor non sapeno;
laonde in fuga trista e angosciosa,
sì come gente che più non poteno,
si volser tutti, ché nessun non osa
volversi indietro o insieme aspettarsi,
tanto di presso vedean seguitarsi.
70
I miseri cacciati non fuggiro
nella città per quivi aver riparo,
ma per li monti Ogigii se ne giro,
chi per lo bosco ove Tideo assediaro,
e qua' su Citeron se ne saliro,
altri ne' cavi monti s'appiattaro;
e 'n cotal guisa con greve dolore
tutti fuggir davanti al vincitore.
71
Questo vedendo, i cittadin tebani,
le donne e' vecchi e' piccioli figliuoli
rimasi in quella miseri e profani,
di quella usciron faccendo gran duoli,
li suoi seguendo pe' luoghi silvani;
e così tristi per diversi stuoli
lasciar di Bacco e d'Ercule la terra
nelle man di Teseo in tanta guerra.
72
Al buon Teseo non piacque seguitare
que' che fuggien, ma tosto se ne gio
inver la terra, de la qual nello entrare
nessuno incontro con arme gli uscio.
Passato adunque dentro, ad ammirare
cominciò i templi di qualunque iddio,
l'antiche rocche di Cadmo cercando,
e l'altre cose mire riguardando.
73
E poi ch'egli ebbe vedute le cose
magnifiche a ciascun quelle guardante,
fuor se n'uscì, e a le sue vogliose
genti di rubar quella rimirante
licenzia diè; ver è ched elli impose
che tutte salve sien le case sante
delli tebani iddii: per che cercata
fu tosto tutta e per tutto rubata.
Come Teseo fé sepellire Creon, e concedette a le
donne d'andare a sepellire cui esse volessero, concedendo loro, oltre a questo,
Tebe
74
Teseo sé veggendo vincitore,
sopra Asopo il suo campo fé porre,
e de' vincenti chetato il romore,
del campo il corpo di Creon fé torre,
e con esequie degne grande onore
li fé, e fé la cenere riporre
dentro ad una urna, e poscia di Lieo
nel tempio in Tebe collocar la feo,
75
dicendo: – I' vo' che all'ombre infernali
possi di me miglior testimonianza
render, che quelli eccelsi e gran reali,
a' qua' negavi con grande arroganza
gli ultimi onori e' fuochi funerali,
di te non posson, per la tua fallanza. –
E questo fatto, a sé fece chiamare
le greche donne, e lor prese a parlare:
76
– Donne, gl'iddii a la nostra ragione
hanno prestata debita vittoria,
e però con dovuta oblazione
tenuti siam d'esaltar la lor gloria,
perciò mettete ad esecuzione
ciò che de' vostri faceste memoria;
date alli vostri re l'uficio pio,
secondo che avete nel disio.
77
E questo fatto, la terra prendete
che cagion fu di morte a' vostri regi,
e sì ne fate ciò che voi volete,
come di nido di tutti i dispregi;
sicuramente in quella andar potete,
ch'alcun non v'è ch'al gir vi privilegi. –
Le donne quasi liete il ringraziaro,
e quindi a fare il loro oficio andaro.
Come le donne, arsi i corpi e Tebe, si tornarono
ad Argo
78
Esse giron nel campo doloroso,
dove gli argivi re morti giaceano;
e ben che fosse a l'olfato noioso
per lo fiato che' corpi già rendeano,
non fu però a lor punto gravoso
cercar pe' morti che elle voleano,
in qua in là or questo or quel volgendo,
il suo ciascuna intra molti caendo
79
Il quale in prima non avean trovato
che, dopo molto pianto, mille volte
non si ristavan sì l'avean basciato,
usando ne' lor pianti voci molte,
qua' soglion far le donne a cotal piato;
quindi, de' corpi le parti raccolte,
prima ne' fiumi li bagnavan tutti,
poi li ponean sopra li roghi estrutti.
80
E sopra lor, carissimi ornamenti
quali a ciascun di lor si confacea,
arme, corone, scettri e vestimenti,
di quelle donne ciascuna ponea;
e dietro a tutto, con pianti dolenti,
ne' roghi ornati fuoco si mettea,
dicendo versi di maniere assai,
appartenenti tutti a tristi guai.
81
E 'n cotal guisa la turba piangente
co' fuochi i corpi morti consumaro,
e poi le cener diligentemente
dentro da l'urne, con dolore amaro,
ch'avean portate, miser di presente,
e per portarle ad Argo le serbaro;
ma prima giro in Tebe, e non potendo
altra vendetta far, la giro ardendo.
82
Quindi a Teseo tornate, una di loro
incominciò: – Valoroso signore,
della vendetta c'hai fatta in ristoro
del nostro inestimabile dolore,
grazie ti rendan l'iddii e coloro
c'hanno o avranno mai di ciò valore,
e noi, in ciò che femine han potere,
l'onestà salva, siamo al tuo piacere.
83
L'eccelsa gloria de' nostri reali,
che morti sono in questo tristo loco,
cui noi aspettavàn con triunfali
solennità, con doloroso foco
avèn tornata in ceneri, le quali,
ristrette tutte in vassello assai poco
ce ne portiamo; e tu riman con dio,
il quale adempia ciascun tuo disio.
84
Così sen giro; ma Teseo cercare
fatto avea il campo, e ciaschedun ferito
che fu trovato fatto medicare,
e ogni morto aveva sepellito;
e quindi a sé avea fatto recare
ciò ch'avean guadagnato, e quel partito
secondo i merti tra' suoi cavalieri,
liberamente el diede e volontieri.
Come Arcita e Palemone furono trovati e menati a
Teseo
85
Mentre li Greci i lor givan cercando,
e ruvistando il campo sanguinoso,
e' corpi sottosopra rivoltando,
per avventura in caso assai dubbioso
due giovani feriti dolorando
quivi trovaron, sanza alcun riposo;
e ciaschedun la morte domandava,
tanto dolor del lor mal gli agravava.
86
E' non eran da sé guari lontani,
armati tutti ancora, e a giacere;
i qua', come coloro a le cui mani
pervenner prima, udendo lor dolere,
gli vider, si pensar che de' sovrani
esser doveano; e ciò fecer vedere
le lucenti armi e loro altiero aspetto
che dio nell'ira lor facea dispetto.
87
E' s'appressaro ad essi e umilmente,
quasi già certi di lor condizione,
né disarmarli, come l'altra gente
nemica avevan fatta e cui in prigione
avevan messi; e poi benignamente
recatilisi in braccio, con ragione
gli ripigliavan del disperar loro;
e menarli a Teseo sanza dimoro.
88
I qua' Teseo come gli ebbe veduti,
d'alto affar li stimò, lor dimandando
se del sangue di Cadmo fosser suti.
E l'un di loro altiero al suo dimando
rispose: – In casa sua nati e cresciuti
fummo, e de' suo' nepoti semo; e quando
Creon contra di te l'empie arme prese,
fummo con lui, co' nostri, a sue difese. –
89
Ben conobbe Teseo nel dir lo sdegno
real ch'avean costor, ma non seguio
però l'effetto a cotale ira degno;
ma verso lor più ne divenne pio,
e co' medici suoi, con ogni ingegno,
fé sì che tutte lor piaghe guario;
e poi con gli altri in prigion li ritenne,
lor riservando al triunfo solenne.
Come Teseo triunfando tornò ad Attene
90
Poi che parve a Teseo del ritornare,
distrutta Tebe e data sepoltura
a cui vi fu da dovergliele dare,
raccolti i suoi con diligente cura,
inver d'Attene si mise ad andare;
né prima fur vicini alle sue mura
che ciò ch'all'altra festa era mancato,
a quel punto trovaron ristorato.
91
Gli Atteniesi un carro li menaro
più ricco assai che 'l primo, e tutti quanti
generalmente inverso lui andaro
con allegrezza, e con solenni canti
di vittoria doppia il commendaro;
e 'n cotal guisa, andandoli davanti,
entrarono in Attene, e quivi Egeo,
suo vecchio padre, incontro li si feo.
92
Esso davanti al suo carro fé gire
Arcita e Palemon, presi baroni,
a' qua' facea tutti gli altri seguire
ch'avea nel campo presi per prigioni;
e dietro al carro faceva venire
di preda onusti i suoi commilitoni;
ma al carro d'ogni lato era ripieno
di donne assai che gran festa facieno.
93
A così alto e magnifico onore
Teseo vegnendo, Ipolita reina
li venne in petto, il suo alto valore
mostrando più che mai quella mattina;
la quale e' vide con allegro core,
e Emilia con lei, rosa di spina,
con altre donne assai e cavalieri,
li quali ora nomar non fa mestieri.
94
A cotal festa e sì lieto sembiante
fu Teseo ricevuto e onorato
da tutti i suoi, e così triunfante
quasi per tutto con gioia menato;
ma com di Marte al tempio fu davante,
quivi li piacque che fosse arrestato
il carro suo, e in terra discese,
e 'n quello entrò a tututti palese.
95
Lì si fé dare l'arme che a Creonte
avea nel campo teban dispogliate,
e a Marte l'offerse, e dalla fronte
con man le frondi di Pennea levate
diè similmente, e con parole pronte
delle vittorie da lui acquistate
grazie rendé a Marte copiose,
offerendoli vittime pietose.
96
Quindi uscì poi, e al mastro palagio
tornò, accompagnato dal suo padre;
quivi prendendo gioco e festa e agio,
alla reina le cose leggiadre
narrava ch'avea fatte e 'l suo disagio,
spesso assalito dalle luci ladre
di quella donna, che 'l mirava fiso;
per ch'esser li pareva in paradiso.
Come Teseo fece mettere in prigione Palemone e
Arcita
97
Riposato più giorni in lieta vita,
il buon Teseo si fé innanzi venire
il teban Palemone e 'l bello Arcita,
e ciascun vide molto da gradire
e nello aspetto di sembianza ardita;
per che pensò di farli ambo morire,
dubbiando che s'andare e' li lasciasse,
non forse ancora molto li noiasse.
98
Poi fra sé disse: «Io farei gran peccato,
nullo di loro essendo traditore»;
e in se stesso fu diliberato
che li terrà in prigion per lo migliore;
e tosto al prigioniere ha comandato
che ben li guardi e faccia loro onore.
Così da lui Arcita e Palemone
dannati furo ad etterna prigione.
99
Li prigion furon tutti incarcerati
e dati a guardia a chi 'l sapea ben fare;
e questi due furon riservati
per farli alquanto più ad agio stare,
perché di sangue reale eran nati;
e felli dentro al palagio abitare
e così in una camera tenere,
faccendo lor servire a lor piacere.
Qui finisce il secondo libro
LIBRO TERZO
Sonetto nel quale si contiene uno argomento
particulare del terzo libro
Nel terzo a Marte dona alcuna posa
l'autore, e discrive come Amore
d'Emilia, bella più che fresca rosa,
a' duo prigion con li suoi dardi il core 4
ferendo, elli accendesse in amorosa
fiamma, mostrando poi l'aspro dolore
del soverchio disio e l'animosa
voglia di far sentire il lor valore. 8
E poi, pregando il figliuol d'Isione
il gran Teseo, suo amico caro,
Arcita fa fuor trarre di prigione; 11
e mostra i patti che con lui fermaro
e poi, preso congio da Palemone,
d'Attene il mostra uscir con duolo amaro. 14
Incomincia il libro terzo di Teseida
1
Poi che alquanto il furor di Iunone
fu per Tebe distrutta temperato,
Marte nella sua fredda regione
con le sue Furie insieme s'è tornato
per che omai con più pio sermone
sarà da me di Cupido cantato
e delle sue battaglie, il quale io priego
che sia presente a ciò che di lui spiego.
2
Ponga ne' versi miei la sua potenza
quale e' la pose ne' cuor de' Tebani
imprigionati, sì che differenza
non sia da essi alli loro atti insani;
li qua', lontani a degna sofferenza,
venir li fero a l'ultimo a le mani,
in guisa che a ciascun fu discaro,
e a l'un fu di morte caso amaro.
3
In cotal guisa adunque imprigionati
i due Tebani, in supprema tristizia
e quasi più che ad altro al pianger dati,
del tutto d'ogni futura letizia
dovere aver giammai più disperati,
maladicean sovente la malizia
dello 'nfortunio loro, e 'l tempo e l'ora
ch'al mondo venner bestemmiando ancora,
4
morte chiamando seco spessamente
che gli uccidesse, se fosse valuto.
E in istato cotanto dolente
presso che l'anno avevan già compiuto,
quando per Vener, nel suo ciel lucente,
d'altri sospir dar lor fu proveduto;
né prima fu cotal pensiero eletto,
che al proposto seguitò l'effetto.
Il tempo prima, e poi come Arcita e Palemone
s'innamorarono d'Emilia.
5
Febo, salendo con li suoi cavalli
del ciel teneva l'umile animale,
ch'Europa portò sanza intervalli
là dove il nome suo dimora aguale;
e con lui insieme graziosi stalli
Venus facea de' passi con che sale,
per che il cielo rideva tutto quanto
d'Amon, che 'n Pisce dimorava intanto.
