Giovanni
Boccaccio
Il
Filocolo
Edizione
di riferimento:
Giovanni
Boccaccio: Filocolo, a cura di E. Quaglio, in Tutte le opere, a
cura di V. Branca, vol. I, Mondadori, Milano 1967
LIBRO
PRIMO
[1]
Mancate
già tanto le forze del valoroso popolo anticamente disceso del troiano Enea,
che quasi al niente venute erano per lo maraviglioso valore di Giunone, la
quale la morte della pattovita Didone cartaginese non avea voluta inulta
dimenticare e all'altre offese porre non debita dimenticanza, faccendo degli
antichi peccati de' padri sostenere a' figliuoli aspra gravezza, possedendo la
loro città, la cui virtù già l'universe nazioni si sottomise, sentì che quasi
nelle streme parti dello ausonico corno ancora un picciolo ramo della ingrata
progenie era rimaso, il quale s'ingegnava di rinverdire le già seccate radici
del suo pedale. Commossa adunque la santa dea per le costui opere, propose di
ridurcelo a niente, abbattendo la infiammata sua superbia, come quella degli antecessori
avea altra volta abbattuta con degno mezzo. E posti i risplendenti carri agli
occhiuti uccelli, davanti a sé mandata la figliuola di Taumante a significare
la sua venuta, discese della somma altezza nel cospetto di colui che per lei
tenea il santo uficio, e così disse:
«O
tu, il quale alla somma degnità se' indegno pervenuto, qual negligenza t'ha
messo in non calere della prosperità dei nostri avversarii? quale oscurità t'ha
gli occhi, che più debbono vedere, occupati? levati su: e però che a te è
sconvenevole a guidare l'armi di Marte, fa che incontanente sia da te chiamato
chi con la nostra potenza abbatta le non vere frondi, che sopra lo inutile
ramo, le cui radici già è gran tempo furono secche, dimorano, e in maniera che
di loro mai più ricordo non sia. Intra 'l ponente e i regni di Borrea sono
fruttifere selve, nelle quali io sento nato un valoroso giovane, disceso
dell'antico sangue di colui che già i tuoi antecessori liberò dalla canina
rabbia de' longobardi, loro rendendo vinti con più altri nimici alla nostra
potenza. Chiama costui però che noi gli abbiamo quasi l'ultima parte delle
nostre vittorie serbata, e sopra noi gli prometti valorose forze. Io gli farò
li fauni e' satiri e le ninfe graziose ne' suoi affanni: Nettunno e Eolo disiderano
di servirmi; e Marte a' miei prieghi vigorosamente l'aiuterà; e il nostro Giove
è di tutte queste cose contento, però c'ha preso isdegno, veggendo a gente
portare per insegna quello uccello nella cui forma già molte volte si mostrò a'
mondani, che più a' sacrifici di Priapo intendono che a governare la figliuola
d'Astreo, loro debita sposa. Io ancora ti prometto di commuovere con le
infernali furie un'altra volta gli abondevoli regni in suo servigio, come già
feci quando ne' paesi italici entrò il santo uccello, la cui ruinazione non
permisi allora, volendogli prestare tempo nel quale potendosi pentere meritasse
perdono, e ancora però che sentiva che di lui dovea discendere lo edificatore
di questo luogo pontificale. Adunque sollecita queste cose; e se ciò non farai,
sanza più porgerti le mie forze io ti lascerò nelle sue mani».
E
detto questo, si partì, discendendo a' tenebrosi regni di Pluto; e con
lamentevole voce chiamata Aletto, disse:
«A
te conviene la seconda volta rivolgere le fedeli menti de' discendenti di
colui, il quale tu non potesti altra volta per tua forza del tutto sturbare che
negli italici regni smisurate forze non prendesse: ma ciò fu nel principio
delle loro prosperità; ma questo fia nell'ultima parte delle loro avversità, la
quale ultima parte la loro fama spegnerà nel mondo».
E
questo detto, voltato il suo carro, tornò al cielo. Gli oscuri regni, udendo
tale novella si dolfero, veggendo apertamente per quella la loro preda mancare:
ma al volere della santa dea non si potea resistere. Però Aletto, lasciati
quelli, tornò agli altri, i quali ella già a crudeli battaglie aveva commossi,
e quivi gli animi de' più possenti impregnò di volontà iniqua contra 'l
principale signore, mostrando loro come venereamente le loro matrimoniali letta
avea violate; e così, pregni d'iniquo volere e d'ira mormorando, gli lasciò
focosi, ritornandosi donde partita s'era. Il vicario di Giunone sanza indugio
chiamò il giovane dalla santa bocca eletto a' suoi servigi, il quale allora
signoreggiava la terra la quale siede allato alla mescolata acqua del Rodano e
di Sorga, e a lui mostrò i larghi partiti promessigli dalla santa dea, se in
tale servigio con le loro forze si mettesse; e ultimamente gli promise d'ornare
la sua fronte di reale corona del fruttifero paese, se la maladetta pianta del
tutto n'estirpasse.
Non
fece il valoroso giovane disdetta a sì fatta impresa, ma, disideroso di dare a
sé e a' suoi simile scanno, chente i predecessori aveano avuto, si mise con
vigorose forze alla mirabile impresa; e in brieve tempo con la sua forza e con
gli promessi aiuti la recò a fine, posando il suo solio negli adimandati regni,
avendo annullati i nemici di Giunone con proterva morte; e quivi nuova progenie
generata, stato per alquanto spazio, rendeo l'anima a Dio. Quegli che dopo lui
rimase successore nel reale trono, lasciò appresso di sé molti figliuoli: tra'
quali uno, nominato Ruberto, nella reale dignità constituto, rimase
integramente con l'aiuto di Pallade reggendo ciò che da' suoi predecessori gli
fu lasciato. E avanti che alla reale eccellenza pervenisse, costui, preso del
piacere d'una gentilissima giovane dimorante nelle reali case, generò di lei
una bellissima figliuola; ben che volendo di sé e della giovane donna servare
l'onore, con tacito stile, sotto nome appositivo d'altro padre teneramente la
nutricò, e lei nomò del nome di colei che in sé contenne la redenzione del
misero perdimento che avvenne per l'ardito gusto della prima madre. Questa
giovane, come in tempo crescendo procedea, così di mirabile virtù e bellezza
s'adornava, patrizzando così eziandio ne' costumi, come nell'altre cose facea;
e per le sue notabili bellezze e opere virtuose più volte facea pensare a molti
che non d'uomo ma di Dio figliuola stata fosse.
Avvenne
che un giorno, la cui prima ora Saturno avea signoreggiata, essendo già Febo
co' suoi cavalli al sedecimo grado del celestiale Montone pervenuto, e nel
quale il glorioso partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di
Plutone si celebrava, io, della presente opera componitore, mi ritrovai in un
grazioso e bel tempio in Partenope, nominato da colui che per deificare
sostenne che fosse fatto di lui sacrificio sopra la grata; e quivi con canto
pieno di dolce melodia ascoltava l'uficio che in tale giorno si canta, celebrato
da' sacerdoti successori di colui che prima la corda cinse umilemente
essaltando la povertade e quella seguendo. Ove io dimorando, e già essendo,
secondo che 'l mio intelletto estimava, la quarta ora del giorno sopra
l'orientale orizonte passata, apparve agli occhi miei la mirabile bellezza
della prescritta giovane, venuta in quel luogo a udire quello ch'io
attentamente udiva: la quale sì tosto com'io ebbi veduta, il cuore cominciò sì
forte a tremare, che quasi quel tremore mi rispondea per li menomi polsi del
corpo smisuratamente; e non sappiendo per che, né ancora sentendo quello che
egli già s'imaginava che avvenire gli dovea per la nuova vista, incominciai a
dire:
«Oimè,
che è questo?»; e forte dubitava non altro accidente noioso fosse. Ma dopo
alquanto spazio rassicurato, un poco presi ardire, e intentivamente cominciai a
rimirare ne' begli occhi dell'adorna giovane; ne' quali io vidi, dopo lungo
guardare, Amore in abito tanto pietoso, che me, cui lungamente a mia stanza
avea risparmiato, fece tornare disideroso d'essergli per così bella donna
suggetto. E non potendomi saziare di rimirare quella, così cominciai a dire:
«Valoroso
signore, alle cui forze non poterono resistere gl'iddii, io ti ringrazio, però
che tu hai dinanzi agli occhi miei posta la mia beatitudine: e già il freddo
cuore, sentendo la dolcezza del tuo raggio, si comincia a riscaldare. Adunque
io, il quale ho la tua signoria lungamente temendo fuggita, ora ti priego che
tu, mediante la virtù de' begli occhi ove sì pietoso dimori, entri in me con la
tua deitade. Io non ti posso più fuggire, né di fuggirti disidero, ma umile e
divoto mi sottometto a' tuoi piaceri».
Io
non avea dette queste parole, che i lucenti occhi della bella donna sintillando
guardarono ne' miei con aguta luce, per la quale luce una focosa saetta, d'oro
al mio parere, vidi venire, e quella, per li miei occhi passando, percosse sì
forte il cuore del piacere della bella donna, che ritornando egli nel primo
tremore ancora trema; e in esso entrata, v'accese una fiamma, secondo il mio
avviso, inestinguibile, e di tanto valore, che ogni intendimento dell'anima ha
rivolto a pensare delle maravigliose bellezze della vaga donna. Ma poi che di
quindi col piagato cuore partito mi fui, e sospirato ebbi più giorni per la
nuova percossa, pur pensando alla valorosa donna, avvenne che un giorno, non so
come, la fortuna mi balestrò in un santo tempio dal prencipe de' celestiali
uccelli nominato, nel quale sacerdotesse di Diana, sotto bianchi veli, di neri
vestimenti vestite, cultivavano tiepidi fuochi divotamente; là dove io
giungendo, con alquante di quelle vidi la graziosa donna del mio cuore stare
con festevole e allegro ragionamento, nel quale ragionamento io e alcuno
compagno domesticamente accolti fummo. E venuti d'un ragionamento in un altro,
dopo molti venimmo a parlare del valoroso giovane Florio, figliuolo di Felice,
grandissimo re di Spagna, recitando i suoi casi con amorose parole. Le quali
udendo la gentilissima donna, sanza comparazione le piacquero, e con amorevole
atto inver di me rivolta, lieta, così incominciò a parlare:
«Certo
grande ingiuria riceve la memoria degli amorosi giovani, pensando alla grande
costanza de' loro animi, i quali in uno volere per l'amorosa forza sempre
furono fermi servandosi debita fede, a non essere con debita ricordanza la loro
fama essaltata da' versi d'alcun poeta, ma lasciata solamente ne' fabulosi
parlari degli ignoranti. Ond'io, non meno vaga di potere dire ch'io sia stata
cagione di rilevazione della loro fama che pietosa de' loro casi, ti priego che
per quella virtù che fu negli occhi miei il primo giorno che tu mi vedesti e a
me per amorosa forza t'obligasti, che tu affanni in comporre un picciolo
libretto volgarmente parlando, nel quale il nascimento, lo 'nnamoramento e gli
accidenti de' detti due infino alla loro fine interamente si contenga».
E
questo detto, si tacque. Io sentendo la dolcezza delle parole procedenti dalla
graziosa bocca, e pensando che mai, cioè infino a questo giorno, di niuna cosa
era stato dalla nobilissima donna pregato, il suo priego in luogo di
comandamento mi riputai, prendendo per quello migliore speranza nel futuro de'
miei disii, e così risposi:
«Valorosa
donna, la dolcezza del vostro priego, a me espressissimo comandamento, mi
stringe sì, che negare non posso di pigliare e questo e ogni maggiore affanno
che a grado vi fosse, avvegna che a tanta cosa insofficiente mi senta; ma
seguendo quel detto, che alle cose impossibili niuno è tenuto, secondo la mia
possibilità, con la grazia di Colui che di tutto è donatore, farò che quello
che detto avete sarà fornito».
Benignamente
mi ringraziò, e io, costretto più da ragione che da volontà, col piacere di lei
di quel luogo mi partii, e sanza niuno indugio cominciai a pensare di voler
mettere ad essecuzione quello che promesso aveva. Ma però che, come di sopra è
detto, insofficiente mi sento sanza la tua grazia, o donatore di tutti i beni,
ad impetrar quella quanto più posso divoto ricorro, supplicandoti, con quella
umiltà che più può fare i miei prieghi accettevoli, che a me, il quale ora
nelle sante leggi de' tuoi successori spendo il tempo mio, che tu sostenghi la
mia non forte mano alla presente opera, acciò che ella non trascorra per troppa
volontà sanza alcun freno in cosa la quale fosse meno che degna essaltatrice
del tuo onore, ma moderatamente in etterna laude del tuo nome la guida, o sommo
Giove.
[2]
Adunque,
o giovani, i quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzata a'
venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane figliuolo di
Citerea, negli amorosi pelaghi dimoranti disiosi di pervenire a porto di salute
con istudioso passo, io per la sua inestimabile potenza vi priego che
divotamente prestiate alquanto alla presente opera lo 'ntelletto, però che voi
in essa troverete quanto la mobile fortuna abbia negli antichi amori date varie
permutazioni e tempestose, alle quali poi con tranquillo mare s'è lieta rivolta
a' sostenitori; onde per questo potrete vedere voi soli non essere sostenitori
primi delle avverse cose, e fermamente credere di non dovere essere gli ultimi.
Di che prendere potrete consolazione, se quello è vero, che a' miseri sia
sollazzo d'avere compagni nelle pene; e similemente ve ne seguirà speranza di
guiderdone, la quale non verrà sanza alleggiamento delle vostre pene. E voi,
giovinette amorose, le quali ne' vostri dilicati petti portate l'ardenti fiamme
d'amore più occulte, porgete le vostre orecchi con non mutabile intendimento a'
nuovi versi: li quali non vi porgeranno i crudeli incendimenti dell'antica
Troia, né le sanguinose battaglie di Farsaglia, le quali nell'animo alcuna
durezza vi rechino; ma udirete i pietosi avvenimenti dello innamorato Florio e
della sua Biancifiore, li quali vi fieno graziosi molto. E, udendoli, potrete
sapere quanto ad Amore sia in piacere il fare un giovane solo signore della sua
mente, sanza porgere a molti vano intendimento, però che molte volte si perde
l'un per l'altro, e suolsi dire che chi due lepri caccia, talvolta piglia l'una
e spesso non niuna. Dunque apprendete d'amare uno solo, il quale ami voi
perfettamente, sì come fece la savia giovane, la quale per lunga sofferenza
Amore recò al disiato fine. E se le presenti cose, o voi, giovani e donzelle,
generano ne' vostri animi alcun frutto e diletto, non siate ingrati di porgere
divote laudi a Giove e al nuovo autore.
[3]
Quello
eccelso e inestimabile prencipe sommo Giove, il quale, degno de' celestiali
regni posseditore, tiene la imperiale corona e lo scettro, per la sua
ineffabile providenza avendo a sé fatti cari fratelli e compagni a possedere il
suo regno molti, conosceo lo iniquo volere di Pluto, il quale più grazioso e
maggiore degli altri avea creato, che già pensava di volere il dominio maggiore
che a lui non si conveniva; per la qual cosa Giove da sé il divise, e in sua
parte a lui e a' suoi seguaci diede i tenebrosi regni di Dite, circundata dalli
stigi paduli, e loro etterno essilio segnò dal suo lieto regno; e provide di
nuova generazione volere riempiere l'abandonate sedie, e con le propie mani
formò Prometeo, al quale fece dono di cara e nobile compagnia. Questo veggendo
Pluto, dolente che strana prole fosse apparecchiata per andare ad abitare il
suo natale sito, del quale elli per suo difetto era stato cacciato, imaginò di
far sì che le nuove creature da quella abitazione facesse essiliare; e con
sottile inganno la sua imaginazione mise in effetto, e del santo giardino voltò
le prime creature, le quali per suo consiglio il precetto del loro creatore
miserabilemente prevaricarono, e seguentemente loro con tutti li loro
discendenti rivolse alle sue case, e rallegrandosi d'avere per sottigliezza
annullato il proponimento di Giove. Lungamente sofferse Colui che tutto vede
questa inguiria, ma poi che tempo gli parve di dovere mostrare la sua pietà
inver di coloro che stoltamente s'aveano lasciato ingannare e che stavano ne'
tenebrosi luoghi rinchiusi, allora miracolosamente il suo unico Figliuolo mandò
in terra da' celestiali regni, e disse:
«Va,
e col nostro sangue libera coloro, a cui Dite è stata così lunga carcere, e
appresso te lascia in terra sì fatte armi, che gli altri futuri, a' quali ella
ancora non s'è mostrata, prendendole, si possano valorosamente difendere dalle
false insidie e occulte di Pluto: e ricominci Vulcano per lo tuo comandamento
nuove folgori, le quali, tu gittando, dimostrino quanta sia la nostra potenza,
come già feciono».
Scese
al comandamento del suo Padre l'unico Figliuolo dalla somma altezza in terra, a
sostenere per noi la iniqua percossa d'Antropos, apportatore delle nuove armi,
in disusato modo, non operando in lui la natura il suo uficio come negli altri
uomini. La terra, come sentì il nuovo carico della deità del figliuolo di
Giove, diede per diverse parti della sua circunferenza allegri e manifesti
segni di futura vittoria agli abitanti; e egli, già in età ferma pervenuto,
cominciò a riempiere la terra delle aportate armi e a fare avedere coloro, che
con perfetta fede i suoi detti ascoltavano, del ricevuto inganno, porto
dall'antico oste; i quali, come il perduto conoscimento riaveano, così delle
nuove armi per loro difesa si guarnivano, e contra gli ignoranti la verità
moveano varie battaglie e molte; e verso loro alcuno che volesse non si trovava
potere resistere, però che sanza cura d'affanno e di corporale morte gli
trovavano. E già delle vittorie de' nuovi cavalieri entrati contra Pluto in
campo, tutto l'oriente ne risonava; ma ancora le loro magnifiche opere
l'occidente non sentiva, quando il Figliuol di Dio, avendo spogliata di molti
prigionieri l'antica Dite, e essendo al suo padre ritornato, e mandato a'
prencipi de' suoi cavalieri lo 'mpromesso dono del santo ardore, volendo che
l'ultimo ponente sentisse le sante operazioni, elesse uno de' suddetti
prencipi, quello che più forte gli parve a potere resistere alle infinite
insidie che ricevere dovea, e sopra l'onde di Speria trasportare il fece a un
notante marmo. Il quale, pervenuto nella strana regione, con la forza della
somma deità, cominciate contro quelli, i quali resistenti trovò, aspre
battaglie, acquistò molte vittorie, e molti delle celestiali armi novelle vi
rivestì. Ma poi, dopo molto combattere, trovata più resistente schiera, sanza
volgere viso o sanza alcuna paura l'ultimo colpo d'Antropos umile e divoto
sostenne, e al cielo, per lungo affanno meritato, rendé la santa e gloriosa
anima. I cui seguaci, dopo la sua passione, prese le martirizzate reliquie, in
notabile luogo reverentemente le sepelliro non sanza molte lagrime. E ad
etterna memoria di così fatto prencipe, poco lontano all'ultime onde
d'occidente, sopra il suo venerabile corpo edificarono un grandissimo tempio,
il quale del suo nome intitolarono, ardendo in esso continuamente divotissimi
fuochi, rendendo in essi al sommo Giove graziosi incensi. E esso, giusto
essauditore, non fu tanto nella sua vita valoroso resistente a' difenditori
della falsa oppinione, quanto dopo il suo ultimo dì fu molto più grazioso
conservatore de' suoi fedeli, però che Giove in servigio di lui, nel suo tempio
essaudendo le debite orazioni, mirabili cose facea, onde la fama
dell'occidentale Iddio risonava per l'universo. Certo ella passò in brieve
tempo le calde onde dello orientale Ganges, e nelle boglienti arene di Libia fu
manifesta, e dagli abitanti nelle ghiacciate nevi d'Aquilone fu saputa, però
che egli non porgea risponsi, come far soleano i bugiardi iddii, ma con vere
operazioni ne' bisogni soccorrea e soccorre i divoti domandatori: e per questo
più la santa fama per il mondo risuona.
[4]
Suona
adunque la gran fama per l'universo della mirabile virtù del possente Iddio
occidentale, e in te, o al ma città, o reverendissima Roma, la quale igualmente
a tutto il mondo ponesti il tuo signorile giogo sopra gl'indomiti colli, tu
sola permanendone vera donna, molto più che in alcun'altra parte risuona, sì
come in degno luogo della cattedrale sedia de' successori di Cefas. E tu di ciò
dentro a te non poco ti rallegri, ricordando te essere quasi la prima
prenditrice delle sante armi, però che conoscesti te in esse dovere tanto
divenire valorosa, quanto per adietro in quelle di Marte pervenisti, e molto
più; onde contentati che come già per l'antiche vittorie più volte la tua
lucente fronte ti fu ornata delle belle frondi di Pennea, così di questa ultima
battaglia, con le nuove armi triunfando tu vittoriosamente, meriterai d'essere
ornata d'etternal corona, e, dopo i lunghi affanni, la tua imagine tra le
stelle onorevolemente sarà locata, tra le quali co' tuoi antichi figliuoli e padri
beata ti ritroverai. E i tuoi figliuoli già per la nuova fama prendono a'
lontani templi divozione, e adomandando allo Iddio dimorante in essi i
bisognevoli doni, promettono graziosi boti: i quali doni ricevuti, ciascuno
s'ingegna d'adempiere la volontaria promissione visitandoli, ancora che sieno
lontani: la qual cosa appo Iddio grandissimo merito sanza fallo t'impetra.
[5]
Risuona per Roma, com'è detto, la gran fama
nella quale un nobilissimo giovane dimorava, il quale si chiamava Quinto Lelio
Africano, disceso del nobile sangue del primo conquistatore dell'africana
Cartagine. Era questo ornatissimo di belli costumi e abondante di ricchezze e
di parenti, già per la sua virtù prescritto all'ordine militare, e avea,
secondo la nuova legge del Figliuol di Dio, una giovane romana nobilissima,
nata della gente giulia, e Giulia Topazia nominata, presa per sua legit tima
sposa, la quale per la sua gran bellezza e infinita bontà era molto da lui
amata. E già era con lei, poi che Imineo coronato delle frondi di Pallade fu
prima nelle sue case e le sante tede arse nella sua camera, dimorato tanto, che
Febo cinque volte era nella casa della celestiale Vergine rientrato, e ancora
di lei niuno figliuolo avea potuto avere, de' quali egli sopra tutte le cose
era disideroso; e in molte maniere cercato com'egli potesse fare che la giovane
concepesse, e niuna pervenuta ad effetto, sentiva nell'animo angoscioso
tormento. Ma l'infinita pietà di Colui a cui nulla cosa si nasconde non
sostenne che sanza parte del suo disio vedere egli finisse i giorni suoi, a'
quali poco più spazio era assegnato, anzi saviamente precorse in cotal modo:
che, essendo Lelio un giorno intorno a quel disio molto pensoso, udì narrare di
quello Iddio, che sopra gli sperii liti dimorava lontano, maravigliose cose per
lui fatte; le quali poi ch'egli ebbe udite, se n'andò in uno santo tempio, là
dove la reverenda imagine del glorioso santo era figurata, nel cospetto della
quale disse così:
«O
grazioso Iddio, il quale sopra i liti occidentali lasciasti il tuo santo corpo,
l'anima renduta al sommo Giove, ricevi le mie voci, degne d'essere essaudite,
nella tua presenza. E così come a niuno, che divotamente giusto dono ti
domandi, li nieghi, così a me la mia domanda, s'è giusta, non negare, ma
perfettamente me la adempi. Io sono giovane d'eccellentissima fama, e di famosi
parenti disceso, e nella presente città copioso di ricchezze e di congiunti
parenti, accompagnato di nobilissima e bella giovane, con la quale io sono
stato tanto tempo ch' io veggio incominciare la sesta volta al sole l'usato
cammino, e niuno figliuolo ancora di lei ho potuto avere, il quale dopo
l'ultimo nostro giorno possa il nostro nome ritenere e possedere l'antiche
ricchezze possedute lungamente per ereditaggio; di che nell'animo sostengo
gravissima noia. Ond'io divotamente ti priego che nel cospetto dello
onnipotente Si gnore grazia impetri, che se Egli dee essere della mia anima
bene, e del suo e tuo onore essattamento, che Egli uno solamente concedere me
ne deggia, il quale dopo me me rapresenti. La qual cosa se Egli me la concede,
io ti prometto e giuro per l'anima del mio padre e per la deità del sommo Giove
che i tuoi lontani templi saranno da me visitati personalmente, e i tuoi altari
di divoti fuochi saranno alluminati».
E
fatta la degna orazione, tornò al suo militar palagio, quasi contento:
"Così come niuno giusto priego può esser fatto sanza essere essaudito,
così questo, però che era giusto, sanza essaudizione non pote trapassare".
Ma già i disiosi cavalli del sole, caldi per lo diurno affanno, si bagnavano
nelle marine acque d'occidente, e le menome stelle si poteano vedere, essendo
già Lelio e Giulia, dopo i dilicati cibi da loro presi, quasi contenti del
fatto voto, sperando grazia, andatisi a riposare nel congiugale letto, nel
quale soavissimo sonno gli avea presi, quando il santo, per cui Galizia è
visitata, volle fare a Lelio manifesto quanto il suo giusto priego, fatto il preterito
dì, gli fosse a grado; e disceso dagli alti cieli, e entrato radiante di
maravigliosa luce nella camera di Lelio, con lieto viso gl'incominciò a
parlare, dormendo egli, e disse così:
«O
Lelio, io sono colui il quale tu il passato giorno con tanta divozione
chiamasti, pregando ch'io t'impetrassi grazia, nel conspetto di Colui che tutte
le dona sanza rimproverare, che tu potessi avere degna erede del tuo nome, nel
quale dopo la tua morte la tua fama vivesse. Onde Egli, misericordioso
essauditore de' giusti prieghi, e di tutto bene benignissimo donatore, per me
ti manda a dire che il tuo priego è essaudito da Lui, e che, la prima volta che
tu con la tua sposa onestamente ti congiugnerai, veramente riceverai il
dimandato dono».
E
queste parole dette, ad un'ora egli e 'l sonno di Lelio si partirono. Lelio,
svegliato, pieno di maraviglia e d'allegrezza, per lungo spazio volse gli occhi
per la camera per vedere se ancora l'aportatore della lieta novella vi fosse;
ma poi che vide lui non esservi, umilemente cominciò a ringraziare colui che
mandata aveva tanto disiata ambasciata; e chiamata Giulia, la quale ancora
dormia, le narrò la veduta visione. Di che ella si maravigliò molto, e lieta
quasi sanza fine incominciò a ringraziare Iddio. E non dopo molto spazio stato
tra loro quella congiunzione che annunziata fu a Lelio, s'avide Giulia esser
gravida, secondo che il santo Iddio avea annunziato.
[6]
Non
dopo molti giorni, mostrando già Calisto dintorno al polo quanto era lucente,
incominciò Lelio e Giulia insieme a ragionar della mirabile visione, e dopo
alquante parole, Giulia, che già avea sentito e sentia in sé il disiato frutto
nascoso, disse:
«Certo,
Lelio, già per effetto mi par sentire il grazioso dono esserci dato, però che
più grave esser mi pare che per lo preterito parere non solea».
Quando
Lelio udì queste parole fu tanto allegro, che nulla giusta comparazione si
potrebbe porre alla sua allegrezza, e disse:
«Adunque
niuno indugio si vuole porre a fare gl'impromessi doni, ma così tosto come i
chiari raggi di Apollo ne recheranno il chiaro giorno, io con quella compagnia
che mi parrà voglio prendere il lungo cammino e portare i graziosi incensi
promessi a' lontani altari».
Allora
disse Giulia:
«Deh!
ora sarà il tuo cammino sanza me fatto?».
Lelio
rispose:
«Giulia,
tu se' giovane, e sì fatto affanno sarebbe alla tua tenera età impossibile, e
noioso al disiato frutto che tu nascondi; però tu rimarrai degna donna della
nostra casa, lietamente aspettando la mia tornata».
Giulia,
udendo queste parole, bagnò il suo viso d'amare lagrime, dicendo:
«Certo,
quando la fortuna ti fosse contraria, mi crederei io esser vie più possente
sostenitrice dell'armi e degli affanni, sempre aiutandoti e seguendoti, che non
fu Issicratea a Mitridate, non che nelle felicità, nelle quali il venirti
appresso mi porge smisurato diletto. Se tu mi lasci sola di te, tu mi lascerai
accompagnata di molti e varii pensieri: il mio petto sarà sempre pieno di molte
sollecitudini, e nascosamente sosterrò maggior affanno, sempre di te dubitando,
ch'io non potrei mai fare venendo teco».
O
Tiberio Gracco, fu tanta la pietà che tu avesti di Cornelia, tua cara sposa,
quando lasciasti la femina serpe, risparmiando anzi la sua vita che la tua
propia, quanto fu quella di Lelio vedendo le lagrime della cara compagna? Certo
appena! Ond'egli le rispose:
«Giulia,
poni fine alle tue lagrime, ché i lontani templi da me sanza te non saranno
cercati; e però disponi il tuo virile animo al nuovo cammino, che al nuovo
giorno credo cominceremo».
Giulia
contenta si tacque.
[7]
L'Aurora
avea rimossi i notturni fuochi e Febo avea già rasciutte le brinose erbe,
quando Lelio, chiamata Giulia, lieti si levarono da' notturni riposi, e
comandarono che quelle cose le quali a camminare fossero necessarie, fossero
sanza indugio apparecchiate. E mandato per quelli i quali a loro piacque
d'eleggere per loro compagnia, loro narrarono il lieto avvenimento, comandando
ad essi che immantanente fossero presti d'andare con loro a mettere ad effetto
le fatte promissioni. Al quale comandamento fu risposto loro essere presti ad
ogni loro piacere.
[8]
Fu
sanza alcuno indugio messo ad essecuzione il comandamento di Lelio; onde egli e
Giulia e la loro compagnia, tornando da' santi templi da porgere pietosi
prieghi al sommo Giove che il loro andare e tornare facesse essere
prosperevole, salirono sopra i portanti cavalli, e, piangendo, appena a' cari
parenti e amici poterono dire addio: e partironsi, e con lieto animo
cominciarono il disaventurato cammino.
[9]
Il
miserabile re, il cui regno Acheronta circunda, veggendo che lo essercizio era
alle sue invasioni inique contrario, e che i lunghi cammini porgevano alla
carne affannosa gravezza, per la quale i sostenitori d'essa fuggivano le inique
tentazioni e meritavano il mal conosciuto regno da lui, il quale egli, per
disiderare oltre dovere, perdé, afflitto di noiosa sollecitudine, veggendo la
maggior parte di quelli che andar soleano alle sue case esser disposti a quello
affanno, o ad altri simiglianti o maggiori, pensò di volergli ritrarre da sì
fatte imprese con paura; e convocati nel suo conspetto gl'infernali ministri,
disse:
«Compagni,
voi sapete che Giove non dovutamente degli ampi regni, i quali egli possiede,
ci privò, e diedeci questa strema parte sopra il centro dell'universo a
possedere, e in dispetto di noi creò nuova progenie, la quale i nostri luoghi
riempisse. Noi ingegnosamente li sottraemmo, sì che noi volgemmo i loro passi
alle nostre case: e Egli ancora, non parendogli averci tanto oltraggiato, mandò
il suo Figliuolo a spogliarcene al quale non potendo noi resistere, ci spogliò,
e dopo tutto questo fece aveduti gli abitanti della terra de' nostri lacciuoli,
e donò loro armi con le quali essi leggiermente le nostre spezzano. E che noi
di questi oltraggi ci andiamo a vendicare sopra di lui, il salire in su c'è
vietato, e Egli è più possente di noi: però ci conviene pur con ingegno il
nostro regno aumentare, e fare di ria vere ciò che per adietro abbiamo perduto.
Tra l'altre cose che il Figliuolo di Giove lasciò in terra al suo popolo, a noi
più contraria, fu continuo essercizio, al quale del tutto si vuole intendere da
noi, acciò che si spenga con volonteroso ozio delle loro menti, e li romani
massimamente, i quali, quasi agli altri principali, hanno questo essercizio
molto impreso, e quasi ogni gente da loro lo 'mprende. Ond'io ho proposto di
volerli almeno ritrarre dall'andare li strani templi visitando, con paura; e
questo sanza fallo mi verrà fatto troppo bene sopra gran quantità d'essi, che
ora al tempio che sopra l'ultime piagge di Speria dimora, vanno, sopra i quali
io vendicherò la mia ira, e voi siate intenti di fare il simigliante ovunque
voi ne sentite alcuno».
[10]
Dette
queste parole a' suoi, prese vana forma simigliante d'un nobilissimo cavaliere,
il quale sotto la potenza del gran re Felice, reggitore de' regni di Speria,
nipote di Atalante, sostenitore de' cieli, governava vicino a' colli
d'Appennino una città chiamata Marmorina. E salito sopra un cavallo, le cui
ossa per magrezza quasi quante fossero apertamente mostrava, e correndo sopra
esso, pervenne ne' lontani regni, e trovato il re, il quale le silvestre bestie
cacciando prendea diletto, fu davanti a lui. E come tal volta sogliono i corpi morti
gravosi cadere alla terra sanza essere urtati, cotale costui fittivamente
cadendo davanti gli si gittò, e con voce affannata, tanto che appena s'udiva,
piangendo cominciò a dire:
«O
signor mio, tu vai l'innocenti bestie davanti a te cacciando, e nelle loro
innocenti interiora metti aizzando gli aguti denti de' feroci cani, ma io
misero ho nella vostra città Marmorina lasciato il romano fuoco, il quale, sì
com'io vidi già per li più alti luoghi, tutta la città guasta va: e come ciò
avvenisse a me è occulto; se non che avendo noi il giorno davanti celebrati i
santi sacrificii di Bacco con grandissima festa, e la vegnente notte,
riposandosi, ciascuno avea già di sé la quarta parte passata, quando io, quasi
dormendo, cominciai a sentire grandissimo pianto d'uomini, di garzoni e di
femine, e impetuoso suono di non usate armi. Allora, abandonato del tutto il
quieto sonno, pauroso mi levai, e salii negli alti luoghi della nostra casa, e
vidi tutta la città piena di fuoco e di noiose ruine, e di maggior pianto furono
ripiene le mie orecchie. E già presso alla nostra casa udendo il terribile
suono delle sonanti trombe, disarmato corsi per le fidate armi, per risalire
armato nelle fortezze della nostra casa, scendendo contra i molti amici, i
quali contra i crudeli osti, per lo bene della città, s'apparecchiavano con le
taglienti spade d'aspramente combattere. Allora dissi, quasi avendo nella loro
vita compassione: "O giovani, or non vedete voi che fortuna sia nelle
presenti cose? Quelli iddii nei quali la forza in che la speranza della nostra
signoria dimorava, sono fuggiti e hanno abandonato i loro altari e però voi
soccorrete indarno alla città. Ma se voi avete certa fidanza nelle vostre armi,
andiamo, e in mezzo de' nemici combattiamo, essendo io duce: e quivi, o vinciamo,
o, sdebitandoci di tal vergogna, mandiamo le nostre anime alle infernali sedie:
"sola salute è a' vinti non isperar salute"". La città, da tutte
parti presa, era da' nemici con gli aguti spuntoni guardata; ma noi poi,
assicurati, ci movemmo ad andare alla non dubbiosa morte tutti per una via.
Oimè! chi potrebbe mai narrare la ruina e la tempesta di quella notte? Chi
potrebbe parlando dire la menoma parte della uccisione o con le lagrime
agguagliare la fatica? L'antica città, la quale molti anni vittoriosa sotto le
nostre braccia dimorò, fu da' miei occhi veduta quella notte cadere quasi tutta
in picciola ora; ma noi miseri, portati da' miserabili fati, ovunque andavamo,
per le larghe vie trovavamo cadere corpi gravati da mortale gelo: ad ogni passo
trovavamo nuovo pianto, e in ogni parte era romore e uccisione infinita. E
andando per diverse parti della città, dandone l'accese case aperti passaggi,
più volte scontrandoci in picciole schiere di nemici combattemmo. Ma già quasi
propinqui all'ultima ora della notte, vaghi del nuovo giorno, fummo da
innumerabile moltitudine di nemici aspramente assaliti, e quivi difendendoci
virilmente, vidi io gran parte de' miei compagni bagnare la terra del loro
sangue, e sanza niuna misericordia essere dagli avversario uccisi. Onde non
potendo noi più sostenere il crudele assalto, con alquanti diedi le spalle,
fuggendo verso il nostro palagio; ma quivi trovata più aspra battaglia, quasi
furiosi, sanza alcuna speranza di salute, io e' miei compagni tra gli aguti
ferri de' nemici ci gittammo. Quivi io, ferito in molte parti, rientrai nelle
mie case, nelle quali alquanti de' miei compagni vinti vilmente si fuggirono; e
saliti nel superiore pavimento, vedemmo tutta la città essere d'ardenti fiamme
e di noiosi fummi ripiena, la quale piangendo riguardavamo. Allora fummo
assaliti di nuovo accidente, però che rotte le porti dell'antico palagio, salì
uno grandissimo uomo romano con molti seguaci, il quale, sì come il fiero lupo
le timide pecore sanza difesa strangola, così costui andava uccidendo qualunque
davanti gli si parava. A lui vidi io uccidere il vecchio padre e due miei
figliuoli, e altri molti. Sopra il quale volendo io prendere debita vendetta,
ricevetti infiniti colpi della sua spada; ma poi la vecchia madre e altre femine
con lei, mettendo le loro persone per la mia vita tra la sua spada e 'l mio
corpo, fortunosamente mi trassero delle sue mani. E uscito fuori della non già
città, veggendo che per me più niuno soccorso vi si potea porgere,
miserabilemente me verso queste parti mi dirizzai, e qui nel vostro conspetto
mi sono fuggito. E dicovi che il vostro regno è sanza dubbio assalito da gente
tanto acerba, che non che contro a voi, ma ancora contro i nostri iddii hanno
prese armi; e che ciò ch'io ho narrato sia vero, manifestevelo il sangue mio,
il quale per tante ferite potete vedere davanti da voi spandere. Io ho appena,
fuggendo, potuta la mia vita ricuperare, la quale omai credo sarà brieve; e le
mie ferite, le quali più tosto medico e riposo che affanno richiedevano,
marcite costringono l'anima d'abandonare il misero corpo. E però vi priego che
voi v'apparecchiate acciò che i vostri nemici, i quali credo che non sieno di
qui guari lontani, possiate con più forte fronte ricevere che io non potei, e
acciò che voi altressì vendichiate le mie ferite, acciò che io tosto tra gli
altri spiriti possa alzare la testa per la vendicata morte».
E
appena finì queste parole con intera voce, che davanti al re il corpo sanza
anima freddo lasciò.
[11]
Con
le mani prese, nell'aspetto stupefatto stava il re Felice ad ascoltare le fitte
parole; ma poi che vide lo spirito del parlante cavaliere avere abandonato il
corpo e più non dire, mutato il naturai colore, tornò palido, e, oppresso nel
segreto petto di varie cure, quasi per greve doglia appena ritenne le lagrime.
E non sappiendo che partito prendere del subito annunzio, mostrandosi vigoroso
per rincorare i suoi, comandò che al morto corpo fosse data sepoltura; e
abandonata la cominciata caccia, volse i passi co' suoi compagni verso le reali
case. Alle quali poi che fu giunto sospirando, a' suoi cavalieri comandò che
sanza niuno dimoro prendessero l'usate armi; e sollecitamente fatti convocare i
vicini popoli, i quali sotto la sua signoria si costringeano, adunò grandi
dissimo essercito in pochi giorni, intendendo di volere obviare gli assalitori
del suo regno.
[12]
Poi
che questo tutto fu fatto, e il giorno, il quale segretamente avea proposto di
movere col suo essercito, fu venuto, egli comandò che divoti sacrificii
s'apparecchiassero a Marte, acciò che la sua deità, la quale verso loro parea
indebitamente crucciata, sacrificando si mitigasse; e esso personalmente
volendo sacrificare acciò che il suo andare prosperamente si dirigesse verso i
suoi nemici, andò al sacrato tempio davanti agli altari di Marte, la cui
effigie riguardando per più effettuosamente porgere pietosi prieghi, vide
bagnata di novelle lagrime, le quali non poco dubbio gli porsero. Ma poi,
imaginando che Marte per compassione de' suoi danni avesse lagrimato, alquanto
riprese conforto, e fatto venire un giovane toro per volerlo sopra i detti
altari sacrificare, disse così:
«O
vera deità, la quale a' nostri danni hai mostrata lagrimando vera compassione,
ricevi i nostri volontarii sacrificii, i quali presenzialmente ti facciamo, e
con lieto viso ne porgi speranza di prosperevole andata».
E
dette queste parole, ferì lo 'ndomito toro, il quale, sì tosto come sentì la
puntura del freddo coltello, per duolo sì forte si scosse, che, uscito delle
mani di coloro che 'l teneano, furiosamente fuggì verso i marini liti
d'occidente, il suo sangue spandendo, allungandosi, e torcendo i passi da
quella parte onde i nimici, secondo il falso detto, doveano il reame avere
assalito.
[13]
Vedendo
questo, il re non poté dentro per fortezza d'animo ritenere le lagrime, ma
forte piangendo cominciò a dire:
«Ora
manifestamente possiamo noi ben vedere l'ira degl'iddii quanto ella verso noi
adopera, e quanto i fortunosi fati ci si sono incontro rivolti! Oimè, che
Marte, lagrimando, non de' preteriti danni ma de futuri mostra d'aver
compassione! Egli e gli altri iddii rifiutano i nostri sacrificii, sì come di
non degni sacrificatori: e ciò apertamente si vede, ché già il toro ferito per
mitigar la loro ira è fuggito dinanzi da' loro altari delle nostre mani, e va
dello innocente sangue bagnando il nostro terreno, mostrandone manifesti segni
della nostra fuga, la quale infino agli ultimi termini della nostra potenza
mostra che si debba con crudele uccisione distendere. Ma, o sommi iddii, se i
miseri meritano d'essere da voi in alcuno atto essauditi, non ischifate le mie
piangenti voci, però che, come voi sapete, io non sono quello Dionisio, il
quale più volte i vostri templi e le vostre imagini privò di corone e d'altri
ornamenti degni a' vostri altari. Io già mai, o Giove, non ti spogliai come
costui fece, dicendo che la risplendente roba fosse di state grave e di verno
fredda, rivestendoti di comuni drappi, utili all'uno tempo e all'altro. Né a
te, o figliuolo d'Apolio, feci mai con tagliente ferro levare la cara barba; né
a te, o santa Giunone, scopersi il santo tempio, come Quinto Fulvio fece, per
ricoprirne alcuno altro: per le quali cose, sì come sacrilego, io e 'l mio
popolo meritiamo giusta distruzione, ma sempre voi e' vostri templi furono da
noi onorati. Dunque non consentite che la nostra potenza, da voi a' nostri
antecessori benignamente conceduta, crudelmente sanza cagione si distrugga, e
almeno da quel popolo, il quale con nuove armi alla vostra forza s'ingegna di
contrastare. E se pure ci è alcuna cagione per la quale la vostra ira
giustamente contro a noi si muova, la quale o io o 'l mio popolo abbia commessa
contro la vostra deità, venga di grazia sopra me tutto il pondo. Deh! non mi
fate men degno di questo dono che voi faceste Camillo, il quale i romani per
lui molto essaltati, per la sua orazione la quale essaudiste, mandarono ivi a
poco tempo in essilio: avvegna che l'arsa Marmorina, e lo sparto sangue, e'
partiti spiri ti de' nostri uomini vi dovrebbono essere stati sofficiente
sacrificio a mitigarvi. Sia da voi conce, conceduto che io prima, percosso da
Antropos, renda lo spirito agl'iddii infernali co' precedenti morti insieme;
che io sotto le mie braccia vegga il mio regno annullare».
[14]
Mentre
che il re con lagrime e con sospiri faceva la detta orazione, volgendo alquanto
i lagrimosi occhi verso quella parte dalla quale il furioso toro era fuggito,
vide il toro in uno vicino bosco per difetto di sangue caduto, e sopr'esso
essere, come folgore volando, disceso da cielo il divino uccello, e sopr'esso
toro per grande spazio essersi pasciuto, e appresso quindi levarsi e volare
verso quelle parti onde doveano quello giorno prendere il loro cammino i suoi
popoli. La qual cosa veduta, in se medesimo preso il volo di quello uccello per
buono agurio, assai più d'allegrezza e di speranza si riempié, che non fece
Paulo alla voce di Tarsia, quando disse: " Persio è morto", o Lucio
Silla quando vide dallato del suo altare cadere il morto serpente ne' campi di
Nola. E mutato il lagrimoso aspetto in lieto, con alta voce cominciò a dire al
suo popolo:
«Rallegratevi
e prendete debito conforto, signori, però che Giove pietosamente ha mutato
consiglio e, fatto verso noi pietoso, gli è de' nostri danni incresciuto, però
ch'io ho veduto che il sacrificio da noi rifiutato e che delle nostre mani
fuggì, egli l'ha benignamente accettato: e ciò ci manifesta il suo santo
uccello, al quale io vidi il toro, già con poca forza rimaso, abbattere nel
vicino bosco, e sopr'esso per lungo spazio si pascé, levandosi poi, ha il suo
volo ripreso, verso i nostri avversarii, quasi mostrandoci che via noi dobbiamo
fare. Onde pare che Giove benignamente ricevuto l'abbia, poi che alle nostre
schiere ha mandato sì fatto duca. Or dunque cacciate da voi ogni dolore, e
pieni d'allegrezza accendete i fuochi sopra i santi altari, e date agl'iddii
divoti prieghi per la nostra vittoria, e poi sanza niuno indugio i nostri passi
verso quella parte, onde volò il santo uccello, dirizziamo, però che già si
manifesta agli occhi la disiderata vendetta dovere pervenire fatta a
prosperevole fine».
[15]
Arsi
i fatti fuochi e dissoluti i nebulosi fummi avvolti ne' sacri templi, le trombe
sonarono e i cavalli presti alle fiere battaglie, udito il suono, cominciarono
a fremire; e allora il re, acceso di focoso disio per la speranza presa del
detto agurio, comandò che le reali bandiere fossero spiegate a' venti e che
tutti i suoi, abandonandosi a' fortunosi fati, verso Marmorina drizzassero il
loro cammino: al quale comandamento le bandiere spiegate e la via presa fu
sanza niuna dimoranza. Ma il misero Lelio, il quale dell'ultimo giorno, a lui
ruinosamente apparecchiato dalla fortuna, e a' suoi compagni simigliantemente,
non s'accorgeva, anzi con solleciti passi si studiava di pervenire a' dolenti
fati; e già quattro volte cornuta e altretante tonda s'era mostrata la
figliuola di Latona dopo la sua partita da Roma, la quale egli mai non dovea
rivedere, e camminando s'avea lasciate dietro le bianche spalle d'Appennino,
affrettandosi di pervenire al santo tempio, il quale da' suoi occhi non dovea
essere veduto, né da alcuno altro de' suoi compagni.
[16]
Entrava
il sole nella rosata aurora con lento passo, e' torbidi nuvoli occupavano il
suo viso, per la qual cosa la sua luce, come usato era, non porgea chiara;
forse a lui, che tutto vede, era già manifesta la fierità del crudel giorno, al
quale egli s'apparecchiava di dar lume: quando Lelio e la sua compagnia lieti
a' loro danni cavalcavano per una profonda valle, la quale piena di nebbia
molto impediva le loro viste, tanto che appena l'uno vicino all'altro si
poteano vedere. Era sopra la profonda valle una altissima montagna, tanto che
parea che trapassando i nuvoli con le stelle si congiugnesse, la quale dovendo
passare, già per la sua ertezza cominciava ad allentare i loro passi. Sopra la
detta montagna l'avversario re, da loro non conosciuto, già era pervenuto con
la sua gente, e quella notte sopr'essa per più sicurtà del suo essercito, sanza
scendere al piano, s'era attendato. Ma già avendo il sole co' suoi aguti raggi
cominciato a dissolvere l'oscure nebbie, il re, che sopra l'alta sommità
dimorava, nella sua mente imaginando i cammini che col suo popolo far dovea,
ficcando gli occhi fra la folta nebbia nel fondo della oscura valle, vide la
divota gente cavalcare verso di lui; la quale veduta, incontanente dubitando,
non altramenti essarse che fa la piombosa pietra, la quale uscendo della
risonante rombola vola, e volando imbianca per l'impeti che davanti truova alla
sua foga; e con alta voce voltato a' suoi cavalieri gridò:
«Venite,
franchi campioni e cari amici e fratelli, però che già credo che i nostri
nemici ci si manifestano».
E
poi alquanto racchetato in se medesimo, parlò loro così:
«Signori,
se gli occhi non mi mentono, a me par vedere, sì come mostrato v'ho, parte de'
nostri avversarii già essere nella profonda valle appiè del monte e venire
verso di noi, e essi, sì com'io credo, ancora di nostro movimento, né delle
nostre armi prese niente sanno, né noi ancora qui non hanno potuto vedere per
la folta nebbia, la quale ancora non è dissoluta. Però a me parrebbe che essi
fossero da essere obviati con aspro scontro sanza più dimorare, acciò che essi,
avedendosi prima di noi che noi gli assalissimo, non potesseno prendere rimedio
a noi nocevole, né al loro scampo utile. Io son certo che essi sono infino a
questo luogo venuti sanza trovare alcuna resistenza, per la qual cosa io avviso
che essi cavalchino sanza alcuna paura dissolutamente; per che, assalendoli
subito, li troverebbe l'uomo sanza alcuno argomento e di loro avrebbe o la
morte o la vita, qual più gli piacesse: ond'io vi priego che sanza alcuno
dimoro vigorosamente sieno da voi assaliti, cacciando da voi ogni tema. E già
vedeste voi, anzi che noi le nostre case abandonassimo, che gi'iddii ne
mostrarono segni di riconciliazione, e per più certezza di questo ci dierono il
santo uccello per vero duca, il quale voi vedete che ha i nostri passi
dirizzati in quella parte, che noi per lo preterito tanto abbiamo disiato.
Appresso, voi sapete che questi vengono assetati del nostro sangue, e per voler
nelle nostre interiora bagnare le loro spade, sanza ragionevole cagione; e
vengono per occupare le nostre case, e per mandar noi nelle estravaganti parti del
mondo in doloroso essilio. Adunque, sì per lo laudevole agurio, il quale
prospera fine ne dimostrò, sì per la ragione la quale è nostra perfettamente,
sì per difendere noi medesimi e le nostre case assalite da nuovi popoli,
ciascuno, sì come vigoroso cavaliere, debba le sue armi adoperare. Pensate che
voi non siete cavalieri usati di perdere le cominciate battaglie, ma
continuamente per la vostra maravigliosa fortezza acquistando molte vittorie,
v'avete per adietro fatto temere. Simigliantemente ancora vi dee porgere molto
più ardire veggendo me armato disiderare la vostra salute con la mia insieme,
essendo oramai quasi negli anni della mia ultima età, alla quale più tosto
riposo che affanno si converrebbe. Or poi che tante ragioni vi deono muovere ad
esser disiderosi della vittoria, movetevi in quello agurio che voi
l'acquistiate».
E
dette queste parole, comandò che le sue insegne scendessero il monte contro a
coloro che ancora nella valle dimoravano. Allora i cavalieri gridando dierono
segno di gran volontà di combattere, e le trombe sonarono, e corni e altri
strumenti molti; e cavalieri sanza niuno ordine si mossero così furiosi, come
talvolta il fiero cane, tratto della catena, sentendo sonare le frondi
dell'antico bosco, seguendo la preda corre sanza niuno ritegno, discendendo
l'alpestro monte.
[17]
Sì
come gli impetuosi fiumi, i quali dell'alte montagne, turbati per la piovuta
acqua, ruinosi impetuosamente caggiono sanza ritegno, menando seco alcuna volta
grandissime pietre, le quali fanno insieme non minore fracasso che l'acque;
così giù per la straripevole montagna, sanza tener via o sentiero diritto, si
dirupava lo iniquo essercito, goloso dello innocente sangue, con un romore e
con una tempesta sì di suoni di corni e di trombe e d'altri crudeli strumenti,
come del forte strepito dell'armi medesime e de' cavalli, che tutta la valle
faceano risonare. Giulia, meno piena di varie sollecitudini, sentendo il romore
prima s'avvide della iniqua gente; la quale, vedendoli sì tempestosamente
ventre, temendo come la timida cerva davanti al leone divenne, e tornata fredda
come i bianchi marmi, a Lelio temorosamente s'accostò, e con rotta voce
cominciò a dire:
«O
Lelio, ove è fuggito il tuo lungo provedimento? Or non vedi tu quella gente
armata che sì furiosamente verso noi discende dell'alto monte? Che gente può
ella essere? Come non provedi tu al necessario rimedio ora, se elli vengono per
offenderci?».
A
queste voci alzò Lelio gli occhi e guardossi davanti, e vide il maladetto
popolo ancora assai lontano, ma non tanto che fuga avesse potuto sé e' suoi
compagni trarre delle mani degli avversario; ond'egli alquanto pavido nella
mente, rivolto alla sua compagna disse:
«Non
dubitare, fatti sicura che questi non cercano noi» tenendo con forte viso
nascosa la creata paura; e poi fra sé cominciò a pensare, dicendo: "Certo
costoro scendono sì furiosi per prenderci al varco della montagna, e vogliono
di noi l'una delle due cose: o essi vogliono farsi del nostro avere posseditori
privandone noi, o elli vengono, sì come ribelli della nostra legge, per
privarci di vita, essendosi già loro in alcuno atto manifestata la nostra
condizione. E a dire che di qui noi fuggendo volessimo scampare, questo è
impossibile, però che i loro cavalli, freschi e possenti, assai tosto
sopragiugnerebbono i nostri, affannati; e il volere loro con l'arme resistere,
noi siamo picciola quantità a sì gran moltitudine. Dunque solamente aspettare
la lor pietà, misericordia chiamando, è il migliore, acciò che fuggendo noi non
incrudeliamo più gli animi; la quale s'elli la concedono, avanzeremo con Dio il
nostro cammino, e se no, nelle nostre braccia, sperando in Dio, rimanga
l'ultima parte della nostra salute».
[18]
Già
tutti i compagni di Lelio e altri giovani molti, giunti per loro scampo in loro
compagnia, disiderosi di pervenire a quel medesimo tempio ove costoro andavano,
cominciavano fra loro a mormorare per la veduta gente; e quasi ciascuno
dubitava di muoverne verso Lelio alcuna parola, vedendolo forse nel sopradetto
pensiero occupato, quando Lelio, sentito il loro mormorio e veduta la loro dubitanza,
si voltò verso essi con pietoso aspetto, così parlando:
[19]
«O
nobilissimi giovani e cari amici e compagni, i quali avete infino a questo
luogo seguiti i miei passi, faccendo di me duca e principale capo di tutti voi,
non per dovere, ma essendone perfetto amore mediante cagione, a' miei orecchi
sono pervenute le tacite parole, le quali tra voi della non conosciuta gente,
che a' nostri occhi giù per lo monte discendere si manifesta, avete dette. Onde
io, essendo stato ne' prosperevoli passi lieto conducitore, ne' dubbiosi non
sosterrò, in quanto piacere vi sia, d'essere per alcun altro condotto; ma,
prendendo in questo caso luogo di franco e vero duca, prima il mio avviso vi
narrerò, poi i miei passi secondo il vostro consiglio perseguirò. Quando prima
agli occhi miei, per le parole di Giulia, questa gente che noi veggiamo corse,
incontanente, pensando il luogo ove noi siamo, due pensieri nella mente mi
vennero: l'uno de' quali fu che costoro, forse indigenti delle mondane
ricchezze, veggendo il nostro arnese molto, o forse avendone manifesta indetta,
si mossero e vengono per volercene del tutto privare. La qual cosa se così
avviene che sia, niuna resistenza se ne faccia loro a lasciarlo prendere, ma
liberamente di piano patto sia tutto loro donato, però che, lodato sia Colui
che di questo e degli altri beni è donatore, le nostre case sono a Roma copiose
di molto oro, e però questo forse a loro fia molto e a noi poco sarebbe.
L'altro pensiero fu questo, il quale molto più che 'l primo mi spaventa, che io
dubito molto che costoro non rechino nelle loro mani la nostra morte, però che
noi dimoriamo in quelle parti nelle quali ha più persecutori della nostra
novella e santa legge, che quasi in niuna altra del mondo; e ancora me ne
accerta più il vedere il modo per lo quale elli discendono a noi, ché voi
vedete che essi vengono con grandissime bandiere spiegate, e con terribile
romore, il quale andare non suole esser de' predoni. E però a questo ultimo,
più che al primo pensando, nella mia mente ogni via essaminata, e niuna utile
per noi ci trovo, però che, come voi vedete, il voler fuggire niuna cosa
sarebbe, se non accendere gli animi loro in maggio re ira, e forse dare loro
materia d'offenderci, dove essi non l'avessero; e poi che noi volessimo pur fuggire,
manifesta cosa è che non ci è il dove, se non nelle loro braccia, però che
d'alte montagne d'ogni parte in questa valle ci veggiamo racchiusi. E il volere
con le nostre armi resistere alla loro potenza, noi siamo picciolo popolo a
rispetto di loro; e però a me pare che qui sieno da aspettare. E convocata la
loro misericordia, se essi si muovono a pietà di noi, ringraziando Iddio, il
nostro cammino meneremo a perfezione, e se non, con le nostre braccia
vigorosamente aiutandoci difenderemo, e vendicheremo le nostre morti, le quali
Giove per lungo tempo cessi da noi».
[20]
Mentre
Lelio le sue pietose parole porgeva a' cari compagni, ciascuno, portando a se
medesimo e a lui compassione, amaramente piangea. Alcuni piangeano dicendo:
«Oimè,
vecchio padre, che vita sarà la tua dopo la mia morte, s'egli avviene ch'io
muoia, il quale ora cresciuto dovea essere bastone che la tua vecchiezza
sostenesse?».
Altri
piangeano i piccioli figliuoli rimasi a Roma con la giovane donna,
ramaricandosi del loro infortunio; e altri i cari fratelli, e l'abandonate
ricchezze per seguire Lelio. E tutti generalmente piangeano la cara compagnia e
amistà tra loro e Lelio sì dolcemente congiunta, che in così brieve tempo
mostrava di doversi sì amaramente partire. Ma non dopo molto spazio per li
conforti di Lelio, il quale diceva loro:
«O
vigorosi giovani, ove sono fuggiti i vostri animi virili? Voi spandete per
picciola paura amare lagrime, come se voi foste femine. Evvi sì tosto partita
della memoria l'aspra morte che Catone sostenne in Utica con forte animo,
volendo più tosto morir libero che vivere servo de' suoi nemici, dando
insiememente essemplo a' suoi di sostenere ogni gravoso affanno per la cara
libertà? Or che fareste voi se io facessi il simigliante? Credo che vie più
lagrimereste. Cacciate queste lagrime da voi, e non dubitate de' vecchi padri,
né delle giovani donne, né de' piccioli figliuoli, né ancora dell'abondanti
ricchezze, le quali voi avete abandonate in servigio di Colui che ve le donò,
però che essi tutti nacquero alla sua speranza e non alla vostra, e Egli tutti
a buon fine gli recherà. E non è gran fatto se in servigio di così largo
donatore di grazie si pone alcuna volta il mortal corpo»; abandonate le
lagrime, si deliberarono al consiglio di Lelio, rispondendogli che lui per duca
e per signore continuamente aveano tenuto e teneano, e piacea loro per inanzi
di tenerlo, e che in questo accidente e in ogni altro essi ad ogni suo piacere
erano disposti di metterlo con lui insieme in essecuzione, offerendosi di
seguirlo infino alla morte. Allora Lelio di tanto onore reverentemente gli
ringraziò e comandò che ciascuno prendesse le sue armi e apprestassesi di
resistere a' nemici, faccendo di loro tre schiere. E la prima, nella quale egli
mise quelli giovani nelle cui forze più si confidava, fece guidare ad un
giovane romano, il quale si chiamava Sesto Fulvio, nobilissimo e ardito. La
seconda, nella quale erano quasi tutti quelli che a loro per lo cammino s'erano
accostati per compagnia, fece menare ad un giovane della sua terra, Ostazio,
sommo poeta, nominato Artifilo, valoroso e possente molto. La terza, nella
quale la maggior parte della sua poca gente riservò, diede a conducere a
Sculpizio Gaio, suo caro compagno e parente, sé di tutte faccendo capitano e
correggitore; e poi che così gli ebbe ordinati, parlò così verso loro:
[21]
«Cari
signori e compagni, com'io davanti vi ragionai, questi che noi veggiamo verso
di noi venire con tanta fu ria, a noi è di lor venuta la cagione occulta. Ma
tanto mi par bene che essi sono iniqua gente e ribelli alla nostra legge,
presumendo il luogo ove trovati gli abbiamo. E essendo tal gente, per niuna
altra cagione si dee credere che elli s'affrettino tanto di venire a noi, se
non per privarci di vita avanti che per noi niuno scampo si possa prendere.
Onde se questo avviene, se essi in noi le lor mani voglion crudelmente
distendere, voi non siete uomini i quali siate usi di contaminare la vostra
fama etterna per viltà, ma continuamente nel preterito tempo voi e' vostri
predecessori avete poste l'anime e' corpi per etternale onore. E che questo sia
vero, la inestinguibile memoria de' nostri antichi cel manifesta. Ahi, quanto
dovrebbe crescere il vostro vigore ogni ora che la gran fortezza d'Orazio
Codico vi torna a mente! Il quale, come voi sapete, al tempo che' trusciani
entrati in Roma con grandissime forze, già essendo per prendere il ponte
Sublicio e per passare nell'altra parte della città, andato sopr'esso, ritenne
la loro potenza con aspri combattimenti infino che 'l forte ponte gli fu dietro
tagliato, e la città per lo tagliamento liberata. E similemente Marco Marcello,
il quale assalì i Galli con minor popolo che voi non siete, e tanto con la sua
forza operò, che avuta di loro vittoria e morto il loro re, sacrificò le sue
armi a Giove Feretrio. E simigliantemente quello che fece Publio Crasso per non
essere suggetto ad Aristonico. Oh quanti e quali essempli de' nostri antichi si
potrebbono porre! E tutti non tanto per sé quanto per la republica sostennero
gravosi affanni e pericoli. Or adunque noi, che qui per la salute di noi
medesimi e per l'onore di tutti siamo a sì stretto partito, che dobbiamo fare?
Certo più vigorosamente combattere, anzi che noi, che già molti servi
francammo, divegnamo servi degli iniqui barbari o siamo da loro vilmente
uccisi. Ma però che io vi conosco tutti vigorosi giovani e forti combattenti,
porto nelle vostre destre mani grandissima speranza di vittoria, aiutandoci la
fortuna, e in me molto me ne conforto. Ma se pure avvenisse che gli avversarii
fati portassero invidia alle nostre forze, non vi lasciate almeno uccidere sì
come fanno le timide pecore a' fieri lupi, sanza alcuna difesa, ma fate che
essi abbiano la vittoria piangendo. E nondimeno vi torni alla memoria che voi
in questo luogo contro a costoro siete in luogo di campioni e forti difenditori
della legge del figliuolo di Giove, il quale per trarre noi dell'impie mani di
Pluto, nelle quali il primo nostro padre disubidendo miseramente ci mise,
sapete quanto fosse obbrobriosa e crudele la morte che egli sostenne! Dunque
non pare ingiusta cosa se noi pogniamo in essaltamento della sua legge e per la
salute di noi medesimi i nostri corpi, i quali s'avviene che muoiano, per la
presente morte meriteranno perdono e etterna fama; e rimesseci le preterite
offese, con ciò sia cosa che niuno viva sanza peccare, le nostre anime
viveranno in etterno, e ancora le nostre ceneri saranno con divozione visitate,
come visitavamo il santo tempio: al quale ancora spero che lietamente e tosto
perverremo. E però ciascuno si porti vigorosamente».