6
Da questa lieta vista delle stelle
prendea la terra graziosi effetti,
e rivestiva le sue parti belle
di nuove erbette e di vaghi fioretti.
e le sue braccia le piante novelle
avean di fronde rivestite, e stretti
eran dal tempo gli alberi a fiorire
e a far frutto e 'l mondo ribellire.
7
E gli uccelletti ancora i loro amori
tututti avean cominciato a cantare,
giulivi e gai, nelle frondi e ne' fiori;
e gli anima' nol potevan celare,
anzi 'l mostravan con sembianti fori;
e' giovinetti lieti, che ad amare
eran disposti, sentivan nel core
fervente più che mai crescere amore.
8
quando la bella Emilia giovinetta,
a ciò tirata da propria natura
non che d'amore alcun fosse constretta,
ogni mattina, venuta l'aurora,
in un giardin se n'entrava soletta
ch'allato alla sua camera dimora
faceva, e 'n giubba e scalza gia cantando
amorose canzon, sé diportando.
9
E questa vita più giorni tenendo
la giovinetta semplicetta e bella,
con la candida man talor cogliendo
d'in su la spina la rosa novella,
e poi con quella più fior congiugnendo
al biondo capo fando ghirlandella,
avvenne nova cosa una mattina
per la bellezza di questa fantina.
10
Un bel mattin ch'ella si fu levata
e' biondi crin ravolti alla sua testa,
discese nel giardin, com'era usata:
quivi cantando e faccendosi festa,
con molti fior, su l'erbetta assettata,
faceva sua ghirlanda lieta e presta,
sempre cantando be' versi d'amore
con angelica voce e lieto core.
11
Al suon di quella voce grazioso
Arcita si levò, ch'era in prigione
allato allato al giardino amoroso,
sanza niente dire a Palemone,
e una finestretta disioso
aprì per meglio udir quella canzone,
e per vedere ancor chi la cantasse,
tra' ferri il capo fuori alquanto trasse.
12
Egli era ancora alquanto il dì scuretto,
ché l'orizonte in parte il sol teneva,
ma non sì ch'elli con l'occhio ristretto
non iscorgesse ciò che lì faceva
la giovinetta con sommo diletto,
la quale ancora esso non conosceva;
e rimirando lei fisa nel viso,
disse fra sé: «Quest'è di paradiso!».
13
E ritornato dentro pianamente
disse: – O Palemon, vieni a vedere:
Vener è qui discesa veramente!
Non l'odi tu cantar? Deh, se 'n calere
punto ti son, deh, vien qua prestamente!
Io credo certo che ti fia in piacere
qua giù veder l'angelica bellezza,
a noi discesa della somma altezza. –
14
Levossi Palemon, che già l'udiva
con più dolcezza che que' non credea,
e con lui insieme alla finestra giva,
cheti amenduni, per veder la dea;
la qual come la vide, in voce viva
disse: – Per certo questa è Citerea;
io non vidi giammai sì bella cosa
tanto piacente né sì graziosa. –
15
Mentre costoro, sospesi e attenti,
gli occhi e gli orecchi pur verso colei
tenendo fissi facevan contenti,
forte maravigliandosi di lei,
e del perduto tempo in lor dolenti
passato pria sanza veder costei,
Arcita disse: – O Palemon, discerni
tu ciò ch'io veggo ne' belli occhi etterni? –
16
– Che? – li rispose allora Palemone.
Arcita disse: – Io veggo in lor colui
che già per Danne il padre di Fetone
ferì, se io non erro, e in man dui
istral dorati tene, e già l'un pone
sovra la corda, e non rimira altrui
che me; non so se forse li dispiace
ch'io miri questa che tanto mi piace. –
17
– Certo – rispose Palemone allora
– il veggo, ma non so s'ha saettato
l'un, ché non ha più che uno in mano ora. –
Arcita disse: – Sì, e' m'ha piagato
in guisa tal che di dolor m'acora,
se io non son da quella dea atato. –
Allora Palemon tutto stordito
gridò: – Omè, che l'altro m'ha ferito! –
18
A quello omè la giovinetta bella
si volse destra in su la poppa manca;
né prima altrove ch'alla finestrella
le corser gli occhi, onde la faccia bianca
per vergogna arrossò, non sappiendo ella
chi si fosser color; poi, fatta franca,
co' colti fiori in piè si fu levata,
e per andarsen si fu inviata.
19
Né fu nel girsen via sanza pensiero
di quello omè, e ben che giovinetta
fosse, più che non chiede amore intero,
pur seco intese ciò che quello affetta;
e parendole ciò saper per vero
d'esser piaciuta, seco si diletta,
e più se ne tien bella, e più s'adorna
qualora poi a quel giardin ritorna.
20
Dentro tornaron li due scudieri,
poscia che videro Emilia partita;
e, stati alquanto con nuovi pensieri,
pria cominciò così a dire Arcita:
– lo non so che nel cor quel fiero arcieri
m'ha saettato, che mi to' la vita,
e sentomi fallire a poco a poco,
acceso, lasso! non so in che foco.
21
E non mi si diparte della mente
l'imagine di quella creatura,
né pensiero ho d'altra cosa niente;
sì m'è fissa nel cor la sua figura,
e sì mi sta nell'animo piacente,
ch'io mi riputerei somma ventura
s'io le piacessi com'ella mi piace;
e sanza ciò mai non credo aver pace. –
22
Palemon disse: – Il simile m'avene
che tu racconti, e mai più nol provai;
per che io sento al cor novelle pene,
tal ch'io non credo si sentisser mai;
e veramente io credo che ci tene
quel signore in balia, che già assai
volte udi' ricordar, cioè Amore,
ladro sottil di ciascun gentil core.
23
E dicoti che già sua prigionia
m'è grave più che quella di Teseo;
già più d'affanno nella mente mia
sento, ch'io non credea che questo iddeo
donar potesse; e gran nostra follia
a quella finestretta far ci feo,
quando colei cantava tanto vaga,
che già per lei di morte il cor si smaga.
24
Io mi sento di lei preso e legato,
né per me trovo nessuna speranza;
anzi mi veggo qui imprigionato
e ispogliato d'ogni mia possanza;
dunque che posso far che le sia in grato?
Nulla; ma ne morrò sanza fallanza;
e or volesse Iddio ch'io fossi morto!
Questo mi fora sommo e gran conforto.
25
Oh, quanto ne sarieno a tal fedita
gli argomenti esculapii buoni e sani!
Il qual dice om che tornerebbe in vita
con erbe i lacerati corpi umani.
Ma che dich'io, poi ch'Apollo, sentita
cotal saetta, che' sughi mondani
tutti conobbe, non seppe vedere
medela a sé che potesse valere? –
26
Così ragionan li due nuovi amanti,
e l'un l'altro conforta nel parlare;
né san se questa è dea ne' regni santi
che sia qua giù venuta ad abitare,
o se donna mondana; e li suoi canti
e le bellezze li fan dubitare;
per che, ignoranti di chi sì gli ha presi,
molto si dolgon, da dolore offesi.
27
Né escon delle sicule caverne,
allora ch'Eol l'apre, sì furenti,
ora le basse e ora le superne
parti cercando, li rabbiosi venti,
come costor delle parti più interne
producean fuor sospiri assai cocenti,
ma con picciole voci, perché ancora
era la piaga fresca che gli accora.
28
Continuando adunque il gir costei,
sola tal volta e tal con compagnia,
nel bel giardino a diporto di lei,
nascosamente gli occhi tuttavia
drizzava alla finestra, ove l'omei
prima di Palemone udito avia:
non che a ciò amor la costrignesse,
ma per veder se altri la vedesse.
29
E se ella vedeva riguardarsi,
quasi di ciò non si fosse avveduta,
cantando cominciava a dilettarsi
in voce dilettevole e arguta;
e su per l'erbe con li passi scarsi
fra gli albuscelli, d'umiltà vestuta,
donnescamente giva e s'ingegnava
di più piacere a chi la riguardava.
30
Né la recava a ciò pensier d'amore
che ella avesse, ma la vanitate,
che innata han le femine nel core,
di fare altrui veder la lor biltate;
e quasi nude d'ogni altro valore,
contente son di quella esser lodate,
e per quel di piacer sé ingegnando,
pigliano altrui, sé libere servando.
31
Li due novelli amanti ogni mattino,
nello apparir primier dell'aurora
levati, rimiravan nel giardino
per veder se in quel venuta ancora
fosse colei il cui viso divino
oltre ad ogni misura gl'innamora;
né di quel loco si potean levare
mentre lei nel giardin vedeano stare.
32
E' si credevan, mirandola bene,
saziar l'ardente sete del disio
e minor far le lor gravose pene:
e essi più dal valoroso iddio
Cupido si stringean nelle catene;
e or con lieto aspetto e or con pio
si dimostravan rimirando quella,
sol per piacere a lei quanto a loro ella.
33
E come avven che 'l dente del serpente
pria lede altrui con picciola morsura,
sé dilatando poi subitamente
offusca il membro della sua mistura,
poi l'uno a l'altro successivamente,
infin che 'l corpo tutto quanto oscura;
così costor di dì in dì, mirando,
d'amore il fuoco gieno aumentando.
34
E sì per tutto l'avevan raccolto,
che ogni altro pensier dato avea loco
e a ciascun già si parea nel volto
per le vigilie lunghe e per lo poco
cibo che e' prendean; ma di ciò molto
davan la colpa a l'allegrezza e 'l gioco
ch'aver soleano, e ora eran prigioni;
così coprendo le vere cagioni.
35
E da' sospiri già a lagrimare
eran venuti, e se non fosse stato
che 'l loro amor non volean palesare,
sovente avrian per angoscia gridato.
E così sa Amore adoperare
a cui più per servigio è obligato:
colui il sa che tal volta fu preso
da lui e da cota' dolori offeso.
36
Era a costor della memoria uscita
l'antica Tebe e 'l loro alto legnaggio,
e similmente se n'era partita
la 'nfelicità loro, e il dammaggio
ch'avevan ricevuto, e la lor vita
ch'era cattiva, e 'l lor grande eretaggio;
e dove queste cose esser soleano
Emilia solamente vi teneano.
37
Né era lor troppo sommo disire
che Teseo gli traesse di prigione,
pensandosi ch'a lor converria gire
in esilio in qualch'altra regione,
né più potrebber veder né udire
il fior di tutte le donne amazone;
ver è ch'uscir di lì per sommo bene
disideravano, e starsi in Attene.
38
Così costor da amor faticati,
vedendo questa donna, il loro ardore
più leve sostenean; poi ritornati,
partita lei, nel lor primo furore,
in lor conforto versi misurati
sovente componean, l'alto valore
di lei cantando; e in cotale effetto
nelli lor mal sentieno alcun diletto.
39
E non sappiendo ben chi ella fosse
ancora, un dì un lor fante chiamaro,
al quale Arcita ta' parole mosse:
– Deh, dinne per amore, amico caro,
sai tu chi sia colei che dimostrosse
l'altrieri a noi, cantando tanto chiaro,
in quel giardino? Haila tu mai veduta
in altra parte, o è dal ciel venuta? –
40
Il valletto rispose prestamente:
– Questa è Emilia, suora alla reina,
più ch'altra che nel mondo sia piacente;
la qual, perché ancor molto fantina,
al giardin se ne vien sicuramente,
sanza fallir giammai, ogni mattina;
e canta me' che mai cantasse Appollo,
e io l'ho già udita, e così sollo. –
41
Disser fra lor costoro: – E' dice il vero;
ell'è bene essa che n'ha tolto il core
e a lei volto ogni nostro pensiero;
e ciaschedun di noi albergatore
di pianti e di sospiri e di severo
tormento ha fatti e d'ogni altro dolore
con tanta forza sé fa disiare
con la bellezza che in lei appare! –
42
Così li due amanti con sospiri
vivevan tutto il giorno discontenti,
e vegnente 'l mattino i lor martiri
avevan sosta, infin gli occhi lucenti
vedean d'Emilia, che li lor disiri
ciaschedun'ora facean più ferventi;
e così visser mentre fu la state,
con doglia insieme e con soavitate.
43
Ma poi ch'al mondo tolse la bellezza
Libra ch'aveva donata Ariete,
li due amanti perder la dolcezza
che quietava lor focosa sete,
ciò è vedere la somma chiarezza
che gli teneva d'amor nella rete;
donde rimaser dolorosi forte,
chiamando giorno e notte sempre morte.
44
Il tempo aveva cambiato sembiante
e l'aere piangea tutto guazzoso;
secche eran l'erbe e spogliate le piante,
e 'l popol d'Eol correa tempestoso
or qua or là nel tristo mondo errante;
per che Emilia col viso amoroso,
lasciati li giardin, sempre si stava
in camera e del tempo non curava.
45
Allor tornarono i martiri e' pianti,
gli aspri tormenti e le noie angosciose
in doppio a ciaschedun de' due amanti,
e non vedevan né udivan cose
che lor piacesse; e così tutti quanti
si consumavano in pene dogliose;
e ciaschedun disperar si volea,
ma pure in fine se ne ritenea.