[22]
Giulia,
la quale dolente ascoltava le parole del suo compagno, incominciò sì forte a
dolersi e a fare sì grande il pianto, che niuno, per durezza di cuore, vedendola,
s'avrebbe potuto tenere di non fare il simigliante; e parlava così a Lelio:
«Oimè,
dolce signor mio, questo non è lo 'ntendimento per lo quale noi abandonammo le
nostre case. Noi ci partimmo divotamente per pervenire a' santi templi del
benedetto Iddio, posti in su li estremi liti d'occidente: e tu ora pare che
voglia con arme commuovere nuove battaglie. Deh! or pensa se a' pellegrini sta
bene così fatto mestiero! Certo no. Deh! almeno per ché t'affretti tu così di
combattere? Che sai tu chi costoro si sieno? Non credi tu che le diverse
nazioni del mondo abbiano fra sé altre nimistà che quelle dei romani? Io dubito
forte, e è da dubitare, che essi veggendo armati te e' tuoi compagni, forse
credano che voi siate quelli nimici che essi vanno cercando, e per questo
avranno cagione di cominciare la forse non pensata battaglia, e avranno
ragione. Lascia adunque questa volontà per mio consiglio, e pon giù le prese
armi, tu e' tuoi compagni! E se tu disarmato temi le loro lance, chi credi tu
che sia tanto crudele e sì vile, che andasse armato a ferire i disarmati? Certo
non alcuno. E tu simigliantemente per adietro co' tuoi prieghi solevi atutare
l'acerbe volontà della romana giovanaglia, superba per troppo bene non
conquistato da loro, e non ti fidi con le tue parole amollare l'ira di costoro
se sopra te adirati venissero! Forse tu imagini di non essere ascoltato da
loro: or credi tu che questi sieno nati delle dure querce o delle alpestre
rocce, che essi non abbiano pietà, né che essi non ascoltino le tue parole, le
quali sì tosto come l'udiranno piene di soavità, così daranno incontanente
luogo alla nostra via? Deh! non ti recare a volere la forza del tuo piccolo
popolo sperimentare con così grande essercito, ch'egli è fortuna e non ragione,
quando di così fatte imprese si riesce a prosperevole fine. Non vedi tu che i
tuoi compagni volentieri sanza prendere armi si sarebbono stati, perché
conoscono il pericolo, se a te non l'avessero vedute pigliare? Ma tu,
prendendole, ne se' loro stata cagione. E se tu pur dubiti della crudeltà di
coloro, molto meglio è a fuggirci mentre che noi possiamo, che voler combattere
con loro. Vedi che le vicine montagne sono piene di folti boschi e di nascosi
valloni, ne' quali noi ci potremo assai bene nascondere, chi in una parte e chi
in un'altra. Deh! non aspettiamo più le punte di quelli ferri, i quali,
veggendoli, già mi porgono mortal paura. Andiamo, incominciamo la salutevole
fuga, alla quale non nocerà la non dissoluta nebbia che fa questa valle oscura.
Niuno nimico dee più volere del suo avversario che vederlosi fuggire davanti,
mostrando di temere la sua potenza. Però s'elli vengono per offenderci, essi
saranno contenti di vederci fuggire, e, ridendo fra loro, riterranno i correnti
cavalli, faccendosi beffe di noi: le cui beffe noi non curiamo, solamente che
noi scampiamo delle loro mani. Poi, se licito non c'è d'andar più avanti,
tornianci inanzi a Roma che noi vogliamo morire e non sapere come, però che
ciascuno è per divino comandamento tenuto di servare la sua vita il più che
puote. E siati ancora manifesto che ogni cavaliere non è della volontà del
signore, né così fiero. Questi, quando alquanto ci avranno cacciati,
lasciandoci andare, volontieri si riposeranno, e trovando le nostre ricchezze,
le quali sono assai, intenderanno a prenderle: e in quello spazio, concedendolo
Iddio, in alcuna parte ci potremo salvare. Deh! fa, Lelio, che in questa parte
sia il mio consiglio udito e servato da voi, e non guardare per che feminile
sia, che tal volta le femine li porgono migliori che quelli che subitamente
sono presi dall'uomo. Sia questa la prima e ultima grazia a me in questo
viaggio, nel quale alcun'altra domandata non te n'ho».
Queste
parole e molte altre piangendo Giulia fortemente diceva, abbracciando sovente
Lelio e rompendogli le parole in bocca; alla quale Lelio, ascoltato un pezzo,
rispose così:
[23]
«Giulia,
queste non sono le parole le quali a Roma nella nostra casa mi dicevi, quando
di grazia mi chiedesti di volere venire meco nel presente viaggio. Ov'è il tuo
virile ardire così tosto fuggito? Tu dicevi che più vigorosamente sosterresti
ne' bisogni l'armi e gli affanni che la vigorosa moglie di Mitridate, e io avea
intendi mento d'aggiugnerti al numero de' miei cavalieri con l'armi indosso, se
non fosse il creato frutto che tu nascondi in te. E tu ora solamente nella
veduta d'uomini de' quali noi dubitiamo, e ancora di loro condizione non siamo
certi, né sappiamo se sono amici o nimici, vuogli, non sappiendo per che,
pigliare la fuga? In questo atto non risomigli tu Cesare, il tuo antico avolo,
il quale ardire e prodezza ebbe più che alcun altro romano avesse mai. Ora,
cara compagna, non dubitare, e renditi sicura che niuno utile consiglio per noi
è che nelle nostre menti non sia molte volte stato ricercato e essaminato, e
niuno più utile che quello ch'è preso ne troviamo per la nostra salute. E credi
che Iddio non vuole che i suoi regni vilmente operando s'acquistino, ma
virtuosamente affannando: e però taciti, e nelle nostre virtù come noi medesimi
ti confida».
[24]
Udendo
Giulia Lelio esser pur fermo nel suo proposito, più amaramente piangendo gli si
gittò al collo, dicendo:
«Poi
che al mio consiglio non ti vuoi attenere, né mi vuoi far lieta della dimandata
grazia, fammene un'altra, la quale sia ultima a me di tutte quelle che fatte
m'hai. Fa almeno che quando le tue schiere affrontate co' non conosciuti nimici
saranno, che quando tu vedrai quel crudele cavaliere, qual che egli si sia, che
verso te dirizzerà l'aguta lancia, io misera, sì come tuo scudo, riceva il
primo colpo, acciò che agli occhi miei non si manifesti poi alcuno che disideri
d'offenderti. Questa mi fia grandissima grazia, però che un colpo terminerà
infiniti dolori. Oimè sconsolata! Or s'egli avvenisse che io sanza te mi
trovassi viva, qual dolore, quale angoscia fu mai per alcuna misera sentita sì
noiosa, che alla mia si potesse assimigliare? E quello che più mi recherebbe
pena sarebbe il voler morire e non potere. Ma certo io pur potrei, però che se
questo avvenisse, io sanza alcuno indugio, in quella maniera che Tisbe seguì il
suo misero Piramo, così la mia anima, cacciata del misero corpo con aguto
coltello, seguirebbe la tua ovunque ella andasse. Ma concedimi questa ultima
grazia, acciò che tu privi di molta tristizia la poca vita corporale che m'è
serbata: e io, la quale spero d'andare ne' santi regni di Giove, ti farò fare
presto degno luogo alla tua virtù».
Mentre
costei così pietosamente piangendo parlava, avendo a Lelio quasi tutto bagnato
il viso delle sue lagrime, il suo cuore per greve dolore temendo di morire,
chiamate a sé tutte l'esteriori forze, lasciò costei in braccio a Lelio
semiviva, quasi tutta fredda. E Lelio che lagrimando la volea confortare,
vedendo questo, sceso del suo cavallo, e presala nelle sue braccia, la ne portò
in un campo quivi vicino, nel quale fatto distendere alcun tappeto, lei a
giacere vi pose suso, e raccomandatala ad alquante damigelle di lei,
prestamente risalito a cavallo, tornò a' suoi compagni. Oimè, Lelio, or dove
lasci tu la tua cara Giulia, la quale tu mai non dei rivedere? Deh! quanto
Amore si portò tra voi villanamente, avendovi tenuti insieme con la sua virtù
tanto tempo caramente congiunti! e ora nell'ultimo partimento non consentire
che voi v'aveste insieme baciati, o almeno salutati! Tu vai, Lelio, al tuo
pericolo correndo, e lei semiviva abandoni ne' suoi danni. Oh! quanto le fia
gravoso il ritornare in sé gli spiriti, i quali vagabundi pare che vadano per
lo vicino aere, più che se mai non ritornassero, però che con minor doglia le
parrebbe essere passata.
[25]
A'
quali compagni ritornato, Lelio li trovò per le predette parole sì animosi
della battaglia che, poco più che fosse dimorato, gli avrebbe trovati mossi per
andare verso i loro nimici. Ma poi che egli con alcuna dolce paroletta gli ebbe
alquanto raffrenati, comandò a un santo uomo, il quale menato aveano con seco
per tal volta sacrificare a Giove, che egli prestamente gli rendesse degni
sacrificii; e questo fatto, davanti alle sue schiere, sì alto che tutti
potevano vedere, voltato a' suoi compagni, gli pregò che divotamente pregassero
Giove per la loro salute. E così, sanza discendere de' loro cavalli, in atto
reverente tutti divotamente cominciarono a pregare; e Lelio, davanti a tutti,
dicea così:
«O
sommo Giove, grazioso Signore, per la cui virtù con perpetua ragione si governa
l'universo, se tu per alcuni prieghi ti pieghi, riguarda a noi, e nel presente
bisogno ne porgi il tuo aiuto. Noi solamente in te speriamo, i quali disiderosi
dimoriamo nel santo viaggio del tuo caro fratello. E come tu, a cui niuna cosa
si nasconde, vedi, noi ci apparecchiamo di muovere nuove battaglie a strani
popoli, e non per ampliare le nostre ricchezze o il mondano onore, ma solamente
perché la tua santa legge per negligenza di noi non si occulti sotto la falsa
volontà di questa gente, la quale veramente credo che del tutto le siano
ribelli. Adunque prima il tuo aiuto ci porgi, sanza il quale indarno s'affatica
ciascuno operante, e appresso alcun manifesto segno dalla tua somma sedia ne
dimostra, il quale le nostre speranze conforti e i nostri cuori sempre ne' tuoi
servigi. E in questo ne dimostra il tuo piacere, acciò che noi, credendoci bene
adoperare, non bagnassimo le nostre mani in innocente sangue, o, sanza dovere,
nel nocente».
Appena
ebbe finita Lelio la sua orazione, che sopra lui e i suoi cavalieri apparve una
nuvoletta tanto lucente che appena poteano con li loro occhi sostenere tanta
luce; della quale una voce uscì, e disse:
«Sicuramente
e sanza dubbio combattete, che io sarò sempre appresso di voi aiutandovi
vendicare le vostre morti; e sanza alcuna ammirazione le presenti parole
ascoltate, che tal volta conviene che 'l sangue d'uno uomo giusto per
salvamento di tutto un popolo si spanda. Voi sarete oggi tutti meco nel vero
tempio di Colui il cui voi andate a vedere, e quivi le corone apparecchiate
alla vostra vittoria vi donerò».
E
questo detto, come subita venne, così subitamente sparve. Allora Lelio co'
suoi, lieti, si dirizzarono, ringraziando la divina potenza, e, riprese le loro
armi, s'apparecchiarono di resistere a' loro nimici, i quali con grandissimo
romore già s'appressavano a loro.
[26]
Non
credo che ancora i giovani compagni di Lelio avesseno riprese nelle destre mani
le loro lance, ripieni per le parole di Lelio di vigoroso ardire, disideranti
di combattere con la non conosciuta gente, quando a loro si scontrò molto
vicino, tanto che i dardi di ciascuna parte poterono, essendo gittati, ferire i
suoi avversarii, il nimico essercito. Gli aguti raggi del sole, il quale avea
già dissolute le noiose nebbie, gli lasciava insieme apertamente vedere, e
quelli che fidandosi della loro moltitudine erano discesi del monte sanza
alcuno ordine, credendo i loro avversarii trovare improvvisi, vedendogli armati
e con aguzzata schiera, superbi nell'aspetto, aspettarli fermati, dubitarono di
correre alla mortale battaglia così subiti.
I
divoti giovani stavano feroci avendo già dannata la loro vita, sicuri della
battaglia, e impalmatasi la morte anzi che cominciare vilissima fuga; e niuno
romore avverso rimosse le menti apparecchiate a grandi cose. Lelio allora
davanti a tutti i suoi, con dovuto ordine, a piccolo passo mosse la prima
schiera, la quale Sesto Fulvio guidava, e con aperto segno manifestò all'altre
che sanza bisogno non li seguissero. E già innumerabile quantità di saette e di
tremanti dardi erano sopra i romani giovani discese, gittate dagli archi di
Partia dalle arabe braccia, quando Lelio, nell'animo acceso di maravigliosa
virtù, mosso il potente cavallo, dirizzò il chiaro ferro della sua lancia verso
un grandissimo cavaliere, il quale per aspetto parea guidatore e maestro di
tutti gli altri, al quale niuna arme fu difesa, ma morto cadde del gran
destriere. Questi portò prima novelle della iniqua operazione commessa da Pluto
a' fiumi di Stige; questi prima bagnò del suo sangue il mal cercato piano e li
romani ferri.
Sesto,
che appresso Lelio correndo cavalcava, ferendone un altro, diede compagnia alla
misera anima. E i valorosi giovani seguendo i loro capitani, niuno ve n'ebbe
che peggiore principio facesse di Lelio, ma tutti valorosamente combattendo,
abbattuti i loro scontri, cavalcarono avanti. E già aveano la maggior parte di
loro, tutti per difetto delle rotte lance, tratte fuori le forbite spade, le
quali percosse, da' chiari raggi del sole, riflettendo minacciavano i
sopravegnenti nimici. Niuno risparmiava la volonterosa forza, ma tutti sanza
alcuna paura combatteano con la vile moltitudine. Lelio e Sesto, i quali avanti
procedeano, combatteano virilmente con due grandissimi barbari, i quali forti e
resistenti trovarono. E mentre l'aspra pugna durava, la moltitudine della
iniqua gente abondante premeva tanto i romani, che quasi costretti da vera
forza oltre al loro volere rinculavano. Lelio, il quale avea già abbattuto il
suo avversario, rivolto verso i suoi, li vide alquanto tirarsi indietro: allora
volto la testa del suo cavallo, con ritondo corso gli circuì, dicendo loro:
«L'ora
della vostra virtù disiderata è presente: spandete le vostre forze. Alla vostra
salute non manca altro che l'opera de' ferri aiutata dalle vostre braccia:
qualunque disidera di rivedere l'abandonata patria, e' cari padri, e' figliuoli,
e la moglie, e i lasciati amici, con la spada gli domandi. Iddio ha poste tutte
queste cose nel mezzo della battaglia. La migliore cagione ci dee porgere
speranza di vittoria, e la nostra vittoria ha bisogno di pochi combattitori,
però che la gran quantità de' nemici impediranno se medesimi ristretti nel
picciolo campo. Imaginate che qui davanti a voi dimorino li vostri padri, e le
vostre madri, e' vostri figliuoli piccolini, e ginocchioni lagrimando vi
prieghino che voi adoperiate sì l'arme, che voi vi rendiate a loro medesimi
vincitori; sì che voi poi narrando loro i corsi pericoli, paurosi e lieti gli
facciate in una medesima ora».
Le
parole di Lelio, parlante cose pietose, infiammarono i non freddi petti de'
romani giovani: essi sospinsero avanti la sostenuta battaglia, uccidendo non
picciola quantità della canina gente. Scurmenide, potentissimo barbaro, gia
riguardando la gente del suo signore per picciola quantità di combattenti
invilita voltarsi verso le sue insegne; come stimolo de' suoi e rabbia
dell'empio popolo, per tema che 'l cominciato male non perisca, da alcuna parte
si parò davanti a' paurosi cavalieri, e mirando verso loro conobbe quali
coltelli erano stati poco adoperati, e quali mani tremavano premendo la spada,
e chi avea le lance lente e chi le dispiegava, e chi combatte bene e chi no; e
questo veduto, parlò così:
«Ahi!
vilissimo popolazzo, ove torni tu? Con quale merito di guiderdone rivolgi tu i
tuoi passi verso le guardate bandiere? Certo la mia spada taglierà qualunque
arditamente non combatterà co' nimici».
Le
spente fiamme de' barbari cuori alquanto per le parole di costui si
ravvivarono; e voltarono i visi. Scurmenide accende i furori con le sue voci:
elli dava i ferri alle mani di coloro che gli aveano perduti, e gridava che i
contrarii volti sanza alcuna pietà sieno uccisi. Egli promuove e fa andare
inanzi i suoi, e coloro che si cessano sollicita con la battitura della rivolta
asta, e si diletta di veder bagnare i freddi ferri nell'innocente sangue.
Grandissima oscurità di mali vi nasce, e tagliamenti e pianti, a similitudine
di squarciata nube quando Giove gitta le sue folgori: l'armi sonano per lo peso
de' cadenti colpi, le spade sono rotte dalle spade. Sesto co' suoi non possono
più sostenere, però che la piccola quantità era tornata a minor numero
d'uomini.
Lelio,
che i casi della battaglia tutti provede con sollicita cura, con altissima voce
e con manifesti atti provoca la seconda schiera alla battaglia. Artifilo, che
lungo spazio avea sostenuto il disio della battaglia, muove sé e' suoi con
dovuto ordine; e volonterosi sottentrano a' gravi pesi della battaglia. E nel
primo scontro si dirizzò Artifilo verso il crudele Scurmenide, e mettendo
l'aguta lancia nelle sue interiora, sopra il polveroso campo l'abbatté morto.
Molti
n'uccisero nella loro venuta i nuovi schierati condotti da Artifilo, ma di loro
furono simigliantemente molti morti. Artifilo, perduta la lancia, portava nelle
sue mani una tagliente accetta, e sostenendo il sinistro corno della battaglia
andava uccidendo tutti coloro che davanti gli si paravano; e Lelio e Sesto nel
destro corno della battaglia combattevano. Uno ardito arabo, il quale Menaab si
chiamava, veduto il crudo scempio che Artifilo del barbarico popolo faceva con
la nuova arme, temendo i colpi suoi, prese un arco, e di lontano l'avvisò sotto
il braccio nell'alzare ch'egli facea dell'accetta, e quivi feritolo con una
velenosa saetta il credette aver morto. Ma Artifilo, sentito il colpo, quasi
come se niuna doglia sentisse, con la propia mano trasse la saetta delle sue
carni. E ripresa l'accetta, dirizzata la testa del suo cavallo verso colui che
già s'era apparecchiato di gittar l'altra, sopragiuntolo, gli diede sì gran
colpo sopra la testa che in due parti gliele divise. Quivi fu egli da molti de'
nemici intorniato, e il possente cavallo gli fu morto sotto: sopra 'l quale,
poi che morto cadde, dritto si levò difendendosi vigorosamente.
La
furiosa gente premeva tutta adosso a lui: egli uccideva qualunque nimico gli
s'appressava. E già n'avea tanti uccisi dintorno a sé, che, quanto la sua
accetta era lunga, per tanto spazio dintorno a sé avea di corpi morti
ragguagliata l'altezza del suo cavallo; e il taglio della sua arme era perduto,
ma in luogo di tagliare, rompeva e ammaccava le dure ossa degli aspri
combattitori. Infinite saette e lance sanza numero ferivano sopra Artifilo: il
suo forte elmo era in molti pezzi diviso; e già era più carico di saette, fitte
per lo forte dosso, che delle sue armi. Niuno era che a lui s'ardisse ad
appressare; ma egli, sopra i corpi morti andando, s'appressava a' suoi nimici
uccidendoli, e difendendo sé e chiamando i cari compagni che 'l soccorressero.
Veggendo
questo, Tarpelio, nipote del crudele re, trattosi avanti tra' suoi cavalieri,
lui ferì con una grossa lancia nel petto, e egli, già debole per lo mancato
sangue, cadde in terra, dove da' compagni di Tarpelio fu morto sanza niuno
dimoro. Lelio, che avea gli occhi volti in quella parte e molto si maravigliava
della grande virtù di Artifilo, quando vide questo non poté ritenere le
lagrime, ma sotto l'elmo chetamente bagnò per pietà il suo viso; e abandonato
Sesto, corse in quella parte ove ancora alquanti de' compagni d'Artifilo rimasi
vivi combattevano vigorosamente, ingegnandosi di vendicare la morte del loro
capitano. E quivi con la sua forza lungamente sostenne i pochi compagni. Ma poi
ch'egli vide Sesto, rimaso quasi solo, in molte parti del corpo ferito,
combattere, e sé male accompagnato, tirato indietro per convenevole modo, mosse
la terza schiera di Sculpizio Gaio, loro ultimo soccorso; alla quale Sesto e
quelli che erano per la battaglia pochi rimasi delle due schiere prime, tutti
s'accostarono, e rincominciarono sì forte la sventurata battaglia, che alcuna
volta prima non v'era stata tale. E ben che i resistenti fossero molti, la loro
moltitudine nel piccolo luogo nocea, però che l'uno impediva la spada
dell'altro per istrettezza: onde Sesto e Sculpizio, i quali avanti agli altri
vigorosamente combattevano con li loro pochi cavalieri, per forza,
uccidendogli, gli fecero rinculare e fuggire in campi ancora non bagnati
d'alcun sangue.
Il
re, che della montagna era disceso con fresca schiera, vedendo questo, alquanto
raffreddò l'ardente disio, e dubitando mosse i suoi cavalieri, e li terribili
suoni de' battagliereschi strumenti fecero di nuovo tremare i secchi campi. E
tanta polvere coperse l'aria con la sua nebbia per la furia de' correnti
cavalli, quanta ne manda il vento di Trazia nella soluta terra. E poi che la
superba e nuova compagnia de' cavalieri sopravenne adosso agli stanchi
combattitori, la dubbiosa vittoria manifestò il suo posseditore, però che non
fu licito a' cavalieri di Lelio d'andare adosso a' nimici, sì furono
subitamente intorniati da lungi e da presso con le piegate e con le diritte
lance.
La
piova delle saette mandate dagli africani bracci, e le gittate lance aveano
coperta la luce alla picciola schiera de' romani; ella si raccolse in piccola
ritondità, tanto che quelli i quali per le sopravegnenti saette, sanza potere
fare alcuna difesa, morivano, rimaneano ritti, i loro corpi sostenuti dagli
stretti compagni. Sculpizio, il quale non avea ancora le sue forze provate, fu
il primo che partito dalla ritonda schiera uscì correndo verso il re, il quale
s'apparecchiava d'affrettare la loro morte, e ferillo sì vigorosamente sopra
l'elmo che il re cadde a terra del gran cavallo quasi stordito, ma per lo buon
soccorso de' suoi tosto fu rilevato. Lelio e Sesto rincominciarono la
battaglia, faccendosi con le loro spade fare amplissimo luogo. Ma Sesto
fortunosamente correndo tra' nimici fu intorniato da loro, e mortogli il suo
cavallo sotto, e caduto in mezzo il campo, anzi che egli, debile, si potesse
rilevare, fu miserabilmente ucciso. Lelio, il quale la sua morte vide, pieno di
grave dolore conobbe bene il piacer di Dio; e ricordandosi dello annunzio fatto
loro, che tal volta conveniva che uno morisse per salvamento di tutto il
popolo, disse così:
«O
sommo Giove, e tu beato Iddio, i cui templi io visitare credea, poi che a voi è
piaciuto che i nostri passi più avanti che questo luogo non si distendano, io
non intendo di volere, co' pochi compagni i quali rimasi mi sono, per fuga
abandonare l'anime di quelli che davanti agli occhi miei giacciono morti. Io vi
priego che le loro anime riceviate e la mia, in luogo di degno sacrificio, se
vostro piacere è».
E
dette queste parole, corse sopra un cavaliere, il quale volea spogliare le
pertugiate armadure a Sesto, e lui ferì sì forte sopra il sinistro omero con la
sua spada, che gli mandò il sinistro braccio con tutto lo scudo in terra, e
quelli cadde morto sopra Sesto. Egli incominciò a fare sì maravigliose cose,
che nullo ve n'avea che non se ne maravigliasse; e Sculpizio non si portava
male. E' pochi compagni ricominciarono più aspramente a mostrare le loro forze
che non aveano fatto davanti, ma poco poterono durare. Il re, che d'ira ardeva
tutto dentro, vedendo Lelio sì maravigliosamente combattere e aver già perdute
per li molti colpi la maggior parte delle sue armi, quanto poté gli si fece
vicino, e gittatagli una lancia il ferì nella gola, e lui cacciò morto in terra
del debole cavallo. Sculpizio, vedendo questo, corse con la sua spada in mano
per ferire il re e per vendicare la crudele morte del suo amico, ma un
cavaliere, il quale si chiamava Favenzio, si parò davanti al colpo, al quale la
spada scesa sopra il chiaro cappello d'acciaio, tagliandolo, lui fendé quasi
infino a' denti; ma volendo ritrarre a sé la spada per ricoverare il secondo
colpo, non la poté riavere. Ond'egli, assalito di dietro, fu da' nimici
crudelmente ucciso. Nel campo non era più alcuno rimaso de' miseri compagni,
anzi sanza niuno combattimento più rimase il re Felice vittorioso nel misero
campo, faccendo cercare se la misera fortuna n'avesse alcuno riposto con cheto
nascondimento tra' suoi medesimi. Ma poi che alcuno non ve ne fu vivo trovato,
egli comandò che il suo campo fosse quivi fermato quella notte; poi, al nuovo
giorno, procederebbero.
[27]
Vedendo
il re che i fortunosi casi aveano conceduta la vittoria alle sue armi, in se
medesimo molto si rallegrò. Poi andando verso le tese trabacche guardando con
torto occhio i sanguinosi campi, vide grandissima quantità de' suoi cavalieri
giacer morti dintorno a pochi romani. E ben che l'allegrezza della dolente
vittoria gli fosse al principio molta, certo, vedendo questo, ella si cambiò in
amare lagrime, imaginando l'aspetto de' suoi cavalieri, i quali tutti
sanguinosi giaceano morti al campo, e udendo le dolenti voci e 'l triste pianto
che i suoi medesimi feriti faceano per lo campo. Egli diede a' suoi cavalieri
libero albitrio che le ricchezze rimase nel misero campo fossero da loro
rubate, e che ciò che ciascun si desse fosse suo; la qual cosa in brieve spazio
fu fatta. Elli disarmarono tutti i romani con presta mano, e non ne trovarono
alcuno che intorno a sé non avesse grandissima quantità di nimici morti né che
non fosse passato di cento punte. E i miseri cavalieri, i quali questo andavano
faccendo, aveano perduta la conoscenza de' loro padri e fratelli e compagni che
morti giacevano, per la polvere mescolata col sangue sopra i loro visi; ma poi
che essi, nettandoli co' propii panni per riconoscerli, ve n'ebbero ritrovati
molti, e tutti i più valorosi, il pianto e 'l romore cominciò sì grande, che il
re si credette da capo essere assalito, e con fatica racchetò i loro pianti,
ricogliendoli dentro ne' chiusi campi.
[28]
O
misera fortuna, quanto sono i tuoi movimenti varii e fallaci nelle mondane
cose! Ove è ora il grande onore che tu concedesti a Lelio quando prescritto fu
all'ordine militare? Ove sono i molti tesori che tu con ampia mano gli avevi
dati? Ove la gran famiglia? Ove i molti amici? Tu gli hai con subito giramento
tolte tutte queste cose, e il suo corpo sanza sepoltura giace morto negli
strani campi. Almeno gli avessi tu concedute le romane lagrime, e le tremanti
dita del vecchio padre gli avessero chiusi i morienti occhi, e l'ultimo onore
della sepoltura gli avesse potuto fare!
[29]
Avea
già, nel brieve giorno, Pean, che nell'ultima parte della guizzante coda
d'Almatea, nutrice dell'alto Giove, dimorava, trapassato il meridiano cerchio,
e con più studioso passo cercava l'onde di Speria, quando Giulia misera
dintorno a sé, ritornate le forze nel palido corpo, sentì piangere le dolenti
compagne, che già i loro danni aveano veduti; alle cui voci subitamente
levatasi, disse:
«Oimè
misera, qual è la cagione del vostro pianto?».
E
riguardandosi dintorno non vide il caro marito, nelle cui braccia avea perdute
le forze degli esteriori spiriti. Allora, non potendo tenere le triste lagrime,
disse:
«Oimè!
or dov'è fuggito, il mio Lelio? Ecco se la fortuna ha ancora concedute le
'nsegne al mio marito contra i non conosciuti nimici!».
E
dicendo queste parole, quasi uscita di sé si drizzò, e i miseri fati le volsero
gli occhi verso quella parte, la quale le dovea mostrare il suo dolore
manifestamente; e verso quella mirando, sentì lo spiacevole romore degli
spogliatori e vide il secco campo essere di caldo sangue tutto bagnato, e pieno
della nimica gente. Allora il dubitante cuore di quello che avvenuto era,
manifestamente conobbe i suoi gran danni. Ella non fu dalla feminile forza
delle sue compagne potuta ritenere, che ella non andasse tra' morti corpi sanza
alcuna paura; ma come persona uscita del natural sentimento, messesi le mani
ne' biondi capelli, gli cominciò con isconcio tirare a trarre dell'usato
ordine. E i vestimenti squarciati mostravano le colorite membra, che in prima
soleano nascondere. E bagnando le sue lagrime il bianco petto, sfrenatamente
sicura contra' nemici ferri, incominciò a cercare tra' morti corpi del suo caro
marito, dicendo alle sue compagne:
«Lasciatemi
andare: e' non è convenevole che così valoroso uomo rimanga ne' lontani campi
dalla sua città, sanza essere lagrimato e pianto. Poi che la fortuna gli ha
negate le lagrime del suo padre e de' suoi parenti e del romano popolo, non gli
vogliate anche torre quelle della misera moglie».
E
andando ella per lo campo piangendo e sprezzando le sue bellezze, molti corpi
morti con le propie mani rivolgea per ritrovare il suo misero marito, ma i
sanguinosi visi nascondeano la manifesta sembianza allo 'ntelletto. E poi che
ella molti n'ebbe rivolti, riconosciuto alle chiare armadure il suo Lelio, il
quale di molti morti nimici morto attorniato giacea, quivi sopr'esso semiviva
piangendo cadde; e dopo picciolo spazio drizzatasi, piangendo amaramente
s'incominciò a battere il chiaro viso con le sanguinose mani e a graffiarsi le
tenere gote. E aveasi già sì concia, che tra 'l vivo e 'l morto sangue che
sopra il viso le stava, non Giulia, ma più tosto uno de' brutti corpi morti nel
campo parea. Ella non si curava di bagnare il suo viso nell'ampie piaghe di
Lelio, anzi l'avea già quasi tutte piene d'amare lagrime. Ella spesse volte il
baciava e abbracciava strettamente, e nell'amaro pianto, riguardandolo, diceva
così:
«Oimè,
Lelio, ove m'hai tu abandonata? ove m'hai tu lasciata? Tra gente araba diversa
da' nostri costumi, de' quali niuno io non conosco! Almeno mi facesse Giove
tanta di grazia, che la loro crudeltà fosse con le loro mani operata in me,
come elli l'operarono in te; ma il feminile aspetto porta pietà in quelli petti
ov'ella non fu mai. Almeno sarei io più contenta che la mia anima seguisse la
tua ovunque ella fosse, che rimaner viva nella mortale vita dopo la tua morte.
Deh! per ché non fu licito al tuo virile animo di credere al feminile
consiglio? Certo tu saresti ancora in vita, e forse per lungo spazio saremmo
lieti insieme vivuti. Deh! ove fuggì la tua pietà, quando tu in dubbio di morte
nelle feminili braccia mi lasciasti di lungi alle tue schiere? Come non
aspettasti tu che io almeno t'avessi veduto inanzi che tu fossi entrato
nell'amara battaglia, e che io con le propie mani t'avessi allacciato l'elmo,
il quale mai per mia voglia non sarebbe stato legato, perché io conoscea sola
la fuga essere rimedio alla nostra salute? Oimè dolente, quanto è sconvenevole
cosa di volere adempiere l'uomo i suoi disideri contra 'l piacer di Giove! Noi
desiderammo miseramente i nostri danni quell'ora che noi domandammo d'aver
figliuoli, i quali se convenevole fosse suto che noi dovessimo avere, quella
allegrezza Giove sanza alcun boto ce l'avrebbe conceduto. O iniquo pensiero e
sconvenevole volontà, recate la morte in me, che non l'ho meno meritata che
costui; o almeno, o dolorosa fortuna, mi fosse stato licito di pararmi dinanzi
a' crudeli colpi, i quali costui innocente sostenne, sì com'io avea di grazia
adimandato! Omai non è al mio dolore niuno rimedio se non tu, morte! La quale
io sì come misera priego che tu non mi risparmi, ma vieni a me sanza niuno
indugio. Tu non dei omai potere più esser crudele, e massimamente a' prieghi
delle giovani donne, in tal luogo se' stata! Deh! piacciati inanzi di farmi
fare compagnia ne' miseri campi al mio marito, che lasciarmi nel mondo essemplo
di dolore a quelli che vivono. Uccidimi, non indugiar più! Oimè dolente! come
i' ho malamente seguito con effetto il perfetto amore della mia antica avola
Giulia, la quale, poi che vide i drappi del suo Pompeo tinti di bestial sangue,
temendo non fosse stato offeso, costrinse l'anima di partirsi dal misero corpo,
subitamente rendendola a' suoi iddii. Oh quanto le fu prosperevole il morire,
però che morendo poté dire: "Io non vedrò quella cosa la quale per dolore
mi conducerebbe a maggior pena, e poi a morte, ma morendo vincerò il
dolore". E io, misera!, davanti agli occhi miei veggio il mio dolore, e
non m'è licito di morire, né posso cacciar da me la misera anima, la quale per
paura sento che cerca l'ultime parti del cuore, fuggendosi dalla mia crudeltà.
Oimè, morte, io ti domando con graziosa voce, e non ti posso avere! Certo la
tua signoria è contraria del tutto agli atti umani, i quali i disprezzatori
delle loro potenze s'ingegnano di sottomettersi, risparmiando i fideli: e tu
coloro che più ti temono crudelmente assalisci, dispregiando gli schernitori
della tua potenza lungamente, e di questi sempre più tardi che degli altri ti
vendichi. Oh, quanto è misero colui che così comunal cosa, come tu se', gli
manca ad uno bisogno!».
Ella,
piangendo, più volte con aguti ferri caduti per lo campo si volle ferire il
tenero petto, ma, impedita dalle compagne, non potea. Poi si voltava agli aspri
rubatori e dicea:
«Deh!
crudeli cavalieri, i quali sanza alcuna pietà metteste l'agute lance per
l'innocente corpo, deh!, ammendate il vostro fallo tornando pietosi: uccidete
me, poi che voi avete morto colui che la maggior parte di me in sé portava!
Fate che io sia del numero degli uccisi! Questa pietà sola usando vi farà
meritar perdono di ciò che voi avete oggi non giustamente adoperato».
E
dette queste parole, ritornava a baciare il sanguinoso viso; e di questo non si
potea veder sazia, anzi l'avea già quasi tutto con le amare lagrime lavato, e
piangendo forte sopr'esso si dimorava dolente.
[30]
Ma
poi che il sole nascose i suoi raggi nelle oscure tenebre e le stelle
cominciarono a mostrare la loro luce, il campo si cominciò con taciturnità a
riposare, sì per l'affanno ricevuto il preterito giorno che richiedeva agli
affannati membri riposo, sì per l'allegrezza della vittoria che molte menti
avea nel vino sepellite. Solo l'angoscioso pianto di Giulia e delle sue
compagne facea risonare la trista valle, e questo risonava nelle orecchie al
vittorioso re. E egli, che ne' tesi padiglioni si riposava, udendo queste voci,
chiamò un nobile cavaliere, il quale s'appellava Ascalion, e disseli:
«Deh,
or di cui sono le misere voci che io odo, che non lasciano partire della nostra
mente in alcuno modo la crudele uccisione fatta nel passato giorno?».
«Sire
- disse Ascalion, - io imagino che sia alcuna donna, la quale forse era moglie
d'alcuno del morto popolo, e così mi pare avere inteso da' compagni, e
similmente la sua favella, la quale io intendo bene, il manifesta».***
Allora
gli comandò il re che elli andasse ad essa, e comandassele ch'ella tacesse,
acciò che 'l suo pianto non gli accrescesse più dolore che il preterito danno.
Mossesi Ascalion con alquanti compagni, e per l'oscura notte con picciol lume,
per lo sanguinoso campo scalpitando i morti visi, andarono in quella parte ove
essi sentirono le dolenti voci, e pervennero a Giulia; la quale, come Ascalion
la vide, imaginando le nascose bellezze sotto il morto sangue del suo viso,
mosso dentro a pietà, quasi lagrimando disse:
«O
giovane donna, il cui dolore invita gli occhi miei, veggendoti, a lagrimare, io
ti priego, per quella nobiltà che il tuo aspetto ne rapresenta, che tu ti
conforti e ponghi fine alle tue lagrime. Certo io non so qual sia la cagione
della tua doglia, ma credo che sia grande; e chente ch'ella sia, io non credo
che per lo tuo pianto si possa emendare, ma più tosto piangendo aumentare la
potresti. E noi medesimi, i quali, se al ricevuto danno volessimo ben pensare,
certo noi non faremmo mai altro che piagnere; e considerando quello che è
detto, ci ingegnamo di dimenticare quello che ancora non vuole fuggire delle
nostre memorie. E simigliantemente il re nostro signore te ne manda pregando; e
credo che molto gli sarebbe caro, secondo il suo parlare, che tu venissi
dinanzi al suo cospetto».
Giulia,
udendo la romana loquela, la quale Ascalion, lungamente dimorato a Roma, impresa
avea, alzò il viso verso lui, forse credendo che fosse alcun de' miseri
compagni di Lelio, e con torti occhi riguardando il cavaliere e vedendo ch'egli
era della iniqua gente, piangendo il richinò, e gittando un gran sospiro,
disse:
«Niun
conforto sentirà l'anima mia, se voi nol mi porgete. Voi m'avete con le vostre
spietate braccia ucciso colui il quale era mio conforto e mia ultima speranza.
Acciò che l'anima mia possa seguire per le dilettevoli ombre quella del mio
Lelio, questo graziosamente vi domando, questo fia l'ultimo bene che io spero,
e a voi non fia niente. Voi avete oggi bagnate le vostre mani in tanti sangui,
che io non accrescerò la somma del vostro peccato per la mia morte, ma la farò
più lieve per la pietà che voi userete uccidendomi. Deh! aggiungetemi al triste
numero, acciò che si possa dire: "Giulia amò tanto il suo Lelio, che ella
fu del numero de' corpi morti con lui insieme ne' sanguinosi campi". E se
voi non volete usar questa pietà, almeno prestate alle mie mani la tagliente
spada, e consentite che sanza briga di queste mie compagne io possa morire,
essendone le mie mani cagione».
Ascalion
e' suoi compagni, che vedeano il chiaro viso tutto rigare di vermiglio sangue,
lagrimavano tutti per pietà di costei; e piangendo le rispose e disse:
«Giovane,
gl'iddii facciano le mie mani di lungi da sì fatto peccato. Certo io fuggii
oggi per non bagnarmi nella dolente occisione: ma tu, perché piangendo e
sconfortandoti guasti il tuo bel viso? Perché desideri d'incrudelire contra te
medesima? Credi tu con la tua morte render vita al morto marito? Questo sarebbe
impossibile. Ma levati su, e non volere qui però nelle sopravegnenti tenebre
apparecchiare la tua bella persona alle selvatiche bestie, le quali alla tua
salute potrebbono essere contrarie, però che vivendo ancora potrai forse
riavere il perduto conforto. Levati su, e segui i nostri passi, e non dubitar
di venire a' reali padiglioni con le tue compagne, ch'io ti giuro, per quelli
iddii ch'ìo adoro, che, mentre che essi mi concederanno vita, il tuo onore e
delle tue compagne sarà sempre salvo a mio potere, solo che vostro piacer sia.
Ora ti leva, non dimorare più qui, vieni nella presenza del nostro signore, il
quale, ancora che dolente sia, veggendo il tuo grazioso aspetto, ti onorerà sì come
degna donna. Or se noi ti volessimo qui lasciare, non ti spaventano gl'infiniti
spiriti de' morti corpi, sparti per lo piagnevole aere? Non dubiti tu degli
scelerati uomini che sogliono essere ne' tumultuosi esserciti, i quali,
trovandoti qui, non si curerebbono di contaminare il tuo onore e delle tue
compagne? Deh! vieni adunque, ché vedi che io e' miei compagni per compassione
di te righiamo i nostri visi d'amare lagrime».
Giulia
non facea altro che piagnere; e ben ch'ella fosse molto dolorosa, non per tanto
dimenticò la sua anima i cari ammaestramenti della gentilezza, e non volle
nelle avversità parere villana a' divoti prieghi del nobile cavaliere; ma preso
con le sue mani un bianco velo, coperse il palido viso di Lelio e con un suo
mantello tutto il corpo, e poi si voltò ad Ascalion e disse:
«I
vostri prieghi hanno sì presa la mia dolorosa anima, che io non mi so mettere
al niego di quello che dimandato m'avete. E poi che Iddio e voi mi negate la
morte, quella cosa che io più disidero, io m'apparecchio di venire in quelle
parti ove piacer vi fia; ma caramente raccomando in prima me e le mie compagne
e 'l nostro onore nelle vostre braccia, pregandovi, per la gentile anima che
guida i vostri membri, che come di care sorelle il serviate e non consentiate
che di quello che le misere anime de' nostri mariti, rinchiuse ne' mortali
corpi, si contentarono, sciolte da essi si possano ramaricare».
E
volendosi levare, per debolezza fra le sue compagne supina ricadde. Allora
Ascalion teneramente per lo destro braccio la prese; e dall'altra parte un suo
compagno sostenendola e con dolci parole confortandola, e con lento passo
andando, pervennero alle reali tende, nelle quali entrati, il re vedendo
costei, vinto per lo pietoso aspetto, umilmente la riguardò; e avendo già udito
da Ascalion gran parte della condizione di lei, comandò ch'ella fosse onorata.
Giulia, veduto il re, ancor che per debolezza le fosse grave, pur gli
s'inginocchiò davanti e lagrimando disse:
«Alto
signore, a questi nobili cavalieri è piaciuto di menarmi nel vostro cospetto,
nel quale piacciavi che io trovi quella grazia che da loro non ho potuta avere.
Io non credo che la misera Ecuba né la dolente Cornelia ne' loro danni
sentissero maggiore doglia che io fo in quello che da voi ho ricevuto, né credo
che effettuosamente alcuna di loro disiderasse de' suoi nimici vendetta, com'io
disidero di voi, solo che prendere ne la potessi. Ma poi che la fortuna m'ha il
potere levato, e fattami vostra prigione, datemi, per guiderdone della fiera
volontà ch'io ho verso di voi, la morte».
Non
sofferse il re che Giulia stesse in terra davanti a lui, ma con la propia mano
levatala in piè, la fece sedere davanti a sé, e risposele così:
«Giovane
donna, il vostro lagrimoso aspetto m'ha fatto divenire pietoso e quasi m'invita
con voi insieme a lagrimare. E certo io non mi maraviglio del vostro parlare,
il quale dimostra bene il vostro gran dolore, ché usanza suole essere de'
miseri di volere quello che maggior miseria loro arrechi, infino a quell'ora
che la tristizia pena a dar luogo al natural senno. E però che io conosco che
voi ora più adirata che consigliata domandate la morte, e mostrate ver me
crudel volontà, né la morte vi fia per me conceduta, né ancora le adirate
parole credute. Ma quando voi avrete alquanto mitigate le giuste lagrime che
voi spandete, io vi farò conoscere come la fortuna non sia contro di voi del
tutto adirata, né ch'ella v'abbia fatta mia prigione; e ancora conoscerete che
sia suto il migliore rimanere in vita, sì per voi e sì per l'anima del vostro
marito. Ma ditemi, se vi piace, qual sia la cagione del vostro pianto, e chi
voi siete, e onde e ove voi andavate».
Giulia,
piangendo, con pietosa voce gli rispose:
«lo
sono romana, e fui misera sposa del morto Lelio, il quale voi oggi con le
propie mani uccideste, e quinci muove il mio tristo lagrimare; e andavamo al
santo Iddio, posto nell'ultime fini de' vostri regni, per lo ricevuto dono
della mia pregnezza».
Udendo
questo, il re, quasi stupefatto, tutto si cambiò, e disse:
«Oimè!
or dunque non foste voi con gli assalitori del mio regno, i quali all'entrare
in esso arsero la ricca Marmorina?».
«Signore
no - rispose Giulia, - ma passando per essa, la vedemmo bella e ornata di
nobile popolo».
Allora
dolfe al re molto di quello che era fatto; e sospirando le disse:
«Giovane
donna, i fortunosi casi sono quasi impossibili a fuggire; a noi fu porto tutto
il contrario di quello che voi ne porgete, e questo ne mosse a fare quello che
omai non può tornare adietro, e che ci duole. E non è dubbio che voi avete nel
preterito giorno gran danno ricevuto, e io non piccolo; ma però che il nostro
lagrimare niente il menomerebbe, convienci prender conforto. E a cui che il
lagrimare stia bene, a noi e' si disdice, i quali co' propii visi abbiamo a
confortare i nostri sudditi. Adunque confortatevi, e qui meco rimanete; e dopo
il preso conforto, se a voi piacerà altro marito, io ho nella mia corte assai
nobili cavalieri, de' quali quello che più vi piacerà, in guiderdone
dell'offesa che fatta v'ho, vi donerò volontieri; e se voi alle ceneri del
morto marito vorrete pure servar castità, continuamente in compagnia della mia
sposa come cara parente vi farò onorare. E se l'esser meco non vi piacerà, io
vi giuro per l'anima del mio padre che, dopo l'alleviamento del vostro peso,
infino in quella parte ove più vi piacerà d'andare, onorevolemente vi farò
accompagnare. A dire quanto mi dolga di quello ch'è fatto per lo mio subito
furore, sarebbe troppo lungo a narrare, però ch'io ci ho perduto un caro nipote
e molti buoni cavalieri, e voi ho sanza vostra colpa offesi».
Giulia
non rattemperava per tutte queste parole il dolente pianto, anzi, piangendo,
nel savio animo diliberò che molto valea meglio di rimanere al proferto onore,
fingendo il suo mal talento, infino che la fortuna la recasse nel pristino
stato, che miseramente cercare gli strani paesi; e con sospirevole voce, rotta
da dolenti singhiozzi, rispose:
«Signor
mio, nelle vostre mani è la mia vita e la mia morte: io non mi partirò mai dal
vostro piacere».
Comandò
allora il re che ella in alcuno padiglione, sotto la fidata guardia di
Ascalion, ella e le sue compagne fossero onorate.
[31]
Come
il nuovo sole uscì nel mondo, il re con la sua compagnia, insieme con Giulia,
verso Sibilia, antica città negli esperii regni, presero il cammino; ma avanti
che i loro passi si mutassero, Giulia di grazia domandò che 'l corpo del suo
Lelio non rimanesse esca de' volanti uccelli. Al quale il re comandò che
onorevole sepoltura fosse data, ad esso e a tutti gli altri che piacesse a lei,
e agli altri del campo. Fu allora Lelio, e molti altri, con molte lagrime
sepellito dopo i fatti fuochi, ben che molti ne rimanessero sopra la vermiglia
arena, che di varii ruscelletti di sangue era solcata.
[32]
Rimaso
solo di vivi il tristo campo, in pochi giorni col corrotto fiato convocò in sé
infinite fiere, delle quali tutto si riempié. E non solamente i lupi di Spagna
occuparono la sventurata valle, ma ancora quelli delle strane contrade vennero
a pascersi sopra' mortali pasti. E i leoni affricani corsero al tristo fiato,
tignendo gli aguti denti negli insensibili corpi. E gli orsi, che sentirono il
fiato della bruttura dello 'nsanguinato tagliamento, lasciarono l'antiche selve
e i segreti nascondimenti delle lor caverne. E i fedeli cani abandonaron le
case de' lor signori: e ciò che con sagace naso sente la non sana aria si mosse
a venir quivi. E gli uccelli, che per adietro avean seguitati i celestiali
pasti, si raunarono; e l'aria mai non si vestì di tanti avoltoi, e mai non
furono più uccelli veduti adunati insieme, se ciò non fosse stato nella misera
Farsaglia, quando i romani prencipi s'afrontarono.
Ogni
selva vi mandò uccelli: e i tristi corpi, a cui la fortuna non avea conceduto
né fuochi né sepoltura, erano miseramente dilacerati da loro, e le lor carni
pasceano gli affamati rostri. Ogni vicino albero parea che gocciolasse
sanguinose lagrime per li sanguinosi unghioni che premeano gli spogliati rami:
il passato autunno gli aveva spogliati di foglie, e' crudeli uccelli col morto
sangue premuto da' lor piedi gli aveano rivestiti di color rosso, e' membri
portati sopra essi ricadevano la seconda volta nel tristo campo, abandonati
dagli affaticati unghioni. Ma con tutto questo il gran numero de' morti non era
tutto mangiato infino all'ossa, ancor che squarciato tra le fiere si partisse;
gran parte ne giace rifiutato, ben che dilacerato sia tutto: il quale il sole e
la pioggia e 'l vento macera sopra la tinta terra, fastidiosamente mescolando
le romane ceneri con l'arabiche non conosciute.
[33]
Entrò
il re Felice vittorioso con gran festa in Sibilia; e poi che egli fu smontato
del possente cavallo e salito nel real palagio, e ricevuti i casti
abbracciamenti dell'aspettante sposa, egli prese l'onesta giovane Giulia per la
mano destra, e davanti alla reina sua sposa la menò dicendo:
«Donna,
te' questa giovane la quale è parte della nostra vittoria: io la ti raccomando,
e priegoti che ella ti sia come cara compagna e di stretta consanguinità
congiunta in ogni onore».
Teneramente
a' prieghi del re ricevette la reina Giulia e le sue compagne; ma non dopo
molti giorni, partendosi il re di Sibilia, con lui se n'andarono in Marmorina:
la quale quando il re vide non essere quello che falsamente Pluto in forma di
cavaliere gli aveva narrato, e trovò ancor vivo colui il quale morto credeva
aver lasciato ne' lontani boschi, forte in se medesimo si meravigliò, e dicea:
«O
gl'iddii hanno voluto tentare per adietro la mia costanza, o io sono ingannato.
A me pur con vera voce pervenne che la presente città era da romano fuoco arsa,
e ora con aperti occhi veggo il contrario. E il narratore di così fatte cose
pur morì nella mia presenza, e io gli feci dare sepoltura: e ora qui davanti
vivo mi si rapresenta».
In
questi pensieri lungamente stato, non potendo più la nuova ammirazione
sostenere, chiamò a sé quel cavaliere, il quale già credeva che nell'arene di
Spagna fosse dissoluto, e dissegli:
«Le
tue non vere parole t'hanno degna morte guadagnata, però che esse non è ancora
passato il secondo mese poi mossero il nostro costante animo a grandissima ira
e ad inique operazioni sanza ragione. Or non ci narrasti tu la distruzione
della presente città con piagnevole voce, la quale noi ora trovata abbiamo
sanza niuno difetto? Tu fosti cagione di farci commuovere tutto il ponente
contra la inestimabile potenza de' romani, del qual movimento ancora non
sappiamo che fine seguire ce ne debbia».
Maravigliossi
molto il cavaliere, udite le parole, dicendo umilemente:
«Signor
mio, in voi sta il farmi morire o il lasciarmi in vita, ma a me è nuovo ciò che
voi mi narrate; e poi che voi qui mi lasciaste, mai io non mi partii, e a ciò
chiamo testimonii gl'iddii e 'l vostro popolo della presente città, il quale
seco mi ha continuamente veduto; né mai dopo la vostra partita ci fu alcuna
novità».
Allora
si maravigliò il re molto più che mai, dicendo fra se medesimo: "Veramente
hanno gl'iddii voluto tentar le mie forze e aggiungere la presente vittoria
alle nostre magnificenzie". E allegro della salva città abandonò i
pensieri, contento di rimaner quivi per lungo spazio.
[34]
La
reina, gravida di prosperevole peso, affannata per lo lungo cammino, volontieri
si riposava, e con lei Giulia molto più affaticata, ma quasi continuamente o il
bel viso bagnato d'amare lagrime o la bocca piena di sospiri teneva; alla quale
un giorno la reina, vedendola dirottamente piangere, disse così:
«Giulia,
sanza dubbio io so che tu, sì come io, in te nascondi disiato frutto, e'
manifesti segnali mostrano te dovere essere vicina al partorire, onde col tuo
piangere gravemente te e lui offendi. Tu hai già quasi il bel viso tutto
consumato e guasto, e le tue lagrime l'hanno occupato d'oscura caligine e di
palidezza; onde io ti priego che tu non facci più questo: anzi ti conforta, e
spera che noi insieme avremo gioioso parto. Non sai tu che per lo tuo lagrimare
il ricevuto danno non menoma? Poi che i fati ti sono stati avversi, appara a sostenere
con forte animo le contrarie cose e' dolenti casi della fortuna. Deh! or tu
m'hai già detto, se io ho bene le tue parole a mente, che tu se' nata di
nobilissima prole romana; or se questo è il vero, come io credo, e' ti dovrebbe
tornare nella mente del forte animo che Orazio Pulvillo, appoggiato alla porta
del tempio di Giove Massimo, udendo la morte del figliuolo, ebbe; e come Quinto
Marzio, tornato da' fuochi dell'unico figliuolo, diede quel giorno sanza
lagrimare le leggi al popolo. Questi e molti altri vostri antichi avoli con
fermo animo nelle avversità mostrarono la loro virtù, per la quale il mondo
lungamente si contentò d'essere corretto da cotali reggitori. Adunque, poi che
di tal gente hai tratta origine, si disdicono a te, più che ad un'altra, le
lagrime. Non credi tu che essi nelle loro avversità sostenessero doglia, come
tu fai? Certo sì fecero; ma volsero anzi seguire la magnanimità de' loro nobili
animi, i quali conosceano la natura delle caduche e transitorie cose, che la
pusillanimità della misera carne, acciò che le loro operazioni fossero essemplo
a' loro successori in ciascuno atto».
Queste
e molte altre parole usava spesso la reina in conforto di Giulia.
[35]
Giulia
conoscea veramente che la reina l'amava molto, e da grande amore procedeano
queste parole, le quali vere la reina le diceva, ond'ella incominciò a
riprender conforto e a porre termine alle sue lagrime. E per fuggire ozio, il
quale di trista memorazione de' suoi danni l'era cagione, con le propie mani
lavorando, sovente faceva di seta nobilissime tele di diverse imagini figurate,
allato alle quali, o misera Aragne, le tue sarebbero parute offuscate da
nebulose macchie, come altra volta parvero, quando con Pallade avesti ardire di
lavorare a pruova. Queste opere aveano sanza fine multiplicato l'amore della
reina in lei, però che molto in simili cose si dilettava. Onde, come l'amore,
così l'onore a lei e alle sue compagne multiplicare fece.
[36]
Non
parve a Pluto avere ancora fornito il suo iniquo proponimento, posto ch'egli
avesse con le sue false parole commosse l'occidentali rabbie sopra gl'innocenti
romani; ma poi ch'egli ebbe nel cospetto del re Felice lasciato vilmente
disfatto il falso corpo, un'altra volta riprese vana forma d'una giovane
damigella di Giulia, chiamata Glorizia, la quale con lei ancora viva dimorava,
e con sollicito passo entrò nell'ampio circuito delle romane mura. E già
Calisto mostrando le sue luci, tacitamente, disciolti i capelli, entrò negli
alti palagi di Lelio, stracciandosi tutta; ne' quali poi che ella fu ricevuta
dal padre del morto Lelio e da' cari fratelli di Giulia, i quali, stupefatti
tutti di tale accidente, taciti si maravigliavano, forte piangendo così
cominciò loro a parlare:
[37]
«Poi
che gli avversari movimenti della fortuna, invidiosa della nostra felicità,
trassero della dolente città il vostro caro figliuolo e la sua moglie, a me
carissima donna, con quella compagnia con la quale voi medesimi ci vedeste, e
da cui voi, porgendo teneri baci e le vostre destre mani, piangendo vi
dipartiste, noi avventurosamente, fin che a' miseri fati piacque, camminammo.
Ma poi che a loro piacque di ritrarre la mano dalle nostre felicità, noi una
mattina quasi nelle prime ore cavalcando per una profonda valle, occupate le
nostre luci da noiosa nebbia, assaliti fummo da innumerabile quantità di
predoni, vaghi del copioso arnese, il quale a noi non molto lontano andava, e
del nostro sangue: e l'assalirci e 'l privarci dell'arnese non occupò più che
un medesimo spazio di tempo. E appresso rivolti a noi con li aguzzati dardi,
Lelio co' suoi compagni e la vostra Giulia di vita amaramente privarono. Io
pavida piangendo, non so come delle inique mani fuggii; e fuggendo, per tema
non ritornare nelle loro mani, per lo dolente cammino più volte ho sostenuto
mortal dolore».
E
co' pugni stretti, dette queste parole, cadde semiviva nelle loro braccia, la
quale essi piangendo portarono sopra un letto, richiamando con freddi liquori
le forze esteriori.
[38]
Incominciossi
nel gran palagio un amarissimo pianto, e quasi per tutta Roma, ovunque il
grazioso giovane e la piacente Giulia erano conosciuti, si piangea. L'aere
risonava tutto di dolenti voci, tali che per lo preterito tempo alcuno anziano
non si ricordava che tal doglia vi fosse stata per alcuno accidente. E certo
che tu appena, o Bruto, riformatore della libertà del romano popolo, vi fosti
tanto lagrimato dal rozzo popolo. E da quell'ora inanzi ciascun romano cominciò
ad essere pauroso d'andar cercando gli strani altari o di portare gl'incensi a'
lontani iddii fuori di Roma; e per lo gran dolore del morto Lelio lungamente
lasciarono i nobili adornamenti, vestendo lugubri veste, così gli altri romani
come i suoi distretti parenti.
[39]
Mentre
la fortuna con la sua sinistra voltava queste cose, s'appressò il termine del
partorire alla reina, e simigliantemente a Giulia; e nel giocondo giorno eletto
per festa de' cavalieri, essendo Febo nelle braccia di Castore e di Polluce
insieme, non essendo ancora la tenebrosa notte partita, sentirono in una
medesima ora quelle doglie che partorendo per l'altre femine si sogliono
sentire. Dopo molte grida, essendo già la terza ora del giorno trapassata, e la
reina del gravoso affanno, partorendo un bel garzonetto, si diliberò, contenta
molto in se medesima di tal grazia, sanza fine lodando i celestiali iddii; e
similmente il re, udita la novella, fece grandissima festa, però che sanza
alcun figliuolo era infino a quello giorno dimorato. Niuno altare fu in
Marmorina negli antichi templi sanza divoto fuoco. E i freschi giovani con
varii suoni, cantando, andavano faccendo smisurata festa. L'aere risonò
d'infiniti sonagli per li molti armeggiatori, continuando per molti giorni
grandissima gioia.
[40]
Avea
già il sole per lungo spazio trapassato il meridiano suo cerchio, avanti che
Giulia del disiderato affanno liberare si potesse: anzi, con grandissime voci
invocando il divino aiuto, sostenea grandissima doglia. Ma tra la erronea gente
si dubitava non Lucina sopra i suoi altari stesse con le mani comprese,
resistendo a' suoi parti, come fece alla dolente Iole, quando ingannata da
Galanta la convertì in mustella; e con divoti fuochi s'ingegnavano di mitigare
la colei ira, per liberare Giulia di tale pericolo. Ma poi che a Giove piacque
di dar fine a' suoi dolori, egli, ella partorendo, le concedette una figliuola
non variante di bellezza dalla sua madre; la quale come fu nata, Giulia,
sentendo la sua anima disiderosa di partirsi dal debile corpo, contenta del piacere
di Dio, domandò che la sua unica figliuola, avanti la morte sua, le fosse posta
nelle tremanti braccia. Glorizia, cameriera e compagna di Giulia, coperta la
picciola zitella con un ricco drappo, la pose in braccio alla madre, la quale,
poi che la vide, sospirando la baciò, e piangendo, voltata a Glorizia, gliele
rendé, dicendo:
«Cara
compagna, sanza dubbio di presente sento mi converrà rendere l'anima a Dio, e
nel presente giorno ringraziarlo di doppio dono, sì come della dimandata
progenie e della disiderata morte. Ond'io ti raccomando la cara figliuola, e,
per quello amore che tra te e me è stato, ti priego che in luogo di me le sii
sempre madre»; e dicendo queste parole alla dolente Glorizia, che nell'un
braccio tenea la picciola fanciulla e nell'altro il capo di lei parlante, rendé
l'anima al suo fattore umile e divota.
[41]
Cominciossi
nella camera un doloroso pianto, e massimamente da Glorizia, la quale, tenendo
in braccio la figliuola della morta Giulia, dicea:
«O
sventurata figliuola, inanzi alla tua natività cagione della morte del tuo
padre, e nascendo hai la tua madre morta! Oimè! quanta sarebbe l'allegrezza de'
miseri parenti, se in vita t'abbracciassero, come io fo! O figliuola di lagrime
e d'angoscia, quanto ha Giove mostrato che la tua natività non gli piacea!
Oimè, di che amaro peso sono io ancora sanza umano conoscimento divenuta
madre!».
E
poi si volgea sopra il freddo corpo di Giulia, il quale tanta pietà porgea a
chi morto il riguardava, che per vivere ciascuno ne torcea le luci; e dicea:
«O
cara donna, ove m'hai tu misera con la tua figliuola lasciata? Deh! perché non
m'è elli licito poterti seguire? Già era uscito della mia mente il gravoso
dolore della crudele morte di Lelio, ma tu ora morendo m'hai doppia doglia
rinnovata. Oimè misera! omai niuno conforto più per me s'aspetta».
Così
piangendo questa, e l'altre che con lei nella camera dimoravano, pervennero le
dolorose voci alle orecchie della reina, la quale, allegra del nato figliuolo,
prima si maravigliò, dicendo:
«Chi
piange invidioso de' nostri beni?», poi più efficacemente domandando, volle
sapere la cagione di cotal pianto. E fatta chiamare alcuna femina della camera
ove le misere piangeano, domandò qual fosse la cagione del loro pianto. Quella
rispose:
«Madonna,
quando Febo lasciò il nostro emisperio sanza luce, Giulia si diliberò,
partorendo una bellissima creatura, del noioso peso; e non dopo molto spazio,
rimasa debile, passò a miglior vita, e ha lasciato fra noi il grazioso corpo sì
pieno d'umiltà nell'aspetto, che alcuno che il guardi non può ritenere in sé
l'amaro pianto; e questo è quello che voi udito avete».
[42]
Quando
la reina udì queste parole, sospirando disse:
«Oimè!,
dunque ci ha la piacente Giulia abandonati?»; e comandò che 'l corpo di Giulia
fosse nel suo cospetto recato; sopra 'l quale, poi che ella il vide, sparse
amare lagrime e molte. E veramente il suo lieto animo non era il presente
giorno tanto rallegratosi della natività dell'unico figliuolo, quanto la morta
Giulia col suo pietoso aspetto l'attristò più. Ella comandò ch'ella fosse il
vegnente giorno onorevolemente sepellita; e presa nelle sue braccia la bella
figliuola, lagrimando molte volte la baciò, dicendo:
«Poi
che alla tua madre non è piaciuto d'esser più con noi, certo tu in luogo di lei
e di cara figliuola ne rimarrai. Tu sarai al mio figliuolo cara compagna e
parente del continuo».
Molte
fiate nel futuro pianse queste parole la reina, le quali nescientemente
profetico spirito l'avea fatta parlare.
[43]
Sparsesi
per la reale corte e per tutta Marmorina la morte della graziosa Giulia, la
quale con la sua piacevolezza aveva sì presi gli animi di coloro che sua
notizia aveano, che niuno fu che per pietà non spandesse molte lagrime. E il re
similemente piangendo mostrò che di lei molto gli dolesse. Ma poi che il
seguente giorno, lavato il corpo e rivestito di reali vestimenti, fu sepellito
tra' freddi marmi, con quello onore che a sì nobile giovane si richiedea, elli
scrissero sopra la sua sepoltura questi versi:
Qui
d'Antropòs il colpo ricevuto,
giace
di Roma Giulia Topazia,
dell'alto
sangue di Cesare arguto
discesa,
bella e piena d'ogni grazia,
che,
in parto, abandonati in non dovuto
modo
ci ha: onde non fia già mai sazia
l'anima
nostra il suo non conosciuto
Iddio
biasmar, che fé sì gran fallazia.
[44]
Assai
sturbò la gran festa incominciata della natività del giovane la compassione che
ogni uomo generalmente portava alla morte di Giulia. Ma poi che alquanti giorni
furono passati, piacque al re Felice di vedere il suo figliuolo e la bella
pulcella nata con lui in un medesimo giorno; e entrato con alcuno barone nella
camera della reina, prima dolcemente la confortò domandandola di suo stato, poi
comandò che le due creature gli fossero arrecate davanti. Furongli arrecati
amenduni i garzonetti involti in preziosi drappi: i quali, poi ch'egli gli ebbe
amenduni nelle sue braccia, per lungo spazio li riguardò, e vedendoli amenduni
pieni di maravigliosa bellezza, e simiglianti insieme, disse così:
«Certo
piacevole e giocondo giorno vi ci donò, nel quale ogni fiore manifesta la sua
bellezza: i cavalieri simigliantemente e le gaie donne si rallegrano faccendo
gioiosa festa. Adunque convenevole cosa è che voi in rimembranza della vostra
natività, e per aumentamento delle vostre bellezze, siate da così fatto giorno
nominati. E però tu, caro figliuolo, sì come primo nato, sarai da tutti
universalmente chiamato Florio, e tu, giovane pulcella, avrai nome
Biancifiore»; e così comandò che da quella ora in avanti fossero continuamente
chiamati. E voltatosi alla reina, principalmente Florio le raccomandò; dopo
questo la pregò molto che Biancifiore tenesse cara, però che aspetto avea di
dovere ogni altra donna passare di bellezza, e che egli in luogo di Giulia
sempre la volea tenere. E dopo queste parole, contento di sì bella erede, si
partì dalla reina.
[45]
Teneramente
raccomandò la reina alle balie le picciole creature, e con sollecita cura le
facea nudrire. Ma poi che, lasciato il nudrimento delle balie, vennero a più
ferma età, il re facea di loro grandissima festa, e sempre insieme realmente
vestir li facea; e quasi non gli era la pulcella, che in bellezza ciascun
giorno crescea, men cara che fosse il suo Florio. E vedendo che già Citerea,
donna del loro ascendente, s'era dintorno a loro ne' suoi cerchi voltata la
sesta volta, provide di volere che, se la natura in senno gli avesse in alcuno
atto fatti difettosi, elli, studiando, per la scienza potessero ricuperare
cotal difetto. E fatto chiamare un savio giovane, nominato Racheio, nell'arti
di Minerva peritissimo, gli commise che i due giovinetti effettuosamente
dovesse in saper leggere ammaestrare. E appresso chiamato Ascalion,
simigliantemente amendue glieli raccomandò, dicendo:
«Questi
sieno a te come figliuoli. Niuno costume né alcuna cosa, che a gentili uomini o
donne si convenga, sia che tu a costoro non insegni, però che in loro ogni mia
speranza è fissa: e essi sono l'ultimo termine del mio disio».
Ascalion
e Racheio presero i commessi uficii; e sanza alcuna dimoranza incominciò
Racheio a mettere il suo in essecuzione con intera sollecitudine. E loro in
brieve termine insegnate conoscer le lettere, fece loro leggere il santo libro
d'Ovidio, nel quale il sommo poeta mostra come i santi fuochi di Venere si deano
ne' freddi cuori con sollecitudine accendere.
LIBRO
SECONDO
[1]
Adunque
cominciarono con dilettevole studio i giovani, ancora ne' primi anni puerili,
ad imprendere gli amorosi versi: nelle quali voci sentendosi la santa dea,
madre del volante fanciullo, nominare con tanto effetto, non poco negli alti
regni con gli altri dei se ne gloriava. Ma non sofferse lungamente che invano
fossero da' giovani petti sapute così alte cose come i laudevoli versi
narravano, ma, involti i candidi membri in una violata porpore, circundata di
chiara nuvoletta, discese sopra l'alto monte Citerea, là ove ella il suo caro
figliuolo trovò temperante nuove saette nelle sante acque, a cui ella con
benigno aspetto cominciò così:
«O
dolce figliuolo, non molto distante agli aguti omeri d'Appennino, nell'antica
città Marmorina chiamata, secondo che io ho ne' nostri alti regni sentito, ha
due giovinetti, i quali effettuosamente studiando i versi che le tue forze
insegnano acquistare, invocano con casti cuori il nostro nome, disiderando
d'essere del numero de' nostri suggetti. E certo il loro aspetto, pieno della
nostra piacevolezza, molto più s'appresta a' nostri servigi che a cultivare i
freddi fuochi di Diana. Lascia dunque la presente opera, e intendi a maggiori
cose, e solo il rimanente di questo giorno in mio servigio ti spoglia le
leggieri ali. E come già nella non compiuta Cartagine prendesti forma del
giovane Ascanio, così ora ti vesti del senile aspetto del vecchio re, padre di
Florio; e quando se' là ove essi sono, sì come egli quando va a loro gli
abbraccia e bacia costretto da pura benivolenza, così tu, abbracciandoli e
baciandoli, metti in loro il tuo segreto fuoco, e infiamma sì l'un dell'altro,
che mai il tuo nome de' loro cuori per alcuno accidente non se ne spenga. E io
in alcuno atto occuperò sì il re, che la tua mentita forma per sua venuta non
si manifesterà».
[2]
Mossesi
Amore a' prieghi della santa madre, poi che spogliate s'ebbe le lievi penne; e
pervenuto al dimandato luogo, vestitosi la falsa forma, entrò sotto i reali
tetti, passando con lento passo nella segreta camera, ove egli Florio e
Biancifiore trovò soletti puerilmente giuocare insieme. Essi si levarono verso
lui come fare soleano, e egli primieramente preso Florio, il si recò nel santo
seno, e porgendoli amorosi baci, segretamente gli accese nel cuore un nuovo
disio: il quale Florio poi, guardando ne' lucenti occhi di Biancifiore con
diletto, il vi fermò. Ma poi Cupido, presa Biancifiore, e spirandole nel viso
con piccolo fiato, l'accese non meno che Florio avesse davanti acceso. E
dimorato alquanto con loro, rivolti i passi indietro, li lasciò stare; e
rivestendosi le lasciate penne, tornò al lasciato lavoro. E i giovani, rimasi
pieni di nuovo disio, riguardandosi, si cominciarono a maravigliare stando
muti. E da quell'ora in avanti la maggior parte del loro studio era solamente
in riguardar l'un l'altro con temorosi atti; né mai l'un dall'altro, per alcuno
accidente che avvenisse, partir si volea, tanto il segreto veleno adoperò in
loro subitamente.
[3]
Sì
tosto come Amore dalla sua madre fu partito, così ella nella lucida nuvoletta
fendendo l'aere pervenne a' medesimi tetti, e, tacitamente preso il vecchio re,
il portò in una camera sopra un ricco letto, dove d'un soave sonno l'occupò.
Nel qual sonno il re vide una mirabi le visione: che a lui pareva esser sopra
un alto monte, e quivi avere presa una cerbia bianchissima e bella, la quale a
lui molto parea avere cara; la quale tenendola nelle sue braccia, gli pareva
che del suo corpo uscisse un leoncello presto e visto, il quale egli insieme
con questa cerbia sanza alcuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma, stando
alquanto, vedeva discender giù dal cielo uno spirito di graziosa luce
risplendente, il quale apriva con le proprie mani il leoncello nel petto; e
quindi traeva una cosa ardente, la quale la cerbia disiderosamente mangiava. E
poi gli pareva che questo spirito facesse alla cerbia il simigliante; e fatto
questo si partiva.
Appresso
questo, egli temendo non il leoncello volesse mangiar la cerbia, la lontanava
da sé: e di ciò pareva che l'uno e l'altro si dolesse. Ma, poco stante, apparve
sopra la montagna un lupo, il quale con ardente fame correva sopra la cerbia
per distruggerla, e il re gliele parava davanti; ma il leoncello correndo
subitamente tornò alla difesa della cerbia, e co' propii unghioni quivi
dilacerò sì fattamente il lupo, che egli il privò di vita, lasciando la paurosa
cerbia a lui che dolente gliele pareva ripigliare, tornandosi all'usato luogo.
Ma non dopo molto spazio gli parea vedere uscir de' vicini mari due girfalchi,
i quali portavano a' piè sonagli lucentissimi sanza suono, i quali egli
allettava; e venuti ad esso, levava loro da' piedi i detti sonagli, e dava loro
la cerbia cacciandogli da sé. E questi, presa la cerbia, la legavano con una
catena d'oro, e tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e
quivi ad un grandissimo veltro così legata la lasciavano. Ma poi, sappiendo
questo, il leoncello mugghiando la ricercava; e presi alquanti animali,
seguitando le pedate della cerbia, n'andavano là ove ella era; e quivi gli
parea che il leoncello, occultamente dal cane, si congiungesse con la cerbia
amorosamente. Ma poi avedendosi il veltro di questo, l'uno e l'altro parea che
divorar volesse co' propii denti. E subitamente cadutagli la rabbia, loro
rimandava là onde partiti s'erano. Ma inanzi che al monte tornassero, gli parea
che essi si tuffassero in una chiara fontana, della quale il leoncello
uscendone, pareva mutato in figura di nobilissimo e bel giovane, e la cerbia
simigliantemente d'una bella giovine: e poi a lui tornando, lietamente li
ricevea; e era tanta la letizia la quale egli con loro facea, che il cuore, da
troppa passione occupato, ruppe il soave sonno. E stupefatto delle vedute cose
si levò, molto maravigliandosi, e lungamente pensò sopra esse; ma poi non
curandosene, venne alla reale sala del suo palagio in quell'ora che Amore s'era
da' suoi nuovi suggetti partito.
[4]
Taciti
e soli lasciò Amore i due novelli amanti, i quali riguardando l'un l'altro
fiso, Florio primieramente chiuse il libro, e disse:
«Deh,
che nuova bellezza t'è egli cresciuta, o Biancifiore, da poco in qua, che tu mi
piaci tanto? Tu non mi solevi tanto piacere; ma ora gli occhi miei non possono
saziarsi di riguardarti!».
Biancifiore
rispose:
«Io
non so, se non che di te poss'io dire che in me sia avvenuto il simigliante.
Credo che la virtù de' santi versi, che noi divotamente leggiamo, abbia accese
le nostre menti di nuovo fuoco, e adoperato in noi quello già veggiamo che in
altrui adoperarono».
«Veramente
- disse Florio - io credo che come tu di' sia, però che tu sola sopra tutte le
cose del mondo mi piaci».
«Certo
tu non piaci meno a me, che io a te», rispose Biancifiore. E così stando in
questi ragionamenti co' libri serrati avanti, Racheio, che per dare a' cari
scolari dottrina andava, giunse nella camera e loro gravemente riprendendo,
cominciò a dire:
«Questa
che novità è, che io veggio i vostri libri davanti a voi chiusi? Ov'è fuggita
la sollecitudine del vostro studio?».
Florio
e Biancifiore, tornati i candidi visi come vermiglie rose per vergogna della
non usata riprensione, apersero i libri; ma gli occhi loro più disiderosi
dell'effetto che della cagione, torti, si volgeano verso le disiate bellezze, e
la loro lingua, che apertamente narrare solea i mostrati versi, balbuziendo
andava errando. Ma Racheio, pieno di sottile avvedimento, veggendo i loro atti,
incontanente conobbe il nuovo fuoco acceso ne' loro cuori, la qual cosa assai
gli dispiacque; ma più ferma esperienza della verità volle vedere, prima che
alcuna parola ne movesse ad alcuno altro, sovente sé celando in quelle parti
nelle quali egli potesse lor vedere sanza essere da essi veduto. E
manifestamente conoscea, come da loro partitosi, incontanente chiusi i libri,
abbracciandosi si porgeano semplici baci, ma più avanti non procedeano, però
che la novella età, in che erano, non conoscea i nascosi diletti. E già il
venereo fuoco gli avea sì accesi, che tardi la freddezza di Diana li avrebbe
potuti rattiepidare.
[5]
Poi
che più volte Racheio gli ebbe veduti nella soprascritta maniera, e alcuna
volta gravemente ripresigliene, egli tra se medesimo disse: "Certo questa
opera potrebbe tanto andare avanti, sotto questo tacere ch'io fo, che
pervenendo poi alle orecchi del mio signore, forse mi nocerebbe l'aver taciuto.
Io manifestamente conosco ne' sembianti e negli atti di costoro la fiamma di
che elli hanno acceso i cuori: dunque perché non gli lascio io ardere sotto
altrui protezione, che sotto la mia? Io pur ho infino a qui fatto l'uficio mio,
riprendendoli più volte, né m'è giovato: e però per mio scarico è il meglio
dirlo al re". E così ragionando Racheio, Ascalion sopravenne: il quale, in
molte cose peritissimo, quando lo studio rincrescea loro, mostrava loro diversi
giuochi, e tal volta cantando con essi si sollazzava, avendo già ciascuno da
lui medesimo appresa l'arte del sonare diversi strumenti; e trovò Racheio
pensando, a cui e' disse:
«Amico,
qual pensiero sì ti grava la fronte, che occupato in esso, altro che rimirare
la terra non fai?».
A
cui Racheio narrando il suo pensiero rispose. Quando Ascalion intese questo,
niente gli piacque, ma disse:
«Andiamo,
e sanza alcuno indugio il narriamo al re, acciò che se altro che bene
n'avvenisse, noi non possiamo essere ripresi».
E
dette queste parole, voltati i passi, amenduni n'andarono nella presenza del
re; al quale Ascalion parlò così:
[6]
«Nella
vostra presenza, o vittoriosissimo prencipe, ci presenta espressa necessità a
narrarvi cose le quali, se esser potesse suto, disiderato avremmo molto che
dicendole altri, agli orecchi vostri fossero pervenute. Ma però che noi,
disiderosi del vostro onore, non volendo anche il nostro contaminare,
conosciamo che da tenere occulte non sono, e massimamente a voi, onde acciò che
il futuro danno, che seguire ne potrebbe di ciò che vi diremo, non sia a noi
noia né mancamento de' vostri onori, vi facciamo manifesto che novello amore è
generato ne' semplici cuori del vostro caro figliuolo Florio e di Biancifiore.
E questo nelli loro atti più volte abbiamo conosciuto, sì come l'iddii sanno:
essi più volte effettuosamente abbracciarsi e darsi graziosi baci abbiamo veduti,
e appresso sovente, guardandosi nel viso, l'un l'altro gittare sospiri accesi
di gran disio. E ancora più manifesto segnale n'appare, il quale voi assai
tosto potete provare, che niuna cosa è che l'uno sanza l'altro voglia fare, né
li possiamo in alcuna maniera partire, e hanno del tutto il loro studio
abandonato: anzi, così tosto come noi della loro presenza siamo partiti, così
incontanente chiusi i libri intendono a riguardarsi; e di ciò, come dell'altre
cose, gravemente più volte ripresi gli abbiamo, credendo poterli da ciò
ritrarre, ma poco giova la nostra riprensione. E però, acciò che noi per ben
servire mal guiderdone non riceviamo, e acciò che subito rimedio ci sia da voi
preso, v'abbiamo voluto questo palesare. Voi, sì come savio, anzi che più s'accenda
il fuoco, providamente pensate di stutarlo, ché, quanto a noi, il nostro potere
ci abbiamo adoperato».
[7]
Niente
piacquero al re l'ascoltate parole; ma celando il suo dolore con falso riso,
rispose:
«Però
non cessi il vostro con riprensione gastigarli e con ispaventevoli minacce
impaurirli. Essi ancora per la loro giovane età sono da potere essere ritratti
da ciò che l'uomo vuole; e io, quando per voi dell'incominciata follia rimaner
non si volessono, prenderà in questo mezzo altro compenso, acciò che il vostro
onore per vile cagione non diventi minore».
E
detto questo, con l'animo turbato si partì da loro, e entrossene in una camera;
e quivi da sé cacciando ogni compagnia, solo a sedere si pose, e, con la mano
alla mascella, cominciò a pensare e a rivolversi per la mente quanti e quali
accidenti pericolosi poteano avvenire del nuovo innamoramento; e di tale
infortunio tra se medesimo cominciò a dolersi. E mentre in tal pensiero il re
dimorava occupato, la reina, passando per quella camera, sopravenendo il vide,
e con non poca maraviglia, fermata nel suo cospetto, gli disse:
«O
valoroso signore, quale accidente o qual pensiero occupa sì l'animo vostro, che
io, pensando, nell'aspetto vi veggo turbato? Non vi spiaccia che io il sappia,
però che niuna felicità né avversità ancora dovete sanza me sostenere: se voi
'l mi dite, forse o consiglio o conforto vi porgerò».
Rispo
se il re allora con voce mescolata di sospiri, e disse:
«E'
mi piace bene che a voi non sia la mia malinconia celata, la cagione della
quale è questa: con ciò sia cosa che la fortuna infino a questo tempo ci abbia
con la sua destra tirati nell'auge della sua volubile rota, accrescendo il
numero de' nostri vittoriosi triunfi, ampliando il nostro regno, multiplicando
le nostre ricchezze e concedendone, insieme con gli altri iddii, cara progenie,
a cui la nostra corona è riserbata, ora pensando dubito che ella, pentuta di
queste cose, non s'ingegni con la sua sinistra d'avvallarci. E gl'iddii credo
che ciò consentono; e la maniera è questa: niuna allegrezza fu mai maggiore a
noi, che quella quando il nostro unico figliuolo dagl'iddii lungamente pregati
ricevemmo; e sapete che ne' nostri regni nella sua natività niuno altare fu
sanza divoto fuoco e sanza incensi, né niuno iddio fu che con divota voce non
fosse per le nostre città ringraziato. Ora, conoscendo la fortuna quanto questo
figliuolo ne sia caro per le rendute grazie, per porre noi in maggior doglia e
tristizia, in vile modo s'ingegna di privarcene, minuendo i nostri onori, essendo
egli in vita, dandoci manifesto essemplo che, poi che alla più cara cosa
comincia, discenderà sanza fallo all'altre minori: e udite come ella s'è
ingegnata di levarci Florio. Essa ha tanto il giovane figliuolo di Citerea, non
meno mobile di lei, con lusinghe mosso, che egli, entrato nel giovane petto di
Florio, l'ha sì infiammato della bellezza di Biancifiore, che Paris di quella
di Elena non arse più; e non vede più avanti che Biancifiore, secondo che i
loro maestri m'hanno detto poco avanti. E certo io non mi dolgo che egli ami,
ma duolmi di colei cui egli ama, perché alla sua nobiltà è dispari. Se una
giovane di real sangue fosse da lui amata, certo tosto per matrimonio gliele
giugneremmo; ma che è a pensare che egli sia innamorato d'una romana popolaresca
femina, non conosciuta e nutricata nelle nostre case come una serva? Ora
adunque che cercherete voi più avanti della mia malinconia? Non è questa gran
cagione di dolersi, pensando che un sì fatto giovane, il quale ancora dee sotto
il suo imperio governare questi regni, sia per una feminella perduto? Certo io
non avria avuta alcuna malinconia se gl'iddii l'avessero al loro servigio
chiamato nella sua puerizia, come Ganimede fecero. E certo la morte di Gilo non
fu da Xenofonte suo padre sostenuta con sì forte animo, com'io avrei fatto o
farei, se gl'iddii avessero consentito ch'io avessi per simile caso perduto
Florio che Xenofonte perdé Gilo. Né Anassagora ancora ebbe cagione di piagnere,
però che saviamente aspettava cosa naturale del suo figliuolo, come io medesimo
quello accidente sanza lagrime aspetterei. Ma pensando che per vile
avvenimento, vivendo il mio figliuolo, io il posso più che morto chiamare, il
dolore che quinci mi nasce mi trasporta quasi infino agli ultimi termini della
vita. Né so che di questo io mi faccia, ché io dubito che, se io di tal fallo
il riprendo, o m'ingegno con asprezza di ritrarlo da questa cosa, che io non ve
lo accenda più suso, o forse egli del tutto non m'abandoni e vada vagabundo per
gli strani regni, fuggendo le mie riprensione: e così avremmo sanza alcuno
utile accresciuto il danno. E d'altra parte se io taccio questa cosa, il fuoco
ognora più s'accenderà, e così mai da lei partire nol potremo».
[8]
Molto
fu la reina di quelle parole dolente, e quasi lagrimando ne 'l dimostrò; ma,
dopo poco spazio, con pietoso aspetto disse:
«Caro
signore, non è per questo accidente da disperarsi, né degl'iddii né della
fortuna, però che non è mirabile cosa se Florio s'è della bellezza della vaga
giovane inamorato, con ciò sia cosa che egli sia giovanissimo e continuamente
con lei dimori, e ella sia bellissima giovane e piacevole. E non è dubbio che,
se questo amore s'avanzasse, come voi dite che egli è cominciato, che noi
potremmo dire che 'l nostro figliuolo fosse vivendo perduto, pensando alla
piccola condizione di Biancifiore. Ma quando le piaghe sono recenti e fresche,
allora si sanano con più agevolezza che le vecchie già putrefatte non fanno.
Secondo le vostre parole, questo amore è molto novello, e sanza dubbio egli non
può essere altramente, e simigliantemente gli amanti novelli sono, né mai altro
fuoco non li scaldò; e però questo fia lieve a spegnere seguendo il parer mio,
né niuna più legger via ci è che dividere l'uno dall'altro; la qual cosa in
questa maniera si può fare. Florio, già ne' santi studii dirozzato, è da
mettere a più sottili cose; e voi sapete che noi abbiamo qui vicino Ferramonte,
duca di Montoro, a noi per consaguinità congiuntissimo, e in niuna parte del
nostro regno più solenne studio si fa che a Montoro. Noi possiamo sotto spezie
di studio mandar Florio là a lui, e quivi faccendolo per alcuno spazio
dimorare, gli potrà agevolemente della memoria uscir questa giovane, non
vedendola egli. E come noi vedremo che egli alquanto dimenticata l'aggia,
allora noi gli potremo dare sposa di real sangue sanza alcuno indugio, e così
potremo essere agevolmente fuori di cotale dubbio. E già però esso non ci sarà
tanto lontano, che noi nol possiamo ben sovente vedere. Ond'io, caro signore,
vi priego che questa malinconia cacciate da voi prendendo sanza indugio questo
rimedio».
[9]
Piacque
al re il consiglio della reina, il quale giovare non dovea ma nuocere, però che
quanto più si strigne, il fuoco con più forza cuoce; e poi ch'egli sopra ciò
ebbe lungamente pensato, le rispose che ciò farebbe, però che altra via a tal
pericolo fuggire non vedea. Ma, oh quanto fu tale imaginazione vana, con ciò
sia cosa che durissimo sia resistere alle forze de' superiori corpi, avvegna
che possibile! Venus era nell'auge del suo epiciclo, e nella sommità del
differente nel celestiale Toro, non molto lontana al sole, quando ella fu
donna, sanza alcuna resistenza d'opposizione o d'aspetto o di congiunzione
corporale o per orbe d'altro pianeto, dello ascendente della loro natività; il
saturnino cielo, non che gli altri, pioveva amore il giorno che elli nacquero.
Oimè,
che mai acqua lontana non spense vicino fuoco! Ove credea il re potere mandar
Florio sanza la sua Biancifiore, con ciò fosse cosa che ella era continuamente
nel suo animo figurata con più bellezza che il vero viso non possedea, e quello
che prende e lascia amore era sempre con Biancifiore? I corpi si doveano
allontanare, ma le menti con più sollecitudine si doveano far vicine. Niuna
cosa è più disiderata che quella che è impossibile, o molto malagevole, ad
avere. Per quale altra cagione diventò il gelso vermiglio, se non per l'ardente
fiamma costretta, la quale prese più forza ne' due amanti costretti di non
vedersi? Chi fece Biblide divenir fontana se non il sentirsi esser negato il
suo disio? Ella fu femina mentre ella ne stette in forse con isperanza. O re,
tu credi apparecchiare fredde acque all'ardente fuoco, e tu v'aggiugni legne.
Tu t'apparecchi di dare non conosciuti pensieri a' due amanti sanza alcuna
utilità di te o di loro, e affrettiti di pervenire a quel punto il quale tu con
disio ti credi più fuggire. Oh quanto più saviamente adoperresti lasciandoli
semplicemente vivere nelle semplici fiamme, che voler loro a forza fare sentire
quanto sieno amari o dilettevoli i sospiri che da amoroso martiro procedono!
Elli amano ora tacitamente. Né niuno disidera più avanti che solo il viso, il
quale per forza conviene che per troppa copia, se stare gli lascia, rincresca,
però che delle cose di che l'uomo abondevole si truova, sfastidiano. Ma che si
può qui più dire, se non che il benigno aspetto, col quale la somma benivolenza
riguarda la necessità degli abandonati, non volle che il nobile sangue, del
quale Biancifiore era discesa, sotto nome d'amica divenisse vile, ma acciò che
con matrimoniale nodo il suo onore si servasse, consentì che le pensate cose
sanza indugio si mettessero in effetto?
[10]
Diede
il giorno luogo alla sopravegnente notte, e le stelle mostrarono la lor luce;
ma poi che Febo co' tiepidi raggi recò nuovo splendore, il re fece a sé
chiamare Florio, e con lieto viso ricevuto il suo saluto, a sé l'accolse, e
così gli disse:
«Bello
figliuolo, a me sopra tutte cose caro, ascoltino le tue orecchi pazientemente
le mie parole; e i miei comandamenti, i quali da te debitamente deono essere
osservati, per te sieno messi ad effetto. Con ciò sia cosa che niuna speranza
rimasa fosse alla mia lunga età di gloria, agl'iddii piacque di donarmi te, in
cui la mia speme, sanza fallo già secca, ritornò verde; e dissi: "Omai la
fama del nostro antico sangue non perirà, poi che gl'iddii ci hanno conceduto
degna erede"; e sopra te tutto il mio intendimento fermai, sì come sopra
unico bastone della mia vecchiezza. E volendo che l'alto uficio a che gl'iddii
t'hanno apparecchiato, sì come è a ornare la tua fronte di splendida corona
degli occidentali regni, non patisse difetto di savio duca, ancora che io nella
tua effigie conoscessi che valoroso uomo dovevi per natura pervenire, nondimeno
con essaminato animo imaginai che per le accidentali scienze molto
t'avanzeresti. E dalla imaginazione nel dovuto tempo venni all'effetto; e
infino a questo giorno, così come la tua età è stata per la gioventudine
deboletta a sostenere, così con picciole scienze t'ho fatto nutricare. Ora che
in più ferma età se' pervenuto, disidero che tu a più alti studii disponghi il
tuo intelletto, e massimamente a' santi principii di Pittagora, de' quali
venendo con l'aiuto de' nostri iddii a perfezione, sì come io estimo, ti
seguirà grandissimo onore, con ciò sia cosa che la scienza in niuna maniera di
gente tanto sia lucida e risplendente quanto ne' prencipi. E ciò puoi tu per te
medesimo considerare, ricordandoti quanta fosse eccellente la fama del gran re
Salamone, ancora che giudeo e lontano dalla nostra setta fosse. E per
imprendere questa scienza, certo a te non converrà andare cercando Elicona, né
i solleciti studii d'Attene, né alcuno altro lontano paese, però che qui a noi
molto vicina è una città chiamata Montoro, dotata di molti diletti, la quale
per noi il valoroso duca Ferramonte governa, a noi congiustissimo parente, non
molto men giovane di te, il quale continua compagnia ti sarà. Quivi con
ordinato stile si leggono le sante scienze; quivi, secondo che io estimo, tu
potrai in picciolo termine divenire valoroso giovane: per la qual cosa io
voglio che sanza indugio vi vada. Né ciò ti dee parer grave, considerando
principalmente che tu vai a divenire valoroso uomo, per la qual cosa acquistare
niuno affanno né sconcio se ne dee rifiutare: appresso, tu non sarai però da
noi diviso, però che ci se' per picciolo spazio vicino, e sovente potremo noi
venire a veder te e tu noi sanza sconcio dello studio: il quale noi non
intendiamo che tu prenda in maniera che niuno tuo diletto se ne sconci;
dall'altra parte, tu sarai con persona che sanza fine t'ama e che disidera
molto di vederti, cioè il duca. E però ora che il tempo è molto più atto allo
studio che al sollazzo, però che sì come già vedi signoreggiare le stelle
Pliade e la terra rivestire di bianco molto sovente, avendo perduto il verde
colore, prendi quella compagnia che più ti diletta, e vavvi».
[11]
Florio,
udendo queste parole, in se medesimo si turbò molto, però che nemiche le sentia
al suo disio, e, lasciando parlare il padre, lungamente guardando la terra,
mutolo sanza niente rispondere stette; e dimandatagli più volte dal padre
risposta, dopo il trarre d'un grandissimo sospiro, disse così:
«A
me, o reverendissimo padre, è occulta la cagione per che da voi sì giovane e
con tanta fretta dividere mi volete, essendo voi pieno d'età, com'io vi veggo.
Voi disiderate che io per studio divenga in scienza valoroso, la qual cosa non
è meno da me disiderata. Ma qual dovuto pensiero vi mostra che io debba meglio,
da voi lontano, studiare, che nella vostra presenza? Non imaginate voi che io
lontano da voi continuamente sarò pieno di varie sollecitudini? Io non ispesso,
ma quasi continuo crederò che sconcio accidente occupi con infermità la vostra
persona, o dubiterò che voi di me non dubitiate. E ancora mi si volgeranno
dubbii per la mente che la vostra vita, a me molto da tener cara, non sia con
insidie appostata dagli occulti nemici per la mia assenza. Queste cose non sono
impossibili ad essere ogni ora del giorno pensate da me, però che io non fui
generato dalle querce del monte Appennino, né dalle dure grotte di Peloro, né
dalle fiere tigre, ma da voi, cui io amo più che niuna altra cosa: e di quelle
cose che sono amate si dee dubitare. E andandomi queste sollecitudini per lo
petto, qual parte di scienza vi potrà mai entrare? E ancora manifestamente
veggiamo che a niuna persona i futuri casi sono palesi. Chi sa se gl'iddii, non
essendo io con voi, vi chiamassero subitamente a' loro regni? la qual cosa sia
lontana per molto tempo da noi; ma se pure avvenisse, chi vi chiuderebbe con
più pietosa mano gli occhi nell'ultima ora gravati, che farei io? La qual cosa,
se io vi sono lontano, come la farò? E se a me lontano da voi questo accidente
avvenisse, che 'l veggiamo sovente avvenire, ché più tosto si secca il giovane
rampollo che il vecchio ramo, chi porterebbe a' miei fuochi l'acceso tizzone?
Certo strana mano, e non la vostra. Adunque guardate a quello che voi avete
pensato, e vedete ancora s'è convenevole cosa che io, unico figliuolo di così
fatto re come voi siete, vada studiando per lo mondo attorno. E però più utile
e migliore consiglio mi pare il fare qui da Montoro o d'altra parte ove più
sofficienti fossero, venire maestri in quella scienza la quale più v'aggrada
che io appari, e qui in vostra presenza, di miglior cuore, cessando ogni
dubbio, apprenderò e con più diletto studierò, vedendovi continuamente in
prosperevole stato».
[12]
Quando
il re udì la risposta di Florio, ben conobbe il suo volere occulto, e che le
scuse da lui porte, non da pietà che di lui padre avesse, ma sola la forza
d'amore che a Biancifiore lo stringea li facea questo dire; onde egli così gli
disse:
«Figliuolo,
siano di lungi da noi gli avversi casi, i quali tu ora in forse mettevi futuri,
però che se pure avvenissero, tanto ne sarai vicino, che ben potrai al pietoso
uficio esser chiamato. Ma tu sanza dovere ti ramarichi, ponendolo, in non
convenevole cosa, che un figliuolo di tal re, quale tu se', vada per le strane
scuole studiando. Or ove ti mando io? Se tu riguardi bene, tu vai in casa tua e
nella tua città e nel tuo regno a dimorare. E se non fosse che 'l troppo amore
de' padri verso i figliuoli li fa le più volte pigri alle virtù, certo io
m'atterrei al tuo consiglio di farti appresso di me studiare; ma acciò che
niuno atto di pigrizia dal grande amore ch'io ti porto ti succedesse, mi fo io
alquanto contra me medesimo rigido, dilungandoti un poco da me. E certo tu il
dei aver caro, però che la tua età richiede più tosto affanno che agio: il sole,
poi che Lucina chiamata dalla tua madre mi ti donò, è quattordici volte ad un
medesimo punto ritornato nelle braccia di Castore e di Polluce, e è entrato nel
cammino usato per compiere la quintadecima, e è già al terzo della via, o più
avanti. Deh, se tu rifiuti, e dubiti d'andar così vicino a noi, come poss'io
presumere che tu, per divenire valoroso, se accidente avvenisse, prendessi
sopra te un grave affanno? Caro figliuolo, e' non si disdice a' giovani
disiderosi di pervenire valorosi prencipi l'andare veggendo i costumi delle
varie nazioni del mondo. Già sappiamo noi che Androgeo, giovane quasi nella tua
età, solo figliuolo maschio di Minòs, re della copiosa isola di Creti, andò
agli studii d'Attene, lasciando il padre pieno d'età forse più ch'io non sono,
perché in Creti non era studio sofficiente al suo valoroso intendimento. E
Giansone, più disposto all'armi che a' filosofichi studii, con nuova nave prima
tentò i pericoli del mare per andare all'isola de' Colchi a conquistare il
Montone con la cara lana, e con esso etterna fama, perché ne' suoi paesi non
potea mostrare la sua virtuosa forza, e giovanissimo abandonò i vecchi padre e
ziano sanza alcuna erede: l'onore del mondo né i celestiali regni non
s'acquistano sanza affanno. Io conosco manifestamente che effettuoso amore ti
strigne a essere sempre meco, e niuna altra cagione ti fa scusare l'andata; ma
l'andare a Montoro non sarà allontanarsi da me. Onde, caro figliuolo, va, e sì
sollecitamente con acconcio modo studia, che tu possi a me in brieve tempo
sanza più avere a studiare ricongiugnerti valoroso giovane».
[13]
Allora
Florio, non potendosi quasi più celare, però che ira e amore dentro l'ardeano,
rispose:
«Caro
padre, né Androgeo né Giansone non seguirono l'uno lo studio e l'altro l'armi,
se non per averne il glorioso fine disiderato da loro: e questo è manifesto. E
veramente a me non sarebbe grave il provare le tempestose onde del mare, né i
pericoli della terra, andando molto più lontano da voi, in qualunque parte del
mondo, che niuno di loro fece, credendovi io trovare la cosa da me disiata a
quietare la mia volontà. Ma che andrò io adunque cercando per lo mondo? Quel
ch'io amo e quel ch'io disidero è meco; voglio io andare perdendomi, e non
sapere in che? Voletemi voi fare usare il contrario degli altri uomini che
affannando vanno? Niuno è che affannando vada, se non a fine d'avere alcuna
volta riposo: e io, partendomi di qui, fuggirò il riposo per affannare! Io non
posso fare che io non mi vi scuopra: egli è qui nella nostra reale casa la
nobile Biancifiore, la quale io sopra tutte le cose del mondo amo; e certo non
sanza cagione: ella è l'ultimo fine de' miei disii, e solamente vedere il suo
bel viso, il quale più che matutina stella risplende, è quello che io disidero
di studiare. Onde io caramente vi priego che voi della mia vita aggiate pietà
sì come padre di figliuolo, la quale sanza fallo, dividendomi io da
Biancifiore, si dividerà da me. E acciò che 'l tempo in lungo sermone non si
occupi, vi dico che sanza lei io non sono disposto ad andare in alcuna parte
del mondo, né vicina né lontana di qui. Se lei volete mandar meco, mandatemi
ove volete, ché tutto mi parrà leggiero e grazioso l'andare. E dell'amore ch'io
porto a costei vi dovete voi molto contentare, pensando che Amore abbia tanto
bene per noi preveduto, che egli non ha consentito che io disiando donna
lontana da' nostri regni faccia come già fece Perseo, il quale tra li neri
indiani scelse Andromeda, e similemente Paris degli altrui regni ne portò Elena
insieme col fuoco che arse poi i suoi regni; e cercando lei abandoni voi
vecchio. Adunque da poi che Amore in un regno, in una città e in una medesima
casa m'ha conceduto dilettoso piacere, di sì grazioso dono gli siamo noi molto
tenuti. E poi che così è, io vi priego che vi piaccia che graziosamente e sanza
affanno voi mi lasciate questo singular bene possedere».
[14]
Sì
tosto come Florio tacque, il re, che non meno cruccioso era di lui, ben che nel
sembiante allegro si mostrasse, alquanto turbato così gli rispose:
«Ahi,
caro figliuolo, che è quello che tu di'? Io non avrei mai creduto che sì vile
cagione ti ritenesse da volere andare a pervenire a così alti effetti come lo
studiare nelle filosofiche scienze reca altrui. Sola pietà di me vecchio credea
ti ritenesse: ora hatti già tanto insegnato Amore, che sotto spezie di verità
porgi inganno a me, tuo padre? Hai tu questo appreso nel lungo studio che io
sotto la correzione di Racheio t'ho fatto fare? Oimè, che ora pur conosco io
manifestamente quello a che il tuo poco senno ti tira! e ben conosco che la
verità da' tuoi maestri mi fu porta, poi che così parli; e sanza fine di te mi
maraviglio, il quale mi vuoi dare a vedere che quello di che tu e io più ci
dovremmo dolere, ne dovremo far festa e ringraziare Amore; e non pensi quanta
sia la viltà, la quale ha il tuo animo occupato in disporti ad amare così fatta
femina, come tu ami; della qual cosa doppiamente se' da riprendere e
principalmente d'aver avuta sì poca costanza in te, che a sì vile passione,
com'è amare una femina oltre misura, hai lasciato vincere il tuo virile animo,
non ponendo mente quanti e quali sieno i pericoli che da questo amare sieno già
proceduti e procedano. Non udisti tu mai dire come miserabilmente Narcisso per
amore si consumò, e con quanta afflizione Biblide per amore divenne fontana? E
ancora gl'iddii sostennero noia di tal passione, e massimamente Apollo, il
quale, di tutte cose grandissimo medico, a sé medicina non poté porgere, poi
che ferire s'ebbe lasciato, forse non per viltà ma per provare; e in brieve,
niuno non è a cui questo amore non dissecchi le medolle dell'ossa. E tu con
disiderio il vai seguendo! Ma ancora di tutto questo, tenendo lo stile della
più gente, ti potresti scusare; ma non consideri tu di cui tu ti sei
innamorato, e per cui tu così faticosa passione sostieni? e ciò è d'una serva
nata nelle nostre case, la quale a comparazione di te non ti si confarebbe in
niuno atto. Deh! or ti fossi tu d'una valorosa e gran donna simile alla tua
nobiltà innamorato! assai mi dorrebbe, ma ancora mi sarebbe alcuna
consolazione. Io non ti potrei mai tanto sopra questo dire quanto io disidero;
ma però ch'io so che ancora in te medesimo, sanza riprensione alcuna, ti
riconoscerai del tuo errore, e rimarra'tene, mi taccio. E se io credessi che
ciò non avvenisse, certo legger cosa mi sarebbe ora io medesimo ucciderti. Ma
acciò che tu seguiti lo studio, io in questa parte, ancora che io conosca che
manifesto biasimo ti sia menarti dietro per le strane scuole quella che tu
sconciamente ami, ne seguirò il tuo volere; e sì tosto come tua madre, la quale
alquanto non sana è stata, come tu puoi vedere, avrà intera sanità ricuperata,
io la ti manderò a Montoro; e ora teco la ne manderei, se non fosse che sanza
lei tua madre in cotale atto non vuoi rimanere».
[15]
Turbossi
alquanto Florio veggendo il padre turbato, ma non pertanto quasi lagrimando
così li rispose:
«Padre
mio, sì come voi sapete, né il sommo Giove né il risplendente Apolto, da voi
ora davanti ricordato, né alcuno altro iddio ebbe all'amorevole passione
resistenza; né tra' nostri predecessori fu alcuno tanto di virile forza armato,
né sì crudo, che da simile passione non fosse oppresso. Adunque, se io
giovinetto contra così generale cosa non ho potuto resistere, certo non ne sono
io sì gravosamente da riprendere, come voi fate, ma emmi da rimettere, pensando
che il mio spirito è stato sì volgare, che per rigidezza non ha rifiutato
quello che ciascuno altro gentile ha sostenuto. E la mia forma, la quale mercé
degl'iddii è bellissima, richiede tale uficio, più tosto che alcuno altro. E
che si potrà giustamente dire a me s'io amo, poi che ad Ercule e ad Aiace
uomini robusti non si disdisse? Appresso dite che gravoso vi sembra pensando la
qualità della femina che io amo, però che popolaresca e serva la riputate; e
voi credo che in parte ignoriate di qual sangue questa giovane, cui io amo, sia
discesa, sì come quegli che ingiustamente il suo padre valoroso, resistente con
picciola schiera alla vostra moltitudine di gente, uccideste, il quale forse
non fu di minor qualità che voi siate, pensando alla grandezza di tanto animo
quanto nella sua fine mostrò. E ancora che certamente noi nol sappiamo, noi
pure avemo udito che la madre di costei, la quale voi non serva prendeste,
discese dell'alto sangue del vittorioso Cesare, già conquistatore de' nostri
regni per adietro. E posto che manifestamente la nazione di questa giovane
esser vile si conoscesse, sì conosciamo noi lei esser tanto gentile o più,
quanto se d'imperiale progenie nata fosse, se riguardiamo con debito stile che
cosa gentilezza sia, la quale troveremo ch'è sola virtù d'animo. E qualunque è
quelli che con animo virtuoso si truova, quelli debitamente si può e dee dire
gentile. E in cui si vide già mai tanta virtù, quanta in costei si truova e vede
manifestamente? Ella è di tutte generalmente vera fontana. In lei pare la
prudentissima evidenzia della cumana Sibilla ritornata; né fu la casta Penolope
più temperata di costei, né Catone, più forte negli avversarii casi, né con più
equalità d'animo: liberalissima la veggiamo. La grazia della sua lingua si
potrebbe adeguare alla dolcissima eloquenzia dell'antico Cicerone. A cui mai
tanta grazia concessero gl'iddii? Questa è sommamente virtuosa: adunque sanza
comparazione gentile. Non fanno le vili ricchezze, né gli antichi regni, forse
come voi, essendo in uno errore con molti, estimate, gli uomini gentili né
degni posseditori de' grandi uficii: ma solamente quelle virtù che costei tutte
in sé racchiude. Deh, or come mi potea o potrebbe già mai Amore di più nobil
cosa fare grazia? Questa ha in sé una singular bellezza, la quale passa quella
che Venus tenea, quando ignuda si mostrò nelle profonde valli dell'antica selva
chiamata Ida a Paris, la quale, ognora che io la veggio, m'accende nel cuore
uno ardore virtuoso sì fatto, che s'io d'un vile ribaldo nato fossi, mi faria
subitamente ritornare gentile. Né niuna volta è che io i suoi lucentissimi
occhi riguardi, che da me non fugga ogni vile intendimento, se alcuno n'avessi.
Adunque, poi che questa a virtuosa vita mi muove, non che ella è gentile, come
di sopra detto è, ma se ella fosse la più vil feminella del mondo, sì è ella da
dovere essere amata da me sopra ogni altra cosa. Ma poi che tanto v'aggrada che
io studii, acciò che riputato non mi possa essere in vizio il non ubidirvi,
farollo volentieri; ma se mia vergogna vi sembra che costei per le strane
scuole mi venga seguendo, levate la cagione acciò che non seguiti l'effetto:
non vi mandate me, il quale sono presto d'andarvi, poi che a voi piace, e
impromettetemi di mandarmi lei. Sieno del loro amore ripresi la trista Mirra e
lo scelerato Tireo e la lussuriosa Semiramis, i quali sconciamente e
disonestamente amarono, e me più non riprendete, se la mia vita v'aggrada».
[16]
Non
rispose più il re a Florio, però che sì gli vedeva gli argomenti presti, che
volendo parlare con lui avrebbe di gran lunga perduto, ma lasciandolo solo, si
partì da esso e comandò che s'acconciasse l'arnese, acciò che Florio la
seguente mattina n'andasse a Montoro.
[17]
Alle
parole state tra 'l re e Florio non era guari lontana la misera Biancifiore,
ma, celata in alcuno luogo, con intentivo animo tutte l'avea notate, ascoltando
quello ch'ella non avrebbe voluto udire né che per altrui le fosse stato
raportato. E bene avea con grave doglia intese le gravi riprensioni fatte a
Florio per l'amore che a lei portava, e similmente udito avea vilmente
dispregiarsi dal re, dicendo che serva era e di vile nazione discesa; ma di ciò
la vera e buona difensione di Florio, fatta in aiuto di lei, le rendé molto il
perduto conforto. Ma quando ella dire udì a Florio: «Poi che mandare mi dovete
Biancifiore a Montoro, io v'andrò», allora dolore intollerabile l'assalì, però
che manifestamente conobbe lo iniquo intendimento del re, il quale questo
impromettea per più leggiermente poter Florio allontanare da lei; e cominciò
con tacito pianto a lagrimare e a dire fra sé così: "Oimè, Florio, solo
conforto dell'anima mia, a cui io tutta mi donai per mia salute quel giorno che
tu prima mi piacesti, ora che credi tu? Alle cui parole t'hai tu lasciato
ingannare! Or non vedevi tu che mi ti prometteva di mandarmiti, perché tu
consentissi, come tu hai fatto, all'andata? Egli non mi manderà mai ove tu sii.
Deh, non conosci tu la falsità del tuo padre? Certo non che egli mandi me a te,
ma egli non lascerà mai te venire dove io sia. Tu ti sei lasciato ingannare con
meno arte che non lasciò Isifile: ella credette alle parole e agli atti, e alla
fede promessa, e alle lagrime dello ingannatore; ma tu per la menoma di queste
cose se' stato ingannato, e hai detto di sì di quella cosa che laida ti sarebbe
a tornare adietro; e non hai conosciuto che egli, non disideroso del tuo
studio, ma di trarre me della tua memoria, t'allontana da me, acciò che per
distanza tu mi dimentichi! Oimè, or dove abandoni tu, o Florio, la tua
Biancifiore? Ove n'andrai tu con la mia vita? Oimè, misera! E io come sanza
vita rimarrò? E se a me vita rimarrà, come sarà ella fatta trovandomi sanza
esser teco continuamente e sanza vederti? O luce degli occhi miei, perché ti
fuggi tu da me? Oimè, quale speranza mi potrà mai di te riconfortare, che con
la tua bocca hai consentita e impromessa la partita? O beata Adriana, che
ingannata dal sonno e da Teseo, dopo poche lagrime meritò miglior marito! E più
felice Fedra, che col suocero in nome d'amante finì il disiato cammino! Or mi
fosse stata licita l'una di queste felicità: o l'essere stata da te con ingegno
abandonata o d'averti potuto seguire. Oimè, se quello amore il quale tu m'hai
più volte con piacevole viso mostrato è vero, perché nel cospetto della
crudeltà del tuo padre non piangevi tu, veggendo che i prieghi non valeano? E'
non ti si disdicea, ché ciascuno sa che alcuno non può dar legge all'amorevole
atto, però che la forza d'amore tiene l'uomo, più che alcun altro vinco,
costretto. Io credo che se le tue lagrime fossero state con prieghi mescolate
egli avrebbe conceduto che tu fossi avanti qua rimaso che vedutoti più
lagrimare, però che la pietà, che sarebbe stata da avere di te, avrebbe vinto e
rimutato il suo nuovo proponimento: ché tutti i padri non hanno gli animi
feroci contra i figliuoli come ebbe Bruto, primo romano consolo, il quale
giustamente per la sua crudeltà fu da riprendere. Ma, oimè!, che se 'l tuo
amore non è falso, tu dovevi sofferire aspri tormenti anzi che consentire di
dovervi andare, o almeno, per consolazione di me misera, farviti quasi per
forza menare. Né in questo ti si disdicea l'essere al tuo padre disubidiente,
però che, quando cosa impossibile si dimanda, è lecito il disdirla. Come ti
sarà egli possibile il partirti sanza me, se le tue parole a me dette per
adietro non sono quali fu rono quelle del falso Demofonte a Filis, il quale la
promessa fede e le vele della sua nave diede ad un'ora a' volanti venti? O come
potrai tu in alcuna parte sanza cuore andare? Tu mi solevi dire ch'io l'avea
nelle mie mani e che io sola era l'anima e la vita tua: ora se tu sanza queste
cose ti parti, come potrai vivere? Oimè misera, quanto dolore è quello che mi
strigne, pensando che tu contra te medesimo sii incrudelito, né hai avuta
alcuna pietà alla tua vita! Or con che viso ti potrò io pregare che della mia
t'incresca, alla quale alcuna compassione dovresti avere avuta, pensando che io
per te la metterei ad ogni pericolo, credendoti da noia allontanare? Tu avrai,
partendoti, guadagnata la tua morte e la mia: e se non morte, vita più dolorosa
che morte non ci falla! Tu te n'andrai a Montoro col vero corpo, e io misera
rimarrò seguendoti sempre con la mente; né mai in alcuna parte sanza me sarai,
e niun diletto da te fia preso, che io con lamentevole disio non ti seguiti
addesso. Né fia per te fatto alcuno studio che io similemente imaginando non
studii, disiderando più tosto di convertirmi in libro per essere da te veduta,
che stare nella mia forma da te lontana. Ma certo la fortuna e gl'iddii hanno
ragione d'essere avversi a' nostri disii, i quali abbiamo sì lungamente avuto
spazio di potere toccare l'ultime possanze d'amore, e mai non le tentammo: la
qual cosa forse, se stata fosse fatta, o più forte vinco avrebbe te meco a me
teco legato, per lo quale partiti non potremmo essere stati di leggere, come
ora saremo, o quello che ci strigne si sarebbe o tutto o in maggior parte
soluto, né mi dorrebbe tanto la tua partenza. Certo per le dette ragioni me ne
duole, ma per la servata onestà sono contenta che la nostra età sia stata
casta, alla quale ancora ben bene sì fatta cosa non si convenia. E appresso
credo che forse gl'iddii ci serbano più lieti congiungimenti, e con migliore
cagione: ma, oimè dolente!, che questo non so io, né già per tale speranza il
mio dolor non scema! Or volessono gl'iddii che, poi che dividere mi debbo da
te, che se' solo mio bene, mia luce e mia speranza, mi fosse licito il morire!
Oimè, Aretusa, quanto miseramente, fuggendo il tuo amante, divenisti fontana! e
io più affannata di dolore che tu di paura, non sono da loro udita, né però si
muovono a pietà! Ahimè, Ecuba, quanto ti fu felice nel tuo ultimo dolore, poi
che morte t'era negata, il convertirti in cane! Io ti porto invidia; e
similmente alla tua morte, o Meleagro, la cui vita dimorava nel fatato bastone,
però ch'io disidererei che i tuoi fati si fossero rivolti sopra di me! O sommi
iddii, se i miseri meritano d'essere uditi, io vi priego che di me v'incresca,
e che voi al mio dolore o fine o conforto sanza indugio mandiate. E tu, o più
che crudele, te ne va', ché in verità mai nel tuo aspetto non conobbi che
crudeltà in te dovesse aver luogo. Ma poi che lontanandoti la dimostri, io ti
giuro per l'anima della mia madre che mai sanza continua sollecitudine non
sarò, sempre pensando com'io a vedere ti possa venire. E quale che modo io mi
elegga, se io non sarò mandata a te, io vi pur verrò".
[18]
Florio,
che malvolentieri a' piaceri del padre avea consentito, ricevuto il
comandamento del doversi partire la seguente mattina, e partitosi il re da lui,
solo pensando si pose a sedere, e fra se medesimo dicea: "Oimè, or che ho
io fatto? A che ho io consentito? Alla mia medesima distruzione, per ubidire il
crudel padre! Or come mi potrò io mai partire sanza Biancifiore? Deh, or non
poteva io almeno dicendo pur di no, aspettare quello ch'egli avesse fatto? Di
che aveva io paura? Ucciso non m'avrebbe egli, ché io non m'avrei lasciato. Né
niuna peggior cosa mi potea fare che da sé cacciarmi: la qual cosa egli non
avrebbe mai fatto; ma se pur fatto l'avesse, Biancifiore non ci sarebbe rimasa,
però che meco ove che io fossi andato l'avrei menata; la quale io più
volentieri, sanza impedimento d'alcuno, liberamente possederei, che io non
farei la grande eredità del reame che m'aspetta. Ma poi che promesso l'ho, io
v'andrò, acciò che non paia ch'io voglia tutto ogni cosa fare a mia maniera.
Egli m'ha impromesso di mandarlami; se elli non la mi manda, io avrò legittima
cagione di venirmene dicendo: "Voi non m'atteneste lo 'mpromesso dono: io
non posso più sostenere di stare lontano da lei per ubidire voi". E da
quella ora in avanti mai più un tal sì non mi trarrà della bocca, quale egli ha
oggi fatto. Se egli me la manda, molto sono più contento d'esser con lei
lontano da lui che in sua presenza stare, e più beata vita mi riputerò
d'avere". E con questo pensiero si levò e andonne in quella parte ove egli
ancora trovò Biancifiore, che tutta di lagrime bagnata ancora miseramente piangea;
a cui egli, quasi tutto smarrito guardandola, disse:
«O
dolce anima mia, qual è la cagione del tuo lagrimare?». La quale prestamente
dirizzata in piè, piangendo gli si fece incontro, e disse:
«Oimè,
signor mio, tu m'hai morta: le tue parole sono sola cagione del mio pianto. O
malvagio amante, non degno de' doni della santa dea, alla quale i nostri cuori
sono disposti, or come avesti tu cuore di dire tu medesimo sì di dovermi
abandonare? Deh, or non pensi tu ove tu m'abandoni? Io, tenera pulcella, sono
lasciata da te come la timida pecora tra la fierità de' bramosi lupi. Manifesta
cosa è che ogni onore, il quale io qui ricevea, m'era per lo tuo amore fatto,
non perché io degna ne fossi, sì come a colei che era tua sorella da molti
riputata per lo nostro egual nascimento. E molti, invidiosi della mia fortuna,
a me, per loro estimazione, prospera e benivola tenuta per la tua presenza,
ora, partendoti tu, non dubiteranno la loro nequizia dimostrare con aperto
viso, avendola infino a ora per tema di te celata. Ma ora volessero gl'iddii
che questo fosse il maggior male che della tua andata mi seguitasse! Ma tu mi
lasci l'animo infiammato del tuo amore, per la qual cosa io spero d'avere sanza
te angosciosa vita! la quale, ancora che io da te non abbia meritata, mi fia
bene investita, però che, quando prima ne' tuoi begli occhi vidi quel piacere,
che poi a' tuoi disii mi legò il cuore con amoroso nodo, sanza pensare alla mia
qualità vile e popolaresca, e ancora in servitudine coatta, in niuna maniera da
potere alla tua magnificenza adeguare, mi lasciai con isfrenata volontà
pigliare, aggiungendo al tuo viso piacevolezza col mio pensiero. Onde se tu,
ora, abandonandomi sì come cosa da te debitamente poco cara tenuta, e Amore,
costringendomi di te, da me stoltamente amato, con greve doglia mi punite,
faccendomi riconoscere la mia follia, questo non posso né io né alcuno altro
dire che si sconvenga. E se non fosse che io fermamente credo che alcuna parte
di quella fiamma amorosa, la qual pare che per me ti consumi, t'accenda il
cuore, se vero è che ogni amore acceso da virtù, com'è il mio verso di te,
sempre accese la cosa amata, sol che la sua fiamma si manifesti, io avrei
sconciamente nociuto alla mia vita, però che Cupido da piccolo spazio in qua
m'ha più volte posta in mano quella spada, con la quale la misera Dido nella
partita di Enea si passò il petto, acciò che io quello uficio essercitassi in
me: e certo io l'avrei per me volentieri fatto, ma dubitando d'offendere quella
piccola particella d'amore che tu mi porti, mi ritenni, tenendo solamente la
mia vita cara per piacere a te. Ma gl'iddii sanno quale ella sarà partendoti
tu, però che io non credo che mai giorno né notte sia, che io non sofferi molti
più aspri dolori che il morire non è. Ma forse tu ti vuogli scusare che altro
non puoi; ma non bisogna scusa al signore verso il vassallo: tanto pur udi' io
che tu con la tua bocca dicesti d'andare a Montoro! Oimè, or m'avessi tu detto
davanti: "Biancifiore, pensa di morire, però che io intendo d'abandonarti",
però che tu non dovevi dire sì a fidanza delle vane e false parole di tuo
padre, il quale ti promise di mandarmi a te. Certo egli nol farà già mai, però
che egli guarda di farti tanto da me star lontano, che io possa essere uscita
della tua mente».
Queste
e molte altre parole, piangendo e tal volta porgendogli molti amorosi baci, gli
diceva Biancifiore, quando Florio non potendo le lagrime ritenere, rompendole
il parlare, le disse così:
[19]
Oimè, dolce anima mia, or che è quello che tu
di'? Come potrei io mai consentire se non cosa che ti piacesse? Tu ti duoli
della menoma parte de' nostri danni. Principalmente già sai tu che mai per me
onorata non fosti, ma sola la tua virtù è stata sempre cagione debita agli
onoranti di tale onore farti: la qual virtù per la mia partita non credo che
manchi, né similemente l'onore. E chi sarebbe quelli che contra te potesse
incrudelire, o per invidia o per altra cagione? certo nullo; e se pure alcuno
ne fosse, io non sarò sì lontano che tu di leggieri non possi farlomi sentire,
acciò che io con subita tornata qui punisca la iniquità di quelli: e però di
questo vivi sicura e sanza pensiero. Ma, ohimè, che di quel fuoco, del qual tu
di' che io ti lascio l'anima accesa, io ardo tutto! E veramente mentre io starò
lontano da te, la mia vita non sarà meno angosciosa che la tua: e io il sento
già, però che nuova fiamma mi sento nel cuore aggiunta. Ma sanza fine mi
dolgono le parole le quali tu di', avvilendoti sanza alcuna ragione. E certo di
quello che io ora dirò, né me ne sforza amore né me n'inganna, ma è così la
verità come io estimo. In te niuna virtù pate difetto, né belli costumi fecero
mai più gentilesca creatura nell'aspetto, che i tuoi, sanza fallo buoni, fanno
te. La chiarità del tuo viso passa la luce d'Appollo né la bellezza di Venere
si può adeguare alla tua. E la dolcezza della tua lingua farebbe maggiori cose
che non fece la cetera del trazio poeta o del tebano Anfion. Per le quali cose
lo eccelso imperador di Roma, gastigatore del mondo, ti terrebbe cara compagnia,
e ancora più: ch'egli è mia oppinione che, se possibil fosse che Giunone
morisse, niuna più degna compagna di te si troverebbe al sommo Giove. E tu ti
reputi vile? Or che ha la mia madre più di valore di te, la quale nacque de'
ricchissimi re d'Oriente? Certo niuna cosa, né tanto, traendone il nome, che è
chiamata reina. Adunque per lo tuo valore se' tu da me degnamente amata, sì
com'io poco inanzi dissi al mio padre. E cessino gl'iddii che tu in niuno atto
o per nulla cagione t'avessi offesa o t'offendessi, però che niuna persona
m'avrebbe potuto ritenere, che io subitamente non mi fossi con le propie mani
ucciso. Vera cosa è, e ben lo conosco, che, consentendo io l'andata mia a
Montoro, io diedi a te gravoso dolore; ma certo e' non dolfe più a te che a me.
Ma che volevi tu che io facessi più avanti? Volevi tu che io con mio padre
avessi sconce parole per quello che ancora si può ammendare? Se a te tanto
dispiace la mia andata, comanda che io non vi vada: egli potrà assai urtare il
capo al muro, che io sanza te vi vada! E se tu consenti che io vi vada, egli
m'ha promesso di mandarmiti: la qual cosa se egli non fa, io volgerò tosto i
passi indietro, però che io so bene che sanza te vivere non potrei io
lungamente. E non pensare che mai, per lontanarmi da te, egli mi possa mai
trarre te della mente, che, quanto più ti sarò col corpo lontano, tanto più ti
sarò con l'anima vicino, ché certo impossibile sarebbe ch'io ti dimenticassi,
se tutto Letè mi passasse per la bocca. Però, anima mia, confortati, e lascia il
lagrimare; e fa ragione ch'io sia sempre teco, e non pensare che 'l mio amore
sia lascivo come fu quello di Giansone e di molti altri, i quali per nuovo
piacere sanza niuna costanza si piegavano. Veramente io non amerò mai al tra
che te, né mai altra donna signoreggerà l'anima mia se non Biancifiore».
E
dicendo queste parole, piangeano amenduni teneramente, spesso guardando l'uno
l'altro nel viso, e tal volta asciugando ora col dilicato dito, ora col lembo
del vestimento, le lagrime de' chiari visi.
[20]
Nel
tempo della seconda battaglia stata tra 'l magnifico giovane Scipione Africano
e Annibale cartaginese tiranno, essendo già la fama del valore di Scipione
grandissima, avvenne che uscito del campo d'Annibale un cavaliere in fatto
d'arme virtuosissimo, chiamato Alchimede, con molti compagni per prender preda
nel terreno de' romani, acciò che 'l campo d'Annibale copioso di vittuaglia
tenessero, Scipione, uscitogli incontro, dopo gran battaglia tra loro stata,
gli sconfisse, e lui ferì mortalmente abbattendolo al campo. Alchimede,
vedendosi abbattuto e sentendosi solo, da' suoi abandonato e ferito a morte,
alzò il capo e riguardò il giovane, il quale la sua lancia avea a sé ritratta,
forse per riferirlo, e videlo nel viso piacevole e bello, e niente parea robusto
né forte come i suoi colpi il facevano sentire, a cui egli gridò:
«O
cavaliere, non ferire, però che la mia vita non ha bisogno di più colpi a
essere cacciata che quelli che io ho, né credo che il sole tocchi le sperie
onde che l'anima mia fia a quelle d'Acheronta. Ma dimmi se tu se' quel valoroso
Scipione cui la gente tanto nomina virtuoso».
Il
quale Scipione, riguardandolo, e udita la voce, il riconobbe, però che in altra
parte aveva la sua forza sentita, e disse:
«O
Alchimede, io sono Scipione».
Allora
Alchimede gli porse la destra mano e con fievole voce gli disse:
«Disarma
il già morto braccio, e quello anello il quale nella mia mano troverai,
prendilo e guardalo, però che in lui mirabile virtù troverai: che a qualunque
perso na tu il donerai, elli, riguardando in esso, conoscerà incontanente se
noioso accidente avvenuto ti fia, però che il colore dell'anello vedrà mutato,
e sì tosto come egli l'avrà veduto, la pietra tornerà nel primo colore bella. E
a me per tale cagione il donò Asdrubal, fratello al mio signore Annibale, a cui
tu tanto se' avverso, quando di Spagna mi partii da lui, che più che sé
m'amava. Io sento al presente la mia vita fallire, e sola d'alcuno amico; onde,
se io qui muoio con esso, o perderassi, o troverallo alcuno il quale forse la
sua virtù non conoscerà, o che forse non sarà degno d'averlo: e però io amo
meglio che tu, posto che offeso m'abbi, il tenghi in guiderdone della tua
virtù, che alcuno altro il possegga per alcuno de' detti modi».