46
Grandi erano i sospiri e il tormento
di ciascheduno, e l'esser prigionati
vie più che mai faceva discontento
ciascun di loro, a tal punto recati;
e ogni giorno lor pareva cento
che fosser morti o quindi liberati,
e per lor solo e unico conforto
Emilia chiamavan, lor diporto.
Come Arcita fu tratto di prigione ad istanzia di
Peritoo
47
In questo tempo un nobil giovinetto,
chiamato Peritoo, venne a vedere
Teseo, suo caro amico; e con diletto
un dì si poser parlando a sedere;
e ragionando, a Teseo venne detto
de' due Teban li qua' facea tenere
imprigionati, Arcita e Palemone,
ciaschedun grande e nobile barone.
48
Allora Peritoo il prese a pregare
che li dovesse far veder costoro;
per che Teseo per lor fece mandare
e li si fé venir sanza dimoro.
Essi eran belli e di nobile affare,
e ben parea la gentilezza loro
nella forma e nell'abito ch'aveano,
posto ch'alquanto scolorati seano.
La forma e l'esser di Palemone.
49
Era Palemon grande e ben membruto,
brunetto alquanto e nello aspetto lieto,
con dolce sguardo e nel parlare arguto;
ma ne' sembianti umile e mansueto,
poi che fu innamorato, divenuto;
d'alto intelletto e d'operar secreto,
di pel rossetto e assai grazioso,
di moto grave e d'ardir copioso.
La forma e l'esser d'Arcita
50
Arcita era assai grande ma sottile,
non di soperchio, e di sembianza lieta;
bianco e vermiglio com rosa d'aprile,
e' cape' biondi e crespi, e mansueta
statura aveva, e abito gentile;
gli occhi avea belli e guardatura queta;
ma nel parlar gran coraggio mostrava,
e destro e visto assai a chi 'l mirava.
51
Conobbe Peritoo, nel lor venire,
Arcita e 'ncontro li si fu levato,
e abbracciollo e cominciolli a dire:
– O caro amico, come se' tu stato
qui tanto sanza farlomi sentire,
ché l'uscir di prigion t'avre' impetrato?
Mal grado n'abbi tu, ché ti sta bene
d'avere avute queste e maggior pene. –
52
Poi si rivolse a Teseo, suo amico,
dicendo: – Se giammai per mio amore
nulla facesti, quel ch'ora ti dico
ti priego facci, dolce mio signore,
che questo Arcita, mio compagno antico,
facci che di prigione egli esca fore;
io ten sarò tutto tempo tenuto,
e elli, in ciò che per te fia voluto. –
53
Teseo rispose: – Dolce amico caro,
ciò che tu mi domandi sarà fatto,
ma odi come, non ti sia discaro.
I' 'l trarrò di prigion con questo patto,
che nel mio regno e' non faccia riparo,
né ci venga giammai per nessuno atto;
ch'io l'ho disfatto e tenuto in prigione,
perch'a dritto di lui ho sospeccione.
54
S'io cel prendessi, io gli farò tagliare
la testa sanza fallo immantanente;
però, se vuol cotal patto pigliare,
vada dove li piace di presente
per lo tuo amor, che lo mi fai lasciare;
ché altramente mai al suo vivente
uscito non saria di prigionia,
ben lo ti giuro per la fede mia. –
55
Peritoo disse: – E io vo' ch'elli il faccia
e te ringrazio di cotanto dono. –
E tosto i ferri da' piè li dislaccia,
e libero lui lascia in abandono.
Arcita s'inginocchia e sì l'abraccia,
dicendo: – Peritoo, dovunque io sono,
son tutto tuo, e ciò ch'io posso fare,
sol che ti piaccia a me tuo comandare. –
56
Poi se n'andò innanzi al gran Teseo,
ginocchion disse: – Nobil signore,
se per me cosa incontro a te si feo
giammai, perdona per lo tuo onore,
ch'altro per me al ver non si poteo;
il danno che m'hai fatto e 'l disinore
i' 'l ti perdono, e ti ringrazio assai
di questa grazia ch'agual fatta m'hai.
57
E in che che parte io me ne debba gire,
son tutto tuo, quando ti sia in piacere;
non men che vita avrò caro il morire
per te, pur che ci sia il tuo volere.
A così grande e fervente disire
mi pinge Amor, che m'ha nel suo potere,
e a te e a' tuoi sì obligato,
ch'io sarò sempre tuo in ogni lato. –
58
Teseo cotal parlar non intendea
donde venisse, ma semplicemente
di puro cuor le parole prendea;
e però fé venir subitamente
nobili doni, e disse li piacea
che, oltre a quel ch'è 'ntra lor convenente,
e' pigliasse que' doni e glien portasse,
e del patto e di que' si ricordasse.
59
Arcita, a cui niente avea lasciato
la misera fortuna, bisognoso
ebbe i don di Teseo non poco a grato,
e poscia, con uno atto assai pietoso,
piangendo prese da Teseo commiato,
e del palagio discese doglioso,
pensando al suo esilio che 'l doveva
privar di veder ciò che li piaceva.
60
Ma Palemon, vedendo queste cose,
quasi nel cor moriva di dolore
per la fortuna sua, che più noiose
cose serbava al suo misero core,
e pel compagno suo, al qual gioiose
credea novelle del comune amore;
e quasi prese nova gelosia
di ciò ch'ancor non aveva in balia.
61
Esso fu rimenato alla prigione,
e Peritoo se ne gì con Arcita
e disse: – Caro amico e compagnone,
la voglia di Teseo tu l'hai udita;
ben che 'l tempo sia duro e la stagione,
e' si pur vuol pensar della partita;
ben me ne pesa, e sappi, s'io potessi,
non vorrei mai da me ti dividessi.
62
Io sì ti donerò arme e destrieri
di gran valore, belle e ben fornite,
per te e anco per li tuo' scudieri;
e poi, dove vi piace, ve ne gite;
tu se' di nobil sangue e buon guerrieri,
nato di genti valenti e ardite,
e non potrai fallire ad alto stato:
dove ch'arrivi, e' ti sarà donato. –
63
Arcita li rispose lagrimando
e ringraziollo del proferto onore,
e poi li disse: – Bello amico, quando
la mia partita è a grado al signore,
io la farò; ma sempre lamentando
andrò la mia fortuna con dolore,
poi c'ho perduto ciò ch'al mondo avea,
e converrà che d'altrui servo stea.
64
E certo io non conosco a cui servire
con maggior fede e con minor fatica
io possa ch'a Teseo, che dal morire
mi tolse, presso alla mia terra antica;
ma poi non vuol, convemmi intorno gire,
né so che farmi e vie men ch'io mi dica.
Or foss'io qui rimaso per servente
di chi si fosse, e non vi dria niente!
65
Non sai tu, Peritoo, come l'andare
attorno per lo mondo pien d'affanni
m'è conceduto? E' ti de' ricordare
ch'ancor non son trapassati due anni,
che sei gran re per lo nostro operare
fur morti a Tebe, e gravissimi danni
n'ebber gli Argivi e popoli altri assai,
per che odiati sarén sempre mai.
66
E oltre a ciò l'iddii ne sono avversi:
come tu sai, antica nimistate
serva Giunon ver noi, e diè perversi
mali a color che passar questa etate;
e noi ancor perseguendo ha somersi,
come tu vedi, in infelicitate
estrema; e Ercul né Bacco n'aiuta,
per che io tengo mia vita perduta. –
67
Queste parole facea dire Amore;
ma Peritoo non le conosceva,
sì come que' che non sapea l'ardore
che per Emilia dentro l'accendeva;
e però pur con purità di core
lui confortava, e spesso li diceva:
– Deh, non pensar che ti fallin l'iddii
che tu non abbi ancor quel che disii.
68
Molti altri regni ci ha dove potrai
miglior fortuna attender pianamente,
così com'io; e tu udito l'hai
che del qui rimaner saria niente
il ragionare, e a me parve assai
ricever pur quand'io liberamente
ti trassi di prigion; sie valoroso,
ché Dio non mancò mai a virtuoso. –
69
Poscia che Arcita, doppio ragionando
con Peritoo, sentì che 'l rimanere
non avea luogo, in sé stette pensando;
e tornandoli a mente che vedere
Emilia non potrebbe, essendo in bando,
quasi vicin fu a dir di volere
innanzi la prigion che tale esilio,
sospignendolo amore a tal consilio.
70
Ma la ragion, che subita prevenne
alla volontà folle di costui,
con tre buoni argomenti appena il tenne,
dicendo: «Se tu di' questo ad altrui,
e' non fia detto: "Amore il ci ritenne",
ma: "Non credendo sé valer, per lui
donato s'è a questa gran viltate,
prima ch'abbia voluta libertate".
71
E oltre a questo, se di prigion fora
se', molte cose potranno avvenire
che in istato ti porranno ancora;
e se 'n palese non potrai venire
in questa terra, come vorresti, ora,
forse altro tempo ci potrai reddire;
e se non in palese, almeno ascoso,
tanto che veggi il bel viso amoroso.
72
E se e' fosse tanta tua ventura
che 'n altro regno ella si maritasse,
non ti sarebbe soperchia sciagura
se in prigione allora ti trovasse?
Il che s'avien, con sollecita cura
esser potrai là dovunque ella andasse;
e posto che sua grazia non acquisti,
pur la vedranno almen gli occhi tuoi tristi».
73
Questi consigli distolser Arcita
dal suo sconcio e reo intendimento,
e confortossi l'anima invilita,
in ciò sperando; e preso il guarnimento
da Peritoo proferto, fé partita,
sé offerendo al suo comandamento,
dove che fosse, e sé raccomandando,
co' suoi scudier se ne gì sospirando.
Come Arcita, preso commiato da Palemone, uscì
d'Attene
74
Da Peritoo partito, se ne gio
dov'era Palemone imprigionato,
e sì li disse: – Caro amico mio,
da te convien che io prenda commiato
e ch'io mi parta, contro al mio disio,
sì come fuor bandito e iscacciato;
né ci oserò, credo, tornar giammai,
ond'io morrò in dolorosi guai.
75
Io me ne vo, o caro compagnone,
con redine a fortuna abandonate,
e vorria inanzi certo esta prigione,
che isbandito usar mia libertate;
almen vedrei alla nuova stagione
colei che ha 'l mio core in potestate,
ché mai, partito, vederla non spero,
ond'io morrò di doglia, questo è 'l vero.
76
Io lascio l'alma qui innamorata
e fuor di me vagabundo piangendo
men vo, né so là dove l'adirata
fortuna mi porrà così languendo;
per ch'io ti priego, s'alcuna fiata
vedi colei per cu' i' ardo e incendo,
che tu le raccomandi pianamente
que' che morendo va per lei dolente. –
77
Mentre 'n tal guisa favellava Arcita,
Palemon sempre lagrimava forte,
dicendo: – Lassa, trista la mia vita!
Perché non mi confonde tosto morte,
acciò che prima della tua partita
fosse finita la mia trista sorte?
Ché sanza te in doglioso tormento
rimango, lasso! tristo e iscontento.
78
Ma tu, se savio se' sì come suoli,
dei di fortuna assai bene sperare
e alquanto mancar delli tuoi duoli,
pensando ch'assai puoi adoperare,
libero come se' di quel che vuoli,
là dove a me conviene ozioso stare:
tu vederai andando molte cose
ch'alleggeranno tue pene amorose.
79
Ma io, che sol rimango, a poco a poco
verrò mancando come cera ardente;
e ben che tal fiata mi dea gioco
il riguardare il bel viso piacente,
tutto mi fia uno accender più foco,
come a me più non dimorrà presente;
ond'io non so omai quel ch'io mi faccia,
e par che 'l cuore in corpo mi si sfaccia. –
80
Così piangean con amari sospiri
li due compagni forte innamorati,
e parean divenuti due disiri
di pianger forte, sì eran bagnati;
per che, tra lor crescendo i lor martiri,
da' lor valletti furon rilevati
e della lor follia forte ripresi
del mostrarsi d'amor cotanto accesi.
81
Allora i due compagni si levaro
per le parole de' loro scudieri,
e amenduni stretti s'abracciaro
di buono amor e di cuor volontieri,
e poco appresso in bocca si basciaro,
e più che prima nel lagrimar fieri,
con rotta voce si dissero addio.
E così quindi Arcita si partio.
82
Nulla restava a far più ad Arcita
se non di girsen via, e già montato
era a caval per far sua dipartita,
fra sé dicendo: «O lasso sconsolato!
Sol tanto fosse a Dio cara mia vita
ch'io solo un poco il viso dilicato
d'Emilia vedessi anzi 'l partire,
poi men dolente me ne potrei gire».
83
Passò i cieli allor quella preghiera,
e seguì tosto d'Arcita l'affetto,
ché quel giglio novel di primavera
sovr'un balcone appoggiata col petto
si venne a star, con una cameriera,
mirando il grazioso giovinetto
che in esilio dolente n'andava,
e compassione alquanto gli portava.