E
detto questo, la debole testa sopra il destro omero bassò; e dopo picciolo
spazio si morì. Scipione, prestamente disarmata la mano del rilucente ferro,
più disioso della virtù dell'anello che del valore, trovò il detto anello
bellissimo, e fino oro il suo gambo, la pietra del quale era vermiglia, molto
chiara e bella: il quale egli prese, e mentre che viveo con gran diligenza il
guardò. Ma poi, pervenendo d'uno discendente in altro della casa, pervenne al
valoroso Lelio, il quale, essendo consueto d'andare sovente per lo bene della
republica, come valoroso cavaliere non tralignante da' suoi antichi, fuori di
Roma contro a' resistenti, donò questo anello alla misera Giulia, dicendole la
virtù, acciò che ella sanza cagione di lui non dubitasse. E quando lo
infortunato caso da non ricordare l'avvenne, l'avea ella in mano, e per dolore
il si trasse e diedero a guardare a Glorizia, dicendo:
«Omai
non ho io di cui io viva più in dubbio, né per cui la virtù del presente anello
più mi bisogni».
Ma
dopo la morte di Giulia, Glorizia il donò a Biancifiore, dicendole come del
padre di lei era stato e appresso della madre, e la virtù di lui: il quale
Biancifiore lungo tempo caramente guardò. E ricordandosene allora, lo portò
dove Florio era, e così cominciò piangendo a parlare:
[21]
«Deh,
perché s'affannano le nostre mani a rasciugare le lagrime de' nostri visi nel
principio del nostro dolore? Sia di lungi da me che io mai di lagrimare ristea,
mentre che tu sarai lontano da me. Oimè, che tu mi dì: "Comanda che io non
vada a Montoro!". Deh, or perché bisognava egli che io il ti comandassi?
Non sai tu come io volentieri vi ti vedrò andare? Tu il dovevi ben pensare. Ma
volentieri i' 'l farei, se convenevole mi paresse; ma però che io non disidero
meno che 'l tuo dovere s'adempia che 'l mio volere, poi che tu promettesti
d'andarvi, fa che tu vi vada, acciò che vituperevole cosa non paia, volendosene
rimanere, il disdire quello che tu hai promesso. E acciò che le tue parole non
paiano vento, io concedo, così volentieri come Amore mi consente, che tu vi
vada, e ubidendo anzi adempi il piacere del tuo padre. Ma sopra tutte le cose
del mondo ti priego che tu per assenza non mi dimentichi per alcuna altra
giovane. Io so che Montoro è copioso di molti diletti: tutti ti priego che da
te siano presi. Solamente a' tuoi occhi poni freno quando le vaghe giovani
scalze vedrai andare per le chiare fontane, coronate delle frondi di Cerere,
cantando amorosi versi, però che a' loro canti già molti giovani furono presi:
però che se io sentissi che alcuna con la sua bellezza di nuovo t'infiammasse,
come furiosa m'ingegnerei di venire dove tu e ella fosse; e se io la trovassi,
con le propie mani tutta la squarcerei, né nel suo viso lascerei parte che
graffiata non fosse dalle mie unghie, né niuno ordine varrebbe a' composti
capelli che io, tutti tirandoglieli di capo, non gli rompessi; e dopo questo,
per vituperevole e etterna sua memoria, co' propii denti del naso la priverei:
e questo fatto, me medesima m'ucciderei. Questo non credo però che possibile
sia di dovere avvenire: ma sì come leale amante ne dubito, e però il dico. Tu
avrai molti altri diletti, e ciascuno s'ingegnerà di piacerti, acciò che io ti
dispiaccia: ma io mi fido nella tua lealtà. E però che io sono certa che come
tu in molti e varii diletti starai, così io in molte avversità, le quali forse
io non ti potrò far note così com'io vorrei, ti voglio pregare, poi che
gl'iddii adoperano verso noi tanta crudeltà, e la fortuna ne mostra le sue
forze in dipartirci, che ti piaccia per amore di me portar questo anello, il
quale, mentre che io sanza pericolo dimorerò, sempre nella sua bella chiarezza
il vedrai, ma, come io avessi alcuna cosa contraria, tu il vedrai turbare. Io
ti priego che allora sanza niuno indugio mi venghi a vedere: e priegoti che tu
sovente il riguardi, ogni ora ricordandoti di me che tu il vedi. Più non ti
dico, se non che sempre il tuo nome sarà nella mia bocca, sì come quello che
solo è nella memoria segnato, e nello innamorato cuore col tuo bel viso
figurato. Tu solo sarai i miei iddii, i quali io pregare debbo della mia
felicità: a te saranno tutte le mie orazioni diritte, sì come a quelli in cui i
miei pensieri tutti si fermano per aver pace. Veramente una cosa ti ricordo:
che s'egli avviene che il tuo padre non mi mandi a te come promesso t'ha, che
il tornare tosto facci a tuo potere, però che se troppo sanza vederti
dimorassi, lagrimando mi consumerei».
E
dette queste parole, piangendo gli si gittò al collo; né prima abbracciando si
giunsero, che i loro cuori, da greve doglia costretti per la futura partenza,
paurosi di morire, a sé rivocarono i tementi spiriti, e ogni vena vi mandò il
suo sangue a render caldo, e i membri abandonati rimasero freddi e vinti, e
essi caddero semivivi, avanti che Florio potesse alcuna parola rispondere. E così,
col natural colore perduto, stettero per lungo spazio, sì che chi veduti gli
avesse, più tosto morti che vivi giudicati gli avrebbe. Ma dopo certo spazio,
il cuore rendé le perdute forze a' sopiti membri di Florio, e tornò in sé tutto
debole e rotto, come se un gravissimo affanno avesse sostenuto, e tirando a sé
le braccia, gravate dal candido collo di Biancifiore, si dirizzò, e vide che
questa non si movea, né alcun segnale di vita dimostrava. Allora elli, ripieno
di smisurato dolore, appena che la seconda volta non ricadde, e disiderato
avrebbe d'esser subitamente morto; ma veggendo che 'l dolore nol consentiva,
piangendo forte si recò la semiviva Biancifiore in braccio, temendo forte che
la misera anima non avesse abandonato il corpo e mutato mondo, e con timida
mano cominciò a cercare se alcuna parte trovasse nel corpo calda, la quale di
vita gli rendesse speranza. Ma poi che egli dubbioso non consentiva alla
verità, ché forse caldo trovava e pareagli essere ingannato, cominciò piangendo
a baciarla, e dicea:
«Oimè,
Biancifiore, or se' tu morta? Deh, ove è ora la tua bella anima? In quali parti
va ella sanza il suo Florio errando? Oimè, or come poterono gl'iddii essere
tanto crudeli ch'elli abbiano la tua morte consentita? O Biancifiore, deh,
rispondimi! Oimè, ch'io sono il tuo Florio che ti chiamo! Deh, or tu mi parlavi
ora inanzi con tanto effetto, disiderando di mai da me non ti partire, e ora
solamente non mi rispondi! Or se' tu così tosto sazia dell'essere meco? Oimè,
che gl'iddii mi manifestano bene ora che di me sono invidiosi e hannomi in
odio. Ma di questo male m'ha più cagione il mio crudel padre, il quale sì
subitamente ha affrettata la mia partita. O crudele padre, tu l'avrai
interamente! Le parole da me dette stamattina ti saranno dolente agurio e oggi
ti faranno dolente portatore del fuoco, ove tu miseramente ardere mi vedrai: la
tua crudeltà è stata cagione della morte di costei, e ella e tu sarete cagione
della mia. Vivere possi tu sempre dolente dopo la mia morte, e gl'iddii
prolunghino gli anni tuoi in lunga miseria! Or ecco, o anima graziosa, ove che
tu sii, rallegrati che io m'apparecchio di seguitarti, e quali noi fummo di qua
congiunti, tali infra le non conosciute ombre in etterno amandoci staremo
insieme. Una medesima ora e uno medesimo giorno perderà due amanti, e alle loro
pene amare sarà principio e fine».
E
già avea posto mano sopra l'aguto coltello, quando egli si chinò per prima
baciare il tramortito viso di Biancifiore, e chinandosi il sentì riscaldato, e
vide muovere le palpebre degli occhi, che con bieco atto riguardavano verso di
lui. E già il tiepido caldo, che dal cuore rassicurato movea, entrando per li
freddi membri, recando le perdute forze, addusse uno angoscioso sospiro alla
bocca di Biancifiore, e disse:
«Oimè!».
Allora
Florio, udendo questo, quasi tutto riconfortato, la riprese in braccio e disse:
«O
anima mia dolce, or se' tu viva? Io m'apparecchiava di seguitarti nell'altro
mondo».
Allora
si dirizzò Biancifiore con Florio insieme, e ricominciarono a lagrimare. Ma
Florio, veggendola levata, disse:
«O
sola speranza della vita mia, ove se' tu infino a ora stata? Qual cagione t'ha
tanto occupata? Io estimava che tu fossi morta! Oimè, perché pigli tu tanto
sconforto per la mia partita? Tu me la concedi con le parole, e poi con gli
atti pieni di dolore il mi vieti. Io ti giuro per li sommi iddii che, s'io vi
vado, che o tu verrai tosto a me come promesso m'ha il mio padre, o io poco vi
dimorerò, che io tornerò a te; e mentre che io là dimorerò, o ancora, mentre
ch'io starò, in vita, mai altra giovane che te non amerò. E però confortati, e
lascia tanto dolore: ché s'io credessi che questa vita dovessi tenere, io in
niuno atto v'andrei; o s'io vi pure andassi, credo che pensando al tuo dolore
morrei. E promettoti per la leal fede che io ti porto, come a donna della mia
mente, che il presente anello, il quale ora donato m'hai, sempre guarderò,
tenendolo sopra tutte cose caro, e spesso riguardandolo, sempre imaginerò di
veder te. E se mai accidente avviene che egli si turbi, niuno accidente mi
potrà ritenere che io non sia a te sanza alcuno indugio: e però io ti priego
che tu ti conforti».
Queste
parole, e altre molte, con amorosi baci mescolati di lagrime e di sospiri
furono tra Florio e Biancifiore quanto quel giorno mostrò la sua luce; ma poi
che egli chiudendola tornò tenebroso, i due amanti pensosi teneramente dicendo
"A Dio!" si partirono, tornando ciascuno sospirando alla sua camera.
[22]
Quella
notte fu a' due amanti molto gravosa, e non fu sanza molti sospiri trapassata,
ancor che assai brieve la riputassero, però che più tosto avrebbero quelle pene
sostenute essendo così vicini, che doversi il vegnente giorno partire. Ma poi
che il sole sparse sopra la terra la sua luce, e i cavalli e la compagnia di
Florio furono nella gran corte del real palagio apparecchiati aspettando lui,
Florio si levò e con lento passo n'andò davanti al re suo padre e alla reina,
dove Biancifiore similmente pensosa già era venuta; e fatta la debita riverenza
al padre, e preso congedo dalla madre, la quale in vista non sana, giaceva
sopra un ricco letto, prima si voltò verso il re e poi verso la madre, e
caramente raccomandò loro Biancifiore, pregandoli che tosto gliele mandassero,
e poi abbracciata Biancifiore, in loro presenza la baciò dicendo:
«A
te sola rimane l'anima mia; chi onorerà te onorerà lei»; e appena così
parlando, costrinse con vergogna le lagrime, che il greve dolore che il cuor
sentiva si sforzava di mandar per gli occhi fuori, e appena con voce intera
poté dire:
«Rimanetevi
con Dio»; e discese le scale, salì a cavallo, e sanza più indugio si partì.
[23]
Molto
dolfe a tutti la partita di Florio, posto che il re e la regina contenti ne
fossero, credendo che il loro avviso dovesse per quella partita venir fatto; ma
sopra tutti dolse a Biancifiore. Ella l'accompagnò infino in piè delle scale,
sanza far motto l'uno all'altro; e poi che a cavallo il vide, riguardato lui
con torto occhio, tacita se ne tornò indietro, e salì sopra la più alta parte
della real casa, e quivi, guardando dietro a Florio, stette tanto, quanto
possibile le fu il vederlo. Ma poi che più veder nol poté, ella, accomandandolo
agl'iddii, si tornò alla sua camera, faccendo sì gran pianto, che ne sarebbe
presa pietà a chiunque udita l'avesse o veduta, e dicea:
«Oimè,
Florio, or pur te ne vai tu: or pure ho io veduto quello che io non credetti
che mai gli occhi miei sostenessero di potere vedere! Deh, or quando sarà che
io ti rivegga? Io non so com'io mi faccia; io non so come io sanza te possa
vivere. Oimè, perché non morii io ieri nelle tue braccia, quando io fui sì
presso alla morte, che tu credesti ch'io morta fossi? Io non sentirei ora
questa doglia per la tua partenza: l'anima mia ne sarebbe andata lieta, in
qualunque mondo fosse ita, essendo io morta in sì beato luogo».
Glorizia,
la quale allato le sedea, piangea forte per pietà di lei, e piangendo la
confortava quanto più potea, dicendo:
«O
Biancifiore, deh, pon fine alle tue lagrime: vuoi tu piangendo guastare il tuo
bel viso, e consumarti tutta? Tu ti dovresti ingegnare di rallegrarti, acciò
che la tua bellezza, conservata, multiplicasse sì che, quando tu andrai a
Montoro, tu potessi piacere a Florio, il quale, se consumata ti vede, ti rifiuterà:
e io so che tu vi sarai tosto mandata, sì come io ho udito dire al re.
Confortati, che se Florio sapesse che tu questa vita menassi, egli
s'ucciderebbe. Or che faresti tu s'egli fosse andato molto più lontano, dove a
te non fosse licito l'andare? E' non si vuol far così ! Usanza è che gli uomini
e le donne innamorate spesso abbiano per partenze o per altri accidenti alcune
pene: ma non tali chente tu le prendi; pensa che tu questa vita durare non
potresti lungamente, e, se tu morissi, tu faresti morire lui: adunque se per
amore di te non vuoi prendere conforto, prendilo per amor di lui, acciò ch'e'
viva».
E
con cotali parole e con molte altre appena la poté racconsolare.
[24]
Ma
Florio, partito, alquanto si turbò nel viso, mostrando il dolore che
l'angoscioso animo sentiva. Andavano i suoi compagni lasciando i volanti
uccelli alle gridanti grue, faccendo loro fare in aria diverse battaglie. E
altri con gran romore sollecitavano per terra i correnti cani dietro alle
paurose bestie. E così, chi in un modo e chi in un altro, andavano prendendo
diletto, mostrando a Florio alcuna volta queste cose, le quali molta più noia
gli davano che diletto: però che egli alcuna volta imaginando andava d'essere
stretto dalle dilicate braccia di Biancifiore, come già fu, e non gli parea
cavalcare; le quali imaginazioni sovente, col mostrarli le cacce, gli erano
rotte. Ma egli poco a quelle riguardando, pur verso la città, la quale egli mal
volontieri abandonava, si rivolgea; e così volgendo s'andò infino che licito
gli fu di poterla vedere. E così andando con lento passo, costoro s'erano molto
avvicinati a Montoro, quando il duca Ferramonte, che la sua venuta avea saputa,
contento molto di quella, con molti nobili uomini della terra s'apparecchiò di
riceverlo onorevolemente. E coverti sé e i loro cavalli di sottilissimi e belli
drappi di seta, rilucenti per molto oro, circundati tutti di risonanti sonagli,
con bigordi in mano, accompagnati da molti strumenti e varii, e coronati tutti di
diverse frondi, bigordando e con la festa grande gli vennero incontro, faccendo
risonare l'aere di molti suoni.
Quando
Florio vide questo, sforzatamente si cambiò nel viso, mostrando allegrezza e
festa, quella che del tutto era di lungi da lui; e con lieto aspetto il duca e
i suoi compagni ricevette, e fu da loro ricevuto. E con questa festa, la quale
quanto più alla terra s'appressavano tanto più crescea, n'andarono infino nella
città, della quale trovarono tutte le rughe ornate di ricchissimi drappi, e piena
di festante popolo. Né niuna casa v'era sanza canto e allegrezza: ogni uomo in
qualunque età facea festa, e similemente le donne cantando versi d'amore e di
gioia. Pervenne adunque Florio con costoro al gran palagio del duca, e quivi
con tutto quello onore che pensare o fare si potesse a qualunque iddio, se
alcuno in terra ne discendesse, fu Florio da' più nobili della terra ricevuto.
E, scavalcati, tutti salirono alla gran sala, e quivi per picciolo spazio
riposatisi presero l'acqua e andarono a mangiare. E poi per amore di Florio,
molti giorni solennemente per la città festeggiarono.
[25]
Biancifiore
così rimasa, alquanto da Glorizia riconfortata, ogni giorno andava molte fiate
sopra l'alta casa, in parte onde vedeva Montoro apertamente, e quello riguardando
dopo molti sospiri avea alcun diletto, imaginando e dicendo fra se medesima:
"Là è il mio disio e il mio bene". E tal volta avvenia che stando
ella sentiva alcun soave e picciolo venticello venire da quella parte e ferirla
per mezzo della fronte, il quale ella con aperte braccia ricevea nel suo petto,
dicendo: "Questo venticello toccò il mio Florio, com'egli fa ora me,
avanti che egli giungesse qui"; e poi, quindi partendosi, andava in tutti
quelli luoghi della casa ov'ella si ricordava d'avere già veduto Florio, e
tutti gli baciava, e alcuni ne bagnava alcune volte d'amare lagrime. Questi
erano i templi degl'iddii e gli altari, i quali ella più visitava. E niuna
persona venia da Montoro, che ella o tacitamente o in palese non domandasse del
suo Florio. Ella mai non mangiava che Florio da lei non fosse molte fiate
ricordato; e s'ella andava a dormire, non sanza ricordare più volte Florio vi
si ponea, e niuna cosa sanza il nome di Florio non faceva; e se ella dormendo
alcun sogno vedea, sì era di Florio; e per questo sempre avrebbe di dormire
disiderato, acciò che spesso in tale inganno dormendo si fosse trovata: ben che
poi, trovandosi dal sonno ingannata, le fosse gravosa noia. E sempre pregava
gl'iddii che 'l suo Florio da infortunoso caso guardassero e che le dessero
grazia che tosto potesse andare a lui, o egli tornare a essa. Ella non si
curava mai di mettere i suoi biondi capelli con sottile maestria in dilicato
ordine, ma quasi tutta rabuffata sotto misero velo gli lasciava stare. Né mai
curava di lavarsi lo splendido viso, o di vestire i preziosi e belli
vestimenti, però che non v'era a cui ella disiderasse di piacere. E il cantare
e l'allegrezza e la festa tutta avea lasciato per intendere a sospirare. Né
niuno strumento era che allora da lei molestato fosse, ma tacitamente sperando
di tosto riveder Florio prendea quel conforto che ella poteva, tenendo sempre
l'anima nelle mani di Florio.
[26]
E
Florio simigliantemente a niuna cosa, stando a Montoro, avea tanto lo
'ntendimento fisso quanto alla sua Biancifiore, né era da lei una volta
ricordato che egli non ricordasse lei infinite. E così come Montoro era da
Biancifiore vagheggiato e rimirato spesso, così egli riguardava sovente
Marmorina. Né niuno suo ragionamento era già mai se non d'amore o della
bellezza della sua Biancifiore, la quale sopra tutte le cose disiava di vedere.
Egli da quel dì che Amore occultamente gli accese del suo fuoco infino a
quell'ora non la baciò mai, né fece alcun altro amoroso atto, che cento volte
il dì fra sé nol ripetesse, dicendo: "Deh, ora mi fosse licito pur di
vederla solamente!"; e fra sé sovente piangea il tempo il quale indarno
gli parea avere perduto stando con Biancifiore sanza baciarla e abbracciarla,
dicendo che se mai più con lei per tal modo si ritrovasse, come già era
trovato, mai più per ozio o per vergogna non perderebbe che egli non spendesse
il tempo in amorosi baci. Egli si portava saviamente molto, prendendo col duca
e con Ascalion e con altri molti varii diletti, quali nel iemale tempo prendere
si possono, sperando sempre che il re di giorno in giorno gli dovesse mandar
Biancifiore. E con questi diletti mescolati di speranza, sempre aspettando,
assai leggiermente si passò tutto quel verno sanza troppa noia, però che
alquanto l'amoroso caldo per lo spiacevole tempo era nel cuore rattiepidato e
ristretto. Ma poi che Febo si venne appressando al Monton frisseo, e la terra
incominciò a spogliarsi le triste vestige del verno, e a rivestirsi di verdi e
fresche erbette e di varie maniere di fiori, incominciarono a ritornare l'usate
forze nell'amorose fiamme, e cominciarono a cuocere più che usate non erano per
adietro nella mente allo innamorato Florio. Egli per lo nuovo tempo trovandosi
lontano a Biancifiore, incominciò a provare nuovo dolore da lui ancora non
sentito in alcun tempo, che egli dicea così:
«Ora
pur festeggia tutta Marmorina, e la mia Biancifiore, stando all'alte finestre
della nostra casa, vede i freschi giovani sopra i correnti cavalli, adorni di
bellissimi vestimenti, passarsi davanti, e ciascuno per la bellezza di lei si
volge a riguardarla. Or chi sa se alcuno tra' molti ne le piacerà, per lo quale
non potendo ella veder me, e avendomi dimenticato, s'innamori di colui? Oimè,
che questo m'è forte a pensare che possa essere; ma tuttavia la poca stabilità
la qual nelle donne si trova, e massimamente nelle giovani, me ne fa molto
dubitare; e se questo pure avvenisse che fosse, niuna cosa altro che la morte
mi sarebbe beata. O sommi iddii, se mai per me o per li miei antichi si fece o
si dee far cosa che alla vostra deità aggradi, cessate che questo non sia».
E
questo pensiero più che altro gli stava nella mente. Egli non vedea alcuna
giovane che 'l riguardasse, che egli immantanente non dicesse:
«Oimè,
così fa la mia Biancifiore; i non conosciuti giovani ella li mira tutti, così
come costoro fanno me, cui esse forse mai più non videro. E qual cagione recò
Elena ad innamorarsi dello straniere Paris se non la follia del suo marito,
che, andandosene all'isola di Creti, lasciò lei assediata da' piacevoli occhi
dello innamorato giovane? Né mai Clitemestra si sarebbe innamorata di Egisto,
se Agamenon fosse con lei continuamente stato: il quale poi lei insieme con la
vita per tale innamoramento perdé. Ma di questo non m'ha colpa se non la empia
nequizia del mio padre, il quale gl'iddii consumino, così come egli fa me
consumare. Egli m'impromise più volte di mandarlami sanza fallo qua
brievemente, e mai mandata non me l'ha. Oimè, che ora conosco il manifesto suo
inganno e truovo che vere sono le parole che Biancifiore mi disse, dicendo che
mai non ce la manderebbe e che egli qua non mi mandava se non perch' ella
m'uscisse di mente. Oh, come male è il suo avviso venuto al pensato fine, con
ciò sia cosa che io mai del suo amore non arsi com'io ardo ora».
E
istando Florio in questi pensieri, in tanto gl'incominciò a crescere il disio
di volere vedere Biancifiore che egli non trovava luogo, né ad altro pensar
poteva né giorno né notte. Egli avea per questo ogni studio abandonato, né di
mangiare né di bere parea che gli calesse: e tanto dubitava di tornare a
Marmorina sanza licenza del re, acciò che egli a far peggio non si movesse, che
egli volea avanti sostenere quella vita così noiosa; e era già tale nel viso
ritornato, che di sé facea ogni uomo maravigliare. E non avendo ardire di
tornare in Marmorina, andava il giorno sanza alcun riposo cercando gli alti
luoghi, de' quali egli potesse meglio vedere la sua paternale casa, ove egli
sapeva che Biancifiore dimorava. E similmente la notte non dormiva, ma furtivamente
e solo se n'andava infino alle porti del palagio del suo padre, non dubitando
d'alcun fiero animale, o d'ombra stigia, o d'insidie di ladroni, né d'altra
cosa: e quivi giunto, si ponea a sedere e con sospiri e con pianto più volte le
baciava, dicendo:
«O
ingrate porti, perché mi tenete voi che io non posso appressarmi al mio disio,
il quale dentro da voi serrato tenete?».
E
certo egli più volte fu tentato o di picchiare acciò che aperto gli fosse, o di
romperle per passar dentro, ma per paura della fierità del padre, il cui
intendimento già apertamente conoscere gli parea, se ne rimanea, tornandosi a
Montoro per l'usata via. E sì lo stringea amore, che vita ordinata non potea
tenere, ma sì disordinatamente la tenea, che più volte il duca e Ascalion
avedendosene il ne ripresero; ma poco giovava. E pur da amore costretto, più
volte mandò a dire al re che omai il caldo era grande, e allo studio più
intendere non potea, e però egli se ne volea con suo congedo tornare a
Marmorina.
[27]
Il
re, il quale più volte avea inteso che Florio voleva a Marmorina tornare, e
similemente avea udito a molti recitare la dolorosa vita che Florio a Montoro
menava, da grieve dolor costretto, sospirando se n'andò in una camera dove la
reina era; il quale sì tosto come la reina il vide, il dimandò quello che egli
avea, che sì pieno d'ira e di malinconia nell'aspetto si dimostrava. Il re
rispose:
«Noi
ci allegrammo molto dell'andata di Florio a Montoro, credendo che egli
incontanente dimenticasse Biancifiore, ma egli m'è stato detto da più persone
che la sua vita è tanto angosciosa, perché egli non può venire a vederla, che
ciò è maraviglia. E diconmi più, che egli del tutto lo studiare ha lasciato: la
qual cosa fosse il maggior danno che mai seguire ce ne potesse! Ma egli ancora
da grande amore costretto non mangia né dorme, ma in pianto e in sospiri
consuma la sua vita: per la qual cosa egli è nel viso tornato tale che poco più
fu Erisitone quando in ira venne a Cerere: e non pare Florio, sì è impalidito, e
non vuole udire d'altrui parlare che di Biancifiore, né prendere vuole alcun
conforto che porto gli sia. Né a questo vale alcuna riprensione che fatta gli
sia; e ancora m'ha mandato più volte dicendo che venir se ne vuole; ond'io non
so che mi fare, se non che d'ira e di malinconia mi consumo e ardo».
[28]
Grave
parve molto alla reina udire quelle parole, e, accesa d'ira nel viso,
subitamente rispose:
«Ahi,
come gl'iddii giustamente ti pagano! Or che avevi tu a fare co' romani
pellegrinanti, quando tu tanti n'uccidesti? E poi che tanti n'avevi uccisi,
perché la vita ad una sola femina, che di grazia dimandava la morte, lasciasti?
Certo o la morte di coloro o la vita di quella spiacque loro: per la qual cosa
essi nel ventre di quella occulto fuoco ti mandarono in casa. Or chi dubita che
mentre che Biancifiore viverà, Florio mai non la dimenticherà? Certo no, e
questo è manifesto. E così per la vita di costei perderemo Florio; e così per
una vil femina potremo dire che perduto abbiamo il nostro figliuolo. Adunque
pensisi come costei muoia».
Rispose
il re:
«E
avanti oggi che domani, ché certo mi pare che, come voi dite, mai mentre ella
sarà in vita, non sarà dimenticata da Florio».
Allora
disse la reina:
«E
come faremola noi subitamente morire sanza avere cagione che legittima paia? Se
noi il facciamo, e' ce ne potrà gran biasimo seguitare. E certo se Florio il
risapesse, e' sarebbe un dargli materia di disperarsi e d'uccidersi se
medesimo, o di partirsi da noi, in maniera che mai nol rivedremmo. Ma, quando a
voi paresse, qui sarebbe da procedere con lento passo, e, quando luogo e tempo
fosse, trovarle alcuna cagione adosso, per la quale faccendola morire, ogni
uomo giudicasse che ella giustamente morisse; e così saremo di mala fama e
della vita di Biancifiore insieme disgravati».
E
sanza guari pensare, la reina più avanti disse:
«E
la cagione potrà essere questa. Voi sapete che il giorno, nel quale per tutto
il vostro regno si fa la gran festa della vostra natività, s'appressa; e dove
ch'ella si faccia grandissima, sì si fa ella qui in Marmorina. E niuno gran
barone è nel vostro regno che con voi non sia a questa festa: e però quando
essi saranno nella vostra gran sala assettati alle ricche tavole, ciascuno
secondo il grado suo, allora ordinate col siniscalco vostro che o pollo o altra
cosa in presenza di tutti vi sia da parte di Biancifiore presentato, o che
Biancifiore medesima da sua parte il vi rechi davanti, acciò che paia che ella
con la bellezza del suo viso venendovi davanti voglia rallegrar la festa; ma
veramente abbiate ordinato col siniscalco che qual che si sia quella cosa
ch'ella apporterà, celatamente di veleno sia piena. E come il presente davanti
a voi sarà posato, e ella partita del vostro cospetto, fate che in alcun modo o
cane o altra bestia faccia la credenza, acciò che altra persona non ne morisse:
della qual cosa chiunque sarà il primo mangiatore, o subitamente morrà, o
enfierà, per la potenza del veleno. E così a tutti fia manifesto che ella abbia
voluto avvelenare voi; e come voi avrete questo veduto, fate che voi vi
turbiate molto, e, faccendo il romore grande, la facciate prendere, e
subitamente giudicare per tale offesa al fuoco. Chi sarà colui che non dica che
tale morte sia ragionevole, o che, veggendovi turbato, vi prieghi per la sua
salute? E certo questo non vi sarà malagevole a fare, però che il siniscalco
vostro l'ha in odio molto; e la cagione è questa, che egli più volte ha voluto
il suo amore, e ella sempre l'ha rifiutato faccendosi di lui beffe».
«Certo
- disse il re - voi avete ben pensato, e così sanza indugio si farà, né già
pietà che la sua bellezza porga mi vincerà».
[29]
Partissi
il re dalla reina e fece chiamare a sé incontanente Massamutino, suo
siniscalco, uomo iniquo e feroce, al quale egli disse così:
«Tu
sai che mai a' tuoi orecchi niuno mio segreto fu celato, né mai alcuna cosa
sanza il tuo fedel consiglio feci: e questo solamente è avvenuto per la gran
leanza la quale io ho trovata in te. Ora, poi che gl'iddii hanno te eletto a
mio segretario, più che alcuno altro, io ti voglio manifestare alcuna cosa del
mio intendimento, del tutto necessaria di mettere ad effetto, la quale sanza
manifestare mai ad alcuno, fa che tenghi occulta; però che se per alcun tempo
fosse rivelata ad altrui, sanza fallo gran vergogna ce ne seguirebbe, e forse
danno. Ciascuno, il quale vuole sua vita saviamente menare seguendo le virtù,
dee i vizi abandonare, acciò che fine onorevole gli seguisca; ma quando
avvenisse che viziosa via per venire a porto di salute tenere gli convenisse,
non si disdice il saviamente passare per quella acciò che maggior pericolo si
fugga: e fra gli altri mondani prencipi che più nelle virtuose opere si sono
dilettati, sono stato io uno di quelli, e tu il sai. Ma ora nuovo accidente a
forza mi conduce a cessarmi alquanto da virtuosa via, temendo di più grave
pericolo che non sarà il fallo che fare intendo; e dicoti così, che a me ha la
fortuna mandato tra le mani due malvagi partiti, i quali sono questi: o voglio
io ingiustamente far morire Biancifiore, la quale in verità io ho amata molto e
amo ancora, o voglio che Florio, mio figliuolo, per lei vilmente si perda; e
sopra le due cose avendo lungamente pensato, ho preveduto che meno danno sarà
la morte di Biancifiore che la perdenza di Florio, e più mio onore e di coloro
che dopo la mia morte deono suoi sudditi rimanere: e ascolta il perché. Tu sai
manifestamente quanto Florio ama Biancifiore; e certo se egli, giovanissimo
d'età e di senno, è di lei innamorato, ciò non è maraviglia, ché mai natura non
adornò creatura di tanta bellezza, quanta è quella che nel viso a Biancifiore
risplende; ma però che di picciola e popolaresca condizione, sì come io estimo,
è discesa, in niuno atto è a lui, di reale progenie nato, convenevole per
isposa; e io dubitando che tanto amore non l'accendesse della sua bellezza, che
egli se la facesse sposa, per fargliele dimenticare il mandai a Montoro, sotto
spezie di volerlo fare studiare. Ma egli già per questo non l'ha dimenticata,
ma, secondo che a me è stato porto, egli per l'amore di costei si consuma, e,
rimossa ogni cagione, ne vuole qua venire: onde io dubito che, tornando egli,
dare non me gliele convenga per isposa, e s'io non gliele do, che egli niuna
altra ne voglia prendere. E se egli avvenisse che io gliele donassi, o che egli
da me occultamente la si prendesse, primieramente a me e a' miei sanza fallo
gran vergogna ne seguirebbe, pensando al nostro onore, tanto abassato per
isposa discesa di sì vile nazione, come estimiamo che costei sia. Appresso, voi
nol vi dovreste riputare in onore, considerando che, dopo costui, signore vi
rimarrebbe nato di sì picciola condizione, come sarebbe nascendo di lei. E s'io
non gliele dono per isposa, egli niun'altra ne vorrà, e non prendendone alcuna
altra, sanza alcuna erede seguirà l'ultimo giorno: e così la nostra signoria
mancherà, e converravvi andar cercando signore strano. Adunque, acciò che
queste cose dette si cessino, è il migliore a fare che Biancifiore muoia, come
detto ho, imaginando che com'ella sarà morta, egli per forza se la caccerà di
cuore, dandogli noi subitamente novella sposa tale, quale noi crederemo che a
lui si confaccia. Ma però che del fare subitamente morire Biancifiore ci
potrebbe anzi vergogna che onore seguire, ho pensato che con sottile inganno
possiamo aver cagione che parrà giusta e convenevole alla sua morte: e odi
come. E' non passeranno molti giorni che la gran festa della mia natività si
farà, alla quale tutti i gran baroni del mio reame saranno a onorarmi: in quel
giorno ti conviene ordinare che tu abbi fatto apparecchiare uno paone bello e
grasso, e pieno di velenosi sughi, il quale fa che Biancifiore il mi presenti
da sua parte, quando io e' miei baroni staremo alla tavola. E acciò che alcuno
non prendesse di questa opera men che buona presunzione, veggendolo più tosto
recare a Biancifiore che ad alcuno altro scudiere o damigella, sì le dirai che
a me e a tutti coloro i quali alla mia tavola meco sederanno, col paone in mano
vada domandando le ragioni del paone, le quali se non da gentile pulcella possono
essere adimandate. E sì tosto come questo fatto avrai, e ella avrà lasciato
davanti a me il paone, io, faccendone prendere alcuna stremità, e gittarla in
terra, so che alcuno cane la ricoglierà, la quale mangiando subitamente morrà.
E quinci sembrerà a tutti quelli che nella sala saranno, che Biancifiore
m'aggia voluto avvelenare, e imagineranno che Biancifiore abbia voluto far
questo, perché io la dovea mandare a Montoro, e non la vi ho mandata. E io
mostrandomi allora di questo forte turbato, so che, secondo il giudizio di
qualunque vi sarà, ella sarà giudicata a morte: la qual cosa io comanderò che
sanza indugio sia messa ad essecuzione, e così saremo fuori del dubbio nel
quale io al presente dimoro».
Poi
che il re ebbe così detto, e egli si tacque aspettando la risposta del
siniscalco; la quale fu in questo tenore:
[30]
«Signor
mio, sanza dubbio conosco la gran fede, la quale in me continuamente avuta
avete, la quale sempre con quella debita lealtà che buon servidore dee a
naturale signore servare, ho guardata e guarderò mentre in vita dimorerò. E
l'avviso, il quale fatto avete, a niuno, in cui conoscimento fosse, potrebbe
altro che piacere: onde io il lodo, e dicovi che saviamente proveduto avete,
con ciò sia cosa che non solamente il giudicare le preterite cose e le presenti
con diritto stile è da riputare sapienza, tanto quanto è le future con
perspicace intendimento riguardare. E sanza dubbio, se molto durasse la vita di
Biancifiore, quello che narrato m'avete, n'avverrebbe; ma mandando inanzi
cautamente le predette cose, credo sì fare che il vostro intendimento verrà
fornito sanza che alcuno mai niente ne senta».
E
questo detto, sanza più parlare, partirono il maladetto consiglio.
[31]
Oimè,
misera Biancifiore, or dove se' tu ora? Perché non ti fu e' lecito d'udire
queste parole, come quelle della partenza del tuo Florio? Tu forse stai a
riguardar que' luoghi ove tu continuamente con l'animo corri e dimori,
disiderando d'esservi corporalmente. O tu forse con isperanza o d'andare a
Montoro a veder Florio, o che Florio ritorni a veder te, nutrichi l'amorose
fiamme che ti consumano, e non pensi alle gravi cose che la fortuna
t'apparecchia a sostenere? A te pare ora stare nella infima parte della sua
rota, né puoi credere che maggior dolore ti potesse assalire, che quello che tu
hai per l'assenza di Florio, ma tu dimori nel più alto luogo, a rispetto che tu
starai. Oimè, che tu, lontana allo iniquo consiglio, spandi amare lagrime per
amore, le quali più tosto per pietà di te medesima spandere dovresti, avvegna
che a coloro che semplicemente vivono, gl'iddii provengono a' bisogni loro, e
molte volte è da sperare meglio quando la fortuna si mostra molto turbata, che
quando ella falsamente ride ad alcuno.
[32]
La
reale sala era di marmoree colonne di diversi colori ornata, le quali
sosteneano l'alte lammie che la coprivano, fatte con non picciolo artificio e
gravi per molto oro, e le finestre divise da colonnelli di cristallo, i cui
capitelli e d'oro e d'argento erano, per le quali la luce entrava dentro ad
essa. Nelle notturne tenebre non si chiudeano con legno, ma l'ossa degl'indiani
elefanti, commesse maestrevolemente e con sottili intagli lavorate, v'erano per
porte; e in quella sala si vedeano ne' rilucenti marmi intagliate l'antiche
storie da ottimo maestro. Quivi si potea vedere la dispietata ruina di Tebe, e
la fiamma dei due figliuoli di locasta, e l'altre crudeli battaglie fatte per
la loro divisione, insiememente con l'una e con l'altra distruzione della
superba Troia. Né vi mancava alcuna delle gran vittorie del grande Alessandro.
E con queste ancora vi si mostrava Farsalia tutta sanguinosa del romano sangue,
e' prencipi crucciati, l'uno in fuga e l'altro spogliare il ricco campo degli
orientali tesori. E sopra tutte queste cose v'era intagliata la imagine di
Giove, vestita di più ricca roba che quella che Dionisio fero già gli spogliò,
intorniato d'alberi d'oro, le cui frondi non temevano l'autunno, e i loro pomi
erano pietre lucentissime e di gran valore. In questa sala, quando il giorno della
gran festa venne, furono messe le tavole, sopra le quali risplendeano copiosa
quantità di vasella d'oro e d'argento; né fu alcuno strumento che là entro quel
giorno non risonasse, accompagnato da dolcissimi e diversi canti. Né in tutta
Marmorina fu alcun tempio che visitato non fosse, né alcuno altare di qualunque
iddio vi fu sanza divoto fuoco e debito sacrificio, da' quali il re e gli altri
gran baroni tornando si raunarono nella detta sala, tutti lodando la bellezza
d'essa. E appressandosi l'ora del mangiare, presa l'acqua alle mani, andarono a
sedere. Il re s'assettò ad una tavola, la quale per altezza sopragiudicava
tutte l'altre, e con seco chiamò sei de' più nobili e maggiori baroni che seco
avesse, faccendone dalla sua destra sedere tre e altrettanti dalla sinistra,
stando di reali vestimenti in mezzo di loro vestito. E quelli che dalla sua
dritta mano gli sedea allato, fu un giovane chiamato Parmenione, disceso
dell'antico Borea, re di Trazia; appresso del quale seguiva Ascalion,
nobilissimo cavaliere e antico per età e per senno, degno d'ogni onore; e poi
sedea un altro giovane chiamato Messaallino, figliuolo del gran re di Granata,
piacevolissimo giovane e valoroso. Ma dalla sua sinistra Ferramonte duca di
Montoro più presso gli sedea, il quale avea Florio quel giorno lasciato soletto
per venire a tanta festa; appresso il quale uno chiamato Sara, ferocissimo
nell'aspetto, e signore de' monti di Barca, sedea con un giovane grazioso
molto, chiamato Menedon, di Giarba re de' Getuli disceso. Appresso, nelle più
basse tavole, ciascuno secondo il grado suo fu onorato, serviti tutti da
nobilissimi giovani e di gran pregio.
[33]
Massamutino,
al quale non era già il comandamento del re uscito di mente, fece occultamente
e con molta sollecitudine apparecchiare un bel paone, il quale egli di sugo
d'una velenosa erba tutto bagnò, pensando che quello giorno per tale operazione
si vedrebbe vendico di Biancifiore, che per amadore l'avea rifiutato. E fatto
questo, avendo già la reale mensa e l'altre di più vivande servite, né quasi
altro v'era rimaso a fare che mandare il paone, accompagnato con più scudieri
andò per Biancifiore, la quale la reina, acciò che ella non potesse niente di
male pensare, avea fatta quel giorno vestire nobilmente d'un vermiglio sciamito
e mettere i biondi capelli in dovuto ordine con bella treccia avolti al capo,
sopra li quali una piccola coronetta ricca di preziose pietre risplendea, e 'l
chiaro viso, già lungamente di lagrime bagnato, lavato quel giorno per volere
della reina, dava piacevole luce a chi il vedea, posto che questo Biancifiore
avea mal volentieri fatto, pensando che 'l suo Florio non v'era. Ma perché
bisognava alla reina tanto ingegno ad ingannare la semplice giovane? Ella non
avrebbe mai saputo pensare quello che ella non avrebbe saputo né ardito di fare
ad alcuno. Ma venuto il siniscalco davanti alla reina, e salutata lei e la sua
compagna, disse così:
«Madonna,
oggi si celebra, sì come voi sapete, la gran festa della natività del nostro
re, per la qual cosa volendo noi la nostra festa fare maggiore e più bella,
provedemmo di fare apparecchiare un paone, il quale noi vogliamo fare davanti
al re presentare e a' suoi baroni, acciò che ciascuno, faccendo quello che a
tale uccello si richiede, si vanti di far cosa per la quale la festa divenga
maggiore e più bella; né sì fatto uccello è convenevole d'esser portato alla
reale tavola se non da gentilissima e bella pulcella; né io non ne conosco
alcuna, né qua entro né in tutta la nostra città, che a Biancifiore si possa
appareggiare in alcuno atto. E però caramente vi priego che a sì fatto servigio
vi piaccia di concederle licenza, che con noi venga incontanente, però che
l'ora del portarlo è venuta, né si può più avanti indugiare».
La
reina, che ben sapeva come l'opera dovea andare, sì come quella che ordinata
l'avea, stette alquanto sanza rispondere; ma poi che la crudele volontà vinse
la pietà che di Biancifiore le venne, udendo ch'ella era richiesta ad andare a
quella cosa per la quale a morte doveva essere giudicata, e ella disse:
«Certo
questo ci piace molto»; e voltata verso Biancifiore, le disse: «Vavvi »,
ammaestrandola che saviamente i debiti del paone adimandasse a tutti i baroni
che alla reale tavola dimoravano, sanza andare ad alcuno altro, e poi davanti
al re posasse il paone, e ritornassesene, tenendo bene a mente quello in che
ciascuno si vantava. Biancifiore, disiderosa di piacere e di servire a tutti,
sanza aspettare più comandamenti se n'andò col siniscalco. Il quale, poi che
presso furono all'entrare della sala, le pose in mano un grande piattello
d'argento, sopra 'l quale l'avvelenato paone dimorava, dicendo:
«Portalo
avanti, però che più non è da stare».
Biancifiore,
preso quello sanza farsene fare alcuna credenza, non avedendosi dello inganno,
e con esso passò nella sala, nella quale, sì tosto com'ella entrò, parve che
nuova e maravigliosa luce vi crescesse per la chiarezza che dal suo bel viso
movea; e fatta la debita reverenza al re, e con dolce saluto tutti gli altri
che mangiavano salutati, s'appressò alla reale mensa, e con vergognoso atto,
dipinta nel viso di quel colore che il gran pianeto, partendosi l'aurora, il
cielo in diverse parti dipinge, così disse:
[34]
«Poi
che gl'iddii si mostrano verso me graziosi e benigni, avendomi conceduto che io
a questo onore, più tosto che alcuna altra giovane, eletta fossi a portare
davanti alla vostra real presenza il santo uccello di Giunone, il quale per
quella dea, al cui servigio già fu disposto, merita che qualunque alla sua
mensa il dimanda si doni alcun vanto, il quale poi ad onore di lei con
sollecitudine adempia: onde io per questo prendo ardire a dimandarlovi, e
caramente vi priego che voi né i vostri compagni a ciò rendere mi siate
ingrati, ma con benigni aspetti continuiate la valorosa usanza. E voi,
altissimo signore, sì come più degno per la real dignità, e per senno e per
età, prima, se vi piace, comincerete, acciò che gli altri per essemplo di voi
debitamente procedano».
E
qui si tacque.
[35]
Al
nuovo e mirabile splendore si voltarono tutti i dimoranti della gran sala, non
meno che alla chiara voce di Biancifiore, piena di soavissima melodia; e a lei
graziosamente rendero il suo saluto. E il re, il quale allegro era nell'animo
però che già vedea per la pensata via appressarsi il disiderato fine, con lieto
viso, poi che tutta la sala tacque, le disse:
«Certo,
Biancifiore, la tua bellezza adorna di virtuosi costumi, e la degnità del santo
uccello insieme, meritano degnamente ricchissimi vanti; né a questi alcuno di
noi può debitamente disdirsi: ond'io, sì come principale capo del nostro regno,
comincerò, poi che la ragione e 'l tuo piacere l'adimanda».
E
voltato verso l'antica imagine di Giove, nella sua sala riccamente effigiata,
disse così:
«E
io giuro per la deità del sommo Giove, la cui figura dimora davanti da noi, e
per qualunque altro iddio insieme con lui possiede i celestiali regni, e per lo
mio antico avolo Atalante, sostenitore d'essi regni, e per l'anima del mio
padre, che avanti che 'l sole ritocchi un'altra volta quel grado ove egli ora
dimorando ci porge lieta luce, se essi mi concedono vita, d'averti donato per
marito uno de' maggiori baroni del mio reame: e questo per amore del presente paone
ti sia da ora promesso».
Assai
coperse il re con queste parole il suo malvagio volere, ignorando quello che i
fati gli apparecchiavano; e ella sospirando tacitamente al suono di queste
parole, notò in se medesima i detti del re pigliandoli in buono agurio, fra sé
dicendo: "Dunque avrò io per marito Florio, il quale io solo per marito e
per amico disidero, però che nullo barone è maggiore di lui in questo
regno"; poi, ringraziato il re onestamente e con sommessa voce, con
picciolo passo procedette avanti, fermandosi nel cospetto di Parmenione, il
quale incontanente così disse:
«Io
prometto al paone che, se gl'iddii mi concedono che io vi vegga per
matrimoniale patto donare ad alcuno, quel giorno che voi al palagio del novello
sposo andrete, io con alquanti compagni, nobilissimi e valorosi giovani,
vestiti di nobilissimi drappi e di molto oro rilucenti, adestreremo il vostro
cavallo e voi sempre con debita reverenza e onore, infino a tanto che voi ricevuta
nella nuova casa scavalcherete».
«Adunque
- disse Biancifiore - più che Giunone mi potrò io di conducitori gloriare»; e
passò avanti ad Ascalion, che in ordine seguiva alla reale mensa, dicendo:
«O
caro maestro, e voi che vantate al paone?».
Rispose
Ascalion:
«Bella
giovine, posto che io sia pieno d'età e che la mia destra mano già tremante
possa male balire la spada, sì mi vanto io per amor di voi al paone, che quel
giorno che voi novella sposa sarete, la qual cosa gl'iddii anzi la mia morte mi
facciano vedere, io con qualunque cavaliere sarà nella vostra corte disideroso
di combattere meco, con le taglienti spade sanza paura combatterò, obligandomi
di sì saviamente combattere, che sanza offendere io lui o egli me, o voglia
egli o no, io gli trarrò la spada di mano e davanti a voi la presenterò».
Ciascuno
che questo udì si maravigliò molto, dicendo che veramente sarebbe da riputare
valoroso chi tal vanto adempiesse. Ma Biancifiore andando avanti venne in
presenza di Messaallino, il quale vedendola, quasi della sua bellezza preso,
disse:
«Giovane
graziosa, per amore di voi io vanto al paone che quel giorno che voi prima
sederete alla mensa del novello sposo, io vi presenterò dieci piantoni di
dattero coperti di frondi e di frutti, non d'una natura con gli altri, però che
quelli, de' quali la mia terra è copiosa, a ciascuna radice hanno appiccato un
bisante d'oro».
Inchinandogli,
Biancifiore il ringraziò; e volto i passi suoi verso il duca Ferramonte, che
alla sinistra del re sedea, e davanti a lui posato il paone, gli richiese
quello che avanti agli altri avea richiesto. A cui il duca rispondendo, disse:
«E
io imprometto al paone che per la piacevolezza vostra, il giorno che novella
sposa sarete, e appresso tanto quanto la vostra festa durerà, di mia mano della
coppa vi servirò quanto vi piaccia».
«Certo
- disse Biancifiore - di tal servidore Giove non che io, si glorierebbe»; e
passò avanti a Sara, il quale come davanti se la vide, disse:
«Io
voto al paone che quel giorno che gl'iddii vi concederanno onore di
matrimoniale compagno, io vi donerò una corona ricchissima di molte preziose
pietre e di risplendente oro bellissima, e ove che io sia, se io saprò davanti
la vostra festa, verrò a presentarlavi con le mie mani».
Il
quale tacendo, subitamente Menedon soggiunse:
«E
io prometto al paone che se gl'iddii mi concedono che io maritata vi veggia,
tanto quanto la festa delle vostre nozze durerà, io con molti compagni, vestiti
ciascuno giorno di novelli vestimenti di seta, sopra i correnti cavalli, con
aste in mano e con bandiere bigordando e armeggiando, a mio potere essalterò la
vostra festa».
Ringraziollo
Biancifiore, e tornata indietro, davanti al re posò il paone, e così disse:
«Principalmente
voi, o caro signore e singulare mio benefattore, e appresso questi altri baroni
tutti, quanto io posso, degl'impromessi doni vi ringrazio, e priego
gl'immortali iddii che, là dove la mia possa al debito guiderdone mancasse, che
essi con la loro benigna mente di ciò vi meritino».
E
questo detto, onestamente fatta la debita reverenza, si partì, e con lieto viso
tornò alla reina, narrandole gl'impromessi doni. A cui la reina disse:
«Ben
ti puoi omai gloriare, pensando che uno sì fatto prencipe qual è il nostro re,
e sei cotali baroni quali sono coloro che con lui sedeano, si sono tutti in tuo
onore e piacere obligati».
[36]
Rimase
sopra la real mensa il velenoso uccello, il quale il re, come Biancifiore fu
partita, comandò che tagliato fosse; per la qual cosa un nobilissimo giovane
chiamato Salpadin, al re per consanguinità congiuntissimo, il quale quel giorno
davanti li serviva del coltello, prese con presta mano il paone, e, gittata in
terra alcuna estremità, incominciò a volere smembrare il paone; ma non prima
caddero le gittate membra, che un cane piccioletto, al re molto caro, le prese,
e, mangiandole, incontanente gl'incominciò a surgere una tumorosità del ventre,
e venirgli alla testa, la quale tanto gliele ingrossò subitamente, che quasi
era più la testa fatta grande che essere non solea tutto il corpo; e
similemente discorsa per gli altri membri, oltre a' loro termini grossi e
enfiati gli fece divenire; e i suoi occhi, infiammati di laida rossezza, parea
che della testa schizzare gli dovessero, e con doloroso mormorio, mutandosi di
più colori, disteso tal volta in terra e talora in cerchio volgendosi, in
piccolo spazio scoppiando quivi morì. La qual cosa da molti veduta, la gran
sala fu tutta a romore, e i soavissimi strumenti tacquero, mostrando questo al
re, il quale incontanente gridò:
«E
che può ciò essere?».
E
voltato a Salpadin, il quale già volea fare la credenza, disse:
«Non
tagliare; io dubito che noi siamo villanamente traditi: prendasi un altro
membro del presente paone e gittisi ad un altro cane, però che questo qui
presente morto per veleno mostra che morisse, onde che egli il prendesse, o
delle stremità da te gittate in terra, o d'altra parte».
Salpadin
sanza alcuno dimoro gittò la seconda volta un maggiore membro ad un altro cane,
il quale non prima mangiato l'ebbe, che, con simile modo voltandosi che 'l
primo, del mortale dolore affannato, cadde e quivi in presenza di tutti morì.
Onde il re con furioso atto gridando:
«Chi
ha la nostra vita con veleno voluta abreviare?», e gittata in terra la tavola
che davanti a lui era, si dirizzò, e comandò che subitamente Biancifiore e 'l
siniscalco e Salpadin fossero presi, però che di loro dubitava che alcuno
d'essi tre avvelenare l'avesse voluto co' suoi compagni. O sommo Giove, or non
potevi tu sostenere che quel cibo avesse ingannato lo 'ngannatore, avanti che
la innocente giovane tanta persecuzione ingiustamente sostenesse? Or tu
sofferesti che i tuoi compagni fossero co' membri umani tentati alla tavola di
Tantalo, quando a Pelopo, perduto l'omero, fu rifatto con uno d'avorio; e
similemente sostenesti che il misero Tireo fosse sepoltura dell'unico suo
figliuolo! Erati così grave per giusta vendetta abbagliare lo iniquo senso del
re Felice? Ma tu forse per fare con gli avversi casi conoscere le prosperità,
pruovi le forze degli umani animi, poi con maggior merito guiderdonandoli.
[37]
Furono
presi i tre sanza niuno dimoro con noiosa furia, e messi in diverse prigioni.
Ma poi che Biancifiore fu subitamente presa, niuno fu che mai parlare le
potesse, né ella ad altrui. Del siniscalco e di Salpadin furono le scuse
diligentemente intese, e per innocenti in brieve lasciati, mostrando il
siniscalco davanti a tutta gente con false menzogne Biancifiore e non altri
avere tal fallo commesso. Di questo ciascuno si maravigliò, non potendo alcuno
pensare né credere che Biancifiore avesse tal malvagità pensata; ma pure il
manifesto presentare del paone facea a molti non potere disdire quello che e'
medesimi non avrebbero voluto credere. Ma poi che il gran romore fu alquanto
racchetato, e il siniscalco e Salpadin per le loro scuse sprigionati, il re
fece chiamare a consiglio molta gente, e principalmente coloro che con lui
erano quella mattina stati alla tavola, e adunato con molti in una camera,
disse così:
«Sanza
dubbio credo che a voi sia manifesto che io oggi sono stato in vostra presenza
voluto avvelenare; e chi questo abbia voluto fare, ancora è apertissimo per
molte ragioni che Biancifiore è stata; la qual cosa molto mi pare iniqua a sostenere
che sanza debita punizione si trapassi, pensando al grande onore che io nella
mia corte l'ho fatto, sì come di recarla da serva a libertate, farla
ammaestrare in iscienza e continuamente vestirla di vestimenti reali col mio
figliuolo, datala in compagnia alla mia sposa, credendo di lei non nimica ma
cara figliuola avere. E sì come avete potuto questa mattina udire, non si
finiva questo anno che io intendea di maritarla altamente, però che vedea già
la sua età richiedere ciò. E di tutto questo m'è avvenuto come avviene a chi
riscalda la serpe nel suo seno, quando i freddi aquiloni soffiano, che egli è
il primo morso da lei. Vedete che similmente ella in guiderdone del ricevuto
onore m'ha voluto uccidere: e sì avrebbe ella fatto, se 'l vostro avedimento non
fosse stato. Laonde io intendo, come detto v'ho, di volerla di ciò gravemente
punire, acciò che mai alcuna altra a sì fatto inganno fare non si metta. Ma
però che di ciò dubito non mi seguisse più vergogna che onore, se subitamente
il facessi, però che parrà a molti impossibile a credere questo per la sua
falsa piacevolezza, la quale ha molto presi gli animi, n'ho voluto e voglio
primieramente il vostro consiglio, e ciò tutti fidelmente porgere mi dovete,
disiderando il mio onore e la mia vita, sì come membri e vero corpo di me,
vostro capo.
[38]
Lungamente
si tacque ciascuno, poi che il re ebbe parlato; e bene avrebbero volentieri
risposto il duca e Ascalion, però che a loro parea manifestamente conoscere chi
questo veleno avea mandato e ordinato; ma però che la volontà del re conobbero,
ciascuno si tacque, dubitando di non dispiacergli. E similmente fecero tutti
quelli che presente lui erano, fuori che Massamuti no, il quale dopo lungo
spazio, dimorando tutti gli altri taciti, si levò e disse:
«Caro
signore, io so che 'l mio consiglio sarà forse tenuto da questi gentili uomini
qui presenti sospetto per la presura che di me subita fare faceste sanza colpa,
e so che diranno che ciò che io consiglierò, io il faccia a fine di scaricare
me e di levare voi di sospezione; ma io non guarderò già a quello che alcuno
possa dire o dica, che io non vi dia quello consiglio in ciò che dimandato
avete, che a legittimo e vero signore donar si dee, in tutto ciò che per me
conosciuto sarà, sempre riservandomi allo ammendamento di voi, dov'io fallissi.
E così m'aiutino gl'immortali iddii, com'io se non quello che diritta coscienza
mi giudicherà non dirò; e dico così: "Il fallo, il quale Biancifiore ha
fatto, è tanto manifesto, che in alcuno atto ricoprire non si puote, né
simigliantemente si può occultare il grande onore da voi fatto a lei: per lo
quale avendo ella voluto sì fatto fallo fare, merita maggiore pena. E certo, se
quello che in effetto s'ingegnò di mettere, avesse solamente pensato, merita di
morire". Onde per mio consiglio dico e giudico che misurando giustamente
la pena col fallo, che ella muoia: e sì come ella volle che la vostra vita per
la focosa forza del veleno si consumasse, così la sua con ardente fuoco
consumata sia. E certo tale giudicio pare a me medesimo crudele; e non
volentieri il dono per consiglio che si dea, però che per la sua piacevole
bellezza assai l'amava; ma nella giustizia, né amore, né pietà, né parentado,
né amistà dee alcuno piegare dalla diritta via della verità. Non per tanto, voi
siete savio, e appresso di molti più savii uomini che io non sono avete, e sì
come signore potete ogni mio detto indietro rivocare e mettere ad essecuzione.
Però là ove nel mio consiglio, il quale giusto al mio albitrio v'ho donato, si
contenesse fallo, saviamente l'ammendate».
E
più non disse.
[39]
Non
fu alcuno degli altri nobili uomini, che nel consiglio del re sedeano, che si
levasse a parlare contro a Biancifiore, ma tacendo tutti, di questa opera
stupefatti, dierono segno di consentire al detto del siniscalco, posto che a
molti sanza comparazione dispiacesse, sentendo che Biancifiore era in prigione,
per maniera che sua ragione scusandosi non potea usare: e volentieri per
difender lei avrebbero parlato, ma quasi ciascuno s'era aveduto che al re
piaceano queste cose e che con sua volontà eran fatte, onde per non spiacerli
ciascuno taceva. Perché vedendo questo il re, che oltre al detto del siniscalco
niuno dicea, né a quello era alcuno che apponesse, disse:
«Adunque,
signori, per mio avviso pare che consigliate che Biancifiore di fuoco deggia
morire, e certo in tal parere n'era io medesimo; e però vengano immantanente i
giudici, i quali di presente la giudichino, che sanza giudiciale sentenza io
non intendo di farla di fatto morire, acciò che alcuno non potesse dire che io
i termini della ragione in ciò trapassassi, né similemente voglio a fare la
giustizia dare troppo indugio, però che le troppo indugiate giustizie molte
volte sono da pietà impedite, né hanno poi loro compimento».
Furono
di presente i giudici al cospetto del re, il quale loro comandò che sanza
dimoro la crudele sentenza dessero contro a Biancifiore. Al quale i giudici
risposero:
«Signore,
le leggi ne vietano di dover dare in dì solenne mortale sentenza contro ad
alcuna persona, e oggi è giorno di tanta solennità, quanta voi sapete; ma noi
scriveremo il processo ordinatamente, e al nuovo giorno la daremo sanza fallo,
e la faremo mettere in essecuzione».
A'
quali il re disse:
«Poi
che oggi le leggi il ne vietano, domattina per tempo sanza dimoro si faccia».
E
questo detto, si partì dallo iniquo consiglio. Ma il duca e Ascalion sanza
prendere alcun congedo si partirono, non volendo udire la iniqua sentenza; e
avanti che 'l sole le sue luci messe avesse sotto l'onde occidentali, giunsero
a Montoro, ove smontarono, faccendo a Florio gran festa, il quale solo e con
molti pensieri trovarono.
[40]
Era
Biancifiore con la reina ancora recitando i vanti de' gran baroni, quando i
furiosi sergenti vennero impetuosamente sanza niuno ordine a prenderla, e lei
piangendo, sanza dire per che presa l'avessero, la ne portarono. O misera
fortuna, subita rivolgitrice de' mondani onori e beni, poco davanti niuno
barone era nella real corte, che a Biancifiore avesse avuto ardire di porre la
mano adosso, o di farne sembiante, ma ciascuno s'ingegnava di piacerle, e ora a
vilissimi ribaldi sì disprezzare consentisti la sua grandezza, che, sanza
narrare il perché, presala oltraggiosamente, la menaron via. Certo con poco
senno si regge chi in te ferma alcuna speranza. Di questo mostrò la reina
grandissimo dolore, e molto ne pianse, ricoprendo con quelle lagrime il suo tradimento
davanti ordinato. E veramente e' ne le pur dolfe, posto che assai tosto di tal
doglia prendesse consolazione, imaginando che per la morte di lei, già messa in
ordine da non poter fallire al suo parere, l'ardente amore si partirebbe del
petto di Florio. Ma i fati non serbavano a sì leale amore, quale era quello
intra' due amanti, sì corta fine né sì turpissima, come costoro loro voleano
sanza cagione apparecchiare.
[41]
Quel
giorno nel quale la gran festa si facea in Marmorina, era Florio rimaso tutto
soletto di quella compagnia che più gli piacea, ciò era del duca e di Ascalion,
a Montoro; e molto pensoso e carico di malinconia, ricordandosi che in così
fatto giorno egli con la sua Biancifiore, vestiti d'una medesima roba, soleano
servire alla reale tavola, e avere insieme molta festa e allegrezza di canti e
d'altri sollazzi. Ond'egli sospirando, così cominciò a dire:
«O
anima mia, dolce Biancifiore, che fai tu ora? Deh, ora ricordati tu di me, sì
come io fo di te? Io dubito molto che altro piacere non ti pigli per la mia
assenza. Oimè, perché non è egli licito solamente di poterti vedere a me, il
quale mi ricordo che in sì fatto giorno più volte t'ho già abbracciata,
porgendoti puerili e onesti baci? Ove sono ora fuggiti i verdi prati, ne' quali
Priapo più volte ci coronò di diversi fiori, cogliendoli noi con le nostre
mani? E ove sono le ricche camere, le quali de' nostri dimoramenti si
rallegravano? Deh, perché non sono io con teco, così come io soleva,
continuamente, o almeno di tanti quanti giorni l'anno volge uno solo? O perché
non mi se' tu mandata come tu mi fosti promessa? Io credo che 'l mio padre
m'inganna, come tu mi dicesti. E tu ora credo che dimori nella gran sala, e dai
col tuo bel viso nuova luce a molti, di tal grazia indegni, e a me misero, che
più che altra cosa ti disidero, m'è tolto il vederti. Maladetta sia quella
deità che sì m'ha fatto vile, che io per paura di mio padre dubito di venirti a
vedere, e ora ch'io possa o vederti o esser veduto. Oimè, quanto m'offende
quella piccola quantità di via che ci divide! Deh, maladetto sia quel giorno
ch'io da te mi partii, che mai alcuno diletto non sentii, posto che tu alcuna
volta dormendo io, essendomi tu con benigno aspetto apparita, m'hai alquanto
consolato: la qual consolazione in gravoso tormento s'è voltata, sì tosto
com'io mi sveglio dallo ingannevole sonno, pensando che veder non ti possa con
gli occhi della fronte. O sola sollecitudine della mia mente, gl'iddii mi
concedano che io alcuna volta anzi la mia morte veder ti possa; la qual cosa
converrà che sia, se io dovessi muovere aspre battaglie contro al vecchio
padre, o furtivamente rapirti delle sue case. E a questo, se egli non mi ti
manda o non mi fa dove tu sia tornare, non porrà lungo indugio, però che più
sostenere non posso l'esserti lontano».