84
Ma esso dopo il priego alzò il viso,
incerto del futuro, e vide allora
l'angelico piacer di paradiso;
per ch'el disse con seco: «Omai se fora
di qui mi to' fortuna, e' m'è avviso
non poter male avere». E quindi ancora
la riguardò, dicendo: «Anima mia,
piangendo sanza te me ne vo via».
85
E così detto, per fornir la 'mposta
fattoli da Teseo, a cavalcare
incominciò; ma dolente si scosta
dal suo disio, il qual quanto mirare
poté il mirò, pigliando talor sosta,
vista faccendo di sé racconciare;
ma non avendo più luogo lo stallo,
uscì piangendo d'Attene a cavallo.
Qui finisce il terzo libro di Teseida
LIBRO QUARTO
Sonetto nel quale si contiene l'argomento
particulare del quarto libro
Dimostra il quarto dipartito Arcita
con greve tempo, e 'l suo ramaricare,
mutato il nome per sicura vita,
e di Boezia a Corinto l'andare; 4
e quindi appresso la sua dipartita,
e in Mecena poscia l'arrivare,
dove con Menelao con ismarrita
mente si pose per famiglio a stare. 8
Quindi ad Egina a Pelleo se ne vene,
e con lui non potendo lungamente
durar, non conosciuto entrò in Attene, 11
e di Teseo diventò servente;
quindi dimostra la vita che tene,
faccendol noto a Panfil primamente. 14
Incomincia il libro quarto del Teseida. E prima
come Arcita con tempestoso tempo, mutatosi nome, ramaricandosi se ne va.
1
Quanto può fare il tempo più guazzoso,
cotanto allora il faceva Orione,
molto nel cielo allora poderoso
con le Pliade in sua operazione;
e Eol d'altra parte più ventoso
il faceva che mai, in quella stagione
ch'uscì d'Attena il doloroso Arcita
sanza speranza mai di far reddita.
2
Grande era l'acqua, il vento e 'l balenare
quel dì che Arcita si partì d'Attene,
dal termine costretto dell'andare,
posto che 'l dove e' non sapesse bene;
ma non pertanto, sol per sodisfare
a Peritoo, avendo ancora spene
del ritornar, dolente a capo chino
inver Boezia prese suo cammino.
3
Poco era ancor dalla terra partuto,
quand'elli a' suo' scudieri: – Amici cari,
io non intendo d'esser conosciuto,
mentre che duran questi tempi amari;
però che forse, se fosse saputo
là dov'io fossi, io non viverei guari;
e però non Arcita, ma Penteo
mi nominate in questo tempo reo. –
4
E poi con tempo iniquo camminando,
lo 'nnamorato Arcita si voltava
ispesse volte la città mirando,
e quindi, lei veduta, sospirava,
seco sovente così ragionando:
"Deh, quanto pò amor, poi che mi grava
partir del loco ch'io dovrei odiare,
se degnamente volessi operare!".
5
E quinci alla cagion che a ciò il traeva,
ciò era Emilia bella e graziosa,
subitamente l'animo volgeva;
onde con voce alquanto più pietosa,
fra sé parlando, misero diceva:
"O nobile donzella, o amorosa
più ch'altra fosse mai, esemplo degno
delle bellezze dello etterno regno,
6
dove, partendom'io contra volere,
posto che tu giammai non fosse mia,
essendo io tuo, ti lascio, o bel piacere?
Perché non m'era la prigion men ria,
potendo alcuna volta te vedere,
ch'avere il mondo tutto in mia balia
sanza di te, che io più che me amo,
né altra cosa ch'al mondo sia bramo.
7
Deh, se io fossi en la mia libertate
dimorato in Attene tanto ch'io
un poco pur la tua novella etate
avessi, omè, accesa del disio
del quale io ardo, credo in veritate
ch'io sentire' il lungo esilio mio
con men dolor, sentendo que' sospiri
in te per me c'ho per te, e' disiri.
8
Ma tu appena non conosci amore
non che tu m'ami, e però non ti cale
del mio intollerabile dolore,
né puoi compassione al mio gran male
portare; e ciò che mi dà duol maggiore
e con asprezza più il cor m'asale,
è che mi par vederti maritata
ad uom che mai non t'avrà più amata.
9
E così 'l mio fedele e buon servire
sarà perduto, e angosciosamente
lontano a te mi converrà morire.
Deh, or foss'io pur certo solamente
che per tal morte tu dovessi dire:
"Certo costui amò ben fedelmente;
e' me ne incresce!". Poi, dove ch'io gissi,
altro che ben non credo ch'io sentissi.
10
Deh, lasso me!, or che vo io cercando
ne' sospir dispietati e angosciosi,
che in me ognora van multiplicando,
ciò che esser non pò? O tenebrosi
regni di Dite, s'alcun tormentando
in voi tenete, dite che si posi,
poiché vivendo io son colui che porto
sol pena più che altro vivo o morto".
11
Poi ad Amor le sue voci volgea
con troppo più orribile favella
dolendosi di lui; poscia dicea:
"Omè, Fortuna dispietata e fella,
che t'ho io fatto che sì mi se' rea?
O Morte trista, vien, che 'l cor t'appella;
coniugni me, col tuo colpo feroce,
co' miei passati nella infernal foce".
Come Penteo pervenne in Boezia, e quel che disse
vedendo Tebe disabitata
12
Così piangendo con seco Penteo,
più doloroso assai che non appare,
il dì secondo del regno d'Egeo
uscì co' suoi, e cominciò a intrare
in quel nel qual già felice poteo,
cioè in Boezia; e dopo alquanto andare,
Parnaso avendo dietro a sé lasciato,
alla distrutta Tebe fu arrivato.
13
E' vide tutta quella regione
esser diserta allora d'abitanti,
per ch'elli incominciò: "O Anfione,
se tu, intanto che co' dolci canti
della tua lira, tocca con ragione,
per chiuder Tebe i monti circustanti
chiamasti, avessi immaginato questo,
forse ti saria suto il suon molesto.
14
Dove sono ora le case eminenti
del nostro primo Cadmo? Dove sono,
o Semelè, le camere piacenti
per te a quel che del più alto trono
governa il cielo, e per le qua' le genti
tebane mai non meritar perdono
da Iuno? E quelle dove son d'Almena,
che doppia notte volle a farsi plena?
15
Ove di Dionisio appaiono ora,
misero me, li triunfi indiani?
Deh, dove son gli eccelsi segni ancora
de' popoli silvestri libiani?
Nessun qui al presente ne dimora:
li re son morti, e voi, tristi Tebani,
dispersi gite, e 'n cenere è tornato
ciò che di voi fu già molto lodato.
16
Ov'è lo spesso popolo, ove Laio,
ove Edippo dolente, ove i figliuoli?
Ogni cosa ha distrutto il fuoco graio;
e per multiplicar li nostri duoli
con vergogna, le femine il primaio
v'accesero. O Iunon, dunque che vuoli
del nostro miser sangue più omai?
Non ti pare aver fatto ancora assai?
17
Piccola forza omai al tuo furore
finire ha luogo, ch'io e Palemone,
né altro più, del sangue d'Agenore
rimasi siamo; e elli è in prigione,
e io in tristo esilio; né piggiore
stato potresti donarci, o Iunone,
fuor se ci uccidi; e questo per conforto
disidera ciascun, d'esser già morto".
Come Penteo, partitosi di Boezia, andò a
Corinto, e quindi in Mecena
18
E detto ciò, con ira sospirando,
da quella torse il viso disdegnoso,
co' suo' scudieri inver Corinto andando;
nella qual giunto, assai piccol riposo
fece, ma ver Mecena cavalcando,
in essa quasi fuor di sé pensoso
pervenne, e quivi così sconosciuto
a servir Menelao fu ricevuto.
19
Egli era ancora molto giovinetto,
sì come il barba non aver mostrava;
bello era assai e di gentile aspetto,
e a gran pena quel ch'era celava;
ben l'avea fatto alquanto palidetto
l'amorosa fatica che portava,
ma non sì ch'elli molto non piacesse
a chiunque era que' che lui vedesse.
20
Egli era già vicin d'uno anno stato
con Menelao in gran doglia e tormento,
né mai, ben che n'avesse domandato
celatamente, del suo intendimento
niuna cosa n'aveva spiato;
per che ad Egina li venne in talento
d'andar, là dove reggeva Pelleo,
e, concedendol Menelao, il feo.
21
Quivi sperava di potere udire
d'Emilia novelle tal fiata;
questa sola cagion vel fece gire.
Elli avea già la forma sì mutata,
né di sé cosa alcuna sentia dire,
sì ch'a fidanza con la sua brigata
prese 'l cammino e gissene ad Egina,
là dove giunse la terza mattina.
Come Penteo in guisa di povero valletto si pose
a stare con Pelleo
22
Quivi in maniera di pover valletto,
non delli suoi maggior ma compagnone,
al servigio del re sanza sospetto
fu ricevuto e messo in commessione
e ubidendo a ciò che gli era detto,
si fece a modo che un vil garzone,
acciò che e' potesse lì durare,
fin che fortuna li volesse atare.
23
Quivi con seco sovente piangeva
la sua fortuna e la sua trista vita,
e spesse volte con sospir diceva:
"Ahi, doglioso più ch'altro e tristo
Arcita!
Se' fatto fante, laddove soleva
esser tua casa di fanti guarnita;
così fortuna insieme e povertate
t'ha concio, e il voler tua libertate.
24
Per libero esser, più servo che mai
se' divenuto, misero dolente!
Ahi, real sangue, che vitupero hai
sed e' mi conoscesse questa gente!
Certo per mio peccar nol meritai,
ma di Creon la dispietata mente
di questo, lasso!, m' è cagione stato,
e ancor dello stare imprigionato".
25
Così senza nell'animo riposo
aver giammai, in doglia sempre stava;
e l'esser già istato glorioso
vie più che gli altri danni il tormentava;
e vorria inanzi sempre bisognoso
essere stato e in vita trista e prava,
ch'avere avuto tal fiata bene
e ora sostener noiose pene.
26
E ben che di più cose e' fosse afflitto
e che di viver gli giovasse poco,
sopra ogn'altra cosa era trafitto
d'amor nel core, e non trovava loco;
e giorno e notte sanza alcun respitto
sospir gittava caldi come foco,
e lagrimando sovente doleasi,
e ben nel viso il suo dolor pareasi.
27
Egli era tutto quanto divenuto
sì magro, che assai agevolmente
ciascun suo osso si saria veduto;
né credo ch'Erisitone altramente
fosse nel viso che esso paruto
nel tempo della sua fame dolente;
e non pur solamente palido era,
ma la sua pelle parea quasi nera.
28
E nella testa appena si vedeano
gli occhi dolenti; e le guance, lanute
di folto pelo e nuovo, non pareano;
e le sue ciglia pelose e acute
a riguardare orribile il faceano
le come tutte rigide e irsute;
e sì era del tutto tramutato,
che nullo non l'avria raffigurato.
29
La voce similmente era fuggita
e ancora la forza corporale;
per che a tutti una cosa reddita
qua su di sopra dal chiostro infernale
parea, più tosto ch'altra stata in vita;
né la cagion onde venia tal male
giammai da lui nessun saputa avea,
ma una per un'altra ne dicea.
30
Come d'Attene lì nessun venia,
onestamente e con savio parlare
di molte cose domandandol pria,
d'Emilia trascorrea nel ragionare,
addomandando s'ella fosse o fia
nelli tempi vicin per maritare,
e d'altre cose circustanti molte;
ben che ciò gli avenisse rade volte.
Come e perché Penteo si dispose di tornare ad
Attene
31
Ma i dolenti fati, i qua' tirando
gian d'una in altra miseria costui,
vegnendosi il suo fine appropinquando,
con poca festa rallegraron lui,
diversamente l'opere menando
quando per esso e quando per altrui;
fin ch'al veduto termine pervenne,
dove si ruppe il fil che 'n vita il tenne.
32
Per avventura un dì, come era usato,
Penteo soletto alla marina gio,
e 'nverso Attene col viso voltato
mirava fisamente e con disio;
e quasi il vento ch'indi era spirato
più ch'altro li pareva mite e pio,
e ricevendol dicea seco stesso:
"Questo fu ad Emilia molto appresso".
33
E mentre che 'n tal guisa dimorava,
una barchetta dentro al porto entrare
vide; laonde ad essa s'appressava,
e cominciò di loro a domandare
donde venisse; e un che 'n essa stava
disse: – D'Attene, e là crediam tornare
assai di corto; s'tu vorrai venire,
qui su potrai con esso noi salire. –
34
A cotal voce sospirò Penteo;
poi, tratto quel da parte, pianamente
il domandò che era di Teseo,
e di più cose diligentemente,
a le qua' tutte que' li sodisfeo;
ma poi della reina ultimamente
e della bella Emilia domandando,
così que' li rispose al suo domando.