E
mentre che Florio queste parole e molte altre sospirando dicea, continuamente
al caro anello porgea amorosi baci, sempre riguardandolo per amor di quella che
donato glielo avea. E in tal maniera dimorando pensoso, soave sonno gli gravò
la testa, e, chiusi gli occhi, s'addormentò; e dormendo, nuova e mirabile
visione gli apparve.
[42]
A
Florio parve subitamente vedere l'aere piena di turbamento, e i popoli d'Eolo,
usciti del cavato sasso, sanza niuno ordine furiosi recare da ogni parte
nuvoli, e commuovere con sottili entramenti le lievi arene sopra la faccia
della terra, mandandole più alte che la loro ragione, e fare sconci e
spaventevoli soffiamenti, ingegnandosi ciascuno di possedere il luogo
dell'altro e cacciar quello; e appresso mirabili corruscazioni e diversi suoni
per isquarciate nuvole, le quali parea che accendere volessero la tenebrosa
terra; e le stelle gli parea che avessero mutata legge e luoghi, e pareali che
'l freddo Arturo si volesse tuffare nelle salate onde, e la corona della
abandonata Adriana fosse del suo luogo fuggita, e lo spaventevole Orione avesse
gittata la sua spada nelle parti di ponente; e dopo questo gli parve vedere i
regni di Giove pieni di sconforto, e gl'iddii piangendo visitare le sedie l'uno
dell'altro; e pareali che gli oscuri fiumi di Stige si fossero posti nella
figura del sole, però che più non porgea luce; e la luna impalidita avea
perduti i suoi raggi, e similmente tutti gli altari di Marmorina gli pareano
ripieni d'innocente sangue umano, e tutti i cittadini piangere con altissimi
guai sopr'essi. I paurosi animali e feroci insiememente per paura gli parevano
fuggir nelle caverne della terra, e gli uccelli ad ora ad ora cader morti, né
parea che albero ne potesse uno sostenere. E poi che queste cose a Florio, che
di paura piangea, si mostrarono, gli parea veder davanti a sé la santa dea
Venus, in abito sanza comparazione dolente e vestita di neri e vilissimi
vestimenti, tutta stracciata piangendo, alla quale Florio disse:
«O
santa dea, qual è la cagione della tua tristizia, la quale movendomi a pietà mi
costringe a piagnere, come tu fai? E dimmi, perché è il subito mutamento de'
cieli e della terra avvenuto? Intende Giove di fare l'universo tornare in caos
come già fu? Nol mi celare, io te ne priego, per la virtù del potente arco del
tuo figliuolo».
«Oimè
misera - rispose Venus, - or etti occulta la cagione del pianto degli uomini,
dell'aere e degl'iddii? Levati su, che io la ti mostrerò»; e preso Florio,
involtolo seco in una oscura nuvola, sopra Marmorina il portò, e quivi gli fece
vedere l'avvelenato paone posto in mano a Biancifiore dal siniscalco, e 'l
pensato inganno, e la subita presura, e 'l crudele rinchiudimento, e la
malvagia sentenza della morte ordinata di dare contro a Biancifiore: le quali
cose mostrategli, riposatolo piangendo di vere lagrime nella sua camera, gli
disse:
«Ora
t'è manifesta la cagione del nostro pianto».
«Oimè!
- rispose Florio, - quando io ti vidi, santa madre del mio signore, sanza la
risplendente luce degli occhi tuoi e sanza gli adorni vestimenti, privata della
bella corona delle amate frondi da Febo, incontanente mi corse all'animo la
cagione la quale tu hai ora fatta visibile agli occhi miei: ond'io ti priego
che mi dichi qual morte più crudele io posso eleggere, poi che Biancifiore
muore. Insegnalami, ché io non voglio vivere appresso la sua morte. Io sono
disposto a volere seguire la sua anima graziosa ovunque ella andrà, e essere
così congiunto a lei nella seconda vita come nella prima sono stato: o tu mi
mostra qual via c'è alla dimensione della sua vita, se alcuna ce n'è, però che
nullo sì alto né sì grande pericolo fia, al quale io non mi sottometta per
amore di lei, e che tutto non mi paia leggerissimo».
A
cui Citerea così rispose:
«Florio,
non credere che il pianto mio e degli altri dei sia perché noi crediamo che
Biancifiore deggia morire, ché noi abbiamo già la sua morte cacciata con
deliberato consiglio, e proveduto al suo scampo, come appresso udirai; ma noi
piangiamo però che la natura, vedendosi sopra sì bella creatura, come è
Biancifiore, offendere dalla crudeltà del tuo padre, quando a morte ordinò che
sentenziata fosse, ci si mostrò, sagliendo a' nostri scanni, sì mesta e
dolorosa, che a lagrimare ci mosse tutti, e fececi intenti alla sua diliberazione.
E similmente l'aria e la terra e le stelle a mostrar dolore con diversi atti
costrinse. E però che tu per lei verrai a maggiori fatti, che tu medesimo non
estimi, dopo molte avversità, vogliamo che in questa maniera al suo scampo
t'esserciti. Tu, sì tosto come il sole avrà i raggi suoi compiendo l'usato
cammino nascosi, occultamente di queste case ti partirai, e andranne a quelle
di Ascalion, a te fidelissimo amico e maestro, e fidandoti sicuramente a lui,
di tutto il tuo intendimento ti farai armare di fortissime armi e buone, e
fara'ti prestare un corrente cavallo e forte; e quando questo fatto avrai,
sanza alcuna compagnia fuori che della sua, se egli la ti profferrà,
celatamente prendi il cammino verso la Braa, però che in quel luogo sarà la tua
Biancifiore menata da coloro che d'ucciderla intendono. La sorella di colui che
mena i poderosi cavalli portanti l'etterna luce, la quale, ancora pochi dì
sono, vi si mostrò sanza alcuno corno tutta nella figura del celestiale
Ganimede, m'ha promesso di porgerti sicuro cammino con la sua fredda luce;
quivi con questa spada la quale io ti dono, fatta per le mani del mio marito
Vulcano, quando bisognò alla battaglia degl'ingrati figliuoli della terra, a me
prestata da Marte, mio carissimo amante, aspetterai chetamente insino a tanto
che la tua Biancifiore vedrai menare per esserle data l'ultima ora. E allora,
sanza alcuno indugio, cacciata da te ogni paura, con ardito cuore ti trai
avanti sanza farti a nullo conoscere, e contradì a tutto il presente popolo che
Biancifiore ragionevolemente non è stata condannata a morte, né dee morire, e
che ciò tu se' acconcio a provare contro a qualunque cavaliere o altra persona
di questo volesse dire altro; e non dubitare d'assalire tutto il piano pieno
del marmorino popolazzo, se bisogno ti pare che ti faccia, però che contro a
questa spada che io ti dono, niuna arme potrà durare, e il mio Marte m'ha
giurato e promesso per li fiumi di Stige di mai non abandonarti. Né v'è alcuno
iddio che al tuo aiuto non sia prontissimo e volonteroso, e io mai non ti
abandonerò: però sicuramente ti metti al suo scampo, ché la fortuna
graziosamente t'apparecchia onorevole vittoria. La quale quando avrai avuta, e
levata Biancifiore dal mortal pericolo, prendera'la per mano e rendera'la al
tuo padre, raccomandandogliele tutt'ora sanza farti conoscere; e ritornando a
Montoro, fa che sopra gli altari di Marte e sopra i miei accenda luminosi
fuochi con graziosi sacrificii; e quivi mi vedrai essere venuta del mio antico
monte, della mia natività glorioso, con gli usati vestimenti significanti
letizia, circundata di mortine e coronata delle liete frondi di Pennea, e stare
sopra li miei altari a te manifestamente visibile; e coronerotti della
acquistata vittoria; e di queste cose dette, fa che in alcuna non falli per
alcuno accidente; né per parole che Ascalion ti dicesse, da questa impresa ti
rimanghi».
E
dette queste parole, lasciata nella destra mano di Florio la sopradetta spada,
si partì subitamente tornando al cielo.
[43]
Tanto
fu a Florio più il dolore delle vedute cose che l'allegrezza della futura
vittoria a lui promessa da Venere, che piangendo elli forte, e veggendo partire
la santa dea, rompendosi il debile sonno, si destò, e subitamente si dirizzò in
piè, trovandosi il petto e 'l viso tutto d'amare lagrime bagnato, e nella
destra mano la celestiale spada: di che quasi tutto stupefatto, conobbe essere
vero ciò che veduto avea nella preterita visione. E tornandogli a mente la sua
Biancifiore, e della cagione per che da lei avea ricevuto il bello anello, e
della virtù d'esso, piangendo il riguardò dicendo:
«Questo
fia infallibile testimonio alla verità»; e riguardandolo, il vide turbatissimo
e sanza alcuna chiarezza. Allora cominciò Florio il più doloroso pianto che mai
veduto o udito fosse, mescolato con molte angosciose voci, dicendo:
«O
dolce speranza mia, per la quale io infino a qui in doglia e in tormenti mi
sono contentato di vivere, sperando di rivederti in quella allegrezza e festa
che io già molte volte ti vidi, quale avversità ti si volge al presente sopra?
Or non bastava alla invidiosa fortuna d'averci dati tanti affannosi sospiri
allontanandoci, se ella ancora con mortal sentenza non ci vuole dividere, e
porgerci maggiore angoscia? Oimè, or chi è colui che cerca falsamente di
volerti levare la vita, e a me insiememente? Chi è quegli che ingiustamente ti
fa nocente il mio vecchio padre? Oimè, or crede egli far morire te sanza me?
Vano pensiero lo 'nganna. Oimè, è questa la festa ch'io soglio in tal giorno
avere con teco? Ahi, dolorosa la vita mia, da quante tribulazioni è circundata!
Certo, cara giovane, niuno a mio potere ti torrà la vita: o questa spada la
racquisterà a te e a me come promesso m'è stato, tenendola io nella mia mano
combattendo, o ella si bagnerà nel mio cuore cacciandovela io, o io diverrò
cenere con teco in uno medesimo fuoco, come Campaneo con la sua amante donna
divenne a piè di Tebe».
E
dicendo Florio queste parole piangendo, il duca, che dalla dolente festa
tornava, venne; il quale come Florio sentì, celando il nuovo dolore, nel viso
allegrezza mostrando, e andatogli incontro lietamente nelle sue braccia il
ricevette, faccendosi festa insieme, però che di perfetto amore s'amavano; e
come essi insieme furono nella sala montati, Florio domandò il duca della
festa, se era stata bella e se egli avea veduta Biancifiore. Il duca rispose
che la festa era stata bella e grande, e che niuna cosa v'era fallita, fuori
solamente la sua presenza; e tutto per ordine gli narrò ciò che fatto vi s'era,
e de' vanti che dati s'aveano al paone che Biancifiore avea portato. Ma ben si
guardò di non dire l'ultima cosa che avvenuta v'era, cìoè dell'avvelenato
paone, per lo quale Biancifiore dovea morire, per tema che Florio non se ne
desse troppa malinconia; e di ciò s'avvide ben Florio, che 'l duca si guardava
di dirgli quello che egli non avrebbe voluto che avvenuto fosse: però, sanza
più adimandare, disse che ben gli piaceva che la festa era stata bella e
grande, e che volentieri vi sarebbe stato se agl'iddii fosse piaciuto.
[44]
Già
aveva Febo nascosi i suoi raggi nelle marine onde, quando, preso il cibo, il
duca insiememente con Florio cercarono i notturni riposi. Ma Florio porta
nell'animo maggiore sollecitudine che di dormire, e sanza adormentarsi aspetta
che gli altri s'addormentino della casa; i quali non così tosto come Florio
avrebbe voluto s'andarono a letto, ma ridendo e gabbando e con diversi
ragionamenti gran parte della notte passarono, la quale Florio tutta divise per
ore, con angosciosa cura dubitando non s'appressasse l'ora che andare di
necessità gli convenisse, e fosse veduto. Ma poi che ciascuno pose silenzio e
la casa fu d'ogni parte ripiena d'oscurità, Florio con cheto passo, aperte le
porti del gran palagio con sottile ingegno, sanza farsi sentire passò di fuori,
e tutto soletto pervenne all'ostiere di Ascalion, ove più voci chiamò acciò che
aperto gli fosse. E 'l primo che alla sua voce svegliato si levò fu Ascalion,
il quale sanza niuno indugio corse ad aprirgli, maravigliandosi forte della sua
venuta, e del modo e dell'ora non meno. E poi che essi furono dentro alla
fidata camera sanza altra compagnia, Ascalion disse:
«Dimmi,
quale è stata la cagione della tua venuta a sì fatta ora, e perché se' venuto
solo?».
E
mentre che queste parole dicea, dubitava molto non il duca gli avesse detto lo
'nfortunio di Biancifiore. Ma Florio rispose:
«La
cagione della mia venuta è questa. A me fa mestiere d'essere tutto armato e
d'avere un buon cavallo. Onde io non sappiendo ove di tale bisogna fossi più fedelmente
né meglio servito che qui, qui a venire mi dirizzai più tosto che in altra
parte: priegovi che vi piaccia di questo tacitamente servirmi incontanente».
E
mentre che diceva queste cose, con gran fatica riteneva le lagrime, le quali
dal premuto cuore, ricordandosi perché queste cose volea, si moveano. Disse
Ascalion:
«Niuna
cosa ho né potrei fare che al tuo piacere non sia; ma qual è la cagione di sì
subita volontà d'armarti? Perché non aspetti tu il nuovo giorno? Armandosi
l'uomo a questa ora, non veggendo alcuna necessità espressa, parrebbe un volere
matto e subito, sì come sogliono essere quelli degli uomini poco savi e che
hanno il natural senno perduto; ma se tu mi di' perché a questo se' mosso, la
cagione potrebbe essere tale che io loderei che la tua impresa si mettesse
avanti. Già sai tu bene che di me tu ti puoi interamente fidare, con ciò sia
cosa che io lungamente in diverse cose ti sia stato maestro fedelissimo, e
amatoti come se caro figliuolo mi fossi stato: dunque non ti guardar da me».
Florio
rispose:
«Caro
maestro, veramente se alcuna virtù è in me, dagl'iddii e da voi la riconosco; e
sanza dubbio, se io non avessi avuto in voi somma fede, niuno accidente per tal
cosa mi ci avrebbe potuto tirare; ma poi che vi piace di sapere il perché a
questa ora per l'armi io sia venuto, io il vi dico. A voi non è stato occulto
l'ardente amore che io ho a Biancifiore portato e porto, della quale, oggi,
dormendo io, mi furon mostrate dalla santa Venus di lei dolorose cose: però che
io stando con lei sopra a Marmorina in una oscura nuvola, vidi chiamare la mia
semplice giovane, e porle uno avvelenato paone in mano, e vidiglielo portare
per comandamento altrui alla reale mensa ove voi sedevate; e dopo questo vidi e
udii il gran romore che si fece, aveggendosi la gente dello avvelenato paone, e
lei vidi furiosamente mettere in uno cieco carcere; e ancora dopo lungo
consiglio vidi scrivere il processo della iniqua sentenza, che dare si dee
domattina contra di lei. E queste cose tutte vedeste voi, né me ne dicevate
niente. Ma io ne ringrazio gl'iddii che mostrate le m'hanno, e datomi vero
aiuto e buono argumento a resistere alla crudel sentenza e ad annullarla, sì
com'io credo fare con questa spada in mano, la quale Venere mi donò per la
difensione di Biancifiore. E se il potere mi fallisse, intendo di volere anzi con
esso lei in un medesimo fuoco morire, che dopo la sua morte dolorosamente
vivendo stentare».
«Oimè,
dolce figliuolo - disse Ascalion, - che è quello che tu vuoi fare? Per cui vuoi
tu mettere la tua vita in avventura? Deh, pensa che la tua giovane età ancora è
impossibile a queste cose, e massimamente a sostenere l'affanno delle gravanti
armi. Deh, riguarda la tua vita in servigio di noi, che per signore
t'aspettiamo, e lascia dare i popolareschi uomini a' fati. Tu vuoi combattere
per Biancifiore, la quale è femina di piccola condizione, figliuola d'una
romana giovane, alla quale essendo stato ucciso il suo marito, per serva fu
donata alla tua madre. Ma tu forse guardi al grande onore che tuo padre l'ha
fatto per adietro, e quinci credi forse ch'ella sia nobilissima giovane: tu se'
ingannato, però che questo non le fu fatto se non perché ella fu tua compagna
nel nascimento. Non è convenevole a te amare femina di sì piccola condizione; e
però lasciala andare e compiere i doveri della giustizia, e poi che ella ha
fatta l'offesa, lasciala punire. Non ti recare nella mente sì fatte cose, né
dare speranza a' sogni, i quali per poco o per soperchio mangiare, o per
imaginazione avuta davanti d'una cosa, sogliono le più volte avvenire, né mai
però se ne vide uno vero; e se pur fai quello che proposto hai, nullo fia che
non te ne tenga poco savio, e al tuo padre darai materia di crucciarsi e
d'infiammarsi più verso di lei: onde lascia stare questa impresa, io te ne
priego».
Allora
Florio, con turbato viso riguardandolo nella faccia, disse:
«Ahi,
villano cavaliere, e sconoscente e malvagio, qual cagione licita e ancora
verisimile vi muove a biasimare Biancifiore e chiamarla figliuola di serva? Non
v'ho io più volte udito raccontare che 'l padre di Biancifiore fu nobilissimo
uomo di Roma, e d'altissimo sangue disceso? Certo si ho. E quando questo non
fosse mai vero, natura mai non formò sì nobile creatura com'ella è, però che
non le ricchezze o il nascere de' possenti e valorosi uomini fanno l'uomo e la
femina gentile, ma l'animo virtuoso con le operazioni buone. Essa per la sua
virtù si confarebbe a molto maggior prencipe che io non sarò mai; e posto che
di quello che io intendo di fare, la vil gente ne parli men che bene, i
valorosi me ne loderanno, avvegna che io sì segretamente lo 'ntendo di fare,
che alcuno nol saprà già mai. E se si pur sapesse e parlassesene, il robusto
cerro cura poco i sottili zeffiri, e il giovane poppio non può resistere a'
veloci aquiloni. Faccia l'uomo suo dovere, parli chi vuole. E sanza dubbio del
cruccio del mio padre io mi curo poco, ch'è uomo di sì vile animo come io il
sento, che s'è posto a volere con falsità vendicare le sue ire sopra una
giovane donzella e innocente, sua benivolenza, o amistà si dee poco curare, e
in gran grazia mi terrei dagl'iddii che egli mi uscisse davanti a contradire la
salute di Biancifiore, acciò che io con quel braccio, col quale ancora, se
fosse quell'uomo quale esser dovrebbe, il dovrei aver sostenuto, gli levi la
vita mandandolo ai fiumi d'Acheronta, ove la sua crudeltà avrebbe luogo:
vecchio iniquissimo ch'egli è, che nell'ultima parte de' suoi giorni, alla
quale quando gli altri, che sono stati in giovinezza malvagi pervengono, si
sogliono col bene operare riconciliare agl'iddii, incomincia a divenire crudele
e a fare opere ingiuste. E di ciò che o piacere o dispiacere ch'io gliene
faccia, mai della mia mente non si partirà Biancifiore, né altra donna avrò già
mai; né mi parrà grave il peso dell'armi in servigio di lei. E certo Achille
non avea molto più tempo ch'io abbia ora, quando egli abandonando i veli
insieme con Deidamia, venne armato a sostenere i gravi colpi d'Ettore
fortissimo combattitore; né Niso era di tanto tempo quanto io sono, quando
sotto l'armi incominciò a seguire gi ammaestramenti d'Euriello. Io sono giovane
di buona età, volonteroso alle nuove cose, innamorato e difenditore della
ragione, e emmi stata promessa vittoria dagl'iddii, e veggo la fortuna disposta
a recarmi a grandi cose, la quale noi preghiamo tutto tempo che in più alto luogo
ci ponga della sua rota. Ora poi che ella con benigno viso mi porge i dimandati
doni, follia sarebbe a rifiutarli, ché l'uomo non sa quando più a tal punto
ritorni. Io m'abandonerò a prendere ora che mi par tempo, e salirò sopra la sua
rota; quivi, sanza insuperbire, quanto potrò in alto mantenermi, mi manterrò. E
se avviene che alcuna volta scendere mi convenga, con quella pazienza che io
potrò, sosterrò l'affanno. Né mi vogliate fare discredere quello che la vera
visione m'ha mostrato, dicendo che i sogni sieno fallaci e voti d'ogni verità:
poi che voi non me lo voleste dire, tacete del farmelo discredere, però che io
n'ho più testimoni a questa verità, ché principalmente il mio anello con la
perduta chiarezza mi mostrò l'affanno di Biancifiore: la celestiale spada,
ritrovandomela nella destra mano quando mi svegliai, m'affermò la credenza
delle vedute cose e la speranza della futura vittoria. Ma forse voi dubitate di
farmi il servigio, e però con tante contrarietà v'andate al mio intendimento
opponendo. Onde io vi priego, sanza più andarmi con cotali circustanze
faccendomi perder tempo, mi rispondiate se fare lo volete o no: ch'io vi
prometto che mai io non sarò lieto, né dalla mia impresa mi partirò, infino a
tanto che io con la destra mano non avrò liberata Biancifiore dal fuoco, e da
qualunque altro pericolo le soprastesse».
Quando
Ascalion udì così parlare Florio e videlo pur fermo in voler difendere
Biancifiore, assai se ne maravigliò del gran cuore che in lui sentiva, e più
della nuova visione e della spada a lui donata, la quale non gli parea opera
fatta per mano d'uomo, e fra sé disse: "Veramente la fortuna ti vuole
recare a grandissime cose, delle quali forse questa fia il principio, e
gl'iddii mostra che 'l consentano". E poi rispose a lui:
«Florio,
sanza ragione mi chiami villano e malvagio, però che quel ch'io ti dicea, io
nol ti dicea che io non conoscessi bene ch'io non dicea vero, ma io il dicea
acciò che da questa impresa ti ritraessi, se potuto avessi ritrartene. E se io
avessi dal principio conosciuto che così fermamente t'avessi posto in cuore di
far questo, certo sanza niuna altra parola io t'avrei detto:
"andiamo"; ma io volea provare altressì con che animo ci eri
disposto. E non dire ch'io dubiti di servirti, ch'io voglio che manifesto ti
sia che alcuno disio non è in me tanto quanto quello fervente. Ond'io caramente
ti priego, poi che del tutto alla dimensione di Biancifiore se' fermo, che, se
ti piace, lasci a me questo peso, perché tu non sai chi avanti ti dee uscire a
resistere al tuo intendimento. E nella corte del tuo padre sanza fallo ha molti
valorosi cavalieri, e espertissimi e usati in fatto d'arme lungamente, a' quali
tu ora, novello in questo mestiero, non sapresti forse così resistere come si
converrebbe. E non ti voler rifidare in sola la forza della tua giovanezza, ché
non solamente i forti bracci vincono le battaglie, ma i buoni e savi
provedimenti danno vittoria le più volte. Posto che io, già vecchio, non ho
forse i membri guari più poderosi di te, io pur so meglio di te quel colpo che
è da fuggire e quello che è da aspettare, e quando è da ferire e quando è da
sostenere, sì come colui che dalla mia puerizia in qua mai altra cosa non feci.
E d'altra parte, se io fossi soperchiato, a te non manca il potere allora
combattere, e combattendo provarti, e soccorrere me e Biancifiore».
A
cui Florio rispose brievemente:
«Maestro,
io ora novellamente porterò arme; io, come detto v'ho, sono giovane, e amore mi
sospinge, e la buona speranza: io voglio sanza niuno fallo essere il difenditore
di quella cosa che io più amo, ché non m'è avviso che alcuno cavaliere, non
tanto fosse valoroso e dotto in opera d'arme, potesse qui adoperare quanto
potrò io. E se io consentissi che voi v'andaste voi a combattere, e foste
vinto, a me non si converrebbe d'andare a volere racconciare quello che voi
aveste guasto, né potrei, né mi sarebbe sofferto. Io voglio incominciare a
provare quello affanno che l'armi porgono. Io ho tanto sofferto amore, che ben
credo poter sofferire l'armi a una picciola battaglia. E nella giovanezza si
deono i grandi affanni sostenere, acciò che famoso vecchio si possa divenire. E
se pure avvenisse che la speranza della vittoria mi fallisse, io farò sì che la
vita e la battaglia perderò a un'ora, la qual cosa mi fia molto più cara che se
io, dopo la morte di Biancifiore, rimanessi in vita; del vostro aiuto so che
poi Biancifiore non si curerebbe, sì che più ch'uno non bisognerà che
combatta».
Disse
Ascalion:
«Poi
ch'elli ti piace che così sia, e io ne son contento, ma veramente io non ti
abandonerò mai; e se io vedessi che il peggio della battaglia avessi mai,
chiunque ucciderà te, ucciderà me altressì, avanti che io la tua morte vedere
voglia. Ma io priego gl'iddii, se mai alcuna cosa appo loro meritai, che ti
donino la disiderata vittoria, come promesso t'hanno, acciò che io teco
insieme, riprovata la iniquità del tuo padre e scampata Biancifiore, mi possa
di sì prospero principio rallegrare».
[45]
Veduta
Ascalion la ferma volontà di Florio, sanza più parlare, egli lo 'ncominciò ad
armare di bella e buona arme; e poi ch'egli gli ebbe fatto vestire una grossa
giubba di zendado vermiglio, gli fece calzare due bellissime calze di maglia, e
appresso i pungenti speroni; e sopra le calze gli mise un paio di gambiere
lucenti come se fossero di bianco argento, e un paio di cosciali; e similemente
fattegli mettere le maniche e cignere le falde, gli mise la gorgiera; e
appresso gli vestì un paio di leggierissime piatte, coperte d'un vermiglio
sciamito, guarnite di quanto bisognava nobilmente e fini ad ogni pruova. E poi
che gli ebbe armate le braccia di be' bracciali e musacchini, gli fece cingere
la celestiale spada, dandogli poi un bacinetto a camaglio bello e forte, sopra
'l quale un fortissimo elmo rilucente e leggiero, ornato di ricchissime pietre
preziose, sopra 'l quale un'aquila con l'alie aperte di fino oro risplendeva,
gli mise, donandoli un paio di guanti quali a tanta e tale armadura si
richiedevano; e appresso il sinistro omero gli armò d'un bello scudetto e forte
e ben fatto, tutto risplendente di fino oro, nel quale sei rosette vermiglie
campeggiavano. E sì come il tenero padre i suoi figliuoli ammonisce e insegna,
così Ascalion dicea a Florio:
«Caro
figliuolo mio, non schifare gli ammaestramenti di me vecchio, ma sì come
nell'altre cose gli hai avuti cari e osservatigli, così fa che in questa
maggiormente gli abbia, però che è cosa, che, non osservandola, porta più
pericolo. Quando tu verrai sopra il campo contra 'l disiderato nimico, quanto
più puoi prendi la più alta parte del campo, acciò che andando verso lui, anzi
il sopragiudichi che tu sii da lui sopragiudicato; però che gran danno tornò a'
greci la poca altezza, ché i troiani aveano vantaggio allo 'ncominciare le
battaglie. E guarti non ti opporre a' solari raggi, però che essi dando altrui
negli occhi nocciono molto. Annibale in Puglia per tale ingegno ebbe sopra i
romani vittoria, volgendo le reni al sole, al quale costrinse i romani di
tenervi il viso. Né contro al polveroso vento ti metterai, però che dandoti negli
occhi t'occuperebbe la vista. Né moverai il corrente cavallo con veloce corso
lontano al tuo nimico, ma il principio del suo movimento sia a picciolo passo,
acciò che quando sarai presso al nimico, spronando forte, elli il suo corso
impetuosamente cominci: però che le forze del volonteroso cavallo sono molto
maggiori nel cominciare dello aringo che nel mezzo, quando col disteso capo
corre alla distesa. Né ancora gli darai tutto il freno, però che con meno forza
dilungando il collo andrebbe. Allora sono le cose disposte ad andar forte,
quand'elle truovano alcun ritegno e trapassanlo. E chi fece Protesilao più
volonteroso che 'l dovere, se non l'essere ritenuto contro alla calda volontà?
Se Aulide non avesse ritenute le sue navi, egli andava più temperatamente. Né
non basserai la lancia nel principio dello aringo, però che il savio nimico
prenderebbe riparo al tuo avvisato colpo, e il tuo braccio del peso sarebbe
stanco avanti che tu a lui giugnessi; ma ponendo mente prima a lui, t'ingegna,
se puoi, di prendere al suo colpo riparo, e appressandoti a lui prestamente con
forte braccio abassa la tua lancia, e fa che avanti nella gola che nella
sommità dell'elmo ti ponghi: i bassi colpi nuocciono, posto che gli alti sieno
belli. E s'egli avviene che con lui urtare ti convenga col petto del tuo
cavallo, guarda bene che col petto del suo non si scontri, se non fossi già
molto meglio a cavallo di lui, però che il danno potrebbe essere comune, ma
faccendo con maestrevole mano un poco di cerchio, fa che il petto del tuo
cavallo alla spalla sinistra del suo si dirizzi, e quivi fieri se puoi, ché tal
ferire sarà sanza danno di te. Ma poi che le lance più non adoperranno, non
esser lento a trar fuori la spada; ma non voglio però che tu meni molti colpi,
ma maestrevolemente, quando luogo e tempo ti pare di ferire a scoperto,
copertamente fieri, sempre intendendo a coprire bene te, più che al ferire
molto l'avversario, infino a tanto che tu vegga lui stanco e fievole, e al di
sotto di te, ché allora non si vogliono i colpi risparmiare. E guardera'ti bene
che per tutto questo niente di campo ti lasci torre, però che con vergogna
sarebbe danno. Né ti lasciare abbracciare, se forte non ti senti sopra le
gambe: la qual cosa s'avviene, non volere troppo tosto sforzarti d'abbatterlo
in terra, ma tenendoti ben forte lascia affannar lui, il quale quando alquanto
affannato vedrai, più leggiermente potrai allora mettere le tue forze e
abbattere lui. E sopra tutte cose ti guarda degli occulti inganni: i tuoi occhi
e il buono avviso continuamente te ne ammaestrino. Né niuno romore o di lui o
del circustante popolo ti sgomenti, ma sanza niuna paura ti mostra vigoroso;
incontanente la tua parte fia aiutata dal grido: e il nimico vedendoti ognora
più vigoroso, dubiterà della tua vittoria, però che bene ti seggono l'armi
indosso e bellissimo e ardito ti mostrano, più che altro cavaliere già è gran
tempo vedessi».
Florio
con disiderio ascoltava queste parole, notandole tutte, e volontieri vorrebbe
allora essere stato a' fatti, e molto gli noiava il picciolo spazio di tempo
che a volgere era, e in se medesimo molto si gloriava veggendosi armato; e
disse ad Ascalion:
«Caro
maestro, niuna vostra parola è caduta, ma da me debitamente ritenute, le credo,
ove il bisogno sarà, mettere in effetto; ma caramente vi priego che v'armiate e
vengano i cavalli, e andiamo, però che già mi pare che le stelle, che sopra
l'orizonte orientale salivano nel coricare del sole, abbiano passato il cerchio
della mezza notte».
[46]
Armossi
Ascalion; e mentre che egli s'armava, e Florio andava per l'ostiere ora
correndo, ora saltava d'una parte in altra, e tal volta con la celestiale spada
faceva diversi assalti. Alcuna volta prendeva la lancia per vedere com'egli la
potesse alzare e bassare al bisogno, lanciandola talora; e queste cose così
destramente faceva, come se alcuna arme impedito non l'avesse, avvegna che
Amore la maggior parte gli dava della sua forza. Di che Ascalion, lodando la
sua leggerezza, si maravigliò molto; e essendo già egli medesimo armato, tutto
solo se n'andò alla stalla, e messe le selle e' freni a due forti cavalli, li
menò nella sua corte; e quivi vestito Florio e sé di due sopraveste verdi, e
prese due grosse lance con due pennoncelli ad oro lavorati e seminati di vermiglie
rose, ciascuno la sua, montarono i cavalli e sanza più dimorare presero il
cammino verso la Braa.
[47]
Già
Febea con iscema ritondità tenea mezzo il cielo, quando Florio e Ascalion,
lasciata la città, cominciarono a cavalcare per li solinghi campi. Ella porgea
loro col freddo raggio grande aiuto, però ch'ella mitigava il caldo che le
gravi armi porgeano, e massimamente a Florio, il quale di tal peso non era
usato, poi facea loro la via aperta e manifesta: di che Florio molto si
rallegrava, però che già gli parea incominciato avere a ricevere lo 'mpromesso
aiuto degl'iddii. E più si rallegrava imaginando che egli s'appressava al luogo
ove egli vedrebbe la sua Biancifiore in pericolo, e scampata da quello per la
sua virtù. Ma non volendosi tanto alle sue forze rifidare, quanto all'aiuto
degl'iddii, volto verso la figlia di Latona, così cominciò a dire:
«O
graziosa dea, i cui beneficii io sento continuamente, lodata sii tu; tu
alleviando la mia madre di me, piegandoti a' suoi prieghi, le mi donasti, degna
allegrezza dopo il ricevuto affanno. Dunque, poi che per te nel tempestoso
mondo venni, aiutami nelle mie avversità, e priegoti per li tuoi casti fuochi,
i quali io già ne' miei teneri anni debitamente cultivai, che come tu hai nel
mio aiuto incominciato, così perseveri. E ricordati quanto tu, già ferita di
quello strale che io ora sono, ardesti, di quel fuoco che io ardo! e priegoti
per le oscure potenze de' tuoi regni, ne' quali mezzi i tempi dimori, che tu
domane, dopo la mia vittoria, prieghi il tuo fratello che col suo luminoso e
fervente raggio mi renda alle abandonate case, onde tu ora col tuo freddo mi
togli. Tu m'hai porta speranza del futuro soccorso degl'iddii col tuo
principio, onde io con più ardita fronte il dimanderò. E te, o sommo prencipe
delle celestiali armi, priego per quella vittoria che tu già sopra i figliuoli
della terra avesti, e per tutte l'altre, che tu sii a me favorevole aiutatore,
però che io non cerco, sì come tu vedi, di volere per la presente battaglia
possedere né acquistare le vostre celestiali case, né intendo di levare a Giove
la santa Giunone; né similemente è mio intendimento d'occupare la fama delle
tue grandi opere col tuo medesimo aiuto, ma d'accrescerla, e solamente cerco di
difendere la vita di Biancifiore ingiustamente condannata a morte. E tu, o
santa Venus, nel cui servigio io sono, aiutami. Io vo più ardito per la
promessa che con la tua santa bocca mi facesti. Non mi dimenticare: mostrisi
qui quanto la tua forza possa adoperare. E similmente tu, o santa Giunone,
donandomi il tuo aiuto, consenti che io vincendo faccia manifesto il malvagio
inganno, il quale questi iniqui, contra i quali io ora vo, copersero col tuo
santo uccello, non servandoti la debita reverenza. E voi, o qualunque deità
abitate le celestiali regioni, siate al mio soccorso intente; e massimamente
tu, Astrea, la cui giusta spada mio padre intende di sozzare con innocente
sangue, aiutami».
E
così dicendo e tutt'ora cavalcando, pervennero al dolente luogo per lungo
spazio avanti dì: e quivi il nuovo giorno aspettarono.
[48]
La
misera Biancifiore, non sappiendo perché con tanto furore né sì subitamente
presa fosse, quasi tutta stupefatta, sanza alcuna parola sostenne la grave
ingiuria, entrando nell'oscurissima e tenebrosa carcere; la quale serrata,
acciò che alcuna persona materia non avesse di poterle in alcuno atto parlare,
a cui ella scusandosi poi la sua scusa ad altri porgesse, il re prese a sé la
chiave. E dimorando là entro Biancifiore, niuno sì picciolo movimento v'era che
forte non la spaventasse, e varie imaginazioni, che la fantasia le recava
avanti, le porgeano molta paura, e 'l suo viso impalidito e smorto non dava
alcuna luce nella cieca prigione; onde ella per greve doglia incominciò a
piangere e a dire:
«Oimè
misera, quale può essere la cagione di tanta ingiuria? In che ho io offeso?
Certo in niuna cosa, ch'io sappia. Io mai né con parole né con operazioni non
lesi la reale maestà, e la reina mia cara donna sempre onorai, né mai rubando
né spogliando i santi templi e gli altari degl'iddii commisi sacrilegio, né mai
si tinsero le mie mani né l'altrui per me d'alcun sangue: dunque questo perché
m'è fatto? Oimè, iniqua fortuna, maladetta sii tu! Or non ti potevi tu chiamare
sazia delle mie avversità, pensando che divisa m'avevi da quella cosa nella
quale ogni mia prosperità e allegrezza dimorava, sanza volermi ancora fare ora
questa vergogna d'essere messa in prigione sanza averlo meritato? Deh, se tu
avevi volontà di nuocermi, perché avanti non mi uccidevi? Credo che conosci che
la morte mi sarebbe stata somma felicità, però che i miei sospiri avrebbe
terminati. Stiano adunque i miseri sicuri contra i tagli delle spade e contra
le punte delle agute lance, infino a tanto che il cielo avrà il loro tempo
volto, però che fortunoso caso di vita non li priverebbe. Oimè, or tu mi ti
mostrasti poco avanti così lieta, faccendomi più degna che alcuna altra giovane
della real casa di portare il santo paone alla mensa, dove il re sedea,
accompagnato da quelli baroni, i quali tutti in mio onore e servigio si
vantarono! È questa la fine che tu vuoi a' loro vanti porre? Oimè, com'è laida
e vituperevole! Tosto hai mutato viso a mio dannaggio! Maladetto sia il giorno
del mio nascimento! Io fui cagione di sforzata morte al mio padre e alla mia
madre, i quali io già mai non vidi, e ora, non so come, la mi pare avere a me
meritata. Oimè, che gl'iddii e 'l mondo m'hanno abandonata, e massimamente tu,
o Florio, in cui io solamente portava speranza! Deh, or dove se' tu ora, o che
fai tu? Forse pensi che il tuo padre m'acconci per mandare a te, però che
dimandata me gli hai, e io sto in prigione piena di varie solleccitudini, e non
so per che né a che fine, né se il tuo padre intende di farmi morire! Deh, or
non t'è egli la mia avversità palese? Non riguardi tu il caro anello da me
ricevuto, il quale apertamente la ti significherebbe? Oimè, che io dubito che
tu più nol riguardi, sì come cosa la quale credo che poco cara ti sia!
Immantanente io imagino che tu m'abbia dimenticata! E chi sarebbe quel giovane
sì costante e tanto innamorato, che vedendo tante belle giovani, quante io ho
inteso che costà ha, scalze dintorno alle fredde fontane sopra i verdi prati,
coronate di diverse frondi cantare e fare maravigliose feste, non lasciasse il
primo obietto pigliandone un secondo? E se tu non m'hai dimenticata, perché non
mi soccorri? Chi sa se io dopo questa prigione avrò peggio? E chi sa se io ci
sarò di fame lasciata morire entro, o se di me fia fatta altra cosa? Oimè, ora
se io morissi, come faresti tu? Io per me mi curerei poco di morire, se io
solamente una volta veder ti potessi avanti, e se io non credessi che a te
fosse il mio morire gravoso a sostenere. Oimè, che io credo che se tu sapessi
che io fossi qui, la mia liberazione sarebbe incontanente. E se io potessi questo
in alcun modo farloti sentire, ben lo farei; ma io non posso. Oimè! ora ove
sono tanti amici tuoi, a quanti di me solea per amor di te calere, quando tu
c'eri? Non ce ne ha egli alcuno il quale tel venisse a dire? Io credo di no,
però che gli amici della prosperità insieme con essa sono fuggiti. Ma l'anello
ch'io ti donai ha egli perduta la virtù? Io credo di sì, però che alle mie
avversità niuna speranza è lasciata. O santa Venus, al cui servigio l'animo mio
e tutto disposto, per la tua somma deità non mi abandonare, e per quello amore
che tu portasti al tuo dolce Adone, aiutami. Io sono giovane usata nelle reali
case, dove io nacqui, con molte compagne continuamente stata: ora non so perché
sia sì vilmente rinchiusa. Sola la paura mi confonde: a me pare che quante
ombre vanno per la nera città di Dite, tutte mi si parino davanti agli occhi
con terribili e spaventevoli atti. Mandami alcuno de' tuoi santi raggi in
compagnia; e in bene della mia vita adopera quello che tu meglio di me conosci
che bisogna, ché tu vedi bene che io aiutare non mi posso».
Non
avea Biancifiore ancora compiute di dire queste parole, che nella prigione
subitamente apparve una gran luce e maravigliosa, dentro alla quale Venere
ignuda, fuor solamente involta in uno porporino velo, coronata d'alloro, con un
ramo delle frondi di Pallade in mano dimorava. La quale, quivi giunta,
subitamente disse:
«Ahi,
bella giovane, non ti sconfortare. Noi già mai non ti abandoneremo: confortati.
Credi tu che la nostra deità abandoni così di leggiere i suoi suggetti? Le tue
voci ci percossero gli orecchi infino nel nostro cielo, al pietoso suono delle
quali io subitamente a te sono discesa, e mai non ti lascierò sola. E non
dubitare di cosa che stata ti sia infino a qui fatta, che da questa ora avanti
niuna cosa ti sarà fatta, per la quale altra offesa che sola un poco di paura
te ne seguisca».
Quando
Biancifiore vide questo lume e la bella donna dentro alla prigione, tutta
riconfortata, si gittò ginocchione in terra davanti ad essa, dicendo:
«O
misericordiosa dea, lodata sia la tua potenza. Niuno conforto era a me misera
rimaso, se tu venendo non m'avessi riconfortata. Ahi, quanto ti dobbiamo essere
tenuti pensando alla tua benignità, la quale non isdegnò di venire de' gloriosi
regni in questa oscurità e solitudine a darmi conforto, non avendo io tanta
grazia già mai meritata. Ma dimmi, pietosa dea, poi che con le tue parole m'hai
renduto alquanto del perduto conforto, se licito m'è a saperlo, quale è la
cagione per che fatta m'è questa ingiuria?».
A
cui la dea rispose:
«Niuna
altra cagione ci è, se non per che tu e Florio siete al mio servigio disposti;
ma non sotto questa spezie s'ingegna il re di nuocerti, ma il modo trovato da
lui, col quale egli si ricuopre, è falso e malvagio: ma egli è ben conosciuto
tanto avanti, che alla tua fama non può nuocere, e ancora sarà più manifesto. E
d'altra parte, io poco avanti discesa giù dal cielo, ordinai la tua
diliberazione, in maniera che, avanti che il sole venga domane al meridiano
cerchio, tu sarai renduta al re e tornata in quella grazia che solevi. Più
avanti non te ne dirò ora, però che tutto vedrai e saprai domane».
Con
questi ragionamenti e con molti altri si rimase Biancifiore con la santa dea
infino al seguente giorno, quasi rassicurata, sanza prendere alcuno cibo,
infino che tratta fu di prigione per menare alla morte.
[49]
Cominciossi
per la corte un gran mormorio, poi che il re fu partito dal gran consiglio che
tenuto avea del fallo che dovea aver fatto Biancifiore: e tutti i baroni e l'altra
gente, chi in una parte e chi in un'altra ne ragionavano; e a tutti parea
impossibile il credere che Biancifiore avesse già mai tanta malvagità pensata,
con ciò sia cosa che semplice e pura e di diritta fede la sentivano. E altri
diceano che veramente mai Biancifiore non avrebbe tal fallo commesso né
pensato, ma questo era fattura del re, il quale ordinato avea ciò per farla
morire, perciò che Florio più che altra femina l'amava, e 'l re temea che egli
non la prendesse per isposa, o a vita di lei non ne volesse prendere alcuna
altra. Alcuni diceano ciò non porria essere, ché, se il re l'avesse avuto animo
adosso, per altro modo l'avria fatta morire, né mai si sarebbe vantato di
maritarla, come la mattina avea fatto, affermando d'attenere il suo vanto con
tanti saramenti: aggiungendo a questo che essi credevano che ciò fosse fattura
del siniscalco, però che l'avea in odio, perché rifiutato l'avea per marito. E
altri ne ragionavano in altra maniera: chi difendea il re e chi Biancifiore, ma
a tutti generalmente ne dolea, e niuno potea credere che difetto di Biancifiore
fosse mai stato. E molti ve n'avea che, se non fosse stato per tema di
dispiacere al re, avrebbero parlato molto avanti in difesa di Biancifiore, e
ancora prese l'arme, se bisognato fosse, chi per amor di lei e chi per amor di
Florio. E così d'uno ragionamento in altro il giorno passò, e sopravennero le
stelle, mostrandosi tutto quel giorno, quanto durò, il re e la reina molto
turbati nel viso, avvegna che contenti e allegri fossero nell'animo, sperando
che il seguente giorno per la morte di Biancifiore terminerebbero il loro
disio.
[50]
Il
re dormì poco quella notte, tanto il costringea l'ardente disio che il nuovo
giorno venisse; e sollecitando le maladette cure il suo petto, più volte quella
notte eccitato, disse:
«O
notte, come sono lunghe le tue dimoranze più che essere non sogliono! O il sole
è contra 'l suo corso ritornato, poi che egli si celò in Capricorno, allora che
tu la maggior parte del tempo nel nostro emisperio possiedi, o Biancifiore
credo che con le sue orazioni priega gl'iddii che rallungare ti facciano, quasi
indovina al suo futuro danno. Ma folle è quello iddio che per lei di niente
s'inframette, ché a lui non fia mai per lei acceso fuoco sopra altare né
visitato tempio. Di se medesima gli può ben promettere sacrificio, però che
quando tu ti partirai del nostro emisperio, io la farò ardere nelle cocenti
fiamme, né di ciò alcuno pregato iddio la potrà aiutare, né trarla delle mie
mani: adunque partiti, e lasciami tosto vedere l'apparecchiato fine al mio
disire. E tu, o dolcissimo Apollo, il quale disideroso suoli sì prestamente
tornare nelle braccia della rosseggiante Aurora, che fai? Perché dimori tanto?
Vienne, non dubitar di venire sopra l'orizonte, per che io deggia fare per la
tua venuta ardere la non colpevole giovane. Questo non è l'acerbissimo peccato
del comune figliuolo de' due fratelli mangiato da essi, porto dalla crudel
madre, per lo quale tu tirasti i carri dello splendore indietro, e non volesti
dare quel giorno luce alla terra, perché sopra sé sì fatta crudeltà avea
sostenuta. Tu desti più volte luce a Licaon, operatore di maggior crudeltà che
questa non è; e sofferisti che Progne, dopo l'ucciso figliuolo, dandole tu
lume, si fuggisse dalla giusta crudeltà di Tireo; né si celò la tua luce nella
morte de' due tebani fratelli. Adunque, poi che a Licaon, a Progne e ad Etiocle
ne' loro falli il tuo splendore concedesti, è così mirabile cosa se tu a me ne
porgi? Questa non è la prima femina che muore ingiustamente, né sarà l'ultima,
né a te più che un'altra cara. Dunque vieni! Deh, non dimorare più! Fuggano
omai le stelle per la tua luce. Non mi fare più disiderare quello che tu
naturalmente suogli a tutti donare».
Così
parlava il re, ora vegghiando e ora non fermamente dormendo: e in tale maniera
passò tutta quella notte. Ma poi che il giorno apparì, subito si levò, e fece
chiamare i giudici, e loro comandò che sanza indugio fosse giudicata
Biancifiore.
[51]
Quella
mattina il sole coperto da oscure nuvole non mostrò il suo viso, e l'aria da
noiosa nebbia impedita parea che piangesse, quasi pietosa degli affanni di
Biancifiore. Ma poi che i chiamati giudici furono davanti al re e ebbero il
comandamento ricevuto, stettero quasi stupefatti davanti al re. E conoscendo quasi
il volere degl'iddii, e la ingiusta sentenza che dare doveano temendo, e mossi
a pietà, s'ingegnarono d'aiutare Biancifiore, e dissero:
«Altissimo
signore, niuna persona può da noi essere giudicata, se quella, cui giudicare
dobbiamo, prima a' nostri orecchi non confessa con la propia bocca il fallo per
lo quale al nostro giudicio è tratta. Noi non abbiamo udito ancora da
Biancifiore alcuna cosa, o s'è vero o non vero quello di che voi volete che a
morte la sentenziamo. E voi volendo fare quest'opera secondo il giudiciale
ordine, come dite, e non di fatto, conviene che ce la facciate udire sé aver
commesso questo fallo, però che noi dubitiamo che, sanza fare il debito modo,
la sentenza non torni sopra i nostri capi».
Assai
si turbò il re di queste parole, e temendo forte che Biancifiore ascoltata non
fosse, e per quello che il suo inganno si manifestasse, o che per indugiare non
pervenisse a orecchie a Florio, rispose:
«Questo
fallo fatto da costei non ha bisogno di confessagione alcuna, però che è sì
manifesto, che, se negare lo volesse, non potrebbe, e però sopra l'anima mia e
de' miei figliuoli la giudicate incontanente».
Comandarono
adunque i giudici che Biancifiore fosse incontanente tratta di prigione e
menata davanti da loro, vedendo essi la volontà del re essere disposta pur a
volere che sanza alcuno indugio giudicata fosse.
[52]
Fu
adunque Biancifiore tratta fuori di prigione quella mattina, e la chiara luce
che accompagnata l'avea da lei subito si partì, e questa vestita di neri
drappi, i quali la reina mandati le avea, acciò che come nobile femina andasse
a morire, venne tacitamente dinanzi a' giudici, quasi perdendo ogni speranza
che ricevuta avea dalla santa dea il preterito giorno; e quivi fermata, uno de'
giudici levato in piè con empia voce così disse:
«Sia
a tutti manifesto che la presente iniqua giovane Biancifiore per suo inganno e
tradimento volle, il giorno passato, il nostro e suo signore re Felice
avvelenare con un paone, sotto spezie d'onorarlo; e perciò, acciò che nullo
uomo o altra femina a sì fatto fallo mai s'ausi, noi condanniamo lei, ch'ella
sia arsa e fatta divenire cenere trita, e poi al vento gittata».
E
questo detto, comandò che al fuoco sanza indugio menata fosse.
[53]
Biancifiore
avea perduto il naturale colore per la paura e per lo digiuno; e il suo bel
viso era tornato palido e smorto come secca terra; ma ancora il nero vestimento
le dava alle non guaste bellezze gran vista. E udendo ella il miserabile
giudicio contra lei dato sanza ragione, forte incominciò a piangere e a dire
fra se medesima: "Oimè misera, or convienmi elli morire? Or che ho io
fatto?". E se non fosse che le sue dilicate mani erano con istretto legame
congiunte, ella s'avrebbe i biondi capelli dilaniati e guasti, e 'l bel viso
sanza niuna pietà lacerato con crudeli unghie, stracciando i nuovi drappi
significanti la futura morte, e avrebbe riempiuta l'aere di dolorose e alte
voci; ma vedendosi impedita e circundata da innumerabile popolo, costretta da
savio proponimento, raffrenò le sue voci, e sanza nullo romore fra sé
tacitamente ricominciò a dire: "Ahi, sfortunato giorno e noiosa ora del
mio nascimento, maladetti siate voi! Oimè, morte, quanto mi saresti tu stata
più graziosa nelle braccia di Florio, com'io credetti già che tu mi venissi!
Deh, ora mi fossi tu almeno venuta in quell'ora ch'io chiamata fui a portare il
male avventuroso uccello per me, però che io allora sarei morta onestamente e
sanza vergogna d'alcuna infamia. Ahi, anime del mio misero padre e de' suoi
compagni e della mia dolente madre, i quali per me acerba morte sosteneste,
rallegratevi, che io, stata di sì crudel cosa cagione, sono punita degnamente.
Niuna altra cosa credo che nuoccia a me misera, se non questa, insieme con
l'aver portata troppa lealtà e onore a colui che ora mi fa morire. O
crudelissimo re, perché mi rechi a sì vile fine? Che t'ho io fatto? Certo niuna
colpa ho commessa, se non che io ho troppo amore portato al tuo figliuolo. Deh,
or che mi faresti tu, o più crudele che Fisistrato, se io l'avessi odiato?
Quale tormento m'avresti tu trovato maggiore? Io, misera, mai nol ti dimandai,
né lui pregai ch'egli di me s'innamorasse. Se gl'iddii concedettero al mio viso
tanta di piacevolezza che il suo gentile cuore fosse per quella preso, ho io però
meritata la morte? Se io avessi creduto che la mia bellezza mi fosse stata
agurio di sì doloroso fine, io con le mie mani l'avrei deturpata, seguendo
l'essemplo di Spurima, romano giovane. Ma fuggano omai gli uomini i doni
degl'iddii, poi che essi sono cagione di vituperevole fine. Io, misera, avrei
già potuto con le mie parole tirare Florio in qualunque parte la volontà più
m'avesse giudicato, o congiugnerlo meco per matrimoniale nodo, se io avessi
voluto, se non fosse stata la pietà che 'l mio leale cuore ti portava. O
vecchio re, per l'onore che io da te ricevea non ti volli mai del tuo unico
figliuolo privare, e io del bene operare sono così meritata. A questo fine
possano venire i servidori de' crudeli, che io veggio venir me! O sommo Giove,
il quale io conosco per mio creatore, aiutami. Tu sai la verità di questo
fatto, e conosci che io non fallii mai: non consentire adunque che le pietose
opere abbiano tale guiderdone. La mia speranza chiede solo il tuo aiuto,
fermandosi nella tua misericordia. Non sostenere che oggi il nome degli effetti
del tuo cielo ricuopra la iniquità del re Felice contra di me, ma
manifestamente fa nota la verità. E tu, o santa Giunone, nel cui uccello tanta
falsità fu nascosa per conducermi a questo fine, vendica la tua onta, fa che
questa cosa non rimanga inulta, ma sia letta ancora tra l'altre vendette da te
fatte, acciò che la tebana Semelè o la misera Ecco non si possano di te
giustamente piangere. E tu, o sacratissima Venere, soccorri tosto col promesso
aiuto; non indugiar più, però che, non vedendolo, a me fugge la speranza delle
tue parole da tutte parti, però che io al fuoco mi sento condannare. Veggiomi i
feroci sergenti dintorno armati, come se io fierissima nimica delle leggi mi
dovessi torre loro per forza, e veggo il siniscalco, a me crudelissimo nimico,
sollecitare i miei danni con altissime voci e con furiosi andamenti, né più né
meno come se egli della mia salute dubitasse. Né veggio che per pietà di me
cambi aspetto. Tutte queste cose mi danno paura e tolgonmi speranza. Dunque
soccorri tosto, che io dubito che se troppo indugi, io non muoia di contraria
morte che quella che apparecchiata m'hanno costoro, però che la molta paura
m'ha già sì raffreddato il cuore, che egli gli è poco sentimento rimaso".
[54]
Mentre
che Biancifiore, ascoltando la crudele sentenza, sì tacitamente fra sé si
ramaricava piangendo, il re insieme con la reina e con molta altra compagnia
vennero a vederla, già volendola i sergenti menare via. Ma Biancifiore col viso
pieno di lagrime voltata al reale palagio, il quale ella mai rivedere non
credea, vide ad un'alta finestra il re e la reina riguardanti lei: allora più
la costrinse il dolore, e con più amare lagrime s'incominciò a bagnare il
petto. Ma non per tanto così, com'ella poté, si sforzò di parlare, e con debole
voce, rotta da molti singhiozzi di pianto, disse:
«O
carissimo padre, re Felice, da cui io conosco l'onore e 'l bene che io per
adietro ho ricevuto in casa tua e quello che ricevette la mia misera madre,
essendo noi stranieri, rimani con la grazia degli iddii, tu e la tua compagna,
i quali io priego che ti perdonino la ingiusta morte alla quale tu mi mandi
sanza ragione. E certo più onore vi tornava a tutti l'essere degnamente stati
pietosi, che ingiustamente crudeli verso me, che mai a' vostri onori non ruppi
fede; e ancora li priego che essi sieno a voi più prosperevoli che a me non
sono stati».
E
dicendo Biancifiore queste parole, il siniscalco su un alto cavallo, con un
bastone in mano, sopravenne, e dando su per le spalle a' sergenti che la
menavano, e a lei disse:
«Via
avanti, non bisognano al presente queste parole: priega per te, non per loro».
Onde
Biancifiore piangendo bassò la testa, andando oltre sanza più parlare. Il re e
la reina, che quelle parole aveano udite, alquanto più che l'usato modo
costretti da pietà, cominciarono a lagrimare: e in tanto ne dolfe alla reina,
che molto si pentì del malvagio consiglio che al re donato avea, e volentieri
avrebbe tutto tornato adietro, se con onore del re e di lei fare l'avesse
potuto. I sergenti tiravano forte e vituperosamente Biancifiore verso la Braa,
ove il fuoco apparecchiato già era; e ella che del cospetto dello iniquo re
s'era piangendo partita, andava col capo basso, pianamente dicendo: "Oimè,
Florio, ove se' tu ora? Deh, se tu m'amassi come tu già m'amasti e come io amo
te, e sapessi che la mia vituperevole morte mi fosse sì vicina, che faresti tu?
Certo io credo che tu porteresti grandissimo dolore: ma tu non m'ami più. Io
conosco veramente il tuo amore essere stato fallace e falso; che se perfetto e
buono fosse stato, come è stato il mio verso di te, niun legame t'avrebbe
potuto tenere a Montoro, che almeno non avessi al mio soccorso cercato alcuno
rimedio, volendo sapere la cagione della mia morte da me, se lecita è o no; o
solamente saresti venuto a vedermi inanzi ch'io morissi, mostrando che della
mia morte portassi gravissimo dolore. Oimè, che tu forse aspetti che io il ti
mandi a dire, ma tu non pensi com'io posso, che non che mandare a dirtelo mi
fosse lasciato, ma una picciola scusa non è voluta ascoltare da me, né
consentito che ascoltata sia; avvegna che tu il sai, né ti potresti scusare che
tu nol sapessi, però che, poi che io misera fui tratta di prigione, io ho
tacitamene udito ragionare a molti che il duca e Ascalione per non vedere la
mia morte se ne sono venuti costà, e so che essi t'hanno contato tutto il mio
disaventurato caso, come coloro che 'l sanno interamente. Dunque perché non mi
vieni ad aiutare? Chi aspetti tu che si lievi in mio aiuto, se tu non vi ti
lievi? Forse tu dubiti d'aiutarmi, dicendo: "Ella muore giustamente:
leverommi io a volere difendere la ingiustizia?". Certo tu se' ingannato,
che non che gli uomini ma i bruti animali pare che ne parlino che la morte
ch'io vo a prendere m'è ingiustamente data, e tu me ne se' principale cagione.
E se pur giustamente la ricevessi, pensando al grande amore che io t'ho sempre
portato, non mi dovresti tu ragionevolmente aiutare e difendere da sì sozza
morte, acciò che la gente non dicesse: "Colei, cui Florio amava cotanto,
fu arsa"? E ancora ho udito affermare ad alcuni che per niuna altra cosa
si partì Ascalion di qua, se non per venirloti a dire. Ma quando egli mai non
te l'avesse detto, il mio anello, il quale io ti donai quando da me ti
partisti, non te lo dee aver celato, ma manifestamente col suo turbare ti dee
aver mostrato le mie avversità; e credo che egli, del mio aiuto più sollecito
di te, già te l'abbia mostrato. Ma io dubito che tu negligente al mio soccorso
ti stai costà, forse contento d'abbracciare o di vedere alcun'altra giovane, e,
dimenticata me, hai de' miei impedimenti poca cura. Onde io, dolorosa, sanza
conforto per te mi morrò, avvegna che uno solo ne porterà l'anima mia agl'infernali
iddii, o altrove che ella vada, che io veggio manifestamente ad ogni persona
dolere della mia morte, e dire che io muoio per te, e per altra cosa no. Ma se
gl'iddii mi volessero tanta grazia concedere, ch'io ti potessi solamente un
poco vedere anzi la mia morte, molto mi sarebbe a grado, e il morire meno
noioso. Dunque, o dispietato, che fai? Deh, vieni solamente a porgermi questa
ultima consolazione, se l'aiutarmi in altro t'è noia". Queste e molte
altre parole andava fra sé dicendo Biancifiore, menata continuamente con
istudioso passo alla sua fine. Niuno era in Marmorina tanto crudele che di tale
accidente non piangesse, e l'aere era ripieno di dolenti voci. Ma ciascuno, non
potendola più oltre che 'l piangere mostrare che di lei gli dolesse, dicea:
«Gl'iddii
ti mandino utile e tostano soccorso, o dopo la tua morte alloghino la tua
graziosa anima nella pace de' loro regni».
E
giunti i sergenti al misero luogo dove era il fuoco acceso e ragunato infinito
popolo per vedere, il siniscalco fece fare grandissimo cerchio, acciò che sanza
impedimento i sergenti potessero il loro uficio fare. Ma a Biancifiore corse
agli occhi molto di lontano i due cavalieri, che già a lei s'avvicinavano per
la sua difesa: e sanza sapere più avanti di loro essere che gli altri che quivi
erano, imaginò che l'uno di costoro fosse Florio, il quale quivi alla
diliberazione di lei fosse venuto. Per la qual cosa, ricordandosi della
'mpromessa della santa dea, alquanto il naturale colore le ritornò nel viso, e
cacciando da sé alquanto di paura, s'incominciò a riconfortare e a prendere
speranza della sua salute.
[55]
Florio
e Ascalion, pervenuti al tristo luogo per grande spazio avanti che il giorno
apparisse, affannati per lo perduto sonno, vaghi di riposarsi, Florio perché
era giovane e non uso d'alcuna asprezza, e Ascalion per lunga età già tutto
bianco, smontati ciascuno del suo cavallo, e legatolo a uno albero, dissero:
«Qui
alquanto ci riposiamo, infino a tanto che il nuovo giorno appaia».
E
cavatisi gli elmi e messisi gli scudi sotto il capo, cominciarono soavemente a
dormire ciascuno di loro.
[56]
O
Florio, or che fai tu? Tu fai contro all'amorose leggi. Niuno sonno si conviene
al sollecito amadore. Deh, or non pensi tu che cosa è il sonno, e come egli
sottilmente sottentra ne' disiderosi occhi e negli affannati petti? Or ove sono
fuggite le sollecite cure, che stringevano il tuo animo poco avanti? Ora elli
ti soleva essere impossibile il dormire sopra i dilicati letti: ora come con
l'armi indosso sopra la dura terra ti se' addormentato? Credi tu forse
Biancifiore aver tratta di pericolo perché tu sii armato? Ella è ancora in quel
pericolo che ella si fu avanti che tu t'armassi. Ma forse tu credi il sonno a
tua posta cacciare da te: ma pensa che tu dormendo niuna signoria hai: adunque
porre non gli puoi termine, ma egli a sua posta si partirà. E se alquanto ti
tiene più che a Biancifiore non bisogna, a che sarà ella? Certo alla morte!
Forse tu ti fidi che gl'iddii ogni volta ti deggiano con nuovi sogni destare?
Forse non ti desteranno; e se ti destano, che grado alla tua sollecitudine, più
tosto da dire pigrizia? Venus ha infino a qui fatto il suo dovere: se tu a
quello ch'ella t'ha detto sarai pigro, ella si riderà di te, e terratti vile, e
scherniratti con dovute beffe. Deh, come tu male, se tu soperchio dormi, avrai
adoperata la ricevuta spada! Ora non ti stringe amore? Or non t'è a mente
Biancifiore? Ogni sollecitudine è testé da te lontana! Ma la misera
Biancifiore, forse già fuori della cieca prigione, ode la non giusta sentenza
data contro di lei, o forse è vilmente menata allo acceso fuoco; e ripetendo
tutte quelle parole che a lei si convengono verso di te dire, va piangendo. Or
s'ella muore, che varrà la tua vita? Ella si potrà più tosto dire ombra di
morte. Ora se Biancifiore sapesse che un poco di sonno, sopravenuto ne' tuoi
occhi, t'avesse fatto dimenticare li suoi affanni, or non avrebbe ella cagione
di non amarti già mai, ma degnamente odiarti? E s'ella morisse, potendola tu
aiutare, gran vergogna ti sarebbe, e veramente mai viver lieto non dovresti.