35
– Qualunque dea nel cielo è più bella,
nel cospetto di lei parrebbe oscura;
ell'è più chiara che alcuna stella,
né dicesi che mai bella figura
fosse veduta tanto come quella;
ver è che per la sua disaventura
l'altrier morì Acate, a cui sposa
esser doveva quella fresca rosa. –
36
E altre cose molte più li disse,
le qua' misor Penteo in gran pensiero;
e 'l tramortito amor quasi rivisse,
e il disio più focoso e più fiero
parve subitamente divenisse;
né ciò li parve a sostener leggiero,
e in sé conobbe che 'n tal disiare
non potrebbe or, come già fé, durare.
37
E' si sentiva sì venuto meno,
ch'appena si poteva sostenere;
onde, se a quelle pene che 'l coceno
nol medicasse l'Emilia vedere,
assai in brieve lui ucciderieno;
per che diliberò pur di volere
in ogni modo tornare ad Attene
ad alleggiare o a finir sue pene
38
fra sé dicendo: "Io son sì trasmutato
da quel ch'esser solea, che conosciuto
io non sarò, e vivrò consolato,
me ristorando del mal c'ho avuto,
vedendo il bello aspetto ove fu nato
il disio che mi tene e ha tenuto;
e s'al servigio di Teseo potessi
esser, non so che poi più mi chiedessi.
39
Se forse è sì crudel la mia ventura
ch'io sia riconosciuto, e' m'è il morire
vie più grazioso che vita sì dura,
come io fo in sempre mai languire".
Poi in su tal proposta s'asicura
e si dispon del tutto a ciò seguire;
e mille anni gli par che a ciò sia,
tanto vedere Emilia disia.
Come Penteo tornò in Attene
40
E' non tardò di metter ad effetto
cotal pensiero, anzi commiato prese,
e 'nver di quella navicò soletto;
e 'n pochi giorni lì giunto discese
in maniera di povero valletto,
e in Attene con tema si mise;
e acciò ch'elli Emilia vedesse,
stette più dì, né fu chi 'l conoscesse.
41
Quando s'avide ben ch'era del tutto
fuor delle menti di tutte persone,
e che l'angoscia e 'l doloroso lutto
ora li torna in consolazione,
disse fra sé: "Ancor sentirò frutto
della mia lunga tribulazione;
e la fortuna, a me stata nemica,
sotto altro aspetto mi fia forse amica".
Come Penteo andò nel tempio d'Apollo ad adorare
42
Quinci agli eccelsi templi se ne gio
del grande Appollo, e 'nnanzi alle sue are
s'inginocchiò, e con sembiante pio
volendo quivi li suoi prieghi dare,
subito pianto molto lo 'mpedio,
venutoli da nuovo memorare
quel che già fu e quel che egli ora era
poi cominciò in sì fatta maniera:
43
– O luminoso Iddio che tutto vedi,
il cielo e 'l mondo e l'acque parimente,
e con luce continua procedi
tal che tenebra non t'è resistente,
e sì tra noi col tuo girar provedi
ched e' ci vive e nasce ogni semente,
volgi ver me il tuo occhio pietoso
e questa volta mi sie grazioso.
44
A me non legne, non fuoco, né incenso,
non degno armento a la tua deitate,
non lauree corone, e or pur censo
mi fosse a sodisfar necessitate;
e quinci vien che con giusto compenso
non son da me le tue are onorate,
e tu il ti vedi, ché di ciò ingannare
non ti potrei, perch'i' 'l volessi fare.
45
Di lagrime, d'affanni e di sospiri,
d'ogni infortunio e povertate intera
son io fornito, e ancor di disiri
d'amor, vie più che bisogno non m'era;
di questi a te che l'universo giri
fo sacrificii con nuova maniera;
prendili per accetti, io te ne priego,
e al mio domandar non metter niego.
46
Sì come te alcuna volta Amore
costrinse il chiaro cielo abandonare
e lungo Anfrisio, in forma di pastore,
del grande Ameto a gli armenti guardare,
così or me il possente signore
qui in Attene ha fatto ritornare,
contra 'l mandato che mi fé Teseo,
allor ch'a Peritoo mi rendeo.
47
E ben ch'angoscia transformato m'abbia,
e 'l nuovo nome, di ciò ch'io solea
altra volta esser, la smarrita labbia
priego mi servi o nuova in me la crea,
sotto la qual coverta la mia rabbia,
vedendo Emilia, contento mi stea,
e a servir Teseo sia ricevuto,
sanza mai esser lì riconosciuto.
48
Se ciò mi fai, e io sia rivestito
giammai del mio, sì come tu se' degno
t'onorerò. – E fu esaudito
d'ogni suo priego, e cognobbene segno;
per che dal tempio tosto dipartito,
a fornir sua intenzion lo 'ngegno
pose, e pensò come fatto venisse
ch'esser potesse che Teseo servisse.
Come Penteo fu ricevuto al servigio di Teseo, e
come elli prima rivide Emilia, da lei solamente riconosciuto
49
Com'elli avea con seco immaginato,
così lo immaginar seguì l'effetto;
e s'elli avesse a lingua dimandato
non gli saria sì ben venuto detto,
però che fu con Teseo allogato,
né fu dell'esser suo preso sospetto,
né domandato fu chi fosse o donde:
così gli andaron le cose seconde!
50
E' non fu prima a tal partito giunto,
che 'l suo aspetto un pochetto più chiaro
si fé che pria parea così compunto,
e dipartissi il suo dolore amaro
il qual l'avea col lagrimar consunto,
e le sue membra forze ripigliaro;
ma tutte altre allegrezze furon nulla
a petto a quando vide la fanciulla.
51
Teseo, faccendo una mirabil festa,
tra l'altre donne Emilia fé venire,
la qual più ch'altra leggiadra e onesta,
piacevol, bella e molto da gradire,
ornata assai in una verde vesta,
tal che di sé ciascuno uom facea dire
lode maravigliose, e tal dicea
che veramente ell'era Citerea.
52
Ma oltre a tutti gli altri con disio
la rimirava più lieto Penteo,
dicendo seco: – O Giove, sommo iddio,
se e' mi fa omai morir Teseo,
alli tuoi regni me ne verrò io;
omai non mi può nuocer tempo reo,
e di buon cuor perdono alla fortuna
se mai di mal mi fece cosa alcuna,
53
poi ch'ella m'ha condotto a cotal porto,
ch'io veggio il chiaro viso di colei
ch'è sommo mio diletto e mio conforto.
Fuggan da me e sospiri e gli omei,
fugga 'l disio ch'aveva d'esser morto,
siemi ben sommo il rimirar costei;
questo mi basti. – E sì dicendo, fiso
sempre mirava l'angelico viso.
54
Maggior letizia non credo sentisse
allor Tereo quando li fu concesso
per Pandion che Filomena en gisse
alla sua suora in Trazia con esso,
che or Penteo; ma come ch'avenisse,
essendogli ella non molto di cesso,
inver di lui alquanto gli occhi alzati,
ebbe li suoi di botto affigurati.
55
Mirabil cosa a dir quella d'amore,
che rade volte è che la cosa amata,
quantunque ella abbia male abile core
d'esser per tale obietto innamorata,
pur nella mente porta l'amadore;
e quantunque ella si mostri adirata,
non le dispiace, e se non ama altrui,
poco o assai conven ch'ami colui.
56
Era, com'è già detto, giovinetta
Emilia tanto, ch'ella non sentia
quanto nel core amor punge o diletta,
allor ch'Arcita pria se n'andò via
le' rimirando, come su si detta;
il quale, ancor che la fortuna ria
così deforme l'avesse renduto,
da essa sola fu riconosciuto.
57
Ella nol vide prima che ridendo
con seco disse: "Questi è quello Arcita
il quale io vidi dipartir piangendo.
Ahi, misera dolente la sua vita!
Che fa e' qui? Or che va e' caendo?
Non conosc'el che se fosse sentita
la sua venuta da Teseo, morire
gli converrebbe o in prigion reddire?".
58
Vero è che tanto fu discreta e saggia,
che più di ciò non parlò ad alcuno,
e a lui fa sembianti che non l'aggia
giammai veduto più in loco nessuno;
ma ben si maraviglia quale scaggia
di bianco l'abbia così fatto bruno
e dimagrato, che par pur la fame
nel suo aspetto e pien di tutte brame.
59
Incominciò il nobile Penteo,
ammaestrato da fervente amore,
sì a servir sollecito a Teseo
e ad ogni altro per lo suo valore,
ch'elli in tutto suo segreto il feo,
amando lui più ch'altro servidore;
e 'l simile l'amava la reina
di buono amor, e ancor la fantina.
60
E ben che la fortuna l'aiutasse
e fosse a lui benigna ritornata,
mai dal diritto senno lui non trasse,
né 'l fece folleggiare una fiata;
e posto che ferventemente amasse,
sempre teneva sua voglia celata,
tanto ch'alcun non se ne accorse mai,
ben che facesse per amore assai.
61
Come io dico, saviamente amava,
né si lasciava a voglia trasportare,
e a luogo e a tempo rimirava
Emilia bella, e ben lo sapea fare;
e ella savia talor se ne addava,
mostrando non saper che fosse amare;
ma pur l'età già era innanzi tanto,
che ella conoscea di ciò alquanto.
62
Esso cantava e faceva gran festa;
faceva pruove e vestia riccamente,
e di ghirlande la sua bionda testa
ornava e facea bella assai sovente;
e 'n fatti d'arme facea manifesta
la sua virtù, che assai era possente;
ma duol sentiva, in quanto esso credea
Emilia non sentir per cui il facea.
63
Né e' non gliele ardiva a discovrire,
e isperava e non sapea in che cosa,
donde sentiva sovente martire;
ma per celar ben sua voglia amorosa,
e per lasciar li sospir fuori uscire
che facean troppo l'anima angosciosa,
avea in usanza tal volta soletto
d'andarsene a dormire in un boschetto.
64
E questo aveva in costuma di fare
nel tempo caldo, ch'era fresco il loco,
e era sì rimoto da l'andare
di ciaschedun, che ben poteva il foco
d'amor con voci fuor lasciare andare
e a sua posta lungamente e poco;
e non era lontano alla cittate
oltre tre miglia giuste misurate.
65
Egli era bello, e d'alberi novelli
tutto fronzuto e di nova verdura;
e era lieto di canti d'uccelli,
di chiare fonti fresche a dismisura,
che sopra l'erbe facevan ruscelli
freddi e nemici d'ogni gran calura;
conigli, lepri, cervi e cavriuoli
vi si prendean con cani e con lacciuoli.
66
Come io dico, in quello assai sovente,
quando con arme e quando senza, gire
Penteo usava, e 'n su l'erba ricente
sotto un bel pin si poneva a dormire,
a ciò invitato da l'acqua corrente
che mormorava; ma del suo disire
focoso, in prima che s'adormentasse,
con Amor convenia si lamentasse.
67
E cominciava così a parlare:
– Io non pensava, Amor, che tu potessi
tanto in un cuor d'uno uomo adoperare,
ch'al piacer d'una donna sì 'l traessi,
ch'ogni altra cosa il facessi obliare,
e in potenzia di lei tutto il ponessi,
come hai posto tutto quanto il mio,
che altro che servirla non disio.
68
Ma tu m'hai fatto in alcun caso torto,
però ch'io amo e non son punto amato,
ond'io non spero mai d'aver conforto;
e haimi sì tutto l'ardir levato,
che dir non l'oso, e tu te ne se' accorto,
perché troppo m'hai posto in alto lato
a quel ch'a mia fortuna si convene,
ché non son ricco d'altro che di pene.
69
Deh, quanto mi saria stata più cara
la morte ch'aspettar la tua saetta!
Oh, quanto dicer può che l'abbia amara
qualunque è que' che dolente l'aspetta,
però che in essa poco ben ripara
a rispetto del mal che ella getta!
E però s'io mi dolgo, io ho ragione,
vedendo me legato in tua prigione.
70
Ma tu se' tanto e tal, caro signore,
ch'ogni mia doglia puoi volvere in pace,
faccendo ch'ella mi senta nel core
quale essa dentro al mio sentir si face;
e io, sì come umil servidore,
ti priego il facci, Amor, se e' ti piace.
Deh, chi sarà di me poi più contento,
se per me pruova quel ch'io per lei sento?
71
Io viverò tutto tempo gioioso,
né biasmerò giammai tua signoria;
io ti farò sacrificio pietoso,
signor mio caro, della vita mia,
e sempre il tuo onore in grazioso
verso da me lieto cantato fia:
adunque fallo, se di me ti cale,
ch'io mi consumo per soverchio male. –
72
Questo ripete spesso con sospiri,
chiamando Emilia, e nel dir si contenta,
e quasi in mezzo delli suoi martiri
istanco tutto quivi s'adormenta;
e mentre il ciel co' suoi etterni giri
l'aere tien di vera luce spenta,
si stava, e sempre si svegliava allora
che da Titon partita ven l'Aurora.