Dunque levati su, non vinca il sonno la debita sollecitudine, però che mai
nullo pigro guadagnerà i graziosi doni.
[57]
Nel
piccolo spazio che Florio quivi adormentato stette, gli fu la fortuna molto
graziosa, però che a lui parea, così dormendo, con le sue forze avere liberata
Biancifiore da ogni pericolo, e con lei essere in un piacevole giardino, pieno
d'erbe e di fiori, e di varii frutti copioso, allato a una chiara fontana
coperta e circuita da giovanetti albuscelli, in maniera che appena i chiari
raggi del sole vi potevano trapassare. E quivi gli parea con lei sedere con due
strumenti in mano sonando: e cantando amorosi versi, insieme si traevano
allegra festa, talora recitando i loro fortunosi casi, e tal volta
disiderosamente gli pareva abbracciar lei, e ch'ella abbracciasse lui, e
dessorsi amorosi baci. E già non lo allegrava tanto la gioiosa festa, quanto il
parergli averla tratta di tanto pericolo, in quanto ella medesima gli avea nel
sogno narrato ch'era stata. E così Florio, che dormendo disiderava di non
dormire, si stava, quando il giorno s'incominciò alquanto a rischiarare. Allora
l'altissimo prencipe delle battaglie, sollecitato dalla sua amica, discese del
suo cielo, e sopra un rosso cavallo, armato quanto alcun cavaliere fosse mai,
sopragiunse a costoro; e ismontato da cavallo prese per lo braccio Florio, che,
ancora dormiva, e disse:
«Ahi,
cavaliere, non dormire, leva su: vedi colui, il cui figliuolo seppe sì mal
guidare l'ardente carro della luce, che ancora si pare nelle nostre regioni,
che già co' suoi raggi ha cacciate le stelle!».
Allora
Florio, tutto stupefatto, subitamente si dirizzò in piè guardandosi dintorno, e
forte si maravigliò, quando vide il cavaliere, che chiamato l'avea, che della
rossa luce di che era coperto tutto parea che ardesse, e disse:
«Cavaliere,
chi siete voi che queste parole mi dite e che m'avete il dolce sonno rotto?».
«Io
sono guidatore e maestro delle celestiali armi - rispose Marte - e insieme sono
in cielo iddio con gli altri, e sono qui venuto al tuo soccorso, però che
novello cavaliere se' entrato sotto la mia guida. Non dubitare, fatti sicuro, e
te' questo arco con questa saetta: niuno tuo nimico ti sarà sì lontano, che con
questa non l'aggiunghi, solamente che tu il vegga: folle è chi l'aspetta,
ardito chi la saetta, e iddio è chi le fabrica; però tieni caro e l'uno e
l'altro, acciò che donandoli non te ne avvenisse come alla misera Pocris, la
quale molto più lunga vita aspettava, se guardata avesse la saetta che donò a
Cefalo. E quella spada, che la mia carissima amica ti recò, non dispregiare,
ché niuna arme, fuori che le nostre, è che a' suoi colpi possa resistere. L'ora
s'appressa che noi dobbiamo cavalcare; chiama il tuo compagno, e andiamo».
[58]
Di
questo cavaliere si maravigliò molto Florio, però che oltre alla misura degli
uomini grandissimo il vedea, ferocissimo nel viso, e tutto rosso, con una
grandissima barba, e sì lucente, che appena potea sostenere di mirarlo. Ma
udite le sue parole, rallegratosi molto di tale aiuto, quale era il suo,
bassatosi in terra gli s'inginocchiò davanti, dicendo:
«O
sommo iddio, sempre sia il tuo valore essaltato, com'è degno; quanto per me si
può, tanto più ti ringrazio del caro e buono arco che donato m'hai, e della tua
compagnia, la quale a me indegno t'è piaciuto di farmi in questa necessità. Per
che io ti priego che tu, come promesso hai, così al mio aiuto sii avvisato in
non abandonarmi, acciò che io, tornando a Montoro con l'acquistata vittoria, le
mie armi nel tuo santissimo tempio divotamente doni».
E
questo detto, si dirizzò in piè, e chiamato Ascalion, disse:
«Cavalchiamo,
che tempo è, e a me pare già vedere empiere il tristo luogo di molta gente, e
parmi vedere l'accese fiamme risplendere in mezzo di loro».
Ascalion
sanza indugio si levò, e vide ch'egli dicea vero. Allora messisi gli elmi e
presi gli scudi e le lance, montarono a cavallo seguendo Marte, che avanti loro
cavalcava, verso quella parte dove Biancifiore dovea essere menata. Ascalion,
che a Florio vedea portare il forte arco, disse:
«O
Florio, e chi t'ha donato questo arco, poi che noi venimmo qui?».
«Certo
- rispose Florio - l'alto duca delle battaglie, che qui davanti a noi cavalca,
poco fa, dormendo io, mi chiamò, e donommi questo arco e questa saetta, e
dissemi che noi cavalcassimo, allora che io ti chiamai».
Disse
Ascalion:
«Dove
è quel duca che tu di' che 'l ti donò? Io non veggio davanti a noi se non uno
splendore molto vermiglio, del quale io t'ho voluto più volte domandare se tu
il vedevi tu».
Disse
Florio:
«Quegli
è desso; io veggo lo splendore e lo iddio che dentro vi dimora».
Allora
disse Ascalion:
«Ben
ti dico che ora veggo che gl'iddii t'amano, e che tu dei pervenire a
grandissimi fatti. Quale vuo' tu della tua futura vittoria più manifesto
segnale? Certo quella fiamma che apparve a Lucio Marzio sopra la testa,
aringando elli a' disolati cavalieri in Ispagna per la morte di Publio Gneo
Scipione, non fu più manifesto segno del futuro triunfo. Né quella ancora che
apparve a Tulio, ancora picciolo fanciullo, dormendo, nel cospetto di
Tanaquila, fu più manifesto segnale del futuro imperio, che questo sia della
diliberazione di Biancifiore. Adunque confortati e prendi vigoroso ardire,
seguendo le vestige del forte iddio. E ora ciò che stanotte mi dicesti, sanza
dubbio ti credo, ben che infino a qui molto dubitato n'abbia che vere non
fossero le tue parole».
[59]
Così
parlando e seguendo il celestiale cavaliere, pervennero al luogo dove le calde
fiamme erano accese; e passati nel gran cerchio che il siniscalco avea già
fatto fare dintorno al fuoco, si fermarono per vedere se alcuno dicesse loro
alcuna cosa. Ciascuno che nel piano era, veduta questa rossezza nel piano
subitamente venuta, e non sappiendo che si fosse, dubitava, e niuno ardiva
d'appressarsi; ma chi nel piano entrava, non sappiendo di che, avea paura. Ma
il siniscalco, che con rivolta redina avea ripreso il secondo cerchio maggiore
per dare maggiore spazio a' sergenti, veduta la nuova luce, cominciò ad aver
paura, molto in sé maravigliandosi e dubitando non questo fosse alcun segnale
che gl'iddii avessero mandato in significanza della salute di Biancifiore. Ma
pure per non parere meno che ardito e per non isgomentare gli altri, passò
avanti con non più sicuro animo che Cassio in Macedonia contra Ottaviano,
veduta la figura di Cesare vestita di porpore venire contro a lui, tanto che
pervenne ad esso sanza far motto, e a' due cavalieri che appresso gli stavano,
i quali Biancifiore molto di lontano avea veduti, e' con rabbiosa voce disse:
«Signori,
traetevi adietro».
Allora
Marte, rivolto a Florio, disse:
«O
giovane coperto delle nuove armi, ecco colui il quale tu dei oggi recare a
villana fine; questi fia campione contra la verità: e veramente ha meritato ciò
che da te riceverà, però che egli è colui che mise in effetto l'ordinato male
da' tuoi parenti: rispondigli, né per lui di questo luogo ti muovere».
Allora
Florio si trasse avanti con tanta fierezza, quanta se quivi uccidere l'avesse
sanza indugio voluto, e disse:
«Cavalier
traditore, né tu né altri mi farà di qui mutare, più che mi piaccia».
Il
siniscalco, crucciato e impaurito per la compagnia che con lui vedea, si tirò
indietro con intendimento di tornargli adosso con più compagni; ma Florio,
alzata la testa, e rimirando il piano, vide Biancifiore assai presso del fuoco,
già da alcuno sergente presa per volerlavi gittare; e vedendola Florio vestita
di nero, colei che solea essere perfetta luce del suo cuore, e vedendo i begli
occhi pieni di lagrime, e i biondi capelli sanza alcuno maestrevole legamento
attorti e avviluppati al capo, e le dilicate mani legate con forte legame, e
lei in mezzo di vile e disutile gente, incominciò per pietà sotto il lucente
elmo il più dirotto pianto del mondo, dicendo:
«Oimè,
dolcissima Biancifiore, mai non fu mio intendimento che nel mio padre tanta di
crudeltà regnasse, che verso di te potesse men che bene adoperare, né mai
credetti vederti a tal partito. Ma unque gli iddii non m'aiutino, se tu non se'
da me aiutata, o io insieme teco prenderò la morte, o tu e io insieme
lietamente viveremo».
E
queste parole fra sé dette, ferì il cavallo degli sproni fieramente, rompendo
la calcata gente, la quale già per la partita del siniscalco aveano riempiuta
l'ampiezza del fatto cerchio da lui; e rifatto col poderoso cavallo nuovo e
maggiore spazio, comandò a' sergenti, che già Biancifiore voleano gittare nel
fuoco, che incontanente sciogliendole le mani la dovessero lasciare, né più
avanti toccarla, per quanto il vivere fosse loro a grado. Egli fu ubidito sanza
dimoro; e i sergenti per tema tutti indietro si tirarono. Allora Florio rivolto
a lei con alta voce disse:
«Giovane
damigella, fugga da te ogni paura, ché gl'iddii, pietosi di te, vogliono che io
ti difenda: dimmi qual sia la cagione per che il re t'ha fatta giudicare a sì
crudele morte, come è questa che apparecchiata ti veggio, ché io ti prometto,
che ragione o non ragione che il re abbia, infino che i miei compagni e io
avremo della vita, per amore di Florio, cui io amo quanto me medesimo, e per
amor della tua piacevolezza, ti difenderemo».
[60]
Vedendosi
Biancifiore confortare dal cavaliere, lasciata da' sergenti, alzò il viso con
gli occhi pieni di lagrime, e dopo uno amaro sospiro così disse:
«O
cavaliere, chi che tu sii, o mandato dagl'iddii in mio aiuto o no, come può
egli essere che occulto ti sia il torto che fatto m'è? Oh, e' pare che le
insensibili pietre, non che gli uomini, ne ragionino, per quello che io misera
n'ho potuto comprendere venendo qua; ma poi che a voi è occulto, e piacevi di
saperlo, io il vi dirò. Ieri si celebrò in Marmorina la gran festa della
natività del re Felice, al quale, con alquanti baroni sedendo a una tavola, io
fui mandata dal siniscalco con un paone, il quale era avvelenato; e io di ciò
non sappiendo niente, fatto quello d'esso che comandato mi fu, io il lasciai
davanti al re, e torna'mene alla camera della reina: ove essendo ancora poco
dimora ta, io fui presa e messa in prigione con grandissimo furore. E sanza
volere essere in alcuno atto ascoltata, fui poco inanzi sentenziata a questa
morte. Ma se a' miseri si dee alcuna fede, io vi giuro per la potenza de' sommi
iddii che questo peccato io non commisi, e sanza colpa mi conviene patire la
pena. Ma io vi priego, se voi siete amico di Florio, per amore del quale io
credo che io sono fatta morire, che voi m'aiutiate e difendiate, acciò che io
sì vilmente non muoia».
Florio,
il quale insieme riguardava e ascoltava intentivamente Biancifiore, piangendo
continuamente sotto l'elmo, e guardandosi bene che del suo pianto niuno
s'avvedesse, molto disiderava di farsi conoscere; poi per l'amaestramento della
santa dea ne dubitava; ma finalmente così le rispose:
«Bella
giovane, confortati, che io ti prometto che tu non morrai, mentre che gl'iddii
mi presteranno vita».
E
alzata la visiera dell'elmo, voltato verso il gran popolo che a vedere era
venuto, disse così:
[61]
«Signori,
i quali qui adunati siete per vedere il disonesto e ingiusto strazio che di
questa giovane alcuni vogliono fare, il quale, se spirito di pietà alcuno fosse
in voi rimaso, dovreste fuggire di ciò vedere, a me brievemente pare, per le
parole che io ho da lei intese, le quali io credo, e manifestamente appare
quelle essere vere, che la sentenza data contro a lei sia, nella presenza degli
uomini e degl'iddii, falsa e iniquamente data, però che ella semplicemente
portò quello che comandato le fu; ma il siniscalco, il quale gliel comandò, è
colui che del male è stato cagione; per la qual cagione sopra lui e non sopra
costei, cade questa sentenza. E chi altro che questo ne volesse dire, o il
siniscalco o altri per lui, io sono presto e apparecchiato di difendere che
quello ch'io ho detto sia la verità, e in ciò arrischierò la persona e la vita,
imperciò che la manifesta ragione mi stringe ad essere pietoso della ingiusta
ingiuria fatta a costei; e, d'altra parte, io sono distrettissimo e caro amico
di Florio, e ella per amore di lui mi priega ch'io l'aiuti e difenda nella
ragione: e io così son presto di fare, e in ragione e in torto, contro a
chiunque la vuol far morire, però che se altro ne facessi, molto alla cara
amistà mi parrebbe fallire, e ogni uomo mi potrebbe di ciò giustamente
riprendere».
[62]
Assai
nobili uomini erano ivi presenti, e massimamente v'erano la maggior parte di
quelli che vantati s'erano al paone, a' quali molto di Biancifiore dolea: i
quali queste parole udendo, tutti dissero che il cavaliere dicea bene, e che
ragionevole cosa era che 'l siniscalco, o altri per lui, sua ragione, contro a
quelli che la contradicea, difendesse. E di ciò mandarono al re sofficienti
messaggeri subitamente, contenti tutti sanza fine di tale accidente,
favoreggiando Biancifiore in quanto poteano. E alcuno di quelli giudici che
sentenziata l'aveano, trovandosi ivi presente, udite le parole di Florio,
comandò che più avanti non si procedesse, infino a tanto che 'l cavaliere non
avesse suo intendimento provato. Ma il siniscalco, che dentro di rabbiosa ira
tutto si rodea, veggendo che Biancifiore aveva aiuto e che di consentimento di
tutti all'opera si dava indugio, e che il cavaliere sì vituperose parole aveva
dette di lui, incominciò a bestemiare quella deità che avuto avea potere
d'indugiare tanto la morte di Biancifiore, e che per inanzi se ne inframettesse
in non lasciarla morire; e così bestemiando si trasse avanti, e disse:
«Il
cavaliere mente per la gola di tutto ciò che ha detto; ché Biancifiore dee
ragionevolemente morire, e sì morrà ella in dispetto di lui e di Florio, per
cui richiamata s'è, e di qualunque iddio la ne volesse aiutare».
E
comandò a' sergenti che incontanente la mettessero nel fuoco, e lasciassero
dire il cavaliere: che, se difendere la volea, fosse venuto avanti che la
sentenza fosse data, ché omai tornare non si può ella indietro per cosa che
alcuno dica. Florio si volse subito a' sergenti, dicendo:
«Nullo
di voi la tocchi per quanto la vita gli è cara: lasciate abbaiare questo cane
quanto egli vuole; se egli disidera di farla morire, venga avanti egli a
toccarla».
Allora
Massamutino, enfiato e pieno di mal talento, spronò il cavallo adosso a Florio,
e disse:
«Villan
cavaliere, chi se' tu che sì contrari la nostra potenza con sì oltraggiose
parole? Poco che tu parli più avanti, io ti farò prendere e ardere con lei
insieme. Via, levati di qui incontanente».
Florio,
non potendo più sostenere, alzò allora la mano, e diedegli sì gran pugno in su
la testa, che quasi cadere lo fece sopra l'arcione della sella tutto stordito;
e questo fatto, rizzatosi sopra le strieve, e accostatosi a lui, preso l'avea
sotto le braccia per gittarlo dentro all'acceso fuoco; ma molti furono gli
aiutatori, quasi più per iscusa di loro che per buona volontà, i quali se stati
non fossero, finita era quivi la rabbia del siniscalco. Ma trovandosi egli
dilibero da Florio, voltate le redini del corrente destriere, avacciandosi
n'andò al real palagio; e venuto nella presenza del re, vi trovò alcuni mandati
da' nobili uomini che udite aveano le parole di Florio, i quali da parte loro
gli recitavano l'accidente. A costoro ruppe il siniscalco il parlamento,
giungendo furioso, e così disse:
«Ahi,
signor mio, ascolta le mie parole. Là alla Braa è venuto il più villan cavaliere
che unque portasse arme, insieme con un compagno, tutti armati, e dice che
provare mi vuole per forza d'arme che la sentenza, da' vostri giudici data
contro a Biancifiore, sia falsa, e ch'ella non debbia morire intende, e a me,
che disarmato a' suoi intendimenti resistea, ha fatto villania e oltraggio; e
certo ivi era presente Parmenione, Sara, e al tri uomini a voi suggetti sì
com'io, i quali più tosto disaiuto che soccorso mi porsero, svergognando voi e
la vostra potenza, favoreggiando Biancifiore. E il cavaliere ha detto ch'è
fedelissimo e distretto amico di Florio; onde Biancifiore per parte di lui gli
s'è richiamata: per la qual cosa è del tutto fermo di mai sanza battaglia non
partirsi, e di scampar lei o di morire egli. Onde io vi priego carissimamente
che a me voi concediate questo dono della battaglia, rinnovandomi arme e
cavallo, acciò ch'io possa principalmente con la mia spada il vostro onore e
intendimento servare, e appresso vendicare la ricevuta onta. Io porto speranza
negl'iddii e nelle mie forze che sanza dubbio con vittoria vi menerò preso il
villan cavaliere, che tanto ha oggi vostra potenza dispregiata».
[63]
Niente
piaceano al re tali novelle, ma con dolente animo l'ascoltava, e fra sé dice:
"Deh! or chi ha sì tosto a Florio queste cose rivelate, che egli sì subito
soccorso mandato l' ha? E chi potrebbe essere stato amico di Florio tanto
stretto, che per lui a tal pericolo si mettesse? Non so. O iddii, maladetta sia
la vostra potenza, la quale non ha potuto sostenere ch'io rechi a perfezione un
mio intendimento!". E poi che egli ebbe per lungo spazio rivolte per la
mente le non piacevoli cose, sospirando rispose:
«Non
so chi si sia questi che il mio intendimento s'ingegna d'impedire; ma sia chi
vuole, che forse egli morrà e Biancifiore non camperà».
E
poi soggiunse:
«Siniscalco,
a me pare l'ora molto alta a volere combattere, e te sento oggi molto
affannato, e però rimangasi per questo giorno la battaglia. Va, e fa convitare
il cavaliere e onorarlo infino al mattino; poi, quando il sole con più tiepido
lume ritornerà, combatterete, poi che negare non gli possiamo la battaglia».
«Sire
- rispose il siniscalco, - in niuna maniera può oggi rimanere la battaglia,
però che il cavaliere che là dimora è di sì fiero coraggio e ardimento, che con
qualunque persona volesse Biancifiore toccare, converrebbe che con lui
combattesse, o lei lasciasse stare; né alcuno v'è a cui della morte di
Biancifiore non incresca, né che più tosto in aiuto di lei non mettesse la
persona, che in suo danno dicesse una sola parola, fuori solamente io, che da'
vostri piaceri e comandamenti mai non mi partii né partirò; e però se voi mi
concedete che io oggi combatta, io combatterò, e se non, se io ne vorrò far
venire Biancifiore alla prigione, io so che combattere mi converrà. Priegovi
che adunque voi la mi concediate ora, poi che io sopra lui sono animoso».
[64]
Rispose
allora il re:
«Poi
ch'egli è come tu mi di', e la battaglia non si può oggi cessare, va e prendi
l'arme e qualunque de' nostri cavalli più ti piace, e fa che onore acquisti con
vittoria: pensa che nelle tue mani dee stare oggi la perfezione del nostro
avviso, e la verità delle nostre bocche si dee con la forza del tuo braccio
osservare. Ma acciò che la fortuna con non pensato infortunio il nostro
intendimento non recida, se ti parrà di potere fare, comanderai a' tuoi
sergenti che mentre la gente attenta dimora a vedere la vostra battaglia, che
essi subitamente gittino Biancifiore nell'acceso fuoco; poi, questo fatto,
della tua vittoria non ti curare guari».
«Questo
sarà a mio potere fornito» rispose il siniscalco, e partissi da lui.
[65]
Prese
adunque il siniscalco quelle armi e quel cavallo che migliore si credette che
fosse per tornare al campo; ma la dolente Biancifiore, né campata né al tutto
dannata rimasa, quivi si stava intra' due continuamente piangendo; e poco
valeva che Florio, il quale dal suo lato mai non si partiva, la confortasse,
posto che se saputo avesse che colui che sì pietosamente la confortava fosse
stato Florio, ella avrebbe tosto mutato il doloroso pianto in amoroso riso, non
curandosi del pericolo nel quale esser le parea. Ella domandava sovente:
«O
cavaliere, che è di Florio? Quanto è che voi il vedeste?».
E
ogni volta al nominar Florio, più forte piangea. E Florio le rispondea:
«Giovane
donzella, in verità che la passata sera il vidi e con lui dimorai per grande
spazio a Montoro, là ove io poi il lasciai faccendo sì grandissimo pianto e
duolo di ciò che avvenuto t'è, che niuna persona il potea né può racconsolare.
Egli caramente mi pregò che io dovessi qui sanza dimoro venire a liberarti di
questo pericolo; e egli sanza fallo ci sarebbe venuto, se non che io nol
lasciai, però che io credo fermamente che se egli ti vedesse in tale maniera,
forte sarebbe che egli o per grieve doglia non morisse, o per quella il natural
senno perdesse. Ma molto ti manda pregando che tu ti conforti per amore di lui
e che tu il tenghi a mente, come egli fa te, che mai per bellezza d'alcuna
altra giovane non ti pote né crede poter dimenticare».
Assai
piacevano a Biancifiore queste parole, e molto in sé se ne confortava, e poi
fra sé dicea: "Deh, chi è questo sì caro amico di Florio, che qui al mio
soccorso è venuto? Or nol conosco io? Io soglio conoscere tutti coloro che
amano Florio". E mentre questo fra sé ragionava, sempre guardava l'armato
cavaliere nel viso, e quasi alcuna ricordanza le tornava d'averlo altre volte
veduto; ma l'angoscia e la paura che per lo petto e per la mente le si
volgeano, non lasciavano alla estimativa comprendere niuna vera fazione di
Florio: e, d'altra parte, Florio per l'armi e per le lagrime aveva nel turato
viso perduto il bel colore, il quale mai, avanti che a Montoro andasse, non
s'era nel cospetto di Biancifiore cambiato. E volendolo ella domandare del nome,
Massamutino apparve sopra il campo tutto armato con due compagni, ciascuno
sopra altissimo destriere a cavallo, l'uno de' quali li portava uno forte scudo
avanti, nel quale un leone rampante d'oro in uno azzurro campo risplendea, e
l'altro una corta lancia e grossa con un pennoncello a simigliante arme: per la
qual cosa la gente tutta cominciò a gridare e a dare luogo, dicendo:
«Ora
vedremo che fine avrà l'orgoglio del siniscalco»; e questo tolse a Biancifiore
con subito tremore il non potere più parlare col cavaliere. Ma Florio sì tosto
come questo udì, bassata la visiera dell'elmo, disse:
«O
giovane, fatti sicura che 'l tempo della tua liberazione è venuto»; e voltato
al forte iddio e ad Ascalion, disse:
«O
somma deità nascosa nella vermiglia luce, e tu, caro compagno, ecco il mio
avversario: alla battaglia non può essere più indugio. Io vi priego che questa
giovane vi sia raccomandata, sì che, mentre che io combatterò, alcuna ingiuria
fatta non le fosse».
E
dette queste parole, ripresa la sua lancia, si fermò, quivi aspettando
Massamutino con sicuro cuore.
[66]
Massamutino
non fu prima in sul campo, che egli si fece chiamare alquanti de' sergenti,
quelli in cui più si fidava, e così pianamente disse loro:
«Sì
tosto come voi vedrete che la gente starà tutta attenta a vedermi combattere
col cavaliere, che difender vuole questa falsa femina e voi allora prestamente
la prenderete e gitteretela nel fuoco, acciò che, se io ho vittoria, noi ce ne
siamo più tosto spediti, e se io non avessi vittoria, che per la mia poca forza
non perisca la giustizia».
I
sergenti risposero che ciò sanza alcuno fallo sarà fatto. Allora il siniscalco
prese lo scudo e la lancia, e cavalcò avanti tanto che davanti a Florio
pervenne, a cui egli disse così:
«O
villan cavaliere, ecco chi abasserà la tua superbia; e se tu contro alla vera
sentenza, data giustamente sopra la persona di questa iniqua e vil femina qui
presente, vuoi dire alcuna cosa, io sono venuto per farti con la mia spada
riconoscere il tuo errore».
A
cui Florio rispose:
«Iniquo
traditore, la mia spada non taglia peggio che la tua, e quella gola per la
quale tu menti oggi il proverà, sì come io credo; e a ciò gl'iddii m'aiutino,
sì come campione e difenditore della verità, e però tra'ti adietro, e, quanto
vuoi, del campo prendi, ché poi che armato se', l'offenderti non mi si
disdirà».
[67]
Sanza
più parole ciascuno si trasse adietro quanto a lui piacque, acconciandosi
ciascuno per offendere l'altro. Ma certo la paura del misero Icaro, volante più
alto che il mezzo termine posto dal maestro padre, non fu tale quando sentì la
scaldata cera lasciare le commesse penne, quale fu quella di Biancifiore,
quando il grande grido si levò:
«Ecco
il siniscalco!».
Ella
non morì, e non rimase viva: se alcuno colore l'era nel viso ritornato, o
rimaso, tutto si fuggì, e quasi ogni sentimento del corpo abandonò le sue
parti, e l'anima si ristrinse nell'ultime parti del cuore, e quasi la volle
abandonare; ma poi che la vita tornò igualmente per tutti i membri, ella,
inginocchiata in terra, incominciò a dire, alzato il viso verso il cielo:
«O
sommo Giove, il quale con le tue mani formasti i cieli insieme con tutte
l'altre creature, e in cui ogni potenza è fermamente, se tu ad alcuni prieghi
ti pieghi, riguarda in me misera, e se io alcuna pietà merito, porgimi il tuo
aiuto, sì come facesti al vecchio Anchise, quando sano sanza alcuno impedimento
de' crudeli fuochi dell'antica Troia il traesti. Deh, non volgere i tuoi
pietosi occhi in altra parte, riguarda a me: io sono tua creatura, e nella tua
misericordia spero. A te niuna cosa è nascosa: tu sai se io ho avuta colpa in
ciò che costoro ingiustamente m'appongono. O signor mio, aiutami e aiuta chi
per me s'affanna; non si tinga oggi la spada d'Astrea nello innocente sangue.
Dà vigore al mio cavaliere, il quale forse più per lei, che per amore di me o
d'altrui, s'ingegna di avere vittoria; e non abandonare me misera posta in
tanta tribulazione».
[68]
Quando
i due cavalieri si furono allungati ciascuno l'uno dall'altro quanto a loro
parve, e voltate le teste de' cavalli con presta mano l'uno verso l'altro,
allora s'accostò Marte a Florio, e disse:
«Giovane
cavaliere, qui si parrà quanto sia il valore del tuo ardito cuore: fa che tu
seguiti nelle tue battaglie gli amaestramenti del tuo compagno».
E
questo detto, con la sua mano gli alzò la visiera dell'elmo, e alitogli nel
viso, e poi gliele richiuse, e acconciandogli in mano la forte lancia, disse:
«Muovi,
che già il tuo nemico è mosso».
Florio
sospirando riguardò verso quella parte dove Biancifiore dimorava, e appresso
ferì il corrente destriere con i pungenti sproni, dirizzandosi verso
Massamutino, che inver di lui correndo veniva con la lancia bassata. Ma già non
parve alla circustante gente che un cavaliere si movesse, ma una celestiale
folgore. Egli nella sua mossa fece tutto il campo risonare e fremire, e
giugnendo sopra il siniscalco, sì forte con la sua lancia il ferì nella gola,
che quella ruppe, e lui miseramente abbatté nel campo sopra la nuova erbetta, passando
avanti. E appena avea ancora il colpo fornito, quando i sergenti, veggendo la
gente attenta più a riguardar loro che Biancifiore, s'accostarono per voler
prendere lei e farne come il siniscalco avea comandato. Ma Marte, che di ciò si
accorse, sfavillando corse in quella parte, e lei nella sua luce nascose,
faccendo loro impauriti tutti di quindi fuggire. Il romore fu sì grande nel
campo per la caduta del siniscalco, che lui stordito fece risentire: il quale
ritrovandosi in terra ancora con la sua lancia in mano sanza avere ferito, e
riguardandosi intorno, e vedendo il nimico suo a cavallo tornare verso di lui,
tutto isbigottì, dicendo:
«Oimè,
or con cui combatto io? Quelli non mi pare uomo: voglio io provare le forze mie
con gl'iddii? Già mi manifestò il cuore stamane, incontanente che io vidi la
vermiglia luce, che quello era segno di soccorso divino a Biancifiore. Io
veggio costui che d'iniquità o d'altro arde tutto nel primo aringo: or che farà
egli quando più sarà riscaldato nella battaglia? S'egli è iddio, io non gli
potrò resistere; s'egli è uomo, molto mi sarà duro alla sua fierezza
contrastare. Volontieri vorrei di tale impresa esser digiuno, ma più non
posso».
E
così dicendo, prestamente si dirizzò, e volentieri si saria partito se potuto avesse;
e, traendo fuori la spada, disse:
«Faccino
di me gl'iddii che loro piace: io pur proverò s'egli è così fiero con la spada
in mano come con la pungente lancia, avanti che io, sanza aver bagnata la terra
del mio sangue, mi voglia vituperosamente chiamare vinto».
In
questo Florio s'appressò verso di lui e disse:
«Cavaliere,
certo mala pruova ci fa il tuo orgoglio, e già del primo assalto stai male».
Disse
il siniscalco:
«Niente
sto peggio di te, se io fossi a cavallo; ma già questo vantaggio non avrai tu
da me».
E
questo dicendo, subitamente alzò la spada per ferire Florio sopra la testa, ma
il colpo fu corto e discese sopra il collo del buon cavallo, al quale niuna
resistenza valse che non partisse la testa dal busto, e cadde morto. Florio,
vedendo il colpo, saltò tantosto a terra del cavallo, e acceso d'ira, tratta
fuori la celestiale spada, andò verso di lui, e sì forte col petto l'urtò, che
fatto il credette avere cadere; ma egli forte si ritenne pettoreggiando lui,
non lasciandoselo da quella volta inanzi più accostare, ma ferendolo
continuamente di gravi e spessi colpi. Florio ricevea sopra il rilucente scudo
le molte percosse, quasi lui poco o niente ferendo; ma, stando sempre a
riguardo, intendea di volere tutti i suoi colpi in uno recare, acciò che per
molto ferire la celestiale spada non fosse avvilita. E quando luogo e tempo gli
parve, avvisandolo in quella parte nella gola là ove la lancia avea le armi
guastate, alzato il braccio, sì forte il ferì, che alcuna arme non gli giovò
che egli non gli ficcasse la spada assai nelle nude carni: e se il colpo fosse
stato traverso, come fu diritto, oppinione fu di tutti che tagliata gli avrebbe
la testa. Per questo colpo cadde il siniscalco, e tutti fermamente credettero
che egli fosse morto: per la qual cosa il romore si levò grande:
«Morto
è il siniscalco, e liberata è Biancifiore»; e di ciò tutti rendeano grazie
agl'iddii e faceano festa. Mentre il gran romore si facea, il siniscalco, che
per quel colpo morto no, ma istordito era, si dirizzò tacitamente, e salito
sopra un cavallo, il quale apparecchiato gli fu, incominciò a fuggire. Ma
Florio, che verso Biancifiore se n'era andato, voltato per lo romore che la
gente gli facea dietro, vedendolo fuggire, quasi niente gli parve avere fatto,
però che morto il credeva avere lasciato: allora mise mano al suo arco, un poco
in se medesimo turbato, e postavi la saetta, l'aperse, saettandogli appresso, e
disse:
«Sanza
nostro affanno questa ti giugnerà più tosto che tu non credi».
E
lui fuggente ferì di dietro nelle reni: niuna arme fece alcuna resistenza a
quel colpo, ma passando dentro, mortalmente il piagò. Onde il siniscalco,
sentendo il duolo, quivi si fermò, dove Florio tutto a piè venuto il prese per
la irsuta barba e tirandolo villanamente a terra del cavallo, infino all'acceso
fuoco, nel cospetto di Biancifiore, cui Marte avea già della sua luce tratta,
lo strascinò, insanguinando il piano con le sue piaghe; al quale, quivi giunto,
disse:
«Malvagio
e iniquo traditore, se tu vuoi a noi di te porgere alcuna pietà, narra davanti
a tutto questo popolo in che maniera il veleno, del quale questa innocente
giovane fu accagionata, fu mandato davanti al re».
A
cui il siniscalco così rispose:
«Poi
che gl'iddii v'hanno questa vittoria conceduta, e piace loro che la verità sia
manifesta, io, la cui vita è nelle vostre mani, avvegna che poca rimasa me ne
sia, il vi dirò come io potrò. Fatemi dirizzare in piè e sostenere ad alcuni,
acciò che io stando alquanto alto possa da tutti essere udito e veduto».
Fecelo
Florio sostenere a' suoi sergenti medesimi, e egli così incominciò a dire:
[69]
«Egli
è vero, o signori, che ancora non ha gran tempo, io amai sopra tutte le cose
del mondo Biancifiore, e amandola molto, pregai il re, mio naturale signore,
che gli piacesse di congiungerla meco per matrimonial legge, il quale
liberamente mi promise di farlo; ma poi dicendo ad essa che me per marito
donare le volea, ella rispose che sì vile uomo com'io era mai a suo potere non
l'avrebbe, e che da ciò la dilungassero gl'iddii; e poi piangendo,
gittandoglisi a' piedi il pregò che gli piacesse che egli non la mi desse: onde
egli mosso a pietà di lei, che come figliuola l'amava, disse: "Non
piangere, che io nol ti donerò". Io, risappiendo queste cose, molto mi
turbai, e quello amore ch'io le portava si convertì in odio, e sempre pensai
come io vituperosamente la potessi o far morire o far che cacciata fosse; onde
iermattina celebrandosi la gran festa della natività del re, io feci cuocere e
segretamente avvelenare quel paone, il quale io poi a lei feci portare alla
real mensa; e questo feci acciò che ella venisse a questa morte, dalla quale
questo cavaliere vincendo l'ha scampata».
[70]
Guardossi
assai il siniscalco di non dire alcuna cosa del re, però che campare credea,
ché non volea rimanere nella disgrazia sua; e di ciò fu ben contento Florio,
che la nequizia del suo padre non fosse sì manifestamente saputa. Ma sì tosto
come Massamutino tacque, ogni gente cominciò a gridare:
«Muoia,
muoia!».
E
Marte, che udite avea queste cose, con alta voce, non essendo da alcuno veduto
se non da Florio, disse:
«Sia
questa l'ultima ora della sua vita: gittalo in quel fuoco ove egli fatta avea
giudicare Biancifiore, acciò che la giustizia per noi non patisca difetto. Di
così fatti uomini niuna pietà si vuole avere».
Florio,
udita questa voce, ripresolo per la barba, il gittò nel presente fuoco. Quivi
con grandissime grida e con grieve doglia finì il siniscalco miseramente la sua
vita ardendo.
[71]
Fu
da molti la novella portata con lieto viso al re Felice della morte del
siniscalco e della liberazione di Biancifiore: e chi la vi portò credendolo
rallegrare, e chi per lo contrario. E narrandogli molti per ordine ciò che stato
era nel campo tra' due cavalieri, e ancora il miracolo della vermiglia luce, e
ciò che confessato avea il siniscalco avanti la sua morte, il re in atto fece
vista di maravigliarsene molto, ma gravosa e sanza comparazione noiosa gli era
all'animo tal novella; ma per non scoprire ciò che infino a quell'ora avea con
fermo viso tenuto celato, con atto lieto si mostrò contento di ciò che avvenuto
era, e così disse:
«In
verità che a me molto è a grado che Biancifiore sia da tal pericolo scampata,
poi che colpabile non era, però che io l'amo quanto cara figliuola, avvegna che
assai mi duole della morte del mio siniscalco, il quale io infino a qui per
leale uomo e valoroso avea tenuto. Ma poi che tanta malvagità occultamente in
lui regnava, alquanto mi contento che a tal fine sia pervenuto. E se io voglio
ben considerare tutto ciò che da voi m'è stato detto, io veggo manifestamente
me essere molto tenuto agl'iddii nostri; e similemente conosco me da loro molto
essere amato, veggendo che essi inver di me tanta benivolenza dimostrano, che
essi non sofferano che nella mia corte alcuna iniqua cosa sanza punizione si
faccia, per la quale la mia etterna fama potesse da alcuno ragionevolmente
essere contaminata».
[72]
Avendo
Florio gittato il siniscalco nelle ardenti fiamme, egli fece Biancifiore
montare sopra un bel palafreno. E accompagnando il grande iddio e egli e
Ascalion con molti altri compagni verso il reale palagio, ella ancora quasi
paurosa, che appena potea credere essere fuori del tristo pericolo, si voltò
tutta tremante a Florio, e disse:
«O
signor mio, or dove mi menate voi? Voi m'avete tratta d'un pericolo, e
riportatemi in luogo che è pieno di molti. Deh, perché volete voi avere perduta
la vostra fatica? Io non sarò prima là, che, come voi vi sarete partito, io mi
sarò a quel pericolo che io m'era quando io molto di lontano vi vidi, avvisando
che in mio aiuto foste venuto. Deh, se voi siete così amico di Florio come voi
dite, e come l'operazioni dimostrano, perché non me ne menate voi a lui a
Montoro? Io non dubiterò di venir con voi ovunque voi mi menerete, solo ch'io
creda trovar lui. Egli sarà più contento che voi mi rendiate a lui, che se voi
mi rendete al suo padre».
A
cui Florio rispose:
«Piacevole
donzella, non dubitare: gl'iddii e Florio vogliono che tu sii renduta ora al re
Felice, acciò che del suo fallo egli si riconosca; ma renditi sicura che più da
lui tu non avrai altro che onore. E io, quando tornerò a Montoro, farò sì che
Florio verrà tosto a vederti, o egli manderà per te».
E
mentre che così ragionando andavano, pervennero al reale palagio in Marmorina.
Quivi smontati nella gran corte, Florio prese Biancifiore per mano, e così la
menò nella sala davanti allo iniquissimo re, che ancora parlava con coloro che
raportate gli aveano le novelle della morte del siniscalco. Il quale,
vedendogli venire, si fece loro incontro, a cui Florio disse:
«Sire,
io vi raccomando questa giovane, la quale io, con la forza dell'iddii e con la
mia, della iniqua sentenza ho liberata; e per parte di Florio, per amore di cui
io a questo pericolo, aiutando la ragione, mi sono messo, ve la raccomando e vi
priego che più sopra di lei non troviate cagioni che faccino ingiustamente la
morte parere giusta, come ora faceste, però che la verità pur si conosce
infine, e degna infamia ve ne cresce: e appresso, quando la morte di colei, la
quale innocente e giusta da tutti è conosciuta, e da voi più che da alcuno
altro, cercate, insieme quella di Florio domandate: però tenetela omai più cara
che infino a qui fatto non avete»; e datagliele in sua mano si tirò adietro.
[73]
Con
lieto viso la prese il re, e abbracciatala come cara figliuola la baciò in
fronte, e ella, savissima, incontanente piangendo si gittò in terra, e baciogli
i piedi, e poi in ginocchie levata disse:
«Padre
e signore mio, io ti priego che se mai in alcuna cosa ti offesi, che tu mi
perdoni, ché semplicità e non malizia m'ha fatto in ciò peccare; e priegoti che
del tutto dell'animo ti fugga che io in questo fallo, per lo quale condannata
fui, avessi colpa: e avanti che mai tal pensiero mi venisse, mi mandino
gl'iddii subitana morte. Chi fu quelli che in ciò fallì, a tutto il tuo popolo
è manifesto, e però, caro padre e signore, rivestimi della tua grazia, della
quale ingiustamente fui spogliata».
Il
re la prese per la mano e fecela dirizzare in piè, e la seconda volta con segno
di molto amore l'abbracciò, dicendo:
«Mai
a me non fosti graziosa e cara quanto ora se', e però ti conforta».
E
rivolto a Florio, disse:
«Cavaliere
ignoto m'è chi tu sia, ma però che di' che amico se' di Florio, nostro
figliuolo, e ciò per le tue opere è ben manifesto, e per amore, ché n'hai con
la tua spada illuminato e fattaci conoscere la verità, la quale a' nostri occhi
sanza dubbio era occulta, e hai per questa chiarezza levata da tanto e tale
pericolo costei, la quale quanto figliuola amo, tu mi se' molto caro, e sanza
fine disidererei di conoscerti, quando noia non ti fosse; e dicoti che a me tu
hai troppo piaciuto, avendo chi il peccato avea commesso così debitamente
punito, dando acerba pena allo iniquo fallo, per la qual cosa sempre tenuto ti
sarò; e promettoti per quella fede che io debbo agl'iddii, che per amore di
Florio e di te la giovane sempre mi fia raccomandata. E non voglio che
nell'animo ti cappia che io della giudicata morte non fossi molto dolente; e
certo a tutti costoro poté essere manifesto il mio viso e 'l petto pieno di
lagrime, quando sentenziare la udii; e se la pietà si dovesse antiporre alla
giustizia, certo ella non sarebbe mai di qua entro per sì fatta cagione
uscita».
[74]
«A
me - rispose Florio - non è al presente licito di dirvi chi io sia, e però
perdonatemi; e quando vostro piacere fosse, io volentieri mi partirei co' miei
compagni».
«Poi
che sapere non posso chi tu se', va, che gl'iddii ognora in meglio ti
prosperino».
Allora
Florio piangendo guardò Biancifiore, che ancora piangea, e disse:
«Bella
giovane, io ti priego per amor di Florio che tu ti conforti, e rimanti con la
grazia degl'iddii».
E
detto questo, e preso commiato dal re, smontò le scale, e risaliti sopra i loro
cavalli, egli e Marte e Ascalion, de' quali nullo era stato conosciuto, si
misero al camino. E pervenuti che furono a quel luogo dove Marte destato avea
Florio, e Marte, voltato verso di lui, si fermò e disse:
«Omai
tu hai fatto quello per che io discesi ad aiutarti; però io intendo di tornare
ond'io discesi, e tu col tuo compagno ve n'andrete a Montoro».
Florio
e Ascalion, udite queste parole, incontanente smontati da cavallo gli si
gittarono a' piedi, ringraziandolo quanto a tanto servigio si convenia; e
porgendogli divote orazioni, egli subitamente loro sparve davanti. Rimontarono
adunque costoro a cavallo, e porgendo loro il sole chiara luce, in brieve
ritornarono a Montoro.
[75]
Poi
che pervenuti furono a Montoro, i due cavalieri, sanza alcuno romore o pompa,
quanto più poterono celatamente al tempio di Marte smontarono, e passati dentro
a quello fecero accendere fuochi sopra i suoi altari, ne' quali divotamente
misero graziosi incensi: e fattisi disarmare, le loro armi offersero a' santi
altari in riverenza e perpetuo onore del valoroso iddio. E appresso rivestiti
di bianchissimi vestimenti se n'andarono al tempio di Venere, ivi molto vicino,
tutti soletti; e quello fatto aprire, uccise con la sua mano un giovane
vitello, le cui interiora con divota mano ad onor di Venere mise negli accesi
fuochi. Le quali cose faccendo Florio, per tutto il tempio si sentì un tacito
mormorio, dopo il quale fu sopra i santi altari veduta la santa dea coronata
d'alloro, e tanto lieta nel suo aspetto, quanto mai per alcuno accidente fosse
veduta, e con sommessa voce così cominciò a dire:
«O
tu, giovane sollecito difenditore delle nostre ragioni, agl'iddii è piaciuto
che io ti debbia porgere la corona del tuo triunfo, acciò che tu per inanzi ne'
nostri servigii e nelle virtuose opere prenda migliore speranza, e più ferma
fede nelle nostre parole»; e detto questo, con le propie mani presa la corona
del suo capo, ne coronò Florio. Allora Florio, in sé di tanta grazia molto
allegro, cominciò così a dire:
«O
santa dea, per la cui pietà tutti coloro che a' loro cuori sentono i dardi del
tuo figliuolo, come io fo, sono mitigati, quanto il mio potere si stende, tanto
ti ringrazio di questo onore, il quale tu con la divina mano porto m'hai. Ma
però che più la tua potenza che 'l mio valore adoperò nella odierna battaglia,
io di questa corona al tuo onore ornerò i tuoi altari».
E
questo detto, trattasi la corona della testa, sopra i santi altari con
grandissima reverenza la pose, e dirizzossi; e uscito del santo tempio, niuno
altro in Montoro ne rimase che da lui visitato non fosse, e onorato con degni
sacrificii. La qual cosa fatta, egli e Ascalion, tornati al palagio del duca
così freschi come se mai arme portate non avessero, montarono nella sala, ove
trovarono il duca con molti altri, i quali tutti si maravigliavano e
ragionavano quello che di Florio potesse essere, che veduto non l'aveano quel
giorno. Il quale quando il duca il vide, lietamente andandogli incontro
l'accolse, dicendo:
«Dolce
amico, e dove è oggi vostra dimora stata, che veduto non v'abbiamo? Certo noi
eravamo tutti in pensiero di voi».
A
cui Florio faccendo grandissima festa disse:
«In
verità io sono stato, e Ascalion con meco, in un bellissimo giardino con donne
e con piacevoli damigelle in amorosa festa tutto questo giorno».
«Ciò
mi piace - disse il duca, - e questa è la vita che i valorosi giovani in
namorati deono menare, e non darsi in su gli accidiosi pensieri, consumandosi e
perdendo il tempo sanza utilità alcuna».
[76]
Il
re Felice, che con altro cuore avea Biancifiore da Florio ricevuta che il viso
non mostrava, la menò alla reina, e disse:
«Donna,
te', ecco la tua Biancifiore, la cui morte agl'iddii non è piaciuta. Guardala e
siati cara, poi che i fati l'aiutano: forse che essi serbano costei a maggior
fatti che noi non veggiamo».
La
reina con lieto viso e animo la prese, contenta molto che diliberata era da
quella morte; e fattole grandissimo onore e festa, e rivestitala di reali
vestimenti, con lei insieme visitò tutti i templi di Marmorina, rendendo debite
grazie e faccendo divoti sacrificii a ciascuno iddio o dea che da tal pericolo
campata l'aveano. E così, avanti che al real palagio tornassero, niuno iddio
sanza sacrificii rimase, se non Diana, la quale ignorantemente dimenticata
aveano. Ma ritornati a' palagi, Biancifiore in quella benivolenza e grazia
ritornò del re e della reina, e di tutti, che mai era stata, ognora in meglio
accrescendo, con loro non mostrando che di ciò che ricevuto avea ingiustamente
si curasse o ne portasse animo ad alcuno, ma ancora, sanza farne alcuna
menzione o ricordanza, pianamente e benignamente si passava con tutti.
LIBRO
TERZO
[1]
Ritornato
Florio a Montoro, lieto per la campata Biancifiore non meno che per l'avuta
vittoria, avendo ancora gli occhi alquanto della lunga sete sbramati, prendendo
riposo del ricevuto affanno, incominciò a menar lieta vita, contentandosi
dell'aiuto degl'iddii, il quale si vedea congiunto. E già gli parea che i fati
benivoli gli fossero rivolti, ond'egli sperava tosto i suoi disiri adempiere.
Adunque la sua festa era sanza comparazione in Montoro: e i cavalli che
lungamente per lo suo amoroso dolore aveano negligente riposo avuto, ora
inforcati da lui, e le redini tenute con maestrevole mano, correndo a diversi
officii, rimettono le trapassate ore. E egli, vestito di drappi di Siria,
tessuti dalle turchie mani, rilucenti dell'indiano oro, dimostra la sua bellezza
coronato di frondi. Altre volte co' cani e col forte arco nelle oscure selve
caccia i paurosi cervi, e nelle aperte pianure i volanti uccelli gli fanno
vedere dilettevoli cacce; e spesse fiate le fresche fontane di Montoro sono da
lui con diversi diletti ricercate. Niuna allegrezza gli mancava fuori solamente
la sua Biancifiore, la quale gli era troppo più lontana che la speranza non gli
porgea.
[2]
Menando
Florio, per la futura speranza che lo 'ngannava, lieta vita, la non pacificata
fortuna, invidiosa del fallace bene, non poté sostenere di tenergli alquanto
celato il nebuloso viso, ma affrettandosi d'abreviare il lieto tempo, con
questi pensieri un giorno subitamente l'assalì. Era entrato lo innamorato
giovane nell'ora che il sole cerca l'occaso in un piacevole giardino, d'erbe e
di fiori e frutti copioso, per lo quale andando con lento passo assai lontano a
suoi compagni, vide tra molti pruni un bianchissimo fiore e bello, il quale
infra le folte spine sua bellezza serbava. Al quale rimirare Florio ristette, e
pareagli che il fiore in niuna maniera potesse più crescere in su, sanza essere
dalle circunstanti spine pertugiato e guasto, né similemente dilatarsi, o
divenir maggiore. Ond'egli incominciò a pensare e a ragionare fra se medesimo
così tacitamente:
«Oimè,
chi o qual cosa mi potrebbe più apertamente manifestare la vita e lo stato
della mia Biancifiore che fa questo bianco fiore? Io veggio ciascuna punta
delle circunstanti spine rivolta al fresco fiore, e quasi ognuna è presta a
guastare la sua bellezza. Queste punte sono le insidie poste dal mio padre e
dalla mia madre alla innocente vita della mia Biancifiore, le quali lei
alquanto muovere non lasciano sanza amara puntura. Deh, misera la vita mia! Or
di che mi sono io nel passato tempo, sperando, rallegrato tanto, che le
infinite avversità apparecchiate a Biancifiore per me mi sieno di mente uscite?
Oimè, perché dopo la disiderata diliberazione ti lasciai io al mio padre?».
Con
queste e con altre parole malinconico molto si ritornò alla sua camera, nella
quale tutto solo si rinchiuse. E quivi gittatosi sopra il suo letto, cominciò a
piangere con queste voci:
«O
bellissima giovane, sono ancora cessate le malvage insidie poste alla tua vita
da' miei parenti? Morto è lo iniquo siniscalco, a te crudelissimo nimico: certo
cessate dovriano essere. Ma io non credo che per la morte di colui la malizia
del re sia menomata, e la mia fortuna rea credo che ti faccia spesso noia:
ond'io credo che più che mai alla tua vita ne sieno poste. Oimè misero, dove ti
lasciai io? Io lasciai la paurosa pecorella intra li rapaci lupi. Deh, dove
lasciai io la mia Biancifiore? Tra coloro che sono affamati della sua vita, e
disiderano con inestinguibile sete di bere il suo innocente sangue. Certo il
comandamento della santa dea ne fu cagione, il quale volesse il sommo Giove che
io non avessi osservato. Oimè, Biancifiore, in che mala ora fummo nati! Tu per
me se' con continua sollecitudine cercata d'offendere perché io t'amo, e io
sono costretto di stare lontano da te acciò che io ti dimentichi; ma, certo
questo è impossibile, ché amore non ci legò con legame da potere sciogliere.
Niuna cosa, altro che morte, non ci potrà partire, però che né noi il
consentiamo, né amore vuole: anzi con più forze continuamente mi cresce nello
sventurato petto, tanto che d'ogni cosa mi fa dubitare; e è cresciuto a tanta
quantità, che quasi dubito che tu non m'ami, o che tu per altro non mi abandoni.
O forse ancora per li conforti della mia madre, e per campare la vita, la quale
con le propie braccia campai, lasci di non amarmi? Oimè, che amaro dolore mi
sarebbe questo! O graziosa giovane, non dimenticar colui che mai non dimentica
te: gl'iddii concedano che com'io ti porto nell'animo, tu porti me».
In
simili ragionamenti e pensieri e pianti consumò lo innamorato giovane quel
giorno e la maggior parte della notte, né potea nel suo petto entrar sonno per
la continua battaglia de' pensieri e degli abondanti sospiri, i quali a' suoi
sonni contrastavano. Ma dopo lungo andare, la gravata testa prese temoroso
sonno; e infino alla mattina, forse con non minori battaglie nel suo dormire
che essendo desto, si riposò. Oimè, quanto è acerba vita quella dello amante,
il quale dubitando vive geloso! Infino a tanto che Pocris non dubitò di Celato,
fu la sua vita sanza noia, ma poi che ella udì al male raportante servidore
ricordare Aurora, cui ella non conoscea, fu ella piena d'angosciose
sollecitudini, infino che alla non pensata morte pervenne.
[3]
Venne
il chiaro giorno, levossi Florio; il quale per lo lieve sonno non avea
dimenticati gli angosciosi pensieri, e levato, non uscì della trista camera,
come era l'altre mattine usato; ma in quella stando, si tornò sopra i pensieri
del dì preterito; e in quelli dimorando, il duca, che per grande spazio atteso
l'avea, entrò nella camera dicendo:
«Florio,
leva su, non vedi tu il cielo che ride? Andiamo a pigliare gli usati diletti».
E
quasi ancora di parlare non era ristato, che, rimirandolo nel viso, il vide
palido e nell'aspetto malinconico e pieno di pensieri, e i suoi occhi, tornati
per le lagrime rossi, erano d'un purpureo colore intorniati: di che egli si
maravigliò molto, e mutata la sua voce in altro suono, così disse:
«O
Florio, e quale subita mutazione è questa? Quali pensieri t'occupano? Quale
accidente t'ha potuto sì costringere che tu mostri ne' sembianti malinconia?».
Florio
vergognandosi bassò il viso e non gli rispose; ma crescendogli la pietà di se
medesimo, perché da persona che di lui avea pietà era veduto, cominciò a
piangere e a bagnar la terra d'amare lagrime. La qual cosa come il duca vide,
tutto stupefatto, ricominciò a parlare e a dire:
«O
Florio, perché queste lagrime? Ove è fuggita l'allegrezza de' passati giorni?
Qual cosa nuova ti conduce a questo? Certo se i fati m'avessero conceduta sì
graziosa coronazione, quale fu quella della notabile vittoria che tu avesti, a
me da altrui che da te palesata, io non credo che mai niuno accidente mi
potesse turbare. Dunque lascia il piangere, il quale è atto feminile e di
pusillanimo cuore, e alza il viso verso il cielo, e dimmi qual cagione ti fa
dolere. Tu sai che io sono a te congiuntissimo parente, e quando questo non
fosse, sì sai tu che io di perfettissima amistà ti sono congiunto: e chi
soverrà gli uomini negli affanni e nelle avversità di consiglio e d'aiuto, se i
parenti e i cari amici non gli sovengono? E a cui similmente si fiderà nullo,
se all'amico non si fida? Di' sicuramente a me quale sia la cagione della tua
doglia, acciò che io prima ti possa porgere debito conforto, e poi operando
aiuto. Pensa che infino a tanto che la piaga si nasconde al medico, diviene
ella putrida e guasta il corpo, ma, palesata, le più volte lievemente si sana. E
però non celare a me quella cosa la quale questo dolore ti porge, però che io
disidero donarviti secondo il mio potere intero conforto, e liberartene».
[4]
Dopo
alquanto spazio Florio alzò il lagrimoso viso, e così allo aspettante duca
rispose:
«Il
dolce adimandar che voi mi fate e 'l dovere mi costringono a rispondervi e a
manifestare quello ch'io credea che manifesto vi fosse. E però ch'io spero che
non sanza conforto sarà il mio manifestarmivi, dal principio comincerò a dirvi
la cagione de' passati dolori e de' presenti, posto che alquanto le lagrime, le
quali io non posso ritenere, mi impediscano. Ne' teneri anni della mia
puerizia, sì come voi potete sapere, ebbi io continua usanza con la piacevole
Biancifiore, nata nella paternale casa meco in un medesimo giorno, la cui
bellezza, i nobili costumi e l'adorno parlare generarono un piacere, il quale
sì forte comprese il mio giovinetto cuore, che io niuna cosa vedea che tanto mi
piacesse. E di questo piacere era multiplicatore e ritenitore nella mia mente
un chiarissimo raggio, il quale, come strale, da arco mosso, corre con aguta
punta all'opposito segno, così da' suoi begli occhi movendo termina nel mio
cuore, entrando per gli occhi miei: e questo fu il principale posseditore in
luogo di lei. E con ciò sia cosa che questi ogni giorno più la fiamma di tal
disio aumentasse, in tanto la crebbe, che convenne che di fuor paresse, e
scopersemisi allora lei non meno di me che io d'essa essere innamorata. Né
questo fu lungamente occulto per li nostri sospiri, di ciò dimostratori al
nostro maestro, il quale più volte con gravi riprensioni s'ingegnò ritrarre
indietro quello che agl'iddii saria impossibile frastornare; ma fattolo alla
notizia del mio padre venire, egli imaginò che, lontanandomi da lei, della mia
memoria la caccerebbe: la quale, se per la mia bocca tutto Letè entrasse, non
la poria di quella spegnere. Ma non per tanto egli faccendomi lontanare da lei,
non fu sanza gran dolore dell'anima mia e di quella di Biancifiore. E in questo
luogo mi rilegò in essilio, sotto colore di volere ch'io studiassi. Ma qui
dimorando, e trovandomi lontano a quella bellezza in cui tutti i miei disiderii
si terminano e termineranno, incominciai a dolermi, né mi lasciava il doloroso
cuore mostrare allegro viso: e di questo vi poteste voi molte fiate avedere.
Ora, come la mia doglia fosse manifesta al re m'è ignoto, ma egli, o per questa
cagione o per altra iniquità compresa ingiustamente sopra la innocente
Biancifiore, cercò d'uccider lei e nella sua morte l'anima mia: e voi foste
presente al nascoso tradimento, né non vi fu occulto lei essere a vilissima
morte condannata, né di ciò niente mi palesaste. Ma li pietosi iddii e il
presente anello non soffersero che questo fosse; ma questi mostrandomi con
turbato colore lo stato di lei, e gl'iddii ne' miei sonni manifestandolmi, mi
fecero pronto alla salute d'essa, e porgendomi le loro forze, con vittoria la
vita di colei e mia insiememente scampai, e poi ricevetti debita coronazione di
tale battaglia, avendo già rimessa la semplicetta colomba intra gli usati
artigli de' dispietati nibbi: di che io ora ricordandomi, parendomi aver mal
fatto, mi doglio. E più doglie mi recano le vere imaginazioni che per lo capo
mi vanno, che mi par vedere un'altra volta avvelenare il prezioso uccello, e
condannare la mia Biancifiore a torto, e essere il fuoco maggiore che mai
acceso. E quasi mi pare intorno al cuore avere uno amarissimo fiume delle sue
lagrime, le quali tutte mi gridano mercé. Io non so che mi fare: io amo, e
amore di varie sollecitudini riempie il mio petto, le quali continuamente ogni
riposo, ogni diletto e ogni festa mi levano, e leveranno sempre infino a
quell'ora che io nelle mie braccia riceverò Biancifiore per mia, in modo che
mai della sua vita io non possa dubitare. Io non vi posso con intera favella
esprimere più del mio dolore, il quale credo che più vi si manifesti nel mio
viso, che nel mio parlare non è fatto. Gl'iddii mi concedano tosto quel
conforto che io disidero, però che se troppo penasse a venire, così sento la
mia vita consumarsi nell'amorosa fiamma come quella di Meleagro nel fatato
stizzo si consumò».
E
questo detto, perdendo ogni potere, sopra il ricco letto ricadde supino,
tornato nel viso quale è la secca terra o la scolorita cenere.
[5]
Non
poté il duca, che con dolente animo ascoltava quello che non gli era mica
occulto, vedendo Florio supino ricadere sopra il suo letto, ritenere le lagrime
con fortezza d'animo; ma pietosamente piangendo, si recò lo 'nnamorato giovane,
a cui in vista niuno sentimento era rimaso, nelle sue braccia; e rivocati con
preziosi liquori gli smarriti spiriti ne' loro luoghi, così gl'incominciò a
dire:
«Valoroso
giovane, assai compassione porto alla tua miserabile vita, tanta che più non
posso, e forte mi pare a credere che vero sia che tu da amore così compreso sii
come tu narri, con ciò sia cosa che amore sia sì nobile accidente, che sì vile
vita non consentiria menare a chi lui tiene per signore, come tu meni; e io
l'ho già provato: e massimamente avendo tu vera cagione di doverti rallegrare,
come tu hai, se io ho bene le tue parole ascoltate. Tu, secondo il tuo dire,
ami più ch'altra cosa Biancifiore, e similemente di' che più che altra cosa
ella te ama. Adunque se tu ben riguarderai a quel che io intendo di dirti,
niuno uomo maggiore festa fare dee di te, né essere, secondo la mia oppinione,
più allegro, però che quello che più amando si disidera si è d'essere amato;
però che, se tutte l'altre cose, che ad amore s'appartengono, sanza questa
s'avessono, niuno intero bene né diletto porgere porieno, però che gli animi
sarieno disiguali. Dunque questo più che gli altri amorosi beni è da tener
caro. A questo acquistare suole essere agli amanti molto affanno e noia, il
quale se procacciando l'acquistano, tutta la loro fatica pare loro essere
terminata, o la maggior parte: e di questo è l'antica età tutta piena
d'essempli. Già hai tu inteso quello che Mimaleone sostenne da Ileo per
acquistare la benivolenza d'Atalanta: quante volte portò egli sopra i suoi
omeri le pesanti reti, e l'altre necessarie cose alle cacce, per acquistare
quella, in servigio della cruda giovane, e quanto contentamento giunse
nell'animo d'Aconzio, sentendosi con inganno avere acquistato l'amore di
Cidipe? Questo amore tu l'hai dirittamente. Per questo niuno affanno ti
conviene durare. Niuna turbazione né malinconia dovresti avere nell'animo. E
avendo questo, come tu hai, gelosia e ogni spiacevole sollecitudine dovria
essere lontana da te: e là ove tu ti contristi, ti dovresti dell'acquistato
bene rallegrare. Ancora ho compreso nel tuo parlare te avere gl'iddii e la
virtù del tuo anello in aiuto. Or qual cosa pensi tu che contraria ti possa
essere, se sì fatto aiuto hai con teco, come è quello degl'iddii, alla cui
potenza niuna cosa può resistere? Lascia piangere a' miseri, alle cui
sollecitudini solo il loro ingegno è rimaso aiutatore. Tu dei pensare che
avendo gl'iddii cura de' tuoi bisogni, se essi non concedono che tu al presente
sii con la tua Biancifiore, non è sanza gran cagione. L'uomo non sa delle future
cose la verità: a loro niuna cosa si nasconde. Tu dei credere ch'essi pensano
alla tua salute, e io credo sanza dubbio che questa dimora non sia sanza gran
bene di te. Il loro piacere si dee pazientemente sostenere. Se elli volessero,
tu saresti ora con lei; e il volere contra 'l piacer loro andare fece alla
molta gente di Pompeo perdere il campo di Tesaglia, assaliti dal picciolo
popolo di Cesare. Mostra ancora che molto ti dolga l'essere stata Biancifiore
voluta dal tuo padre fare morire, la cagione della qual morte dubiti non sia
stata il re avere saputo te dolorosa vita menare per lei, e temi forse non a
simile caso ritorni: la qual cosa se ritornasse non saria maraviglia, ma
ragione, con ciò sia cosa che tu conosca il tuo padre muoversi ad ira contra Biancifiore
per te, che tristo per lei vivi; e tu, non come disideroso della vita di
Biancifiore, ti rallegri per che ella viva, ma in pianti e in dolori consumi la
tua vita per abreviare la sua. Certo non è questo atto d'amarla, ma di mortale
odio è sembiante. E posto che mai nulla novità seguire le dovesse dal tuo padre
per lo tuo attristarti, sì dei tu volere il bene e il conforto e l'allegrezza
di lei, se così l'ami, e se ella così t'ama come tu di': le quali cose tu
cerchi di torle, menando la vita che tu fai, però che tu dei credere che se
questo le sarà raportato di te, ella di dolore si consumerà sentendo che tu ti
dolghi. Adunque niuna cagione né ragione vuole che tu questa vita meni. Tu ami
e se' amato, de' quali il numero è molto piccolo a cui questo avvegna, tu se'
con l'aiuto degl'iddii, i quali hanno sempre sollecitudine della tua salute, e
questo hai tu per opera veduto. Dunque confortati; e se per te non ti vuoi
confortare, confortati per amor di lei e di noi, acciò che ella e noi abbiamo
ragione di rallegrarci. Ben se' lontano a lei, che credo che sanza comparazione
ti sia noioso; ma non si può sì dolce frutto, come è quello d'amore, gustare
sanza alcuna amaritudine; e le cose disiderate lungamente giungono poi più
graziose. A Penolope parea dolce appressarsi alla morte, sperando che ogni
domane dovesse tornare Ulisse prima da Troia, e poi non sappiendo da che luogo.