73
Allor, sentendo cantar Filomena
che si fa lieta del morto Tereo,
si drizza, e 'l polo con vista serena
mirato un pezzo, lauda Penteo
la man di Giove d'ogni grazia piena,
che lavoro sì bello e grande feo;
poi ad Emilia il suo pensier voltava,
vedendo Citerea che si levava
74
mostrando innanzi al sol la sua chiarezza,
alla qual gli occhi d'Emilia lucenti
assomigliava e la mira bellezza;
e gli augelletti, del giorno contenti,
davan, cantando in su' rami, dolcezza,
per che a Penteo i pensier più cocenti
si facevano ognora, e più a quelli
dava gli orecchi, sì gli parean belli.
75
E quando aveva gran pezza ascoltato,
mirava inver lo cielo e sì dicea:
– O chiaro Febo, per cui luminato
è tutto il mondo, e tu piacente dea
del cui valor m'ha tuo figliuol piagato
vie troppo più che io non mi credea,
mettete in me sì del vostro valore,
che io non pera per soverchio amore.
76
Deh, date al mio amar fine piacente,
sì ch'io non moia per fedelmente amare;
per glovanezza Emilia non sente
che cosa sia ancora innamorare,
né come piace conosce niente,
se ad Amor non gliel fate mostrare;
e io non l'oso più fare assentire,
tanta è la mia paura del morire.
77
E così vivo in speranza dubbiosa,
e 'l mio adoperare è sanza frutto;
per ch'io ti priego, o Venere amorosa,
entrale in core omai, e me che tutto
son sanza fallo suo, fa che pietosa
senta, sì che si termini il mio lutto;
e tu, Febo, la fa tanto discreta,
che la mia voglia in sé ritenga cheta. –
78
E queste e altre più parole ancora
metteva in nota lo giovine amante;
ma poi che e' vedeva chiara l'ora
e le stelle partite tutte quante,
sanza far quivi più lunga dimora,
se ne veniva ad Attene festante,
e alla cambra del signor n'andava
per lui servir, se nulla bisognava.
Come Penteo, nel boschetto ramaricandosi, fu
conosciuto da Panfilo
79
Questa maniera teneva Penteo
molto sovente, fuor d'ogni paura,
e a grado servendo il gran Teseo,
di suo amore ognora avea più cura;
ma poco n'avanzava, e di ciò reo
li parea molto, onde di sua sventura
una mattina con greve parlare
così si cominciò a ramarcare:
80
– O misera Fortuna de' viventi,
quanti dai moti spessi alle tue cose!
Deh, come abbassi li sangui e le genti,
e quando vuoli ancora graziose
le vilissime fai, e non consenti
di legge avere in esse mervigliose,
sì come uom vede in me che son verace
esemplo del girar che fai fallace.
81
Di real sangue, lasso!, generato,
venni nel mondo d'ogni pena ostello,
e con gran cura in ricchezza allevato,
nella città di Bacco tapinello
vissi e con gioia tenni grande stato,
sanza pensare al tuo operar fello;
poi per l'altrui peccato, non per mio,
la gioia e 'l regno e 'l sangue mio perio.
82
E fui del campo per morto,doglioso
feruto, tolto e recato a Teseo,
il qual, sì come signor poderoso,
come li piacque, imprigionar mi feo;
quivi, per farmi peggio, l'amoroso
dardo m'entrò nel cor, focoso e reo,
per la bellezza d'Emilia piacente,
che mai di me non si curò niente.
83
E cominciai di novo a sospirare
per tal cagione, e a sostener pene;
né mi pareva assai avere a fare
di sostener di Teseo le catene,
delle qua' Peritoo mi fé cacciare;
onde convenne partirmi d'Attene,
credendo aver mio affar migliorato,
e di gran lunga il trovai piggiorato;
84
ch'io mi trovai povero e pellegrino
del regno mio cacciato, e per amore
gir sospirando a guisa di tapino;
e là dove altra volta fui signore,
servo divenni per lo gran dichino
della fortuna; e non potendo il core
più sofferir, da Pelleo fei partita,
Penteo essendo tornato d'Arcita.
85
E sì d'Emilia strinse la bellezza,
che di Teseo cacciai via la paura,
e qui mi misi per la mia mattezza
a ritornare con mente sicura,
essendo suo nemico; alla sua altezza
divenni servidor con somma cura,
sì ch'io Emilia vedessi sovente,
colei ch'è donna mia veracemente.
86
E essa, omè, del mio greve tormento
nulla si cura né pensa este cose,
sì che io servo vie peggio ch'al vento,
e stonne sempre in pene dolorose;
e or m'avesser sol fatto contento
d'un bel guardarmi le luci amorose!
Ma tu, crudel Fortuna, mi ci nuoci,
ch'ognor con nuovo foco più mi coci.
87
Di tanto sol seconda mi se' stata,
che 'l nome mio hai ben tenuto cheto;
e ha' mi ancor tanta grazia donata,
che al servir m'hai fatto mansueto;
e di Teseo la grazia m'hai prestata,
di che io son vivuto molto lieto;
ma tutto è nulla, s'Emilia non fai
che com'io l'amo conosca oramai.
88
Io ardo e 'ncendo per lei tutto quanto,
e dì né notte non posso aver posa,
ma mi consumo e in sospiri e 'n pianto;
né mi pò confortare alcuna cosa,
se non Emilia cui io amo tanto,
mostrandomi la sua faccia amorosa,
dalla qual, morto, lei mirando vita
riprendo, tanta speranza m'aita. –
89
Così di sopra da l'erbe e da' fiori
Penteo la sua fortuna biasimava
un bel mattin, nel venir degli albori.
Allor per avventura indi passava
Panfilo, ch'era l'un de' servidori
di Palemone, e intento ascoltava
dello scudiere il gran ramarichio
di sua fortuna e ancor del disio.
90
E fra se stesso si fu ricordato
chi fosse Arcita, e udì che Penteo
nel suo ramaricar s'era chiamato,
per che tantosto lo riconosceo,
e molto seco s'è maravigliato
com'elli avea la grazia di Teseo:
non disse nulla, ma ver la prigione
se ne tornò per dirlo a Palemone.
91
Ma il giovine Penteo, di ciò ignorante,
come ora fu in Attene sen venne,
e con allegro viso e con festante
al loco ove era il suo signor pervenne;
col qual di molte cose ragionante,
sì com'elli era usato, si ritenne;
poi, partito da lui, gì a sapere
s'un poco Emilia potesse vedere.
Qui finisce il libro quarto del Teseida
LIBRO QUINTO
Sonetto nel quale si contiene l'argomento
particulare del libro quinto
Marte, che troppo s'era riposato,
entrato in Palemon novo sospetto
il suo compagno udendo ritornato,
dimostra il quinto a lui entrar nel petto; 4
quindi dichiara lo 'ngegno trovato
a sprigionarlo dal savio valletto,
poi dal medico suo il mostra armato,
e lui orante conduce al boschetto. 8
Poscia le lor carezze, e 'l quistionare
d'ognun volere Emilia, e 'l fiero Marte
può chiaro assai chi più legge trovare; 11
quindi venendo Emilia d'una parte,
vedendo lor, Teseo fece chiamare,
il qual con patto lor, già noti, sparte. 14
Incomincia il libro quinto del Teseida. E prima
come Palemone, pensoso rimaso in prigione, seppe che Arcita era tornato
1
Rimase Palemon, partito Arcita,
com'è già detto di sopra, in prigione,
e poco cara aveva la sua vita,
tanta sentiva più sconsolazione
che altro, e simil per la dipartita
la qual già fatta avea il suo compagnone;
e 'l tempo suo in lagrime e sospiri
tutto spendeva, pien d'aspri martiri.
2
In parte paurosa gelosia
lo stimola che Arcita, dell'amore
d'Emilia forse rinvestito, sia
per suo sollecitar di prigion fore;
e quinci pensa ch'Arcita si fia
dileguato del mondo per temore
dell'aspra morte che Teseo dicea
di darli se lì giunger lo potea.
3
Poi d'altra parte lo stringeva assai
amor più che l'usato, e disiare
li facea ciò ch'a lui non parea mai
possibil di potere appressimare;
speranza d'altra parte li suoi guai
faceva alquanto più lievi passare;
così di cose varie si gravava
dentro al pensiero, e simil s'alleggiava.
4
E pur portava nel core speranza
che di prigion quando che sie uscirebbe,
della qual fuor, l'amor della sua amanza
sanz'alcun fallo crede acquisterebbe;
e quasi li parea sanza fallanza
ch'ancor per sua nel mondo la terrebbe;
e 'n cotal guisa sua vita menando,
viveva in doglia e 'n gioia talora stando.
5
Al qual Panfil, tornando del boschetto,
venne in prigione e d'una parte il trasse;
e ragionando con esso soletto,
molto il pregò che non si sconfortasse,
e poi li disse senza alcun difetto
come conobbe Arcita, e ciò che trasse
del suo parlare, e ch'e' servia Teseo
e faceasi per nome dir Penteo.
6
Maravigliossi Palemone assai,
e disse: – Panfil, guarda non errassi;
ché io non credo che Arcita mai
né tu né altri per qua lo scontrassi. –
Rispose Panfil: – Certo sì scontrai,
e ancora è nel boschetto e istassi,
e ben che sia molto transfigurato,
e' pure è desso, tanto l'ho mirato. –
7
Palemon disse allora: – Grande amore
e poco senno cel fa dimorare,
ché se venisse ad orecchie al signore,
tututto il mondo nol poria campare.
O sommo Giove, quanto l'amadore
al suo disio sé lascia tirare,
e quanti ingegni s'usan per venire
all'amoroso fin di tal disire! –
8
Poi disse a Panfil: – Guarda che non sia
sentito da nessun ciò che m'hai detto,
ché posto ch'elli a me per gelosia
sanza colpa di lui mi sia sospetto
per uscir di prigione, in fede mia
non vorre' io ch'egli avesse difetto;
se gl'iddii l'aman più che me non fanno,
abbiasi il pro' e mio si sia il danno. –
Come a Palemone venne del tutto in disio
d'uscire di prigione, e il perché; e come Panfilo trovò il modo
9
Poi cominciò a pensar fortemente
sopra l'affar d'Arcita innamorato,
e crede che d'Emilia veramente
il lieto amore egli abbia guadagnato,
e poscia dice: "O me lasso dolente,
in che mal punto nel mondo fui nato!
Ch'io amo e sto in priglone, e altri face
quel ch'io faccendo poria sentir pace.
10
E or mi fosse un poco di speranza
rimasa, o mi venisse, dell'uscire
di questo loco! Io mi crederei, sanza
la doglia che io ho, gioia sentire,
e ancora la mia somma intendanza
sanz'alcun fallo crederei fornire;
ma sì m'è gran nemica la fortuna,
ch'io n'uscirò quando starà la luna!
11
E s'io di quinci uscissi per ventura,
da Arcita converria che io sapesse,
su buon cavallo e con forte armadura,
quel che tra lui e me esser dovesse
dell'amor della nobil creatura
che mi fa sentir pene così spesse;
e fermamente ella mi rimarrebbe,
o sopra il campo l'un di noi morrebbe.
12
Ma come avrei io ardir contro a lui,
che per uscirci giammai non tentai?
E el non cura lo star con colui
ch'è suo nemico per vederla, e mai
non ha posato di servire altrui
per servir lei; e io in trarre guai
ho speso il tempo, ov'io dovea più tosto
morir voler che sempre star nascosto".
13
E sì come Tesifone, chiamata
dal cieco Edippo nella oscura parte
dov'elli lunga notte avea menata,
a' due fratei del regno con su' arte
mise l'arsura, così a lui 'ntrata
con quel velen che 'l suo valor comparte,
d'Emilia aver, dicendo: – Signoria
né amore stan ben con compagnia. –
14
E subito così cambiò il pensiero,
e chiamò Panfil di cui si fidava,
e disse: – Amico, ora sappi per vero
che troppo qui l'adimorar mi grava,
e però fa che il mio dire intero
vegna, se puoi, sicch'io di questa prava
prigion mi parta e possa conquistare
per arme Emilia, se e' si può fare.
15
Questo pensier di novo m'è venuto
e sanza fallo il metterò ad effetto;
e se e' fia per ventura saputo
prima che sia con l'opera perfetto,
da me si dica che sia proceduto
ciò che farai, ché e' mi fia diletto
morire anzi che stare in tal tormento,
perciò ch'io fo il dì ben morti cento. –
16
Panfil rispose: – Caro signor mio,
morir per voi a me sarebbe vita,
e però penserò sì ch'al disio
di voi darò bene opera compita,
avvegnane che puote omai; ché s'io
ne dovessi morir, darovvi uscita
di questo loco; onde vi confortate
e di cuor lieto alquanto v'aspettate.
17
Elli uscì fori e gio in loco solo,
e 'nfra se stesso cominciò a pensare;
e pria li venne nel pensiero il volo
che Dedal fé con Icar per campare,
ma nol vide possibil; poi d'imbolo
s'immaginò lui di prigion cavare,
ma non li parve via ben ben sicura;
però non se ne mise in avventura.
18
Similemente pensò per denari
voler corromper le guardie vegghianti,
sentendo loro in generale avari;
ma mal pareali a fidarsi di tanti
quanti di nuovo lì venien vicari
sanza lunga dimora essere stanti;
e 'n brieve non vedea di poter fare
ciò che 'ntendea con le guardie trattare.
19
Ma pur li venne un modo in pensamento
che infra gli altri li parve migliore,
e dopo molto disaminamento
il si fermò con ordine nel core,
pensando che il suo intendimento
saria fornito e quel del suo signore;
al qual n'andò, là dov'era in prigione,
e così cominciò: – O Palemone,
20
e' non ha guar che qui venne Alimeto,
di medicina maestro sovrano,
uom d'alto senno e di vita quieto;
e so che esso fu nostro tebano,
e puolli l'uom ben dire ogni segreto
e da lui prender buon consiglio e sano:
questi ci fornirà il nostro fatto,
per mio avviso, e udite in che atto:
21
che voi v'infignerete esser malato
in sul mutar che le guardie si fanno,
e io avraggio ben lui informato
e avvisato dello nostro inganno,
e 'ncontanente a voi l'avrò menato,
perché e' curi voi del vostro affanno;
e' vestirà li miei panni, ma voi,
sì come mastro, vi vestite i suoi.
22
E sanza fare alcun dimostramento,
con lui fuor ve n'uscite baldanzoso,
e me lasciate qui sanza pavento
in vostro luogo, e dite ch'io riposo;
essi non fien di tanto avvedimento
che vi conoscan, se voi uscite oso;
poi se Arcita volete, soletto
voi il troverete nel lieto boschetto. –
23
– Tu hai ben detto – disse Palemone;
– però metti ad effetto queste cose. –
E malato si fece alla stagione
che Panfilo con lui insieme pose;
e Panfil, sanza far dimoragione,
ad Alimeto il loro affar dispose.
Egli era a Palemon fedele amico;
disse: – Io son presto, e farol com'io dico. –
Come Panfilo, inebriate le guardie, fece
Palemone uscire di prigione
24
Panfilo allor si cominciò a dolere
con que' ch'avean Palemon a guardare,
che 'l suo signore è infermo, e a sedere
con lor si puose, e fé vino arrecare
a gran dovizia, e cominciò a bere;
e però che non l'aveano a pagare,
sanza ordine nessun n'hanno cioncato,
tanto ch'ognun s'è bene inebriato.
25
Allora Panfil fé il mastro venire,
il qual vi venne molto lietamente,
e tosto de' suo' panni il fé vestire,
e Palemone ancor similemente
di que' del mastro fece rifornire;
e sanza più addimorar niente,
Palemon, fatto medico, assai lieto
fuor di prigione uscì con Alimeto.
26
Le guardie allora incontro li si fanno,
e del prigion domandan come stava,
e e' con fermo viso dello inganno
che Panfil fatto aveva, ben s'adava,
e disse: – Certo egli ha assai affanno,
ma al presente alquanto si posava;
però il lasciate questa notte stare,
domattina il verrò a ricercare. –
Come Palemone, uscito di prigione, andò armato
al boschetto
27
Lasciato adunque il suo buon servidore
Palemone in prigion, col suo maestro
se n'andò all'ostiere, e di bon core,
dimenticato già il tempo sinestro,
dormì alquanto, e già vegnenti l'ore
vicine al giorno su si levò destro;
e fattesi armi e buon caval ancora
prestar, quivi s'armò sanza dimora.
28
Alimeto sapeva il convenente,
sì come Palemon gli avea contato;
per ch'elli il lasciò fare, e prestamente
ben l'aiutò, però che n'era usato.
E quelli uscì d'Attene di presente,
e inverso il boschetto s'è avviato,
là dove Arcita allora si dormia
sicuro sì come faceva in pria.
29
Cheto era il tempo, e la notte le stelle
tutte mostrava ancora per lo cielo,
e 'l gran Chiron Aschiro avea, con quelle
che vanno seco, il pianeto che 'l gielo
conforta, il quale le sue corna belle
coperte aveva con lucente velo,
e quasi piena, ove Cenìt facea
il ciel, nel mezzo cerchio, rilucea.
30
Inver la qual, poi l'ebbe rimirata
alquanto, Palemon cominciò a dire:
– O di Latona prole inargentata,
che or meni i passi miei sanza fallire
con la tua luce meco accompagnata,
piacciati alquanto li miei prieghi udire;
e come in questo se' ver me pietosa,
così nell'altro mi sii graziosa.
31
Io vado tratto da quella fortezza
d'amor che trasse Pluto a innamorarsi
sopra Tifeo della tua gran bellezza,
allor che tu ne' prati con iscarsi
passi ten givi en la tua giovanezza
cogliendo i fiori per li campi sparsi.
Acciò che per battaglia io possa avere
l'amor di quella sol che m'è in calere,
32
guida li passi miei, come facesti
più volte in mar di Leandro i lacerti;
e sì col padre tuo fa che mi presti
quella virtù che fa gli uomini esperti;
e come tu del tuo lume mi vesti,
così da' colpi i membri fa coperti
che mi darà l'avversario potente,
sì ch'io di lui ne rimanga vincente. –
Come Palemone pervenne al bosco, ove trovò
Arcita dormire
33
E mentre che così dicendo andava,
giunse nel bosco per gli albori ombroso,
e con intento sguardo in quel cercava
acciò ch'Arcita trovasse amoroso;
e mentre in dubbio fortuna il portava,
s'avenne sopra il prato ove riposo
prendeva Arcita, ch'ancora dormiva
e Palemon vegnente non sentiva.
34
E poi che fu di sopra la rivera
sotto il bel pino infra le fresche erbette
che lì avea produtte primavera,
vide dormire Arcita; onde ristette,
e appressato quivi dov'egli era,
il rimirava, e a ciò molto stette;
e sì nel viso li parea mutato,
che non l'avrebbe mai raffigurato.
35
Ma Febea, che chiara ancor lucea,
co' raggi suoi il viso li scopria,
sicché aperto Palemon vedea
perché il risomigliarlo li fuggia;
ma poi ch'alquanto mirato l'avea,
in sé la sua effigie risentia,
per che disse fra sé: "Desso è per certo,
né 'l può celar la barba ond'è coverto".
36
E' nol voleva miga risvegliare,
tanto pareva a lui che e' dormisse
soavemente; ma si pose a stare
allato a lui, e così fra sé disse:
"O bello amico molto da lodare,
se al presente tu ti risentisse,
tosto fra noi credo si finirebbe
qual di noi due per donna Emilia avrebbe".
Come, risvegliato, Penteo si fece carezze con
Palemone, e il loro ragionare
37
E 'n questo il giorno a fare era già presso,
e a cantar gli uccelli han cominciato,
per che Penteo, risentendosi addesso,
in piè si fu prestamente levato.
Ver Palemon, che veniva verso esso,
con maraviglia tosto s'è voltato,
e disse: – Cavalier, che vai cercando
per questo bosco, sì armato andando? –
38
A cui tosto rispose Palemone:
– Cosa del mondo nulla altra cercava
se non di trovar te, o compagnone;
questo voleva e questo disiava,
e però sono uscito di prigione. –
E poi benignamente il salutava.
Penteo li rispose al suo saluto
e tostamente l'ha riconosciuto.
39
E 'nsieme si fer festa di buon core
e li loro accidenti si narraro;
ma Palemon, che tutto ardea d'amore,
disse: – Or m'ascolta, dolce amico caro;
io son sì forte preso del valore
d'Emilia bella col visaggio chiaro,
che io non trovo dì né notte loco,
anzi sempre ardo in amoroso foco.
40
E tu so ch'ancor l'ami similmente,
ma più che d'uno ella esser non poria;
per ch'io ti priego molto caramente
che tu consenta che ella sia mia;
e' mi dà 'l cuor di far sì fattamente,
se questo fai, che quel che ne disia
di lei 'l mio core avrò sanza tardanza;
lasciala dunque a me sol per amanza. –
41
Quando Penteo queste parole intese,
tutto si tinse e divenne fellone,
e d'ira dentro tutto il cor s'accese,
e poi rispose e disse: – Palemone,
e' ti puote esser certo assai palese
ch'i' ho messa mia vita a condizione
sol per poter ad Emilia servire,
cui io tanto amo, ch'i' nol poria dire.
42
Pero ti priego, se t'è la mia vita
niente cara, che quel che dimandi
tu il conceda al tuo parente Arcita,
il qual s'è messo a pericoli grandi
per procacciar di lei gioia compita;
e tu il sai se e' son ammirandi,
che uditi gli hai, raccontandotegli io:
fa dunque, caro amico, il mio disio. –
43
Palemon disse allor: – Veracemente
questa non è l'amistà ch'io credea
aver di te, poi sì palesemente
un don mi nieghi il quale io ti chiedea;
ma io ti giuro, per l'onipotente
Giove del cielo e per Venere dea,
che prima ch'io di qui faccia partenza,
co' ferri partirén tal differenza.
44
Però t'acconcia come me' ti piace
dell'arme omai, e tua ragion difendi,
ché di tal guerra non sarà mai pace,
poi quel di ch'io ti priego mi contendi,
e 'l core in corpo tutto mi si sface.
Perché tu peni e del campo non prendi
contra di me, che vincer o morire
per la mia donna porto nel disire? –
45
A cui Penteo disse: – O cavaliere,
perché vuo' por te e me in periglio
forse di morte (e non ti fa mestiere)?
Deh, noi possiam pigliar miglior consiglio,
che ciascun si procacci a suo potere
d'aver l'amor del grazioso giglio,
e a cui il concede la fortuna
colui se l'abbia sanza briga alcuna.
46
Tu sai che io son quiritto sbandito,
e tu hai rotta a Teseo la prigione;
però se 'l nostro affar fosse sentito,
non ci bisogneria far più ragione
d'Emilia bella col viso chiarito,
ma seremmo di morte a condizione;
e però piano amiamo intrambendui,
infin che Giove altro faccia di noi.
47
Forse le cose avranno mutamento,
e potremmo tornare in nostro stato;
o io partirmi e tu esser contento,
come fui io, da Teseo accettato,
e così alleggiarsi il tuo tormento;
o quello amor mancar che m'ha infiammato,
e sola Emilia a te si rimarebbe,
ch'essere in questo punto non potrebbe. –
48
Palemon più di ciò non volle udire,
anzi li disse tosto: – Vedi, Arcita,
se io dovessi qui oggi morire,
tra noi convien che ella sia partita;
chi me' saprà della spada ferire,
a lui rimanga la donna e la vita;
se tu mi fai per forza ricredente,
mai più non l'amerò veracemente. –
49
– Deh ! – disse Arcita, – Questo a dir che vene?
Pognàn che tu quiritta m'abbi morto,
che farai tu? Avrai tu minor pene?
Che ben te ne verrà o che conforto?
Io pur conosco che e' ti convene
in prigion ritornare, o, pel più corto
cammin che tu potrai, fuggirne via:
Emilia, poscia, che util ti fia?
50
E pognàm pur che tu fossi in amore
a Teseo com'io sono, è tua credenza
che le volesse te dar per signore?
Tu se' ingannato; egli ha più alta intenza!
Io sono stato e son suo servidore
quanto esser posso, e sempre sto in temenza,
dove ch'io sia, pur di rimirarla;
e tu come ardirai di domandarla?
51
E se io qui con fé ti promettessi
di non amarla, credi tu che fare
con tutto il mio ingegno io il potessi?
Certo più tosto sanza mai mangiare
crederei viver che d'amarla stessi;
e amor non si può così cacciare
come tu credi; e poco ama chi posa,
per impromessa, d'amare una cosa.
52
Dunque che vuoi pur far? Combatteremo,
e con le spade in man farén le parti
di quella cosa che noi non avemo?
Deh, perché lasci così abagliarti
al tuo folle consiglio? Omè, ch'io temo
lo 'mpedimento tuo, se non ti parti
prima che 'l giorno sia, né sicur sono,
s'io son riconosciuto, di perdono. –
53
– Di mia salute – disse Palemone,
– non aver tu pensier; del tutto, avanti
che io mi parta, la nostra quistione
si finirà, sì che l'un de' due amanti
solo d'amarla fia in possessione;
e' consigli che dai ho tutti quanti
esaminati meco, e son contento
più di morir che di vita in tormento.
54
Se tu fai quel ch'io cheggio, gelosia,
s'altro non me ne segue, avendo fede
in te come in amico, anderà via;
e ben nel tempo di ciò mi procede,
rendronne grazie alla fortuna mia;
dunque t'apresta, ché il mio cor crede
vittoria aver, se non vuogli altramente
in ciò far cosa che mi sia piacente. –
55
Allora disse Penteo sospirando:
– Omè, ch'io sento l'ira dell'iddii,
li quali ancor ne vanno minacciando
contrarii tutti alli nostri disii;
e la fortuna ci ha qui lusingando
menati con effetti lieti e pii,
e non Amore, a voler che moiamo
per le man nostre, come noi sogliamo.