Pensa che tu non sarai tutto tempo qui, né sanza lei. Se io fossi in tuo luogo,
io userei per più sano consiglio il simulare. Io mostrerei, faccendo festa, che
più di Biancifiore né mi calesse né me ne ricordassi, e ristrignerei l'amorose
fiamme dentro con potente freno. Forse, così faccendo, il tuo padre si
crederebbe che dimenticata l'avessi, e concederebbeti più tosto il tornare a rivederla.
Quello che detto t'ho tu hai udito, e io te l'ho detto sì come colui che in
simil caso il vorrei da altrui udire; ma non per tanto se altro consiglio più
savio vedessi arditamente lo scuopri a me, ché io non intendo di contradirti né
partirmi mai dal tuo piacere. Priegoti quanto più posso, come congiunto parente
e vero amico, che da te ogni paura e pensiero cacci, perciò che delle tue
dubitazioni di lieve accertare ci possiamo. E i pensieri, come di sopra t'ho
detto, non dei avere: e però levati su, e vinca il tuo valore i non dovuti
pensieri i quali t'occupano per lo solingo ozio. Piglia alcuni diletti, come
per adietro abbiamo già fatto, acciò che in quello né i pensieri t'assaliscano,
né la tua vita sì vilmente si consumi. In questo mezzo spero che gl'iddii per
la loro benignità provederanno graziosamente a porre debito fine a' tuoi
disiderii, forse ora da te né da alcuno già mai pensato».
[6]
Piacque
a Florio assai il fedele consiglio del duca, e così, levata la testa,
sospirando rispose:
«Carissimo
parente, questa gentil passione d'amore non può essere che alcuna volta i più
savi, non che me, quando le sono suggetti come io sono, non faccia tenere
simile vita: e però di me non vi maravigliate, ma crediate che io sia tanto
innamorato quanto mai giovane niuno fosse o potesse essere. E ciò che voi
m'avete narrato, conosco apertamente esser vero; e però, disposto a seguire il
vostro consiglio in quanto io potrò, mi dirizzo: andiamo, e facciamo ciò che
voi credete che vostra e mia consolazione sia».
E
detto questo, dirizzati amenduni uscirono della camera; e saliti sopra i
portanti cavalli, andarono con gran compagnia ad una ordinata caccia, ove quel
giorno assai festa ebbero e allegrezza.
[7]
Dico
che molti giorni in sì fatta maniera faccendo festa, Florio ricoperse il suo
dolore, avvegna che sovente a suo potere s'ingegnava di star solo, acciò che
egli potesse sanza impedimento pensare alla sua Biancifiore. E quando avveniva
che egli solo fosse in alcuna parte, incontanente incominciava ad imaginare
d'essere col corpo colà ov'egli con l'animo continuamente dimorava. Egli
imaginava alcuna volta avere Biancifiore nelle sue braccia, e porgerle amorosi
baci, e altretanti riceverne da lei, e parlare con essa amorose parole, e
essere con lei come altre volte era stato ne' puerili anni. E mentre che in
questo pensiero stava, sentiva gioia sanza fine; ma come egli di questo usciva,
e ritornava in sé e trovavasi lontano ad essa, allora si mutava la falsa gioia
in vero dolore, e piangea per lungo spazio ramaricandosi de' suoi infortunii.
Poi ritornando al pensiero, tal fiata si ricordava del tristo pianto che veduto
l'avea fare nella bruna vesta temendo l'acceso fuoco, quando egli sconosciuto
si mise in avventura per campare lei, e poi si dolea d'averla renduta al padre
e di non aversi almeno fatto conoscere a lei, acciò che egli l'avesse alquanto
consolata e fattala più certa dell'amore che egli le portava. E molte fiate fra
sé si chiamava misero e di vil cuore, dicendo:
«Come
è la mia vita da biasimare, pensando che io amo questa giovane sopra tutte le
cose del mondo, e per questo amore vivo in tanta tribulazione lontano da lei, e
non sono tanto ardito che io abbia cuore d'andarla a vedere, e lascio per paura
d'un uomo, il quale più tosto a sé che a me offenderebbe. Perché non vo io, e
entro nelle mie case, e rapiscola, e menonela qua su meco? E avendola, ogni
dolore, ogni gelosia, ogni sospetto fuggirà da me. Chi sarà colui che ardito
sia di biasimare la mia impresa o di contrariarla? nullo: anzi ne sarò tenuto
più coraggioso, là dove io debbo ora esser vilissimo riputato. Sono io più vile
di Paris, il quale non a casa del padre, ma de' suoi nimici andò per la
disiderata donna, e non dubitò d'aspettare a mano a mano Menelao, sollicito
richieditore di quella? Io non debbo aver paura che questa da alcuno
radomandata mi sia, né con ferro né con altra maniera. Il peggio, che di questo
mi possa seguire, sarà che al mio padre ne dorrà: e se ne gli duole, e' ne gli
dolga! Io amo meglio che egli si dolga, che io di dolore muoia. E pur
quand'egli vedrà che io abbia fatto quello di che egli si guarda, la doglia gli
passerà, se passare gli vorrà, se non, sì l'ucciderà: che già l'avesse ella
ucciso! e poi non ne sarà più. Io il voglio fare: cosa fatta capo ha. E posto che
egli per questo si volesse opporre alla vita di Biancifiore, egli s'opporrà
ancora alla mia: niuna cosa opererà verso di lei, che io come lei nol senta. Se
egli per forza la mi vorrà torre, e io con forza la difenderò. Io non sarò meno
debole d'amici e di potenza di lui: e quando egli pur fosse più forte di me,
puommi egli più che cacciare del suo regno? Se egli me ne caccia, io starò in
un altro. Il mondo è grande assai: l'andare pellegrinando mi fia cagione
d'essercizio. Elli fu a Cadmo cagione d'etterna fama l'andar cercando Europa e
non trovarla; a Dardano e a Siculo similemente il convenirli partire del loro
regno fu cagione di grandissime cose. Io il pur voglio fare. Peggio ch'io
m'abbia non me ne può seguire».
E
poi ritornava al piangere: e in questi pensieri teneva la maggior parte della
sua vita. E eravisi già tanto disposto che con opera il volea mettere in
effetto, e avria messo, se il raffrenamento del duca e d'Ascalion non fosse
stato, li quali il confortavano con migliore speranza, e il suo volere gli
biasimavano.
[8]
Per
questi pensieri, e per molti altri, era tanto l'animo di Florio tribolato, che
in niuna maniera potea il suo dolore coprire, né per alcun diletto rallegrarsi:
e già gli era sì la malinconia abituata adosso, che appena avrebbe potuto
mostrare sembiante lieto se voluto avesse. Egli avea sì per questo i suoi
spiriti impediti, che quasi poco o niente era il cibo che egli poteva pigliare,
e nel suo petto non poteva entrar sonno: per le quali cose il viso era tornato
palido e sfatto, e' suoi membri erano per magrezza assottigliati, e egli era
divenuto debole e stracco. E la maggior parte del giorno si giaceva, e stava
come coloro i quali, da una lunga infermità gravati, vanno nuove cose cercando,
e niuna ne piace, e s'egli piace, non ne possono prendere. Della qual cosa al
duca molto dolea e ad Ascalion similemente, né sapeano che via tenere sopra
questa cosa. Essi dubitavano di farlo sentire al re, temendo non egli facesse
novità per questo a Biancifiore, e di questo a Florio ne seguisse peggio. E
similemente dubitavano di tenerlo in quella maniera sanza farglielo sentire,
dicendo:
«Se
egli per altrui il sente, noi n'avremo mal grado, e cruccerassi verso di noi, e
avrà ragione».
E
in questa maniera, sanza pigliar partito, stettero più giorni, pur confortando
Florio e dandogli buona speranza. A' quali Florio rispondea sé non avere questo
per amore, ma che il caldo, che allora facea, il consumava. Ma questa scusa non
aveva luogo a coloro che i suoi sospiri conoscevano; ma essi, quasi a ciò
costretti, la sosteneano.
[9]
Standosi
un giorno il duca e Ascalion insieme ragionando molto efficacemente de' fatti
di Florio, disiderosi della sua salute, Ascalion cominciò così a dire:
«Sanza
dubbio niuna cosa è tanto da Florio amata quanto Biancifiore; e questo il re,
col farlo stare lontano ad essa, e noi con parole più volte ci siamo ingegnati
di tirarlo indietro, né mai abbiamo potuto: fermamente credo che piacer
degl'iddii sia, al quale volersi opporre è mattezza. Ma non per tanto a tentare
alcuna altra via forse non sarebbe reo, e per avventura ci verrebbe forse il
nostro intendimento compiuto».
«E
che via vi parrebbe da tenere?», disse il duca. Ascalion rispose:
«Io
il vi dirò. I giovani, come voi sapete, sono vaghi molto de' carnali
congiungimenti, però che la pronta natura gl'induce a quello e per questi
sogliono ogni altra cosa dimenticare. Florio mai con Biancifiore carnale
diletto non ebbe; e se noi potessimo fare che con alcuna altra bella giovane
l'avesse, leggiere saria dimenticare quello ch'egli non ha per quello che
possedesse; e posto che in tutto non la dimenticasse, almeno tanto in lei non
penserebbe; e in questo mezzo il re o gl'iddii provederebbono sopra questo, in
modo che noi sanza vergogna o danno ne riusciremo; e se questa via non ci è
utile, niuna altra utile ne conosco».
Gran
pezza pensò il duca sopra questo, e poi disse:
«Ascalion,
io mi maraviglio molto di voi. Ecco che quello che divisate venisse interamente
fatto, che avremmo noi operato? Niente: che scioglierlo d'un luogo e legarlo in
un altro, non so che si rilevi. Ma tanto potrebbe avvenire, che di leggiere
peggioreremmo nostra condizione: e il trargli Biancifiore di cuore non è sì
leggier cosa che per questo io creda che fatto dovesse venire, ben che leggieri
ci sia a provarlo, se buono vi pare». Ascalion disse:
«Certo
io l'avea per buono, però che, se egli avvenisse che per alcuna altra egli
dimenticasse Biancifiore, più lieve sarebbe a trargli di cuore poi quell'altra che
a volergli levare ora Biancifiore sanza alcun mezzo: con ciò sia cosa che le
nuove piaghe con meno pericolo e meglio che l'antiche si curino e più tosto».
«Certo - disse il duca - questo è vero; e poi che vi pare, il provarlo niente
ci costa; e però sopra questo pensiamo e veggiamo se niuna cosa ci giova, e se
giovare la veggiamo, procederemo avanti con l'aiuto de, gl'iddii».
[10]
Accordatisi
costoro a questo, segretamente si misero a cercare di trovare alcuna giovane,
la quale, il più che trovare si potesse, simigliasse Biancifiore, imaginando
che quella più graziosa che alcuna altra gli sarebbe, e più tosto il potrebbe
recare al disiderato fine. E cercando questo, da alcuno, il quale sempre in
compagnia di Florio soleva andare, fu loro mostrate due giovanette di
maravigliosa bellezza e di leggiadro parlare ornate, e discese di nobili
parenti, le quali, secondo il detto di colui che le mostrò, assai delle
bellezze di Florio si dilettavano, non come innamorate, però che non si
sentiano eguali a lui, onde con la ragione raffrenavano la volontà. Le quali
come costoro conobbero, assai si contentarono, dicendo:
«Prendiamle
amendune, poi che Florio piace loro: elle s'ingegneranno bene di recarlo al
loro piacere, e là dove l'una fallisse l'altra supplirà».
E
questo diliberato, sotto spezie d'invitarle ad una festa, le si fecero chiamare
all'ostiere. Le quali venute davanti al duca e ad Ascalion, il duca così disse
loro:
«Giovani
donzelle, nostro intendimento è di voler Florio di bella mogliere accompagnare;
e cercando in questa città di donna che degnamente a lui si confacesse, nulla
n'abbiamo trovata di tanta bellezza, né di sì belli e laudevoli costumi, come
voi due ci siete state laudate: e però per voi abbiamo mandato, acciò che voi
proviate se lui da uno intendimento che egli ha possiate ritrarlo e recarlo al
vostro piacere, per donargli poi per mogliere quale di voi due più gli
piacerà».
A
cui l'una di queste, chiamata Edea, così rispose:
«Signor
nostro, noi ci maravigliamo non poco delle vostre parole, con ciò sia cosa che
noi manifestamente conosciamo noi non essere giovani di tanta nobiltà dotate,
quanta alla grandezza di Florio si richiede: e, d'altra parte, l'altissime
ricchezze ci mancano, le quali leggiermente i difetti della gentilezza
ricuoprono. E però caramente vi preghiamo che di noi voi non facciate scherno,
e ancora vi ricordiamo che, sì come voi dovete del nostro onore essere
guardatore, sì come buono e legittimo signore, che voi non vogliate esser
cagione di cotal vergogna, però che pensar dovete che se a voi e a' vostri noi
siamo picciole, noi siamo a' nostri grandissime e care».
Allorà
il duca rispose:
«Giovani
donzelle, non crediate che io mi recassi a tanta viltà, quanta questa sarebbe,
se questo fosse che voi dite, per farvi perdere il vostro onore; ma io vi giuro
per l'anima del mio padre e per li nostri iddii che io quello che detto v'ho,
lealmente v'atterrò, se alcuna di voi gli piacerà».
Disse
Edea:
«Poi
che con giuramento l'affermate, noi faremo il vostro piacere. Ditene come elli
vi piace che noi facciamo, e così sarà fatto: poi gl'iddii concedano questa
grazia a chi più n'è degna di noi due».
Rispose
il duca:
«Il
modo è questo. Voi sì v'adornerete in quella maniera che voi più crediate
piacere, e andretevene sanza alcuna compagnia nel nostro giardino, nel quale
egli è costumato di venire ogni giorno, sì tosto come i raggi del sole
incominciano a essere manco caldi; usciretegli incontro, faccendogli quella
festa e mettendolo in quel ragionamento che più crederete che piacevole gli
sia: poi quale egli eleggerà di voi due, quella dico che sarà sua».
[11]
Era
quel giardino bellissimo, copioso d'arbori e di frutti e di fresche erbette, le
quali da più fontane per diversi rivi erano bagnate. Nel quale, come il sole
ebbe il meridiano cerchio, le due giovani, vestite di sottilissimi vestimenti
sopra le tenere carni, e acconci i capelli con maestrevole mano, con isperanza
di più piacere ad acquistare cotal marito, se ne entrarono solette, e quivi
cercarono le fresche ombre, le quali allato ad una chiara fontana trovate, a
seder si posero attendendo Florio. Venuta l'ora che già il caldo mancava,
Florio malinconico, uscito della sua camera e con lento passo, di queste cose
niente sappiendo, vestito d'una ricca giubba di zendado, soletto se n'entrò nel
giardino, sì come egli era per adietro usato, e verso quella parte dove già
avea il bianco fiore altra volta tra le spine veduto, dirizzò i suoi passi; e
quivi venuto si fermò dimorando per lungo spazio pensoso. Le due giovinette
s'avean ciascuna fatta una ghirlanda delle frondi di Bacco, e aspettando Florio
si stavano alla fontana insieme di lui parlando; e non avendolo veduto entrare
nel giardino, per più leggermente passare il rincrescimento dell'attendere,
incominciarono a cantare una amorosa canzonetta con voce tanto dolce e chiara,
che più tosto d'angioli che d'umane creature pareva: e di queste voci pareva
che tutto il bel giardino risonasse allegro. Le quali udendo, Florio si
maravigliò molto, dicendo:
«Che
novità è questa? Chi canta qua entro ora sì dolcemente?».
E
con gli orecchi intenti al suono, incominciò ad andare in quella parte ove il
sentiva; e giunto presso alla fontana, vide le due giovinette. Elle erano nel
viso bianchissime, la qual bianchezza quanto si convenia di rosso colore era
mescolata. I loro occhi pareano matutine stelle; e le piccole bocche di colore
di vermiglia rosa, più piacevoli diveniano nel muovere alle note della loro
canzone. E i loro capelli come fila d'oro erano biondissimi, i quali alquanto
crespi s'avolgeano infra le verdi frondi delle loro ghirlande. Vestite per lo
gran caldo, come è detto sopra, le tenere e dilicate carni di sottilissimi
vestimenti, i quali dalla cintura in su strettissimi mostravano la forma delle
belle menne, le quali come due ritondi pomi pingevano in fuori il resistente
vestimento, e ancora in più luoghi per leggiadre apriture si manifestavano le
candide carni. La loro statura era di convenevole grandezza, e in ciascun
membro bene proporzionate. Florio, vedendo questo, tutto smarrito fermò il
passo, e esse, come videro lui, posero silenzio alla dolce canzone, e liete
verso lui si levarono, e con vergognoso atto umilmente il salutarono. «Gl'iddii
vi concedino il vostro disio», rispose Florio. A cui esse risposero:
«Gl'iddii
ne l'hanno conceduto, se tu nel vorrai concedere».
«Deh!
- disse Florio - perché avete voi per la mia venuta il vostro diletto
lasciato?».
«Niuno
diletto possiamo avere maggiore che essere teco e parlarti», risposero quelle.
«Certo
e' mi piace bene»,disse Florio. E postosi a sedere con loro sopra la chiara
onda della fontana, incominciò a riguardare queste, ora l'una e ora l'altra, e
a rallegrarsi nel viso, e a disiderare di potere loro piacere. E dopo alquanto
le dimandò:
«Giovani
donzelle, ditemi, che attendevate voi qui così solette?».
«Certo
- rispose Edea - noi fummo qui maggior compagnia, ma l'altre disiose d'andar
vedendo altre cose, noi qui, quasi stanche, solette lasciarono, e debbono per
noi tornare avanti che 'l sole si celi: e noi ancora volentieri rimanemmo,
pensando che per avventura potremmo vedere voi, sì come la fortuna ci ha
conceduto».
Assai
era graziosa a Florio la compagnia di costoro, e molto gli dilettava di mirarle,
notando nell'animo ciascuna loro bellezza, fra sé tal volta dicendo:
«Beato
colui a cui gl'iddii tanta bellezza daranno a possedere!». Egli le metteva in
diversi ragionamenti d'amore, e esse lui. Egli aveva la testa dell'una in
grembo, e dell'altra il dilicato braccio sopra il candido collo; e sovente con
sottile sguardo metteva l'occhio tra 'l bianco vestimento e le colorite carni,
per vedere più apertamente quello che i sottili drappi non perfettamente
copriano. Egli toccava loro alcuna volta la candida gola con la debole mano, e
altra volta s'ingegnava di mettere le dita tra la scollatura del vestimento e
le mammelle; e ciascuna parte del corpo con festevole atto andava tentando, né
niuna gliene era negata, di che egli spesse fiate in se medesimo di tanta
dimestichezza e di tale avvenimento si maravigliava. Ma non per tanto egli era
in se stesso tanto contento che di niente gli pareva star male, e la misera
Biancifiore del tutto gli era della memoria uscita. E in questa maniera stando
non piccolo spazio, questi loro e esse lui s'erano a tanto recato, che altro
che vergogna non li ritenea di pervenire a quello effetto dal quale più inanzi
di femina non si può disiderare. Ma il leale amore, il quale queste cose tutte
sentia, sentendosi offendere, non sofferse che Biancifiore ricevesse questa
ingiuria, la quale mai verso Florio non l'avea simigliante pensata; ma tosto
con le sue agute saette soccorse al cuore, che per oblio già in altra parte
stoltamente si piegava. E dico che stando Florio con queste così intimamente
ristretto, e già quasi aveano le due giovani il loro intendimento presso che a
fine recato sanza troppo affanno di parole, l'altra delle due donzelle chiamata
Calmena, levata alta la bionda testa, e rimirandolo nel viso, gli disse:
«Deh!
Florio, dimmi, qual è la cagione della tua palidezza? Tu ne pari da poco tempo
in qua tutto cambiato. Hai tu sentito alcuna cosa noiosa?».
Allora
Florio, volendo rispondere a costei, si ricordò della sua Biancifiore, la quale
della dimandata palidezza era cagione, e sanza rispondere a quella, gittò un
grandissimo sospiro, dicendo:
«Oimè,
che ho io fatto?».
E
quasi ripentuto di ciò che fatto avea, alquanto da queste si tirò indietro
cominciando forte a pensare con gli occhi in terra a quello che fatto avea, e a
dire fra se medesimo:
«Ahi!
villano uomo, non nato di reale progenie, ma di vilissima, che tradimento è
quello che tu hai pensato infino a ora? Come avevi tu potuto per costoro o per
alcuna altra donna mettere in oblio Biancifiore, tanto che tu disiderassi
quello che tu disideravi di costoro, o che tu potessi mostrare amore ad alcuna,
come tu a costoro, toccandole, già mostravi? Ahi! perfidissimo, ogni dolore t'è
bene investito, ma certo cara l'accatterai la tua nequizia. Ora come ti
dichinavi tu ad amare queste, la cui beltà è piccolissima parte di quella di
Biancifiore? E quando ella fosse pur molta più, come potresti tu mai trovare
chi perfettamente t'amasse come ella t'ama? Deh! se questo le fosse manifesto,
non avrebbe ella ragionevole cagione di non volerti mai vedere? Certo sì ».
Con
molte altre parole si dolfe Florio per lunga stagione; e così dolendosi
tacitamente, Calmena, che la cagione ignorava, gli si rappressò, domandando
perché a lei non rispondeva, dicendogli:
«Deh,
anima mia, rispondimi; dimmi perché ora sospirasti così amaramente, e dimmi la
cagione della tua nuova turbazione, né ti dilungare da colei che più che sé
t'ama».
Allora
Florio con dolente voce disse:
«Donne,
io vi priego per Dio che elli non vi sia grave il lasciarmi stare, però che
altro pensiero che di voi m'occupa la dolorosa mente».
E
detto questo, levato si sarebbe di quel luogo, se non fosse che egli non le
volea fare vergognare. Disse allora Edea:
«E
qual cosa t'ha sì subitamente occupato? Tu ora inanzi eri così con noi
dimestico, e parlando ne dimandavi e rispondevi cianciando, e ora malinconico
non ci riguardi, né ci vuoi parlare: certo tu ci fai sanza fine maravigliare».
A
niuna cosa rispondea Florio, anzi a suo potere, col viso in altra parte
voltato, si scostava da loro, le quali quanto più Florio da loro si scostava,
tanto più a lui amorosamente s'accostavano. E in tal maniera stando, Calmena,
che già s'era dell'amore di Florio accesa oltre al convenevole, più pronta che
Edea, s'appressò a Florio, e quasi appena si ritenne che ella nol baciò, ma pur
così gli disse:
«O
grazioso giovane, perché non ne di' tu la cagione della tua subita malinconia?
Perché, dilungandoti da noi, mostri di rifiutarci, che ora inanzi eravamo da te
sì benignamente accompagnate? Non è la nostra bellezza graziosa agli occhi
tuoi? Certo gl'iddii si terrebbono appagati di noi, né non crediamo che Io,
tanto perseguitata da Giunone, fosse più bella di noi quando ella piacque a
Giove, né ancora Europa che sì lungamente caricò le spalle del grande iddio, né
alcune altre giovani crediamo essere state più belle di noi: e sì ne veggiamo
il cielo adorno di molte! Adunque tu, perché ne rifiuti?».
E
con queste parole e molte altre, con atti diversi e inonesti sospirando
guardavano di ritornare Florio al partito nel quale poco davanti era stato.
Alle quali Florio disse così:
«Ditemi,
giovani, se gl'iddii ogni vostro piacere v'adempiano, foste voi mai
innamorate?».
A
cui esse subitamente risposero:
«Sì,
di voi solamente; né mai per alcuna altra persona sospirammo, né tale ardore
sentimmo se non per voi».
«Certo
- disse Florio - di me non siete voi già innamorate; e che voi non siate state
né siate d'altrui si pare manifestamente, però che amore mai ne' primi
conoscimenti degli amanti non sofferse tanta disonestà, quanta voi verso me,
con cui mai voi non parlaste, avete dimostrata: anzi fa gli animi temorosi e
adorni di casta vergogna, infino che la lunga consuetudine fa gli animi essere
eguali conoscere. E che questo sia vero assai si manifestò nella scelerata
Pasife, la quale bestialmente innamorata, con dubitosa mano ingegnandosi di
piacere, e temendo di non spiacere, porgeva le tenere erbe al giovane toro. Ora
quanto più avria costei temuto d'un uomo, in cui ragionevole conoscimento fosse
stato, poi che d'un bruto animale dubitava? Certo molto più, però che era
innamorata. E chi volesse ancora nelle antiche cose cercare, infiniti essempli
troverebbe d'uomini e di don ne; a cui le forze sono tutte fuggite ne' primi
avvenimenti de' loro amanti. E però che di me innamorate siate non mi vogliate
far credere, che io conosco i vostri animi disposti più ad ingannare che ad
amare. E appresso, che voi non siate d'altrui innamorate, come voi dite, m'è
manifesto, però che non m'è avviso che verso me, dimenticando il principale
amadore, potreste dimostrare quello che dimostrate, ché il leale amore non lo
consentirebbe. Onde io vi priego, belle giovani, che mi lasciate stare, però
che voi con le vostre parole credete i miei sospiri menomare, e voi in
grandissima quantità gli accrescete: e di me in ogni atto, fuori che d'amore,
fate quello che d'amico o di servidore fareste».
Udendo
questo, Edea, la quale le infinite lagrime non avea guari lontane, bagnando il
candido viso, con lagrimevole voce, messesi le mani nel sottile vestimento,
tutta davanti si squarciò, dicendo:
«Oimè
misera, maladetta sia l'ora ch'io nacqui! E in cui avrò io oramai speranza, poi
che voi, in cui io ora sperava e per cui io credeva sentir pace, mi rifiutate,
né credete che 'l mio cuore per lo vostro amore si consumi, però che forse
troppo pronta a volere adempiere i miei disiderii vi sono paruta? Crediate che
niuna cosa a questo m'ha mossa altro che soperchio amore, il quale del mio
petto ha la debita vergogna cacciata, e me quasi furiosa ha fatto nella vostra
presenza tornare. Ahimè misera, sarà omai disperata la mia vita! O misera
bellezza, partiti del mio viso, poi che colui per cui io cara ti tenea, e ti
guardava diligentemente ti rifiuta. Deh, Florio, poi che a grado non v'è
consentirmi quello che lunga speranza m'ha promesso, piacciavi che io nelle vostre
braccia l'ultimo giorno segni. Io sento al misero cuore mancare le naturali
potenze per le vostre parole. Oimè, uccidetemi con le propie mani, acciò che io
più miseramente non viva. Mandatene la trista anima alle dolenti ombre di
Stige, là dove ella minor doglia aspetta che quella che ora sostiene. Ahimè,
quanto degnamente da biasimare sarete, quando si saprà la dolente Edea essere
per la vostra crudeltà partita di questa vita!».
Florio,
che le lagrime di costei non potea sostenere, per pietà la confortava, dicendo:
«O
bella giovane, non guastare con l'amaritudine del tuo pianto la tua bellezza;
spera che più grazioso giovane ti concederà quello ch'io non ti posso donare.
Ritruova le tue compagne, e con loro l'usata festa ti prendi, né non impedire i
miei sospiri con la pietà del tuo pianto: ché io ti giuro per li miei iddii,
che se io fossi mio e potessimi a mia posta donare, niuna m'avrebbe se l'una di
voi due non m'avesse. Ma lo non posso quello che non è mio sanza congedo,
donare».
Cominciò
allora Calmena a dire:
«O
crudelissimo più che alcuna fiera, e come puoi tu consentire di negare a noi
quel che ti domandiamo? Certo se tu hai il tuo amore ad altra donato, niuno
amore è tanto leale, che a' nostri prieghi non dovesse essere rotto. E pensi tu
che s'egli avviene che per la tua crudeltà alcuna di noi sofferisca noiosa
morte, che quella giovane di cui tu se', se tu se' per avventura d'alcuna, te
ne ami più? Certo no, anzi biasimerà la tua crudeltà! E i nostri prieghi son
tanti, che certo il casto Ipolito già si saria piegato. Or come ci puoi tu
almeno negare alcuno bacio, de' quali poco avanti ci saresti stato cortese, se
sì ardite, come tu ci fai, fossimo state? Certo se alcuno ce ne porgessi con
quel volere che noi il riceveremmo, egli sarebbe non poco refrigerio de' nostri
affanni. Deh, adunque, concedicene alcuno, acciò che gl'iddii più benivoli
s'inchinino a concedere a te quello che tu disii, se alcuna cosa da te in
questo atto è disiata».
A
cui Florio rispose:
«Giovani
donzelle, ponete fine a questi ragionamenti, però che quella parte che di me
dimandate, più cara che altra è tenuta da me, con ciò sia cosa che niun'altra
ancora ne sia stata conceduta a quella di cui io sono interamente; e più avanti
non mi dimandate, ché da me altro che dolore avere non potreste. E priegovi che
me, che più di sospirare che di parlare con voi ora mi diletto, qui solo
lasciate, e andatevene, però che ciò che mi dite è tutto perduto».
Questo
udendo le due giovani, col viso dipinto di vergogna, della sua presenza si
levarono sanza più parlare; e però che già il sole cercava l'occaso, tornate
nel gran palagio si rivestirono, dicendo l'una all'altra:
«Ahi,
come giusta cosa sarebbe se mai d'alcuno giovane la grazia non avessimo,
pensando al nostro ardire, le quali avemo tentato di volere questo giovane
levare alla sua donna sanza ragione, avegna che gl'iddii e egli ce n'hanno ben
fatto quello onore che di ciò meritavamo!».
E
rivestite, raccontarono al duca la bisogna come era, con non poca vergogna; e
da lui, con grandissimi doni, sconsolate si partirono, tornando alle loro case.
[12]
Aveano
il duca e Ascalion veduto apertamente ciò che Edea e Calmena aveano operato, e
ora fu che essi credettero che il loro avviso riuscisse al pensato fine; ma poi
che videro quello esser fallito, dolenti della amara vita di Florio, si
partirono del luogo dove stavano e se ne vennero al giardino, dove Florio con
dolore, pieno di pensieri soletto era rimaso, e lui trovarono pensando avere la
bionda testa posata sopra la sinistra mano. I quali poi che pietosamente
alquanto riguardato l'ebbero, così cominciarono a dire:
«Florio,
Amore tosto nella disiata pace ti ponga».
Era
Florio tanto nello imaginare la sua Biancifiore, che per la venuta di costoro,
né per lo loro saluto né si mutò né cambiò aspetto, ma così stette come colui
che né veduti né uditi ancora gli avea. Allora Ascalion, distesa la mano, il
prese per lo braccio, e lui tirando, disse:
«O
innamorato giovane, ove se' tu ora? Dormi tu, o se', pensando, fuori di te
uscito, che tu al nostro saluto niente rispondi?».
Riscossesi
allora tutto Florio, e quasi stordito, sanza niente rispondere, si mirava
dintorno. Ma dopo molti sospiri, alquanto da' pensieri sviluppato, alzata la
testa, disse:
«Oimè,
or chi vi mena a vedere la miseria della mia vita, alla quale voi forse credete
levar pena con confortevoli parole, e voi più ne giungete? Se può essere,
caramente vi priego che me qui solo lasciate, acciò che io possa quel pensiero
ritrovare, nel quale io fui, quando scotendomi me ne cacciaste».
A
cui Ascalion così rispose:
«Amore
e maraviglia ci fanno qui venire, né già da te intendiamo di partirci, se prima
a' nostri prieghi non ne dirai quale nuova cagione ti fa tanto pensoso».
Disse
Florio:
«Niuna
nuova cagione ci è del mio dolore: Amore solamente in questa vita mi tiene».
«E
come? - disse allora il duca, - io mi credea che tu t'ingegnassi di seguire il
mio consiglio, il quale io l'altrieri, quando così pensoso ti trovai, t'avea
donato, e già mi parea che, quello piacendoti, cominciato avessi: e tu pure
sopra l'usato modo se' ritornato! Questa tua vita in niuno atto d'innamorato mi
pare, onde forte dubitare mi fai che tu forse non sii del senno uscito, però
che gli altri innamorati con varii diletti cercano di mitigare i loro sospiri,
ma tu con pene mi pare che vadi cercando d'accrescergli. Se volessi dire che
come alcuni altri non li potessi usare, sai che non diresti vero, però che
niuna resistenza ci è: dunque perché pure in sul dolore ti dai? Deh, com'io
altra volta ti pregai, ancora ti priego che alcuni ne prenda, i quali usando
valicherai il tempo con meno tristizia, e gl'iddii in questo mezzo provederanno
a' tuoi disii».
[13]
Udite
queste cose, Florio sospirando disse:
«Amici,
ben conosco voi prontissimi alla mia salute, e veggo apertamente che la mia
vita vi duole, né similemente occulti mi sono i diletti che prendere potrei, a'
quali con tanta efficacia v'ingegnate di trarmi, pensando che io forse del
senno sia uscito, perché pure in dolore pensando dimoro: ora, acciò che voi
conosciate come io sia a quelli prendere disposto, e ancora come voi del mio
dolore non vi dovete maravigliare, io vi voglio dire qual sia la mia vita, Dico
che diverse imaginazioni e pensieri m'occupano continuamente, delle quali
alcuna ve ne dirò. Primieramente io sopra tutte le cose disidero di vedere
Biancifiore, sì come quella che più che niuna altra cosa è da me amata. E
dicovi che tante volte, quante ella nella memoria mi viene, tanto questo disio
più focoso in me s'accende e togliemi sì da ogni altro intendimento, che se
allora io la vedessi, crederei più che alcuno iddio essere beato; e sentendomi
questo essere levato, solamente perché io l'amo, e non per altro accidente,
niuno dolore è al mio simigliante. Appresso questo, io vivo in continua
sollecitudine della sua vita, temendo non ella, la quale so che m'ama come io
lei, sostenga simili dolori a quelli che io sostengo, li quali, però che di più
debole natura è che io non sono, dubito non la offendano o di gravosa infermità
o di morte. E troppo più mi fa della sua vita dubitare l'acerbità del mio padre
e della mia madre, li quali io sento prontissimi, e vederli mi pare,
insidiatori della vita di lei. E niuna cagione falsa è che a lei inducere possa
morte, che non me la paia vedere andare cercando al mio padre per fornire il
suo falso volere, il quale altra volta gli venne fallito: e non pensa il misero
che quella ora ch'ella morrà io non viverò più avanti. E in gravosissimo
affanno mi tiene gelosia, e la cagione è questa: le giovani donzelle sono di
poca stabilità e per la loro bellezza da molti amanti sogliono essere
stimolate: e gl'iddii, non che le femine, si muovono per li pietosi prieghi a
far la volontà de' pregatori. Io sono lontano da lei, né vedere la posso, né
ella me; molti giovani credo che la stimolano per la sua bellezza, la quale
ogni altra passa: or che so io, se ella non potendo aver me, se ne prenderà
alcuno altro, posto ch'ella non possa migliorare? Elli si suol dire che le
femine generalmente hanno questa natura, ch'elle pigliano sempre il peggio. Con
questi pensieri n'ho molti altri, li quali troppo penerei a volerli
particolarmente spiegare; ma di loro vi dico che essi impediscono tanto la mia
vita, che essi me l'hanno recata a noia; e per minor pena disidererei la morte,
la quale ancora non pena riputerei, se gl'iddii donare la mi volessero, ma
graziosa gioia. Veder potete come io mi posso a prendere alcuno diletto trarre:
solo mio bene e sola mia gioia è il pensare a Bianciflore, e questo è quello
che la poca vita che rimasa m'è, mi tiene nel corpo. Onde io vi priego che se
la mia vita amate, non mi vogliate torre il poter pensare».
[14]
Cominciò
allora il duca così a parlare:
«Ben
ci è manifesto te essere da tanti e tali pensieri stimolato, quanti ne conti, e
da molti più. Ma tu non dei però volere con morte dar luogo al pensare più
tosto che con diletto prolungare la tua vita, acciò che più tempo pensar possi.
Onde, se nullo priego dee valere, noi ti preghiamo che tu prenda conforto, e da
cotesti pensieri con continui diletti ti levi; e se t'è forse occulto, come tu
nel tuo parlar dimostri, la cagione per che dei pigliar diletto, noi non ce ne
maravigliamo, però che in così fatti affanni le più volte il vero conoscimento
si suole smarrire. Ma noi, che di fuori da tale tempesta dimoriamo, conosciamo
quali sieno le vie da uscire di quella: e però non ti siano gravi alquante
parole, le quali se, ascoltate, metterai in effetto, ti vedrai sanza periglio
venire a grazioso porto. Tu ti duoli del focoso disio che ti stimola dì vedere
Biancifiore, però che vedere non la puoi. Certo ben credo che ti dolga; ma
credi tu per questo dolore, che tu te ne dai, più tosto vederla? Certo no.
Dunque sperando confortare ti dei, e dare alquanto sosta al presente disio,
conoscendo, come tu fai, che al presente fornire non lo puoi con tuo onore.
Pensa che la fortuna non terrà sempre ferma la rota: così come ella volvendo
dal cospetto di Biancifiore ti tolse, così in quello ancora lieto ti riporrà.
Similemente ti dico del pensiero che porti, non Biancifiore, per l'amore che ti
porta, sostenga o gravosa infermità o morte, ciò è vano pensamento: e per
niente il tieni, però che amore mai non porse morte ove le parti fossero in un
volere. "Che ella infermasse io il disidererei, solo che per amore fosse,
pensando che per quella infermità potrei conoscere me da lei tanto amato, che
sì fatto accidente ne le seguisse per lo non potermi avere": oimè, quanto
più è da pensare della sanità, la quale i sonni interi e le malinconie lontane
essere dimostra: e però questo del tutto dei lasciare andare. Se dubiti non il
tuo padre forse, come già fece, la voglia offendere, ciò non è da maravigliare,
ché noi di niuna cosa abbiamo tanta ammirazione, quanto che egli ha tanto
sofferta la sua vita, sappiendo come sia fatta quella che tu per lei meni. Onde
ti dico che tenendo la maniera che fai, ragione hai di dubitare; ma volendo
prendere conforto e seguire la via che io altra volta ti mostrai, niuna
dubitazione te ne bisogna avere, ché io ti giuro per l'anima del mio padre che
il re ama Biancifiore quanto figlia, e niuna cosa ad ira il potrebbe muovere
contro ad essa, se non la tua sconcia vita. Se vuoi dire che gelosia ti
stimoli, questo è contro a quello che davanti dicesti, cioè che Biancifiore più
che sé t'ami, però che gelosia non suol capere se non in luoghi sospetti, e tu
prima affermi niuna sospezione esserci, e appresso di' te esser geloso. Ma
certo, come che tu parli, a me pare che niuna cosa sia tanto amata da
Biancifiore quanto tu se': onde per questo niuno pensiero di lei avere ti
conviene. Appresso, chi sarebbe quella sì folle, che avendo l'amore d'un così
fatto giovane come tu se', bello, gentile, ricco e figliuolo di re, lasciasse
quello per niuno altro? Se vuoi dire: "le femine pigliano sempre il
peggio", questo non s'intende per tutte, ma solamente per le poco savie,
la qual cosa ancora negli uomini si truova. E veramente Biancifiore è
savissima, e ciò nel suo portamento e nelle sue operazioni è manifesto. Or
dunque, pensando bene queste cose, chi dovrebbe più confortarsi di te? Tu
bello, tu ricco, tu gentile, tu amato da colei che tu ami, per amore della
quale dovresti sempre pensare di vivere in modo che grazioso e sano le ti
potessi presentare. Se simile caso fosse in me, io mi terrei oltre misura caro
per più piacerle, né per niuna cosa disidererei tanto la vita lunga, quanto per
lungamente poterla servire. E tu, più vinto da ira e da malinconia che
consigliato dalla ragione, cerchi la morte per conforto, e sempre in pensieri e
in dolore dimori, e vai imaginando quelle cose le quali né vedesti né vedrai
già mai, se agl'iddii piace. Folle è colui che per li futuri danni sanza
certezza spande lagrime, e in quelle più d'impigrire si diletta, che
argomentarsi di resistere a' danni. Deh, se tu se' uomo come sono gli altri,
giovino tanti conforti, quanti noi ti diamo: vaglia il mostrarti la verità,
come noi mostriamo! E non indurare pure sopra il tuo non vero parere:
rallegrati che tanto manca il senno, quanto il conforto ne' savi».
[15]
Florio,
il quale sentiva in sé graziose parole all'animo innamorato, che di quelle avea
bisogno, con men dolente viso così rispose:
«Amici,
a' subiti accidenti male si puote argomentare. Ma che che 'l mio padre si
deggia fare, io pur m'ingegnerò di prendere il vostro consiglio, cacciando da
me il dolore delle non presenti cose».
E
questo detto, si dirizzarono tutti; e uscendo del giardino, per le stelle che
già il cielo aveano de' loro lumi dipinto, tornarono quasi contenti alle loro
camere.
[16]
Mentre
li fati trattavano così Florio, Biancifiore lasciata da lui al perfido padre
tornò nell'usata grazia, dimorando ne' reali palagi con non minore quantità di
sospiri che Florio, avvegna che più saviamente quelli guardasse nell'ardente
petto. Ma le trascorrenti avversità che il loro corso verso Florio aveano
volto, con non usato stimolo ancora lui miserabilmente assalirono in questa
maniera.
Era
nella corte del re Felice in questi tempi un giovane cavaliere chiamato Fileno,
gentile e bello, e di virtuosi costumi ornato, a cui l'ardente amore di Florio
e di Biancifiore era occulto, però che di lontane parti era, pochi giorni poi
la crudel sentenza di Biancifiore, venuto. Il quale, sì tosto come la chiara
bellezza vide del suo viso, incontanente s'accese del piacere di lei, e sanza
misura la incominciò ad amare, e in diversi atti s'ingegnava di piacerle,
avvegna che Biancifiore di ciò niente si curava, ma, saviamente portandosi,
mostrava che di queste cose ella non conoscesse quanto facea.
L'amore
che Fileno portava a Biancifiore non era al re né alla reina occulto; i quali,
acciò che il cuore di Biancifiore di nuovo piacere s'accendesse e Florio fosse
da lei dimenticato, contenti di tale innamoramento, più volte nella loro
presenza chiamavano Fileno, a cui faceano venire davanti Biancifiore e con lei
tal volta sollazzevoli parole parlare; ma ciò era niente, ché Biancifiore di
lui si curava poco, anzi sospirando vergognosa bassava la testa come davanti le
venia, sanza già mai alzarla per mirare lui, se ciò non fosse stato alcuna
fiata in piacere del re o della reina, li quali ella conoscea essere di tale
amore allegri, avvegna che Fileno pensasse che que' sospiri, i quali dal cuore
di Biancifiore moveano, uscissero fuori essendone egli cagione. Mostrando
Biancifiore per conforto della reina d'amare il giovane cavaliere, avvenne che
dovendosi ne' presenti giorni celebrare una grandissima solennità ad onore di
Marte, iddio delle battaglie, e nella detta solennità si costumasse un giuoco
nel quale la forza e lo 'ngegno de' giovani cavalieri del paese tutta si
conoscea, Fileno propose di volere in quel giuoco per amore di Biancifiore
mostrare la sua virtù; ma ciò, se alcuna gioia da Biancifiore non avesse la
quale in quel luogo per soprasegnale portasse, non volea fare. Onde egli un
giorno si mosse, vedendo Biancifiore stare con la reina, e con dubbioso viso,
davanti alla reina così a Biancifiore cominciò a parlare:
«O
graziosa giovane, la cui bellezza Giove credo nel suo seno formasse, e a cui io
per volere di quel signore, alla forza del cui arco non poterono resistere
gl'iddii, sono umilissimo e fedel servidore, se i miei prieghi meritano essere
dalla tua benignità uditi, con quello effetto che più graziosamente gli ti
presenti gli mando fuori, e priegoti che, con ciò sia cosa che la festa del
nostro iddio Marte, le cui vestige io sì come giovane cavaliere seguito, si
deggia di qui a pochi giorni celebrare, e in quella il giuoco de' potenti
giovani, sì come tu sai, si deggia fare, e io intendo in quello per amore di te
mostrare le mie forze, che tu alcuna delle tue gioie mi doni, la quale portando
in quello per sopransegna, mi doni tanto più ardire, che io non ho, ch'io possa
acquistare vittoria».
Biancifiore,
udendo queste parole, di vergognosa rossezza dipinse il candido viso, sì tosto
come il cavaliere si tacque, e non sappiendo che si fare, si voltò verso la
reina riguardandola nel viso con dubitosa luce. A cui la reina disse:
«Giovane
damigella, alza la testa: e perché hai tu presa vergogna? Dubiti tu che ciò che
ha detto il cavaliere non sia vero? Certo nella nostra gran città niuna donna
dimora, la cui bellezza si possa adequare al tuo viso; e perché egli ti domandi
grazia, sì come quelli che per amore disidera di servirti, ciò non gli dee da
te esser negata, ma benignamente alcuna delle tue cose, quella che tu credi che
più gli aggradi, gli dona: ché usanza è degli amanti insieme donarsi tal fiata
delle loro gioie».
Disse
Biancifiore allora:
«Altissima
reina, e che donerò io al cavaliere che 'l mio onore e la dovuta fede non si
contamini?».
La
reina rispose:
«Biancifiore,
non dubitare di questo, ché a quelle giovani a cui i fati ancora non hanno
marito conceduto, possono liberamente donare ciò che loro piace, sanza
vergogna. E che sai tu se essi ancora costui ti serbano per marito? E però
donagli: e acciò che più grazioso gli sia, prendi il velo col quale tu ora la
tua testa cuopri. Egli è tal cosa, che se pur te ne vergognasse, potresti negare
d'avergliele donato, affermando che da altra l'avesse avuto, però che molti se
ne trovano simiglianti».
Biancifiore,
costretta dal parlare della reina, con la dilicata mano si sviluppò il velo
della bionda testa, e sospirando il porse a Fileno, il quale in tanta grazia
l'ebbe che mai maggiore ricevere non la credeva. E rendute del dono debite
grazie, con esso da loro allegro si partì. E venuto il tempo del giuoco,
legatosi questo velo alla testa, niuno fu nel giuoco che la sua forza passasse:
per la qual cosa sopra quello, in presenza di Biancifiore, meritò essere
coronato d'alloro.
[17]
La
fortuna, non contenta delle tribulazioni di Florio, condusse Fileno a Montoro
pochi giorni poi la ricevuta vittoria. Il quale là onorevolemente ricevuto da
molti, nella gran sala del duca, incominciò a narrare a' giovani cavalieri suoi
amici quanto fosse stato l'acquistato onore, disegnando con parole e con atti
quanta forza e ingegno adoperasse per ricevere in sé tutta la vittoria, come
fece. Poi, entrati in altri diversi ragionamenti, venuti a parlare d'amore,
similemente sé propose esser assai più che altro innamorato, e di più bella
donna, e come da lei niuna grazia era che conceduta non gli fosse se domandata
l'avesse; e dopo molte parole disavedutamente gli venne ricordata Biancifiore.
E Florio, che non era troppo lontano, e avea udite tutte queste cose, e
piagneasi in se medesimo d'amore, che lui peggio che alcuno altro innamorato
trattava, come udì ricordare Biancifiore, e per le precedenti parole conobbe
lei essere quella donna di cui Fileno tanto si lodava, incontanente cambiato
nel viso si partì da' compagni tacitamente, e stato per picciolo spazio,
ritornò nella sala con l'usato viso, e amichevolemente verso Fileno se n'andò.
Il quale come Fileno il vide, levatosi in piè con quella reverenza che si
convenia, incontro gli si fece. Allora Florio, per più accertarsi di ciò che
sapere non avria voluto, mostrando di volere d'altre cose parlare con lui,
presolo per lo braccio, sanza altra compagnia nella sua camera il menò. E quivi
amenduni postisi a sedere sopra il suo letto, Florio con infinto viso de' suoi
accidenti e delle maniere de' lontani paesi dov'egli era stato, lo incominciò a
domandare; e poi quando tempo gli parve, gli disse:
«Se
il colore del vostro viso non m'inganna, voi mi parete innamorato».
A
cui Fileno rispose:
«Signor
mio, sopra tutti gli altri giovani io amo».
«Ciò
mi piace assai - rispose Florio, - però che nulla cosa m'è tanto a grado,
quanto avere compagni ne' miei sospiri; ma ditemi, se vi piace, da quella
donna, cui voi amate, siete voi amato?».
Disse
Fileno:
«Niuna
cosa m'accende tanto amore nel cuore, quanto il sentire me essere amato da
quella cui io più che me amo».
«Certo
voi state bene - disse Florio; - ma ditemi, come conoscete voi che voi siate da
quella, che voi tanto amate, amato?».
«Dirollovi»,
rispose Fileno «che io sia amato da quella cui io amo, tre cose me ne fanno
certo. La prima si è il timido sguardare con focosi sospiri, nelle quali cose
io apertamente conosco intero amore; appresso, me ne accertano le ricevute
gioie, le quali sanza amore da gentile donna mai donate non sarieno. La terza
cosa che questo mi mostra si è l'allegrezza della quale io veggo il bel viso
ripieno d'ogni felice caso che m'avvenga».
«Ben
sogliono essere le predette cose veri testimonii d'amore; ma ditemi, se vi
piace, che gioia riceveste voi già mai dalla vostra donna: però che alcune
sogliono donare gioie, le quali non sarieno degne di mettere in conto».
«Certo
- disse Fileno - non è di quelle la mia, ma è da tenere carissima; e acciò che
voi sappiate quanto io ne deggio tenere cara una che io n'ho qui meco, io vi
dirò come io la ricevetti».
«Ciò
mi piace» rispose Florio. Allora Fileno cominciò così a dire:
«Dovendo
noi giucare nel giuoco che si fa nella solennità di Marte, pochi giorni ha
passati celebrata, giucare, io nella sua presenza me n'andai, e umilmente la
pregai che le piacesse a me, suo fedelissimo servidore, donare una delle sue
gioie, la quale io per lo suo amore portassi nel giuoco. Essa, al mio priego
mossa, benignamente in mia presenza con le dilicate mani questo velo si levò
d'in su la sua bionda testa»; e traendo fuori il velo, il mostrò a Florio; e
poi seguendo il suo parlare, disse:
«E
appresso aggiunse che io per amore di lei mi dovessi portar bene. Onde se
questo è assai manifesto segnale di vero amore, voi, come me, il potete
conoscere».
«Ma
è più che manifesto - rispose Florio, - e certo ogni altra cosa maggiore è da
esserne da voi sperata».
Disse
allora Fileno:
«Sicuramente
che io molto più avanti ne spero, né credo con l'aiuto de' nostri iddii la mia
speranza vegna fallita».
Florio,
ancora di tutto questo non contento, gli disse:
«Fileno,
se gl'iddii ve ne facciano tosto venire a quel che disiderate, ditemi, se
licito v'è, se questa vostra donna è bella, e chi ella è».
Rispose
Fileno:
«Signor
mio, mai ella non mi comandò ch'io do vessi il suo nome celare, né la sua
bellezza richiede d'essere tenuta, a chi disidera di saperla, occulta, né a voi
niuna cosa sarebbe da nascondere; e appresso mi fido tanto nel buono amore che
io conosco ch'ella mi porta, che posto che alcuni il sapessero e volesserlami,
amandola, torre, non poriano. Onde, poi che vi piace di saperlo, io vi dirò il
nome, il quale udendo conoscerete quanta sia la bellezza. La donna di cui io
tutto sono, e per cui io amorosamente sospiro, si chiama Biancifiore, e dimora
ne' reali palagi del vostro padre in compagnia della reina. Voi la conoscete
meglio che io non fo, e sapete bene quanta sia la sua bellezza, e quinci potete
vedere se per graziosa donna io sono da amore costretto». Riguardollo Florio
allora nel viso sanza mutare aspetto, e disse:
«Veramente
vi tiene amore per bella donna, e ora mi piace più ciò che detto m'avete, che
prima non facea. Ma una cosa vi priego che facciate, che saviamente amiate e
guardatevi di non lasciarvi tanto prendere ad Amore, che a vostra posta partire
non vi possiate da lui, però che io, il quale vivo pieno di sospiri, per niuna
altra cosa mi dolgo, se non per che io vorrei da lui partirmi, e non posso; e
la cagione è però che io amai già una donna, e ancora più che me l'amo, e per
quello che vedere me ne parve, ella amò me sopra tutte le cose, e in luogo di
vero amore ella mi donò questo anello, il quale io porto in dito e porterò
sempre per amore di lei; e poco tempo appresso lasciò me e donossi ad un altro
di molto minor condizione che io non sono: per la qual cosa io ora mi vorrei
partire da amare e non posso, e lei ho quasi del tutto perduta. Se a voi il simigliante
avvenisse, certo elli sarebbe da dolerne a ciascuna persona che v'amasse».
Disse
allora Fileno:
«Florio,
buono è il consiglio che mi donate, e se io credessi che mi bisognasse, io il
prenderei; ma sanza dubbio io la conosco tanto costante giovane, che mai del
suo proposito, cioè d'amare me, non credo ch'ella si muti».
«Dunque
avete voi vantaggio da tutti gli altri - disse Florio, - e se così sarà, piu
che nullo iddio vi potrete chiamare beato».
L'ora
del mangiare gli levò da questo ragionamento, il quale non dilettava tanto
all'una delle parti, quanto all'altra era gravissimo e noioso; e usciti della
camera, lavate le mani, alle apparecchiate tavole s'asettarono.
[18]
Stette
Florio alla tavola sanza prendere alcun cibo, rivolgendo in sé l'udite parole
da Fileno, sostenendo con forte animo la noiosa pena che lo sbigottito cuore
sentiva per quelle. Ma poi che le tavole furono levate, e a ciascuno fu licito
d'andare ove gli piacea, Florio soletto se n'entrò nella sua camera, e
serratosi in quella, sopra il suo letto si gittò disteso, e sopra quello
incominciò il più dirotto pianto che mai a giovane innamorato si vedesse fare;
e nel suo pianto incominciò a chiamare la sua Biancifiore e a dire così:
«O
dolce Biancifiore, speranza della misera anima, quanto è stato l'amore ch'io
t'ho portato e porto da quell'ora in qua che prima ne' nostri giovani anni
c'innamorammo! Certo mai alcuno donna sì perfettamente non amò, come io ho te
amata: tu sola se' stata sempre donna del misero cuore. Niuna cosa fu che per
amore di te io non avessi fatto, niuna gravezza è che lieve non mi fosse
paruta. E certo, quando il noioso caso della misera morte, alla quale
condannata fosti, fu, niuno dolore fu simile al mio, infino a tanto che con la
mia destra mano liberata non t'ebbi. Deh, misera la vita mia, quanti sono stati
i miei sospiri, poi che licito non mi fu di poterti vedere! Quante lagrime
hanno bagnato il dolente petto, nel quale io continuamente effigiata ti porto
così bella, come tu se'! Né mai niuno conforto poté entrare in me sanza il tuo
nome. Niuno ragionamento m'era caro sanza esservi ricordata tu, di cui ora la
speranza così spogliato mi lascia, pensando che me per Fileno abbi abandonato,
e la cagione per che vedere non posso. Certo tu non puoi dire che io mai altra
donna che te amassi: da assai sono stato tentato, mai niuna poté vantarsi che
alquanto al loro piacere io mi voltassi. Né in altra cosa conosco me averti già
mai fallito: dunque perché Fileno più di me t'è piaciuto? Deh, or non sono io
figliuolo del re Felice, nipote dell'antico Atalante sostenitore de' cieli?
Certo sì sono: e Fileno è un semplice cavaliere. Luce il viso suo di più
bellezza che 'l mio? Mai no! È la sua virtù più che la mia? Or fosse essa pur
tanta! Se forse valoroso giovane ti pare sotto l'armi, quanto il mio valore sia
non ti dee essere occulto, a tal punto in tuo servigio s'adoperò. Doni so bene
che a questo non t'hanno tratta; ma io dubito che l'animo tuo, il quale solea
essere grandissimo, sia impicciolito, e dubiti d'amare persona che maggior
titolo porti di te, dubitando d'essere da me sdegnata. Certo questa dubitazione
non dovea in te capere, però ch'io so te essere degli altissimi imperadori
romani discesa; la qual cosa se ancora vera non fosse, non potrebbe tra te e me
capere sdegno. Dunque, perché m'hai lasciato? Ahimè, misera la vita mia! Quando
troverai tu un altro Florio, che sì lealmente t'ami com'io t'ho amata? Tu nol
troverai già mai! Tu m'hai data materia di sempre piagnere, però che mai del mio
cuore tu non uscirai, né potresti uscire; e sempre ch'io mi ricorderò me essere
del tuo cuore uscito, tante fiate sosterrò pene sanza comparazione. E quello
che più in questo mi tormenta, si è che io conosco te non poter negare l'essere
di Fileno innamorata, però che egli m'ha mostrato quel velo col quale tu
coprivi la bionda testa, quando con pietose parole ti domandò una delle tue
gioie, e tu gli donasti quello. Oimè misero, ove si vogliono oramai voltare i
miei sospiri a domandare conforto, poi che tu m'hai lasciato, ch'eri sola mia
speranza? Oimè dolente, erati così noioso l'attendere di potermi vedere, che
per così poco di tempo me per un altro, cui più sovente veder puoi, hai
dimenticato? Io non so che mi fare: io disidero di morire e non posso».
E
lagrimando per lungo spazio, ricominciava a dire:
«O
Amore, valoroso figliuolo di Citerea, aiutami. Tu fosti del mio male
cominciatore: non mi abandonare in sì gran pericolo! Tu sai che io ho sempre i
tuoi piaceri seguiti. Vagliami la vera fede che io ho portata alla tua
signoria, la quale me a sé sottomettere non dovea sanza intendimento d'aiutarmi
infino alla fine de' miei disii. Volessero gl'iddii che mai la tua saetta non
si fosse distesa verso il mio cuore, né che mai veduta fosse stata da me la
luce de' begli occhi di Biancifiore, da' quali ora per la tua potenza medesima
tradito e ingannato mi trovo! Oimè misero, quante fiate già per la tua potenza
mi giurò ella che mai me per altrui non lascerebbe, e io a lei simile
promissione feci! Io l'ho osservata, ma ella m'ha abandonato. Ove è fuggita la
promessa fede? E tu dove se', o Amore, il cui potere è stato schernito da
questa giovane? Come non ti vendichi, e me similmente? Se tu così notabile
fallo lasci impunito, chi avrà in te già mai fidanza? Tu perseguitasti il
misero Ipolito infino alla morte perché egli sdegnava tua signoria: come
costei, che l'ha ingannata, non punisci? Io non ne cerco però grave punizione,
ma solamente che tu la ritorni nel pristino stato; e se questo conceder non mi
vuoi, consenti di chiudere con le tue mani i miei occhi, acciò che più la mia
vita in sì fatta maniera non si dolga. Deh, ascolta i prieghi del misero, o
caro signore; rivolgiti verso lui con pietoso viso, acciò ch'egli possa avere
alcuna consolazione anzi la morte, la quale tosto, in dispiacere del mio padre,
prendere mi possa, il quale di questo male è cagione, però che se egli non
fosse, io non sarei stato lontano, e essendo stato presente, la mia Biancifiore
non avrebbe me per Fileno dimenticato: avvegna che ancora io credo che per
paura di lui ella si sia ingegnata d'avere altro amadore. Oimè, che nulla
cagione è che a me non sia contraria! A me avviene sì come alla nave, alla
quale, già mezza inghiottita dalle tempestose onde, ogni vento è contrario. O
misera fortuna, i tuoi ingegni s'aguzzano a nuocere a me, apparecchiato di
ruinare! Oimè, perché questo sia io non so. Tu fosti già a me benignissima
madre, e ora mi se' acerba matrigna. Io mi ricordo già sedere nella sommità
della tua rota, e veder te con lieto viso onorarmi: e questo era quando il
lieto viso di Biancifiore m'era presente, mostrandomi quello amore che
parimente insieme ci portavamo; ma tu, credo, invidiosa di sì graziosa gioia
com'io sentiva, non sostenesti tener ferma la tua volubile rota, ma voltando
non sanza mio gran dolore, allontanandomi dal bel viso, mi pingesti a Montoro.
Qui con grandissimi tormenti stando, imaginava me essere nella più infima parte
della tua rota, né credea più potere discendere; ma tosto con maggiore
infortunio mi facesti conoscere quella avere più basso luogo: e questo fu
quando non bastandoti me avere allontanato da lei, t'ingegnasti d'opporre alle
forze degl'iddii, volendola far morire, alla cui salute, non tua mercé, io fui
arditissimo difenditore. E in tale stato, con più sospiri, che per lo passato
tempo avuti non avea, mi tenesti grande stagione, sperando io di dovere
risalire, se si voltasse: però che tanto m'era paruto scendere, che 'l centro
dell'universo mi parea toccare. Ma tutto ciò non bastandoti, ancora volesti che
niuno luogo fosse nella tua rota, che da me non fosse cercato; e ha'mi ora in
sì basso luogo tirato, che con la tua potenza, ancora che benigna mi ritornassi
come già fosti, trarre non me ne potresti. Io sono nel profondo de' dolori e
delle miserie, pensando che la mia Biancifiore abbia me per altrui abandonato.
O dolore sanza comparazione! O miseria mai non sentita da alcuno amante che è
la mia! Avvegna che io non sia il primo abandonato, io son solo colui che sanza
legittima cagione sono lasciato. La misera Isifile fu da Giansone abandonata
per giovane non meno bella e gentile di lei, e per la salute propia della sua
vita, la quale sanza Medea avere non potea. Medea poi per la sua crudeltà fu
giustamente da lui lasciata, trovando egli Creusa più pietosa di lei. Oenone fu
abandonata da Paris per la più bella donna del mondo. E chi sarebbe colui che
avanti non volesse una reina discesa del sangue degl'immortali iddii, che una
rozza femina usata ne' boschi? Oh quanti essempli a questi simili si troverebbero!