56
Omè, che m'era assai maravigliosa
cosa a pensar che Iunon ci lasciasse
nostra vita menare in tanta posa,
e come i nostri noi non stimolasse,
de' quali alcun giammai a gloriosa
morte non venne, che si laudasse;
ond'io mi posso assai ramaricare,
vedendo noi a simil fin recare.
57
I primi nostri, che nacquer de' denti
seminati da Cadmo, d'Agenore
figlio, ver lor furon tanto nocenti,
che sanza riguardar fraterno amore
fra lor s'uccisero; e i can mordenti
Atteon disbranaron lor signore;
e Atamante i suoi figliuoli uccise,
tal Tesifone in lui fiera si mise!
58
Latona uccise i figliuoi d'Anfione
intorno a Niobè, madre dolente;
e la spietata nemica Iunone
arder fé Semelè miseramente;
e qual d'Agave e delle sue persone
fosse la rabbia, il si sa tutta gente;
e simile d'Edippo, il quale il padre
uccise e prese per moglie la madre.
59
Quai fosser poi fra loro i due fratelli,
d'Edippo nati, non cal raccontare:
il fuoco fé testimonianza d'elli,
nel qual fur messi dopo il lor mal fare
e 'l misero Creonte dopo quelli
molto non s'ebbe di Bacco a lodare;
or resta sopra noi, che ultimi siamo
del teban sangue, insieme n'uccidiamo.
60
E e' mi piace, poi che t'è in piacere,
che pure infra noi due battaglia sia;
io sarò presto a fare il tuo volere,
ma pria mi lascia addobbar l'arma mia
e ripigliare lo mio buon destriere;
quindi farén tutto ciò che disia
la mente folle che sì ti consiglia:
piangasi il danno a cui di ciò mal piglia. –
61
Isnellamente Penteo si fu armato,
se forse alcuna cosa li mancava,
e ebbe tosto il caval ripigliato,
e destramente sopra vi montava;
e inver Palemon si fu voltato,
che fiero e tutto ardente l'aspettava,
e sì li disse: – Omai, come ti piace,
prendi con meco o vuo' guerra o vuo' pace.
62
Ma siemi il ciel, che queste cose vede,
ver testimonio, e Appollo surgente,
e' Fauni e le Driade, se si crede
che 'n questo loco alcun ne sia possente;
e le stelle ch'io veggio faccian fede
come io son del combatter dolente,
e Priapo con esse, li cui prati
ci apparecchiàn di fare insanguinati.
63
Non mi si possa mai rimproverare
ch'io sia cagion di battaglia con teco;
tu mossa l'hai e tu pur la vuoi fare,
e pace schifi di voler con meco;
sallosi Iddio ch'io non poria lasciare
mai d'amar quella c'ha 'l mio cor con seco;
ma, così amando, volentier vorrei
con teco pace, e presto a ciò sarei. –
Come tra Penteo e Palemone, dopo lungo
ragionare, si cominciò la battaglia
64
Dette queste parole, nulla cosa
rispose Palemon, ma inanzi al petto
lo scudo si recò, quindi l'ascosa
spada nel foder trasse, e 'l viso eretto,
inver Penteo con voce orgogliosa
disse: – Or si parrà chi più diletto
avrà d'amare Emilia. – A cui Penteo:
– Tu di' il vero; – e 'nver di lui si feo.
65
E' non avevan lance i cavalieri,
e però insieme giostrar non potero;
ma con li spron punsero i buon destrieri,
e con le spade in man presso si fero
l'un verso l'altro, e sì si scontrar fieri,
che maraviglia fu, a dir lo vero,
e sì de' petti i cava' si feriro,
che rinculando a forza in terra giro.
66
Ma non pertanto il valoroso Arcita
su l'elmo con la spada a Palemone
diede un tal colpo, ch'appena la vita
li rimanesse fu sua oppinione,
e ben credette alla prima ferita
che terminata fosse lor quistione;
ma poi che sotto il buon destrier caduto
si vide, su si levò sanza aiuto.
67
E Palemon, nel cader del cavallo,
percosse il capo sopra il verde prato;
il che acrebbe il gran mal sanza fallo
ch'aveva per lo colpo a lui donato
dal buon Penteo, per che di quello stallo
non si moveva, anzi parea passato
di questa vita, e a giacer si stava;
e 'l buon Penteo ardito l'aspettava.
68
Ma poi che elli il vide pur giacere,
disse fra sé: "Che potrebbe esser
questo?"
E sanza indugio lui gì a vedere,
e trovol che non era ancora desto
dello spasmo profondo, e 'n suo parere
disse: "Morto è, ché troppo li fu infesto
il colpo della mia spada tagliente,
di ch'io sarò tutto tempo dolente".
69
Elli il tirava degli arcion di fori
soavemente, e l'elmo li traeva,
e 'n su l'erbetta fresca e sopra i fiori
teneramente a giacer lo poneva;
e poi con man delli freschi liquori
del vicin rivo a suo poter prendeva,
e 'l viso li bagnava acciò che esso,
se fosse vivo, si sentisse addesso.
70
Ma Palemone ancor non si sentia,
per che Penteo piangeva doloroso,
dicendo: – Lassa omai la vita mia!
Morto è il mio compagno valoroso;
ma di ciò testimon Febo mi sia,
che io non fui di ciò volonteroso,
né mai battaglia con lui disiai.
O me dolente, perché mai amai?
71
S'io questa donna non avessi amata,
com'io faceva, di tutto mio core,
questa battaglia non sarebbe stata;
ma per difendere il leale amore
che io porto ad Emilia, è incontrata
l'aspra giornata piena di dolore;
or foss'io morto il giorno che a Teseo
prima tornai, nominato Penteo! –
72
E 'n questo punto tornò Palemone
in sua memoria e 'n piè si fu levato,
ché non aveva altro che stordigione
per lo gran colpo in sé di mal provato;
e come ardito e franco e buon campione,
davanti al petto lo scudo recato,
si vide presso che forte piangea
il buon Penteo, a cui così dicea:
73
– Leva su, cavalier, che io non sono
ancora vinto, perch'io sia abbattuto;
e se della tua spada il greve trono
mi spaventò, in me son rivenuto;
e non creder però aver perdono
da me, perché pietoso t'ho veduto;
e' ti convien con forza e con valore
combatter meco d'Emilia l'amore. –
74
Maravigliossi allor Penteo assai,
e dentro al cor nascose la sua ira,
e disse: – Palemon, gran ragione hai
di mal volere a chi per te sospira,
ma d'altra foggia ti sarò omai;
però come tu vuo' così ti gira,
prendi come ti piace ogni vantaggio,
ché di te vincer ho fermo coraggio. –
75
Ciaschedun chiama in suo aiuto Marte
e Venere e Emilia insiememente,
e imprometton doni; e d'altra parte
ciascun si reca dentro alla sua mente
la nobiltà, l'ardire e la molta arte
delle battaglie e 'l ferir prestamente
e l'uno inver dell'altro de' baroni
s'andarono a ferir come dragoni.
76
Li scudi in braccio e le spade impugnate,
sopra l'erbette l'un l'altro ferendo,
sanza aver più l'un dell'altro pietate,
si gieno i due baroni e ricoprendo:
tututte l'armi s'aveano spezzate,
per la lunga battaglia combattendo
e poco s'era ancora conosciuto
ch'alcun vantaggio fra lor fosse suto.
Come ai due combattenti Emilia sopravenne
77
Ma come noi veggiam venire in ora
cosa che in mille anni non avvene,
così avvenne veramente allora
che Teseo con Emilia d'Attene
uscir con molti in compagnia di fora,
e qual di loro uccello e qual can tene,
e nel boschetto entraro, alcun cornando,
alcun compagni e alcun can chiamando.
78
E cominciar lor caccia e lor diletto,
e ciascun gia sì come li piacea
in qua in là per lo folto boschetto,
e chi uccelli e chi bestie prendea;
e in tal guisa, senza alcun sospetto,
con un falcone in pugno procedea,
per pervenire alla chiara rivera,
Emilia, ove per lei tal battaglia era.
79
Ell'era sopra d'un bel pallafreno
co' can dintorno, e un corno dallato
avea e dalla man contraria al freno,
dietro alle spalle, un arco avea legato
e un turcasso di saette pieno,
che era d'oro tratto lavorato;
e ghirlandetta di frondi novelle
copriva le sue treccie bionde e belle.
80
E sopravenne lì subitamente,
e s'arestò vedendo i cavalieri;
ma conosciuta fu immantanente
da ciaschedun delli due buon guerrieri;
li qua' però non ristetter niente,
ma ne divenner più forti e più fieri,
sì si raccese in ciaschedun l'ardore
della donzella ch'amavan di core.
81
Ella si stava quasi che stordita,
né giva avanti né 'ndietro tornava;
e sì per maraviglia era invilita,
ch'ella non si movea né non parlava,
ma poi ch'alquanto fu in sé reddita,
della sua gente a sé quivi chiamava,
e similmente ancor chiamar vi feo
a veder la battaglia il gran Teseo.
82
Il quale assai di maraviglia prese
chi fosser questi due che combatteano,
e a mirarli lungamente intese;
e stima ben che gran mal si voleano,
quando considerava ben l'offese
che essi insieme tra lor si faceano;
ma poi ch'egli ebbe assai ciascun mirato,
cavalcò oltre e lor si fu appressato.
Come Penteo e Palemone si palesassero a Teseo
83
Poi disse loro: – O cavalier, se Marte
vittoria doni a chi più la disia,
ciascun di voi si tragga d'una parte,
e s'elli è in voi alcuna cortesia,
mi dite chi voi sete e chi in tal parte
a battaglia v'induce tanto ria,
secondo ne mostrate nel ferire
che fate l'uno a l'altro da morire. –
84
Li cavalier quando vider Teseo
e lui udiro a lor così parlare,
ciascuno indietro volentier si feo,
e vorrebbero avere a cominciare
quella battaglia; ma il buon Penteo
prima così rispose al dimandare:
– Noi siam duo cavalier che per amore
con le spade proviàn nostro valore. –
85
Disse Teseo: – Ditene chi sete. –
A cui Penteo: – Noi 'l farem volentieri,
se voi, caro signor, ne promettete
la pace vostra, se a noi fia mestieri. –
A cui Teseo rispose: – Vo' l'avete,
perch'io vi veggio sì pro' cavalieri,
e combattete ancor per tal cagione,
ch'offendervi saria contra ragione. –
86
Allora que' rispose prestamente:
– Io sono il vostro Penteo che vi parlo,
il qual con questo cavalier valente,
per troppo amor, volendo soperchiarlo,
battaglia fo; e e' me similmente
vuol soperchiar, perch'io accompagnarlo
voglio ad amar; chi e' sia, ecco lui
che vel dirà assai me' che altrui. –
87
A Palemon pareva male stare;
ma non pertanto e' cacciò la paura
e disse: – Siri, io nol posso celare
chi io mi sia, e ancor mi sicura
vostra virtù che non vorrete usare
la vostra forza contro alla mia pura
mente, che per amor fuor di prigione
usci', e sono il vostro Palemone. –
88
Teseo, udendo nominar costoro,
prima sdegnò, poi ringraziolli assai
che s'eran nominati, e disse loro:
– Deh, non vi spiaccia, ditemi oramai
come Cupido con lo stral dell'oro
amendun vi ferì di pari guai,
con ciò sia cosa che l'un vien d'Egina,
l'altro fu preso a Tebe la meschina.
89
E se licito m'è ch'io sappia ancora
chi sia la donna, vi priego il diciate. –
Palemon sospirò, e disse allora
come le cose tutte erano andate;
e ciò Teseo vie più che l'altre accora
che prima gli erano state contate,
e disse: – Amor v'ha dato grande ardire,
poi non curate per lui il morire. –
90
A cui Palemon disse: – Alto signore,
saputo hai ciò che vuoli interamente
e a contarlo m'ha dato valore
disiderio di morte certamente,
la qual mi finiria l'aspro dolore
che sempre offende la mia trista mente
e io, che son di tua prigion fuggito,
ho d'esser morto molto ben servito. –
Come Teseo, perdonando loro, rispose, e i patti
posti loro da lui
91
Allor Teseo: – Non piaccia a Dio che sia
ciò che dimandi, ben che meritato
l'aggiate per la vostra gran follia;
ché l'un contra 'l mandato è ritornato,
e l'altro ha rotta la mia prigionia,
sì ch'io non ne saria mai biasimato
se i' 'l facessi, né faria fallanza,
ma serverei l'antica buona usanza.
92
Ma però ch'io già innamorato fui
e per amor sovente folleggiai,
m'è caro molto il perdonare altrui,
perch'io perdon più fiate acquistai,
non per mio operar, ma per colui
pietà a cui la figlia già furtai;
però sicuri di perdono state:
vincerà il fallo la mia gran pietate.
93
Ma non fia assoluto il perdonare,
ch'io ci porrò piacevol condizione,
la qual voi mi prometterete fare,
se io perdono a vostra falligione. –
Essi il promisero, e e' fé giurare
lor di servarla sanza offensione,
e felli insieme far pace solenne;
poi in questo modo con lor si convenne.