Ma al mio dolore niuno simile se ne troverebbe, che un figliuolo d'un re per un
semplice cavaliere sia lasciato, dove la virtù avanza nell'abandonato. Deh,
misera fortuna, se io avessi ad inganno avuto l'amore di Biancifiore, come
Aconzio ebbe quello di Cidipe, certo alquanto parrebbe giusto che io fossi per
più piacevole giovane dimenticato; ma io non con inganno, non con forza, non
con lusinghe ricevetti il grazioso amore, anzi benignamente e con propia
volontà di lei, cercando co' propii occhi se io era disposto a prenderlo, e
trovando di sì, mel donò: il qual ricevuto, a lei del mio feci subitamente
dono. Adunque perché questa noia? Perché consentire me per altro essere
dimenticato? Oimè, che le mie voci non vengono alle tue orecchi. Or volessero
gl'iddii che mai lieta non mi ti fossi mostrata! Certo io credo che 'l mio
dolore sarebbe minore, però che io reputo felicissimo colui che non è uso
d'avere alcuna prosperità, però che da quella sola, perdendola, procede il
dolore. E di che si può dolere chi dimora sempre con quello ch'egli ebbe? Tu
ora m'hai posto sì abasso, che più non credo potere scendere: nel quale luogo,
sì come più doloroso che alcuno altro, mai sanza lagrime non dimorerò. Piaccia
agl'iddii che sopravegnente morte tosto me ne cavi».
E
poi che queste cose piangendo avea dette, rimirava all'anello che in dito
portava, e diceva:
«O
bellissimo anello, fine delle mie prosperità e principio delle miserie,
gl'iddii facciano più contenta colei che mi ti donò, che essi non fanno me.
Deh, come non muti tu ora il chiaro colore, poi che ha la tua donna mutato il
cuore? Oimè, che perduta è la reverenza che io ho a te e all'altre cose da lei
ricevute portata! Ogni mio affanno in picciola ora è perduto: ma poi che ella
mi s'è tolta, tu non ti partirai da me. Tu sarai etterno testimonio del
preterito amore, e così come io sempre nel cuore la porterò, tu così sempre
nella usata mano starai».
E
poi bagnandolo di lagrime, infinite volte il baciava chiamando la morte che da
tale affanno col suo colpo il levasse, e più forte piangendo diceva:
«Oimè,
perché più si prolunga la mia vita? Maladetta sia l'ora ch'io nacqui e che io
prima Biancifiore amai. Or fosse ancora quel giorno a venire, né già mai
venisse. Ora fossi io in quell'ora stato morto, acciò che io essemplo di tanta
miseria non fossi nel mondo rimaso. Ma certo la mia vita non si prolungherà
più!».
E
postasi mano allato, tirò fuori un coltello, il quale da Biancifiore ricevuto
avea, dicendo:
«Oggi
verrà quello che la dolorosa mente s'imaginò quando donato mi fosti, cioè che
tu dovevi essere quello che la mia vita terminerebbe: tu ti bagnerai nel misero
sangue, tenuto vile dalla tua donna, la quale, sappiendolo, forse avrà più caro
avermiti donato, per quello che avvenuto ne sarà, che per altro».
Mentre
che Florio piangendo dolorosamente queste parole diceva, disteso sopra 'l suo
letto, Venere, che il suo pianto avea udito, avendo di lui pietà, discese del
suo cielo nella trista camera, e in Florio mise un soavissimo sonno, nel quale
una mirabile visione gli fu manifesta.
[19]
Poi
che Florio, da dolce sonno preso, ebbe lasciato il lagrimare, nuova visione gli
apparve. A lui parea vedere in un bellissimo piano un gran signore coronato di
corona d'oro, ricca per molte preziose pietre, le quali in essa risplendeano
maravigliosamente, e i suoi vestimenti erano reali. E parevagli che questi
tenesse nella sinistra mano uno arco bellissimo e forte, e nella destra due
saette, l'una d'oro, e quella era agutissima e pungente, l'altra gli parea di
piombo, sanza alcuna punta. E questo signore, il quale di mezza età, né giovane
né vecchio, giudicava, gli parea che sedesse sopra due grandissime aquile, e i
piedi tenesse sopra due leoni, e nell'aspetto di grandissima autorità. E quanto
Florio più costui guardava, più mirabile gli parea, ventilando due grandissime
ali d'oro, le quali dietro alle spalle avea. Ma poi che a Florio parve per
lungo spazio avere lui riguardato, elli gli parve vedere dalla destra mano del
signore una bellissima donna, la quale ginocchioni davanti al signore
umilemente pregava; ma egli non poteva intendere di che, se non che, fiso
riguardando la donna, gli parve che fosse la sua Biancifiore. Poi alla sinistra
mano del signore rimirando, vide un tempestoso mare, nel quale una nave con
l'albero rotto, e con le vele le quali piene d'occhi gli pareano tutte
spezzate, e con li timoni perduti e sanza niuno governo. E in quella nave gli
parea essere, a lui, tutto ignudo, con una fascia davanti agli occhi, e non
sapere che si fare; e dopo lungo affannare in questa nave, gli parea vedere
uscire di mare uno spirito nero e terribile a riguardare, il quale prendeva la
proda di questa nave, e tanto forte la tirava in giuso che già mezza l'aveva
nelle tempestose onde tuffata. Allora Florio, forte spaventato sì per lo fiero
aspetto dello spirito sì che si vedea la morte vicina per la tempestante nave,
con grandissimo pianto verso la poppa gli parea fuggire e gridare verso quel
signore "Aiuto". Ma egli non parea che alle sue parole né a' suoi
prieghi colui si movesse; onde Florio più temea, sentendo ciascuna ora più la
nave affondare. Poi dopo alquanto spazio gli parea che questo signore gli
dicesse: "Io sono colui cui tu hai già tanto chiamato ne' tuoi sospiri:
non credere che io ti lasci perire". Ma per tutto questo niente si muove.
Ma poi che a Florio piangendo con grandissima paura parve avere un grandissimo
pezzo aspettato, a lui parve che la fascia, che davanti agli occhi avea,
alquanto s'aprisse, e fossegli conceduto di vedere dove stava: e com'egli
aperse gli occhi a riguardare, vide essere già quella nave tanto tirata sotto
l'onde, che poco o niente se ne parla. Allora, forte piangendo, gli parea
domandare mercé e aiuto, e alzando gli occhi al cielo per invocare quello di
Giove, parendogli che quello di quel signore li fallisse, e egli vide una
bellissima giovane tutta nuda, fuori che in uno sottile velo involta, e
dicevagli: "O luce degli occhi miei, confortati". A cui Florio rispondea:
"E che conforto poss'io prendere, che già mi veggo tutto sotto
l'onde?". La giovane gli rispondea: "Caccia dalla tua nave quello
iniquo spirito, il quale con la sua forza s'ingegna d'affondarla". A cui
Florio parea che rispondesse: "E con che il caccerò io, che niuna arma m'è
rimasa?". Allora parea a Florio che costei traesse del bianco velo una
spada, che parea che tutta ardesse, e dessegliela; la quale Florio poi che
presa l'avea, gli pareva rimirare costei e dire: "O graziosa giovane, che
ne' miei affanni tanto aiuto vi insegnate di porgermi, se vi piace, siami
manifesto chi voi siete, però che a me conoscere mi vi pare, ma la lunga fatica
m'ha sì stordito, che il vero conoscimento non è con meco". Questa parea
che così gli rispondesse: "Io sono la tua Biancifiore, di cui tu oggi,
ignorante la verità, ti se' tanto sanza ragione doluto"; e questo detto,
parea a Florio che essa gli porgesse un ramo di verde uliva e disparisse. Poi
parea a Florio con l'ardente spada leggerissimo andare sopra l'onde e ferire lo
iniquo spirito più volte, ma dopo molti colpi gli parea che lo spirito
lasciasse il legno, tornandosi per quella via onde era venuto. E partito lui, a
Florio parea che il mare ritornasse alquanto più tranquillo, e il legno nel suo
stato, di che in se medesimo si rallegrava molto. E volendo intendere a
racconciare i guasti arnesi della sua nave, il lieve sonno subitamente si
ruppe. E Florio dirizzato in piè, sospirando e quasi stordito per la veduta
visione, si trovò in mano un verde ramo d'uliva: per la qual cosa vie più
d'ammirazione prese, e incominciò a pensare sopra le vedute cose e sopra il
verde ramo. E poi che egli ebbe lungamente pensato, e egli incominciò così fra
se medesimo a dire: "Veramente avrà Amore le mie preghiere udite, e forse
in soccorso della mia vita, vorrà tornare Biancifiore in quello amore verso di
me che ella fu mai, però che la voce di lei mi riconfortò nella affannosa
tempesta ove io mi vidi, e diemmi argomento da campare da quella, e in segno di
futura pace mi donò questo ramo delle frondi di Pallade: onde poi che così è,
io voglio avanti piangendo alquanto aspettare che Biancifiore mi mostrerà di
voler fare, che subitamente, sanza farle sentire ciò che Fileno m'ha detto,
uccidermi con le propie mani". E questo detto, riprese il coltello che
sopra il letto ignudo stava, e quello rimise nel suo luogo; e sanza più
indugio, come propose, così fece una pistola, la quale egli mandò a
Biancifiore, in questo tenore:
[20]
«Se
gli avversarii fati, o graziosa giovane, t'hanno a me con l'altre prosperità
levata, come io credo, non con isperanza di poterti con i miei prieghi muovere
dal novello amore, ma pensando che lieve mi fia perdere queste parole con teco
insieme, ti scrivo. La qual cosa se non è com'io estimo, se parte alcuna di
salute m'è rimasa, io la ti mando per la presente lettera, della quale
volessero gl'iddii che io fossi avanti aportatore; e per quello amore che tu
già mi portasti, ti priego che questa sanza gravezza infino alla fine legghi. E
però che pare che sia alcuno sfogamento di dolore a' miseri ricordare con
lamentevoli voci le preterite prosperità, a me misero Florio, da te abandonato,
con teco, sì come con persona di tutte consapevole, piace di raccontarle; e
forse udendole tu, che pare che messe l'abbi in oblio, conoscerai te non dovere
mai me per alcuno altro lasciare. Adunque, sì come tu sai, o giovane donzella,
tu, in un giorno nata ne' reali palagi con meco di pellegrino ventre, compagna
a' miei onori divenisti, che sono unico figliuolo del vecchio re: ne' quali onori
tu e io parimente dimorando, Amore l'uno così come l'altro, ne' nostri puerili
anni, con la cara saetta ferì. Né più fu in sì tenera età perfetto l'amore
d'Ifis e di lante che fu il nostro. E quello studio che a noi, costretti da
aspro maestro, ne' libri si richiedeva, cessante Racheio, in rimirarci
mettevamo, mostrando lo inestimabile diletto che ciascuno di ciò avea. Oimè,
che ancora niuno ricordo era nella nostra corte di Fileno, il quale di lontana
parte dovea venire a donarti simile gioia. Ma poi la fortuna, mala sostenitrice
delle altrui prosperità, invidiosa de' nostri diletti, i quali con dolci
sguardi e semplici baci solamente si contentavano per la età che semplice era,
verso di noi innocenti volle la sua potenza mostrare, e, abassando con la sinistra
mano la non riposante rota, il nostro occulto amore a sospette persone fece
manifesto. Il quale dal mio padre, dopo gravi riprensioni maestrali, saputo,
fui costretto di partirmi da te: nella quale partita, tu mia e io sempre tuo,
per la somma potenza di Citerea, giurammo di stare, mentre Lachesis, fatale
dea, la vita ne nutricasse. E nel mio partire mi vedesti piangere, e tu
piangesti; e ciascuno di noi egualmente dolente, mescolammo le nostre lagrime.
E sì come l'abbracciante ellera avviticchia il robusto olmo, così le tue
braccia il mio collo avvinsero, e le mie il tuo simigliantemente; e appena ci
era licito ad alcuno di lasciare l'uno l'altro, infino a tanto che tu per
troppo dolore costretta nelle mie braccia semiviva cadesti, riprendendo poi vita
quando io cercava teco morire, te riputando morta. Ora fosse agl'iddii piaciuto
che allora il termine della mia vita fosse compiuto! Ma tu poi levata, e
donatomi quello anello il quale ancora te mi tiene legata nel cuore e terrà
sempre, mi pregasti che mai io non ti dovessi dimenticare per alcuna altra.
Alle quali parole s'aggiunsero sì tosto le lagrime che appena ne fu possibile
dire addio. E dopo la mia partita mi ricorda avere udito che tu con gli occhi
pieni di lagrime mi seguitasti infino a tanto che possibile ti fu vedermi, sì
come io similemente stetti sempre con gli occhi all'alta torre, ove te
imaginava essere salita per vedere me. Tu rimanesti nelle nostre case visitando
i luoghi dove più fiate stati eravamo insieme, e in quelli con sì fatta ricordanza
prendevi alcuno diletto imaginando. Ma io misero, poi che i tristi fati da te
m'ebbero allontanato, come gl'iddii sanno, niuno diletto si poté al mio animo
accostare sanza ricordarmi di te; e ciascun giorno i miei sospiri cresceano
trovandomi lontano alla tua presenza; e quelle fiamme le quali il mio padre
credeva, lontanandomi da te, spegnere, con più potenza sempre si sono raccese e
divenute maggiori. Oimè, ora quante fiate ho io già pianto amaramente per
troppo disio di veder te, e quante fiate già nel tenebroso tempo, quando
amenduni i figliuoli di Latona nascosi ci celano la loro luce, venni io alle
tue porti dubitando di non essere sentito da' miei minori servidori, e non
temendo la morte che nelle mani degli insidianti uomini ne' notturni tempi
dimora, né de' fieri leoni, né de' rapaci lupi per lo cammino usanti in sì
fatte ore! E quante volte già giovani donne per rattiepidare i miei tormenti,
le cui bellezze sarieno agl'iddii bene investite, m'hanno del loro amore
tentato, né mai alcuna poté vincere il forte cuore, a te tutto disposto di
servire! E poi, oltre a tutte l'altre tribulazioni, gl'iddii sanno quanto grave
mi fosse ciò che di te intesi, quando ingiustamente condannata fosti alla
crudele morte: alla quale io con tutte le mie forze, mercé degl'iddii che
m'aiutarono, conoscendo la ingiustizia a te fatta, m'opposi in maniera che me
con teco trassi da tale pericolo. E poscia ognora in maggiore tribulazione
crescendo, dubitando della tua vita, mai non divenni vile a sostenere tormenti
per te, né mai per tutte le contate cose una fiata mi pentii d'averti amata, né
proposi di non volerti amare, ma ciascuna ora più t'amai e amo, avvegna che te
io aggia tutto il contrario trovata, però che tu non hai potuto la minor parte
delle mie miserie sostenere in mio servigio. Tu, mobile giovane, ti se' piegata
come fanno le frondi al vento, quando l'autunno l'ha d'umore private. Tu
agl'ingannevoli sguardi di Fileno, il quale non lunga stagione t'ha tentata,
se' dal mio al suo amore voltata. Oimè, or che hai tu fatto? E se questo forse
negare volessi tu, non puoi, con ciò sia cosa che la sua bocca a me abbia tutte
queste cose manifestate. E oltre a ciò, volendomi mostrare quanto il tuo amore
sia fervente verso di lui, mi mostrò il velo che tu della tua testa levasti e
donastilo a lui: il quale quand'io il vidi, un subito freddo mi corse per le
dolenti ossa, e quasi smarrito rimasi nella sua presenza. Oimè, come io
volontieri gli avrei con le pronte mani levato il caro velo, e lui, che
s'ingegnava di te levarmi, tutto squarciato, cacciandolo da me con grandissima
vergogna; ma per non scoprire quello che nel mio cuore dimorava e per udire più
cose, sostenni con forte viso di riguardare quello per amore di te, imaginando
che per adietro la tua testa, a me graziosissima a ricordare, avea coperta.
Oimè, ora è questa la costanza che io ho avuta verso di te? Deh, or non sai tu
quante e quali donne m'hanno per maritale legge al mio padre adimandato, e
quante e quali egli me ne ha già volute dare per volermi levare a te? Or non
consideri tu quanti e quali dolori io ho già per te sostenuti per l'esserti
lontano, e sostengo continuamente? Queste cose non si dovrieno mai del tuo
animo partire, le quali mostra che assai da esso lontane sieno, veggendomi io
essere per Fileno abandonato. Deh, ora qual cagione t'ha potuto a questo
muovere? Certo io non so. Forse mi rifiuti per basso lignaggio, sentendo te
essere degli altissimi prencipi romani discesa, le cui opere hanno tanta di
chiarezza, che ogni reale stirpe obumbrano, e me del re di Spagna figliuolo,
onde riputando te più gentile di me, m'hai per altro dimenticato? Ma tu,
stoltissima giovane, non hai riguardato per cui, però che se bene avessi
cercato, tu avresti trovato Fileno non essere di reale progenie, né di romano
prencipe disceso, ma essere un semplice cavaliere. E se forse più bellezza in
lui che in me ti muove, certo questo è vano movimento, con ciò sia cosa che
egli non sia bellissimo né io sì laido, che per quello dovessi essere lasciato
da te. Se forse in lui più virtù che in me senti, questo non so io, ma certo da
alcuno amico m'è stato raportato segretamente me essere nel nostro regno tra
gli altri giovani virtuoso assai. Oimè, che io non so perché in queste cose
menome io scrivendo dimoro, con ciò sia cosa che il piacere faccia parere il
laido bellissimo, e colui ch'è sanza virtù copioso di tutte, e il villano
gentilissimo riputare. Io mi piango con più doloroso stile pensando che quando
tutte le ragioni di sopra dette aiutassero Fileno, come elle debitamente me difendono,
perché dovrei io essere da te lasciato già mai? Ove credi tu mai trovare un
altro Florio il quale t'ami com'io fo? Quando credi tu avere recato Fileno a
tal partito ch'egli per te si disponga alla morte com'io feci? Oimè, ove è ora
la fede promessa a me? Deh, se io fossi molto allontanato da te con questa
speranza con la quale io t'era vicino, alcuna scusa ci avrebbe: o dire:
"Io mai più vedere non ti credea", o porre scusa di rapportata morte:
delle quali qui niuna porre ne puoi, però che di me continue novelle sentivi e
ognora potevi udire me essere a te subietto che mai. Oimè, ch'io non so quale
iddio abbia la sua deità qui adoperata in fare che tu non sii mia come tu
suoli, né so qual peccato a questo mi nuoccia. Fallito verso te non ho, salvo io
non avessi peccato in troppo amarti dirittamente: al quale fallo male si confà
la dolente pena che m'apparecchi, cioè d'amare altrui e me per altro
abandonare. Ma tanto infino ad ora ti manifesto che, con ciò sia cosa che mai
io non possa sanza te stare né giorno né notte che tu sempre ne' miei sospiri
non sia, se questo esser vero sentirò, con altra certezza che quella che io ti
scrivo, per gli etterni iddii la mia vita in più lungo spazio on si distenderà,
ma contento che nella mia sepoltura si possa scrivere: "Qui giace Florio
morto per amore di Biancifiore", mi ucciderò, sempre poi perseguendo la
tua anima, se alla mia non sarà mutata altra legge che quella alla quale ora è
costretta. Io avea ancora a scriverti molte cose, ma le dolenti lagrime, le quali,
ognora che queste cose che scritte t'ho mi tornano nella mente, avvegna che
dire potrei che mai non escono, mi costringono tanto, che più avanti scrivere
non posso. E quasi quello che io ho scritto non ho potuto interamente dalle
loro macchie guardare; e la tremante mano, che similemente sente l'angoscia del
cuore che mi richiama all'usato sospirare, non sostiene di potere più avanti
muovere la volonterosa penna: onde io nella fine di questa mia lettera, se più
merito d'essere da te udito come già fui, ti priego che alle prescritte cose
provegghi con intero animo. Nelle quali se forse alcuna cosa scritta fosse la
quale a te non piacesse, non malizia, ma fervente amore m'ha a quella scrivere
mosso, e però mi perdona. E se quello che il tristo cuore pensa è vero,
caramente ti priego che, se possibile è, indietro si torni. E se forse l'amore
che tu m'avesti già né i miei prieghi a questo non ti strignesse, stringati la
pietà del mio vecchio padre e della misera madre, a' quali tu sarai cagione
d'avermi perduto. E se così non è, non tardi una tua lettera a certificarmene,
però che infino a tanto che questo dubbio sarà in me, infino a quell'ora il tuo
coltello non si partirà della mia mano, presto ad uccidere e a perdonare
secondo ch'io ti sentirò disposta. Avanti non ti scrivo, se non che tuo son
vivuto e tuo morrò: gl'iddii ti concedano quello che onore e grandezza tua sia,
e me per la loro pietà non dimentichino».
[21]
Fatta
la pistola, Florio piangendo la chiuse e suggellò; e chiamato a sé un suo
fedelissimo servidore, il quale era consapevole del suo angoscioso amore, così
gli disse:
«O
a me carissimo sopra tutti gli altri servidori, te' la presente lettera, la
quale è segretissima guardia delle mie doglie, e con studioso passo celatamente
a Biancifiore la presenta, e priegala che alla risposta niuno indugio ponga,
però che per te l'attendo. Se avviene che la ti doni, niuna cagione ti ritenga,
ma sollecitamente a me quanto più cheto puoi, fa che la presenti, acciò che
degnamente possi nella mia grazia dimorare. Va, che 'l molto disio mi cuoce
d'udire quello che a questa si risponderà; e guarda che niuno altro che quella
propia cui io ti mando la vedesse».
Prese
il servo la suggellata pistola, e quella, con istudioso passo, pervenuto in
Marmorina nelle reali case, presentò a Biancifiore occultamente. La quale come
Biancifiore la vide, primieramente con dolci parole domandò come il suo Florio
stesse. A cui il servo rispose:
«Graziosa
giovane, niuno sospiro è sanza lui. Egli si consuma in isconvenevole amaritudine,
la cagione della quale è a me nascosa».
Udito
questo, Biancifiore cominciò a sospirare, dicendo:
«Oimè,
e per quale cagione potrebbe questo essere?».
«Per
niuna credo - rispose il servo, - se per amore di voi non è. Egli vi manda
caramente pregando che sanza alcuno indugio alla presente pistola rispondiate;
e io, se vi piacerà, attenderò la risposta».
Allora
Biancifiore la presa pistola si pose sopra la testa, e, avanti che l'aprisse,
la baciò forse mille fiate, e, partita dal messaggiere, gli disse che di
presente la risposta gli recherebbe, e sola nella sua camera se n'entrò,
dubitando che dir dovesse la presente lettera. E, rotto il tenero legame, aprì
quella, né più tosto la prima parte ne lesse, che i begli occhi
s'incominciarono a bagnare d'amare lagrime; e così, ognora più forte piangendo
come più avanti leggeva, la finì di leggere. Ma poi che con pianti e con
sospiri più fiate l'ebbe reiterata leggendo, angosciosa molto nella mente della
falsa imaginazione, di Florio, la quale avea di verità viso per lo mal donato
velo, sopra 'l suo letto si pose, e a quella così al suo Florio rispose:
[22]
«Non
furono sanza molte lagrime gli occhi miei, quando primieramente videro la tua
pistola, o nobilissimo giovane, sola speranza della dolente anima, la quale con
gravissima angoscia molte fiate rilessi. E certo ella non fu dal tuo pianto
macchiata quasi in alcuna parte, a rispetto che le mie lagrime la macchiarono.
E più volte leggendo quella, fra me pensai aver difetto d'intendimento, alcuna
volta dicendo fra me medesima: "Io non la intendo bene, però che non
potrebbe essere che intendimento di Florio fosse di scrivermi le parole che
semplicemente guardando pare che questa pistola porga". Altra volta dicea:
"Forse Florio mi tenta, e vuole vedere se io mi muto per asprezza di
parole". Ma poi che ogni intendimento si cessò da me, e lasciommisi
credere che tu credevi quello che scrivevi, appena credetti potere a tanto
sforzare la deboletta mano che la penna in quella sostenere si potesse per
volerti rispondere; ma poi che pure sforzandomi gl'iddii mi concedono potere a
te rispondere, per questa, quella salute che per me disidero, ti mando. E se
alcuna fede merita il leale amore ch'io ti porto, ti giuro per gl'immortali
iddii che e' non t'era bisogno distenderti in tanto scrivere per mostrarmi
quanto sia stato o sia l'amore che mi porti, però che molto maggiore credo che
sia che la tua lettera non mostra, né tu per parole potresti mostrare. E similmente
i lunghi affanni e i gran meriti, a' quali io mai aggiunger non potrei a
remunerare il più picciolo, per quella conobbi. Ma il sentirti piagnere della
intera fede la quale mai né ti ruppi, né disiderai di romperti, m'ha mossa a
lagrimare e istrinta a scriverti, disiderosa di farti certo te mai da me non
essere dimenticato, né potere possibile mai divenire che io ti dimentichi. Io,
o grazioso giovane, non credo me essere nata de' ferocissimi leoni barbarici,
né delle robuste querce d'Ida, né delle fredde marmore di Persia, dalle quali
cose risomigliando passi di rigidezza i libiani serpenti; ma di pietoso padre e
di benigna madre, sì come più fiate m'è stato detto, discesi, e per quella
legge che sono gli umani corpi dalla natura tratti, e io similemente, ma non
dalla fortuna. Né appresi mai, né so essere, né disidero di saperlo, crudele e
sanza umano conoscimento come tu imagini. Tu mi scrivi che Amore me, come te,
ne' nostri puerili anni, insiememente ferì: della qual cosa io non meno di te
mi ricordo. E certo egli mi trovò atta e disposta ad amare come te similemente,
né più durezza credo che trovasse nel mio che nel tuo cuore, o abbia mai
trovata. Per la qual cosa, se tu con affanni infiniti se' lontano a me
dimorato, io non dimorai mai né dimoro con diletto a te lontana, anzi mi sento
da diverse punture molestare per simile cagione che senti tu, né mai infinta
lagrima né falsa parola per più accenderti udisti da me: ma volessero gl'iddii
che possibile fosse te aver potuto vedere e udire le vere, le quali se vedute
avessi, forse più temperatamente avresti scritto, quando dicesti me non essere
costante a sostenere per te uno affanno, né in amarti. Ma però che tutto questo
spero con l'aiuto degl'iddii ancora doversi mani festare a te con apertissimo
segno, più non mi stendo a scrivertene, essendo non meno da più grave dolore
costretta, sentendo te credere essere da me per Fileno abandonato, sì come la
tua lettera mostra, la quale quando vidi, assalita da non picciola doglia, per
poco non morii. Oimè, quanto m'è la fortuna avversa! Tu vai cercando di
mostrarmi cagioni per le quali io debbia aver te per Fileno lasciato, e quelle
tu medesimo l'annulli: e veramente da annullare sono! E se di te quel senno non
è partito che aver suoli, dovresti pensare che io non sono del senno uscita,
che io non conosca manifestamente te di nobiltà avanzare Fileno, semplice
cavaliere della tua corte, e me picciolissima serva di te e del tuo padre, a
cui tu rimproveri, faccendoti beffe di me, me esser discesa degli antichi imperadori
romani, i quali gl'iddii guardino che sì poco torni la loro potenza, che ad
essere servi, com'io sono, torni la loro sementa. Né ancora mi si occulta la
tua virtù, né la tua bellezza piena di graziosa piacevolezza, a me cagione
d'intollerabile tormento: per le quali cose saresti più degno amante dell'alta
Citerea che di me. E certo, ben che io ti conosca nobilissimo, virtuoso e pieno
di bellezza più che alcuno altro, e me sanza alcuna di queste cose, non sono io
però invilita ch'io non abbia ardire di perfettamente amarti, come che mi si
convenga o no. Ora dunque, se tutte queste cose sono da me conosciute, come è
credibile che io per Fileno te potessi dimenticare? E non ti ritenesti di dire
che io, femina di fragilissima natura, niuna avversità per amor di te sostenere
non avea potuto, volendo quasi dire che per alleggiare i sospiri, che per te, a
me lontano, sento insieme con molte pene, cercai di volere prossimano amadore,
il quale più spesso veggendo, mi rallegrassi. Oimè, che falsa oppinione porti,
se questo credi! Ma certo più per tentarmi, che per altro il fai, però che io
so che tu conosci che io mai dal mio nascimento, risomigliando da' miei
parenti, sanza avversità non fui, per la qual cosa a forza m'è convenuto
divenire maestra di sostenere quelle: e se io l'ho sostenute grandissime tu il
sai, che gran parte con meco insieme n'hai sentite. Pensa certamente che alcuni
sospiri mai non furono cocenti come sono quelli i quali io per troppo disio di
te mando fuori della mia bocca, né lagrime mai con tanta copia bagnarono petto,
quanto hanno le mie il mio bagnato, solo per lo tuo essere lontano. Ma
veramente non molto tempo passerà che tu potrai dire che io sia fragile a
sostenere l'avversità nelle quali io sono circuita, però ch'io sento la mia
vita fuggire da me con istudioso passo, e l'anima, che il dolore del dolente
cuore non puote sostenere, l'ha già più volte voluto abandonare, e solo alcuno
conforto, che io allora ho preso sperando di rivederti, l'ha ritenuta. Ma se
così fatti dolori aggiugni a quelli che io ho infino a qui sentiti, come fatto
hai al presente per la tua pistola, io non aspetterò che l'anima cerchi
congedo, anzi gliele darò costringendola del partire, se ella forse volesse
dimorare. Io sono entrata in nuova dubitazione, la quale m'è a pensare molto
grave, e appena mi si lascia credere. Ma Amore, che ammollisce i duri cuori,
mel fa tal volta credere e alcuna altra discredere, che tu, o signor mio,
scritto non m'abbia che io abbia te per Fileno dimenticato, acciò che io
ragionevolemente di te piangere non mi possa, se per alcuna altra me hai costà
dimenticata; ma tutta fiata non sono di tanta falsa oppinione che io il possa
credere, anzi dico, qualora quel pensiero m'assale, niuna ragione farà mai che
Biancifiore sia se non di Florio, o Florio se non di Biancifiore. Ma sanza fine
mi s'attrista il cuore, qualora in quella parte della tua pistola leggo, ove
scrivi me dovere avere donato a Fileno in segno di perfetto amore il velo della
mia testa, il quale di' che quando il ti mostrò, volentieri avresti
levatogliene, squarciando lui tutto. La qual cosa volessero gl'iddii che tu
fatto avessi, però che a me sarebbe stata non picciola consolazione nell'animo,
e la cagione è questa: io non niego che quel velo, vilissima cosa, non fosse a
lui donato dalle mie mani, ma certo il cuore nol consentì mai, ma così
costretta dalla tua madre mi convenne fare. Per lo quale egli, forse pigliando
intera speranza di pervenire al suo intendimento per tale segnale, più volte
con gli occhi e con parole mi tentò di trarmi ad amarlo, la qual cosa credo
impossibile sarebbe agl'iddii; né mai da me più avanti poté avere. Né è però da
credere che in un velo o in altro gioiello si richiuda perfetto amore:
solamente il cuore serva quello, e io, che più che altra giovane il sento per
te, posso con vere parole parlarne. E che io niuna persona amai, se non
solamente te, ne chiamo testimonii gl'iddii, a' quali niuna cosa si nasconde: e
però io ti priego che il velo, non volonterosamente donato, non ti porga nel
cuore quella credenza che da prendere non è. Niuna persona è nel mondo amata da
me se non Florio. Lascia ogni malinconia presa per questo, se la mia vita t'è
cara, e spera che ancora fermamente conoscerai ciò che io ora ti prometto, e la
tua vita con la mia insieme caramente riguarda: a luogo e a tempo gl'iddii
rimuteranno consiglio, forse concedendoci migliore vita che noi da noi non
eleggeremmo. Rifiuta i non dovuti ozii e seguita i leali diletti; e se tu mi
porterai tanto nell'animo quanto io fo te, tu conoscerai me non essere meno
affannata da' pensieri che tu sii. E caramente ti priego che con sì fatte
lettere tu non solleciti più l'anima mia, disposta a cercare nuovo secolo: che
posto che tu con forte animo il mio coltello tenghi nella mano, a me corto
laccio non farebbe sostenere di leggiere la seconda, solo che in quella così
come in questa mi parlassi. Biancifiore non fu mai se non tua, e tua sarà
sempre. Adoperino i fati secondo che ella ama, e sanza fallo contento viverai».
[23]
Biancifiore
piegò la scritta pistola, piena di non poco dolore, e posta in sul legame la
distesa cera, avendo la bocca per troppi sospiri asciutta, con le amare lagrime
bagnò la cara gemma, e, suggellata quella, con turbato aspetto uscì della
camera, a sé chiamando il servo, che già per troppa lunga dimoranza che fare
gli parea s'incominciava a turbare. Al quale ella disse:
«Porterai
questa al tuo signore, a cui gl'iddii concedano miglior conforto che egli non
s'ingegna di donare a me».
E
detto questo, piangendo baciò la lettera, e posela in mano al fedele servo, il
quale sanza niuno indugio volto li passi verso Montoro, e là in picciolo spazio
pervenuto, trovò Florio nella sua camera, ove lasciato l'avea, con grandissima
copia di lagrime e di sospiri, a cui egli porse la portata pistola, dicendogli
ciò che da Biancifiore compreso avea e le sue parole. E partito da lui, Florio
aperse la ricevuta lettera, e quella infinite volte rilesse pensando alle
parole di Biancifiore, sopra le quali faccendo diverse imaginazioni, sopra il
suo letto con essa lungamente dimorò.
[24]
Diana,
alla quale niuno sacrificio era stato porto come agli altri iddii fu, quando
Biancifiore dal grandissimo pericolo fu campata, avea infino a questa ora la
concreata ira tenuta nel santo petto celata, la quale non potendosi più avanti
tenere, discesa degli alti regni, cercò le case della fredda Gelosia, le quali
nascose in una delle altissime rocce d'Appennino, entro a una oscurissima
grotta, trovò intorniate tutte di neve; né v'era presso albero o pianta viva
fuori che o pruni o ortiche o simili erbe; né vi si sentia voce alcuna di gaio
uccello: il cuculo e 'l gufo aveano nidi sopra la dolente casa. Alla quale
venuta la santa dea, quella trovò serrata con fortissima porta, né alcuna
finestra vi vide aperta. Fu dalla immortale mano con soave toccamento toccata
l'antica porta, la quale non prima fu tocca, che dentro cominciarono a latrare
due grandissimi cani, secondo che le voci li facea manifesti; dopo il quale
latrare una vecchia con superbissima voce, ponendo l'occhio a uno picciolo
spiraglio, mirò di fuori, dicendo:
«Chi
tocca le nostre porti?».
A
cui la santa dea disse:
«Apri
a me sicuramente: io sono colei sanza il cui aiuto ogni tua fatica si
perderebbe».
Conobbe
l'antica vecchia la voce della divina donna, e a quella con tento passo
andando, con non poca fatica per gli inruginiti serramenti aperse la porta, la
quale nel suo aprire fece un sì grandissimo strido, che di leggiero poria
essere stato sentito infino all'ultime pendici del monte. E fatta la dea passar
dentro, con non minore romore riserrò quelle, difendendo appena i bianchi
vestimenti della dea dalle agute sanne de' bramosi cani, a' quali per magrezza
ogni osso si saria potuto contare: caccia quelli con roca voce e con un gran
bastone col quale sostenea i vecchi membri. Era quella casa vecchissima e
affumicata, né era in quella alcuna parte ove Aragne non avesse copiosamente le
sue tele composte; e in essa s'udiva una ruina tempestosa, come se i vicini
monti, urtandosi insieme, giugnessero le loro sommità, le quali per l'urtare
pestilenzioso diroccati cadessero giuso al piano. Niuna cosa atta ad alcuno
diletto vi si vedea: le mura erano grommose di fastidiosa muffa, e quasi parea
che sudando lagrimassero; né in quella casa mai altro che verno non si sentiva,
sanza alcuna fiamma da riconfortare il forte tempo: ben v'era in uno de' canti
un poco di cenere, nella quale riluceano due stizzi già spenti, de' quali la
maggior parte una gattuccia magra covando quella occupava. E la vecchia
abitatrice di cotal luogo era magrissima e vizza, nel viso scolorita; i suoi
occhi erano biechi e rossi, continuamente lagrimando; di molti drappi vestita,
e tutti neri, ne' quali raviluppata, in terra sedea, vicina al tristo fuoco,
tutta tremando, e al suo lato avea una spada, la quale rade volte, se non per
ispaventare, la traeva fuori. Il suo petto batteva sì forte, che sopra i molti
panni apertamente si discernea, nel quale quasi mai non si crede che entrasse
sonno; e il luogo acconcio per lo suo riposo era il limitare della porta, in
mezzo de' due cani. La quale la dea veggendo, molto si maravigliò, e così
disse:
«O
antica madre, sollecitissima fugatrice degli scelerati assalti di Cupido, e
guardìa de' miei fuochi, a te conviene mettere nel petto d'un giovane a me
carissimo le tue sollecitudini, il quale per troppa liberalità si lascia a
feminile ingegno ingannare, amando oltra dovere una mia nimica: e però niuno
indugio ci sia, muoviti! Egli è assai vicino di qui, e è figliuolo
dell'altissimo re di Spagna, chiamato Florio, e sanza fine ama Biancifiore, né
mai sentì quel che tu suoli agli amanti far sentire. Va e privalo della pura
fede, la quale egli tiene indegnamente, e, aprendogli gli occhi, gli fa
conoscere com'egli è ingannato, amaestrandolo come gl'inganni si debbono
fuggire».
La
vecchia che in terra sedea, con la mano alla vizza gota, alzò il capo mirando
con torto occhio la dea, e con picciola voce tremando rispose:
«Partiti,
dea, da' tristi luoghi, che niuno indugio darò al tuo comandamento».
Partita
la dea, la vecchia si vestì di nuova forma, abandonando i molti vestimenti,
aggiunse alle sue spalle ali, e lasciando le serrate case, sanza alcuno dimoro
pervenne ove ella trovò Florio stante ancora sopra il suo letto leggendo la
ricevuta lettera da Biancifiore. A cui ella occultamente con la tremante mano
toccò il sollecito petto, e ritornossi alle triste case, onde s'era per
comandamento di Diana partita.
[25]
Avea
Florio più fiate riletta la ricevuta pistola, e già quasi nell'animo le parole di
Biancifiore accettava, credendo fermamente da lei niuna cosa essere amata se
non egli, sì come essa gli scriveva. Ma non prima gli fu dalla misera vecchia
tocco il petto, che egli incominciò a cambiare i pensieri e a dire fra sé:
"Fermamente ella m'inganna, e quello ch'ella mi scrive non per amore, ma
per paura lo scrive. Briseida lusingava il grande imperadore de' Greci, e
disiderava Achille. Chi è colui che dalle false lagrime e dalle infinte parole
delle femine si sa guardare? Se Agamenone l' avesse conosciute, la sua vita
sarebbe stata più lunga, né Egisto avrebbe avuto il non dovuto piacere. Sanza
dubbio Fileno piace più a Biancifiore che io non faccio: e chi sarà quella che
si levi un velo di testa, e donilo ad un suo amante, che possa far poi credere
quelli non essere amato da lei? Certo niuna il potrebbe far credere, se non
fosse già semplicissimo l'ascoltatore. E in verità e' non è da maravigliare se
ella ama Fileno: egli continuamente le è davanti, e ingegnasi di piacerle, e io
le sono lontano, né la pote', già è lungo tempo, vedere. Il fuoco s'avviva e
vive per li soavi venti, e amore si nutrica con li dolci riguardamenti: e sì
come le fiamme perdono forza non essendo da' venti aiutate, così amore diviene
tiepidissimo come gli sguardi cessano. Ma costei, se ella non mi ama, perché
con lusinghe accendermi il cuore?". Poi ad altro ragionamento si volgea, e
dicea: "Fermamente Biancifiore m'ama sopra tutte le cose, e questo, se io
voglio il vero riguardare, non mi si può celare; ma se ella non mi amasse,
Fileno me ne saria cagione, del quale io prenderò sanza dubbio vendetta".
[26]
In
cotali pensieri stando, Florio fra sé ripeteva tutti i preteriti atti e fatti
stati tra lui e Biancifiore, poi che Fileno tornò de' lontani paesi nella sua
corte, e quelli una volta pensava essere stati da Biancifiore fatti
maliziosamente, e altra volta fra sé gli difendeva. Egli stette più giorni
sanza alcuno riposo, pieno di sollecite cure. Egli alcuna volta imaginava:
"Ora è Fileno davanti alla mia Biancifiore e lusingala: ma perché la
lusingherebbe egli, ch'ella l'ama oltra misura?". Poi fra sé altrimenti
imaginava. Egli andava vedendo con l'animo tutte quelle vie le quali possibili
sono ad uomo di fare per pervenire a un suo intendimento, e niuna credea che non
ne fosse stata fatta da Fileno, se bisogno gli fu. Egli pensava che niuna
persona mai parlasse a Biancifiore che da parte di Fileno non le parlasse, e
da' suoi servidori medesimi dubita d'essere stato ingannato: e così dimora in
istimolosa sollecitudine, e non sa che si fare; e pensa che Fileno ordini di
portarla via e che ella il consenta. Egli pensa che Fileno la domandi al re, e
siagli donata per isposa. Egli pensa che i messaggi da Fileno a Biancifiore e
da Biancifiore a Fileno siano spessissimi. Ma poi che egli ha diverse cose in
sé rivolte, così cominciò a dire: "Non è del tutto da credere ciò che io
imagino, ché forte mi pare che, se stato fosse, io non avessi alcuna cosa
sentita: e però la scusa delle passate cose fatta da Biancifiore è da ricevere.
Ma chi sa di quelle che deono avvenire? Da un'ora a un'altra si volgono gli
animi, da diversi intendimenti essendo tentati! Niuno rimedio è qui se non
levare ogni cagione per la quale Biancifiore dal mio amore si potesse mutare,
acciò che niuno effetto segua. Io tornerò, a dispetto del mio padre, in
Marmorina, e solliciterò con i miei propii occhi il cuore di Biancifiore, e
quindi la fuggirò in parte ov'io sanza paura d'alcuno potrò dimorare con lei.
Se il mio padre della mia tornata si mostrasse dolente, e a Fileno farò levare
la vita, o egli abandonerà i nostri paesi. Niuna cosa ci lascerò a fare, acciò
che colei sia sola mia, di cui io solo sono e sarò sempre". E con questi
pensieri, lasciati gli amorosi, il più del tempo dimorava, cercando, con amara sollecitudine,
parte di quelli fuggire e parte metterne in effetto sanza alcuno indugio.
[27]
O
amore, dolcissima passione a chi felicemente i tuoi beni possiede, cosa paurosa
e piena di sollecitudine, chi potrebbe o credere o pensare che la tua dolce
radice producesse sì amaro frutto come è gelosia? Certo niuno, se egli nol
provasse. Ma essa ferocissima, così come l'ellera gli olmi cinge, così ogni tua
potenza ha circundata, e intorno a quella è sì radicata che impossibile sarebbe
oramai a sentire te sanza lei. O nobilissimo signore, questa è a' tuoi atti
tutta contraria. Tu le tue fiamme mostri nell'altissimo e chiaro monte Citerea,
costei sopra i freddi colli d'Appennino impigrisce nelle oscure grotte. Tu levi
gli animi alle altissime cose, e costei gli declina e affonda alle più vili. Tu
i cuori che prendi tieni in continua festa e gioia, costei di quelli ogni
allegrezza caccia e con subito furore vi mette malinconia. Essa fa cercare i
solinghi luoghi, e con aguto intelletto mai non sa che si sia altro che pensare.
Ad essa pare che le spedite vie dell'aere sieno piene d'agguati per prendere
ciò che essa disidera di ben guardare. Niuno atto è che ella non dubiti che con
falso intendimento sia fatto; niuna fede è in lei, niuna credenza: sempre crede
essere tentata. E sì come tu di pace se' veracissimo ordinatore, così questa
con armata mano sempre apparecchia inimicizie e guerre. Ella, magrissima,
scolorita nel viso, d'oscuri vestimenti vestita, igualmente ogni persona con
bieco occhio riguarda: e tu, piacevolissimo nell'aspetto, con lieto viso visiti
i tuoi suggetti. Ella non sente mai né primavera, né state, né autunno: tutto
l'anno igualmente dimora per lei il sole in Capricorno, e quanto più di
scaldarsi cerca più ne' sembianti trema. Ora, quanto è contraria la vostra
natura! Ella si diletta d'essere sanza alcuna luce, e tu ne' luminosi luoghi
adoperi i santi dardi. Ella con teco quasi d'un principio nata, di tutti i tuoi
beni è guastatrice. E le più fiate avviene che di quella infermità onde ella ha
maggior paura, di quella è più spesso assalita e oppressa infino alla morte.
Oltre a' miseri miserissimo si può dire colui che seco l'accoglie in compagnia.
[28]
Florio
s'apparecchia con diliberato animo di nuocere a Fileno: la qual cosa la santa
dea conosce degli alti regni. E mossa a compassione di Fileno, così nel segreto
petto cominciò a dire: "Che colpa ha Fileno commessa per la quale egli
meriti morte o oltraggio da Florio? Niuna: non merita morte alcuno, perché egli
ami quello che piace agli occhi suoi. Cessi questo, che per cagione di noi il
giovane cavaliere sia offeso". E detto questo, la seconda volta discese
del cielo e cercò le case del Sonno riposatore, nascose sotto gli oscuri
nuvoli, le quali in lontanissime parti stanno rimote, in una spelonca d'un
cavato monte, nella quale Febo con i suoi raggi in niuna maniera può passare.
Quel luogo non conosce quand'egli sopra l'orizonte venendo ne reca chiaro
giorno, né quand'egli, avendo mezzo il suo corso fatto, ci riguarda con più
diritto occhio, né similemente quand'egli cerca l'occaso: quivi solamente la
notte puote, e il terreno da sé vi produce nebbie piene d'oscurità o di
dubbiosa luce. E davanti alle porti della casa fioriscono gli umidi papaveri
copiosamente, e erbe sanza numero, i sughi delle quali aiutano la potenza del
signore di quel luogo. Dintorno alle oscure case corre un picciolo fiumicello
chiamato Letè, il quale esce d'una dura pietra, che col suo corso faccendo
commuovere le picciole pietre, fa un dolce mormorio, il quale invita i sonni.
In quel luogo non s'odono i dolci canti della dolente Filomena, i quali forse
potessero mettere ne' petti acconci al riposo alcuna sollecitudine con la sua
dolcezza. Quivi non fiere, non pecore, né altri animali. Quivi Eolo nulla
potenza ha: ogni fronda si riposa. Mutola quiete possiede il luogo, al quale
niuna porta si truova, non forse serrando e disserrando potesse fare alcuno
romore. Alcuno guardiano non v'è posto, né cane alcuno v'è, il quale latrando
potesse turbare i quieti riposi. Quivi non è alcun gallo il quale cantando
annunzi l'aurora; né alcuna oca vi si truova che i cheti andamenti possa con
alta voce far manifesti. E nel mezzo della gran casa dimora un bellissimo letto
di piuma, tutto coperto di neri drappi, sopra 'l quale si riposa il grazioso re
co' dissoluti membri oppressi dalla soavità del sonno. Appresso del quale un
poco, giacciono i vani sogni di tante maniere e sì diversi, quante sono l'arene
del mare o le stelle di che il nido di Leda s'adorna. Nella qual casa la dea
entrò, continuo le mani menandosi davanti al viso e cacciando i sonni da' santi
occhi: e il candido vestimento della vergine diede luce nella santa casa. Nella
venuta della quale, appena il re levò i pesanti occhi, e più volte la grave
testa inchinando col mento si percosse il petto, e, rivolto più volte sopra il
ricco letto, con ramarichevoli mormorii alquanto si pur destò. E appena
levatosi sopra il gomito, domandò quello che la dea cercava. A cui ella così
disse:
«O
Sonno, piacevolissimo riposo di tutte le cose, pace dell'animo, fuggitore di
sollecitudine, mitigatore delle fatiche e sovenitore degli affanni, igualissimo
donatore de' tuoi beni, se a te è caro che Cinzia si possa con gli altri dei, a
te e a me igualmente consorti, di te laudare, comanda che Fileno, innocente giovane,
ne' suoi sonni conosca l'apparecchiate insidie contro di lui, acciò che,
conosciutole, da quelle guardare si possa».
E
questo detto, per quella via onde era venuta, appena da sé potendo il sonno
cacciare, se ne tornò.
[29]
Svegliò
l'antico iddio gl'infiniti figliuoli, de' quali alcuni in uomini, altri in
fiere, e quali in serpenti, e chi in terra, e tali in acqua, e alcuni in trave
e in sassi, e in tutte quelle forme le quali negli umani animi possono
vaneggiare, v'avea di quelli che si trasformavano: tra' quali poi che egli ebbe
eletti quelli che a tali bisogni gli pareano sofficienti, appena destati, gli
ammaestrò che essi dovessero i comandamenti della santa dea adempiere sanza
alcuno indugio. A' quali essi disposti, sanza più stare, del luogo si partirono
per adempierlo.
[30]
Mentre
che i fati le cose sinistre così per Fileno trattavano, Fileno di tutte
ignorante si stava pensando alla bellezza di Biancifiore, con sommo disio
disiderando quella, quando subito sonno l'assalì, e, gli occhi gravati, sopra
il suo letto riposandosi s'adormentò. Al quale sanza alcuno dimoro furono
presenti i ministri del pregato iddio adoperando ciascuno i suoi ufici: e
parvegli nel sonno subitamente essere in un bellissimo prato tutto soletto, e rimirare
il cielo, lodando le sue bellezze, e adequando quelle di Biancifiore alla
chiarità delle stelle che in quello vedea. E così stando, subitamente uno di
quelli uficiali in forma d'un caro suo amico gli parve che gli apparisse
piangendo e correndo verso lui, e dicessegli:
«O
Fileno, che fai tu qui? Fuggiti, ch'io ti so dire che l'amore che tu hai
portato a Biancifiore t'ha acquistata morte. Tu non potrai essere fuori di
questo prato, che Florio armato con molti compagni ci saranno suso, cercando di
levarti la vita. Fuggi di qui, o caro amico, sanza niuno indugio. Non volere
che io di tal compagno, quale io ti tengo, rimanga orbato».
E
ancora non parea che questi avesse compiuto di parlare, che già dall'una delle
parti del prato si sentiva il romore delle sonanti armi degli armati, i quali a
Fileno pareva, come detto gli era stato, che venissero. Allora pareva a Fileno
levarsi tutto smarrito, e non sapere qual via per la sua salute si dovesse
tenere; anzi gli pareva che le gambe gli fossero fallite, né di quel luogo
potesse partire. Dove stando, in picciolo spazio gli pareva vedersi dintorno
Florio con molti altri armati, e con grandissimo romore gridare:
«Muoia
il traditore!», dirizzando verso lui gli aguti ferri sanza alcuna pietà
ingegnandosi di ferirlo. A' quali elli dicea:
«O
giovani, se niuna pietà è in voi rimasa, piacciavi che Fileno possa fuggendo la
vita campare. Voi sapete che per amore io non meritai morte».
Non
erano le sue parole udite, ma più aspramente e con maggiore romore gli parea
ognora essere assalito, e parevagli essere in tante parti del corpo forato che
potere campare non gli parea. Ma quelli ancora di ciò non contenti, uscendo uno
di loro gli parea che la testa gli volesse levare dal busto e presentarla a
Florio. Allora sì gran dolore e paura gli strinse il cuore, che per forza
convenne che il sonno si rompesse, e quasi tutto spaventato si rizzò in piè,
rimirando dov'egli era, e con le mani cercando de' colpi che gli parea avere
ricevuti; e rimirando il suo letto, il quale imaginava dovere essere tutto
tinto del suo sangue, e quello vide bagnato di vere lagrime. Ma poi ch'egli si
vide essere stato ingannato dal sonno, partita la paura, pieno di maraviglia
rimase, non sappiendo che ciò si volesse dire, e dubitando forte si mise a cercare
del caro amico che nel sonno avea veduto. Il quale trovato, a lui brievemente
ciò che dormendo avea veduto, gli narrò; di che l'amico maravigliandosi così
gli disse:
[31]
«Caro
amico e compagno, ora non dubito io che gl'iddii con molta sollecitudine
intendano a' beni della umana gente. Certo tu mi fai sanza fine maravigliare di
ciò che tu mi racconti, però che poco avanti io tornai da Montoro, e ivi da
cara persona e degna di fede udii essere da Florio la tua morte disiderata e
ordinata in qualunque maniera più brievemente potesse. E domandando io della
cagione, mi rispose che ciò avviene per lo velo il quale da Biancifiore
ricevesti, la quale Biancifiore egli più che alcuna cosa del mondo ama; e per
questo è di te in tanta gelosia entrato, che se egli vedesse che Biancifiore
con le propie mani ti traesse il cuore, forte gli sarebbe a credere che ella ti
potesse se non amare. E adunque, acciò che questo amore cessi, egli cerca
d'ucciderti: però per lo mio consiglio tu al presente lascerai il paese, e pellegrinando
per le strane parti, te della tua salute farai guardiano. Tu puoi
manifestamente conoscere te non essere possente a resistere al suo furore:
dunque anzi tempo non volere perire, ma la tua giovane età ti conforti di poter
pervenire a miglior fine che il principio non ti mostra. La fortuna ha subiti
mutamenti, e avviene alcuna volta che quando l'uomo crede bene essere nella
profondità delle miserie, allora subito si ritrova nelle maggiori prosperità».
A
cui Fileno piangendo così rispose:
«Oimè,
or che farà Florio ad uno che l'abbia in odio, se a me che l'amo ha pensata la
morte?». A cui quelli rispose:
«Amerallo!
Le leggi d'amore sono variate da quelle della natura in molte cose: in tale
atto niuno volentieri vuole compagno. Né per te fa di cercare gli altrui
pensieri, ma pensare del tuo bene. Posto che Florio similmente volesse uccidere
uno che odiasse Biancifiore, se' tu però fuori del pericolo? Certo no: dunque
pensa alla tua salute».
«Oimè!
- disse Fileno - dunque lascerò io Marmorina e la vista di Biancifiore?». «Sì -
gli rispose quelli, - per lo tuo migliore».
Disse
Fileno:
«Certo
io non conosco che vantaggio qui eleggere si possa se solo una volta si muore.
Buono è il vivere, ma meglio è tosto morire che vivendo languire, e cercare la morte,
e non poterla avere».
«Non
è - disse l'amico - a chi vive sperando nella potenza degl'iddii, come avanti
ti dissi, però che le future cose ci sono occulte. E in qualunque modo si vive
è migliore che il morire. Ogni cosa perduta, volendo l'uomo valorosamente
operare, si può ricuperare, ma la vita no: però ciascuno dee essere di quella
buono guardiano».
«Certo
- disse Fileno - a chi può prendere speranza, e sperando aspettare, non dubito
che di guardare la sua vita egli non faccia il migliore, che volere per un
subito dolore morire. Ma come posso io così fare, che non tanto partendomi, ma
solamente pensando ch'io mi deggia partire dalla vista del bel viso di
Biancifiore, mi sento ogni spirito combattere nel cuore e domandare la morte, e
l'anima, che sente questa doglia e questa tempesta, si vuol partire?».
A
cui colui rispose:
«Non
sono cotesti i pensieri necessarii a te, però che a coloro che in simile caso
sono che se' tu, conviene che facciano della necessità diletto. Tu vedi che tu
se' costretto di partire: non imaginare di prendere etterno essilio, ma imagina
che per comandamento di Biancifiore, per cui non ti sarebbe grave il morire, se
avvenisse ch'ella tel comandasse, tu sii mandato in parte onde tu tosto
tornerai. Questa imaginazione t'aiuterà e faratti più possente a sostenere gli
affanni della partita, infino a tanto che tu poi, ausato, li sappia sostenere
sanza tanta noia».
A
cui Fileno disse:
«Questo
che tu mi di' m'è impossibile, però che il sollecito amore non mi lascia durare
tale pensiero nel cuore, ma qualora più mi vi dispongo, allora più con i suoi
m'assalisce: e chi è colui che possa la sua coscienza ingannare?».
Disse
quelli:
«I
pensieri d'amore non ti assaliranno, quando alcuna volta resistendo cacciati
gli avrai da te, e la coscienza, posto che interamente ingannare non si possa,
almeno l'uomo la può fare agevole sostenitrice di quello ch'e' vuole, con un
lungo e continuo perseverare sopra un pensiero».
«Certo
questo vorrei io bene», disse Fileno.
«Dunque
potrai tu», gli fu risposto. Allora disse Fileno:
«Ecco
ch'io mi dispongo al pellegrinare per lo tuo consiglio».
«Sì
- disse quelli, - e io in tua compagnia, se a te piace».
A
cui Fileno disse:
«No,
io amo meglio dolermi solo, che menare te sanza consolazione».
A
cui quelli rispose:
«Caro
amico, ove che tu vadi, le tue lagrime mi bagneranno sempre il cuore, il quale
mai sanza compassione di te non sarà: però lasciami avanti venire, acciò che
tu, avendo la mia compagnia, abbi cagione di meno dolerti».
Disse
Fileno:
«Amico,
a me piace che tu rimanghi, acciò che almeno, veggendoti, Biancifiore si
ricordi di me e dello essilio ch'io ho per lei. E se accidente avvenisse per lo
quale mi fosse licito il tornare, voglio che tu sollecito rimanghi a mandare
per me, dove che i fortunosi casi m'abbiano mandato».
A
cui quelli disse:
«Così,
come a te piace, sarà fatto».
Fileno
allora si partì da lui, e, ritornato alla sua casa, così cominciò piangendo a
dolersi fra se medesimo:
[32]
"O
misero Fileno, piangi, però che la fortuna t'è più avversa che ad alcuno.
Sogliono gli altri, per odiare o per male operare, lasciare li loro paesi, o
tal volta morire; ma a te per amore conviene che tu vada in essilio. Or che
vita sarà la tua? Sarà dolente; ma certo io non la voglio lieta. Io conosco
Biancifiore turbata, e scoprirmi il falso amore, mostrando nel viso d'avermi
per adietro ingannato. Io mi fuggirò del suo cospetto, e fuggendomi piacerò a
Florio e a lei, l'amore de' quali m'era occulto quando m'innamorai. Il velo da
lei ricevuto sarà sola mia consolazione e della mia miseria". E, questo in
se medesimo diliberato, volontario essilio, seguendo il consiglio del suo
amico, prese occultamente.
[33]
Quando
Apollo ebbe i suoi raggi nascosi, e l'ottava spera fu d'infiniti lumi ripiena,
Fileno con sollecito passo piglia la sconsolata fuga. Egli nella dubbiosa
mente, uscito di Marmorina, non sa essaminare qual cammino sia più sicuro alla
sua salute; ma del tutto abandonato a' fati, piangendo pone le redine sopra il
portante cavallo, e piangendo abandona le mura di Marmorina, con gli occhi
rimirando quelle infino che licito gli è. Ma poi che l'andante cavallo lui
carico di pensieri ebbe tanto avanti trasportato, che più non gli fu licito di
vedere la sua città, egli con più lagrime incominciò ad intendere al suo
cammino. E primieramente veduto l'uno e l'altro lito di Bacchiglione, pervenne
alle mura costrutte per adietro dall'antico Antenore, e in quelle vide il luogo
ove il vecchio corpo con giusto epitafio si riposava. Ma di quindi passando
avanti, in poche ore pervenne alle sedie del già detto Antenore, poste nelle
salate onde, nell'ultimo seno del mare Adriano: e in quel luogo non sicuro,
salito in picciolo legno ricercò la terra. E pervenuto all'antichissima città
di Ravenna, su per lo Po con le dorate arene se ne venne alla città posta per
adietro da Manto ne' solinghi paduli. Ma quivi sentendosi più vicino a quello
che egli più fuggiva, dimorò poco, e salito su per li colli del monte
Appennino, e di quelli declinando, scese al piano, pigliando il cammino verso
le montagne, fra le quali il Mugnone rubesto discende. E quivi pervenuto, vide
l'antico monte onde Dardano e Siculo primieramente da Italo, loro fratello, si
dipartirono pellegrinando; e poco avanti da sé vide le ceneri rimase d'Attila
flagello dopo lo scelerato scempio fatto de' pochi nobili cittadini della città
edificata sopra le reliquie del valoroso consolo Fiorino, quivi dagli agguati
di Catellino miserabilmente ucciso. Alle quali avuta compassione, si partì, e
sanza tenere diritto cammino errando pervenne a Chiusi, ove già Porsenna,
secondo che gli fu detto, avea il suo regno con forze costretto ad ubidirsi. Né
troppo lungamente andò avanti ch'egli vide il cavato monte d'Aventino, nel
quale Cacco nascose le 'mbolate vacche ad Ercule, strascinate nelle cave di
quello per la coda. Ma dopo lungo affanno pervenne nella eccellentissima città
di Roma, ove egli d'ammirazione più volte ripieno fu, veggendo le magnifiche
cose, inestimabili ad ogni alto intelletto sanza vederle: e in quella vide il
Tevero, a cui gl'iddii concederono innumerabili grazie. Egli vide l'antiche
mura d'Alba, e ciò che era notabile nel paese. Ma quivi non fermandosi,
volgendo i suoi passi al mezzo giorno, si lasciò dietro le grandissime Alpi e i
monti i quali aspettavano l'oscurissima distruzione del nobile sangue
d'Aquilone, e pervenne a Gaieta, etterna memoria della cara balia di Enea. E di
quella pervenne per le salate onde a Pozzuolo, avendo prima vedute l'antiche
Baie e le sue tiepide onde, quivi per sovenimento degli umani corpi poste
dagl'iddii. E in quel luogo vedute l'abitazioni della cumana Sibilla, se ne
venne in Partenope; né quivi ancora fermato, cercò i campi de' Sanniti, e vide
la loro città. Donde partitosi, volgendo i passi suoi, vide l'antica terra Capo
di Campagna posta da Capis, e, quindi partendosi, pervenne fra li salvatichi e
freddi monti d'Abruzzi, fra' quali trovò Sulmona, riposta patria del
nobilissimo poeta Ovidio. Nella quale entrando, così cominciò a dire:
«O
città graziosa a ciascuna nazione per lo tuo cittadino, come poté in te nascere
o nutricarsi uomo, in cui tanta amorosa fiamma vivesse quanta visse in Ovidio,
con ciò sia cosa che tu freddissima e circundata da fredde montagne sii?»; e
questo detto, reverente per lo mezzo di quella trapassò. E continuando i
lamentevoli passi, si trovò a Perugia, dalla quale partitosi, de' cammini
ignorante, pervenne alle vene ad Onci, onde le chiarissime onde dell'Elsa vide
uscire e cominciare nuovo fiume. Dopo le quali discendendo, venne infino a quel
luogo ove l'Agliene, nata nelle grotte di Semifonti, in quella mescola le sue
acque e perde nome. Quindi mirandosi dintorno, vide un bellissimo piano, per lo
quale volto a man destra, faccendo dell'onde dell'Agliene sua guida, non molto
lontano al fiume andò, ch'egli vide un picciolo monticello levato sopra il
piano, nel quale uno altissimo e vecchio cerreto era. E in quello mai alcuna
scure non era stata adoperata, né da' circustanti per alcun tempo cercato,
fuori che da' loro antichi nell'antico errore delli non conosciuti iddii, i
quali in sì fatti luoghi soleano adorare. In quello entrò Fileno, e non
trovandovi via né sentiero, ma tutto da vecchie radici o da grandissimi roghi
occupato, con grandissimo affanno infino alla sommità del picciolo monticello
salì. Quivi trovò un tempio antichissimo, nel quale selvatiche piante erano
cresciute, e le mura tutte rivestite di verde ellera. Né già per antichità
erano guaste le imagini de' bugiardi iddii, rimase in quello quando il
figliuolo di Giove recò di cielo in terra le novelle armi, con le quali il
vivere etterno s'acquista. E era davanti a quello un picciolo prato di
giovanetta erba coperto, assai piacevole a rispetto dell'altro luogo. Quivi
fermato Fileno stette per lungo spazio; e rimiratosi dintorno e pensato
lungamente, s'imaginò di volere quivi finire la sua fuga, e in quello luogo
sanza tema d'essere udito piangere i suoi infortunii; e se altro accidente non
gli avvenisse, quivi propose di volere l'ultimo dì segnare. E dopo lunga
essaminazione, vedendo il luogo molto solitario, si pose a sedere davanti al
tempio, e quivi nutricandosi di radici d'erbe, e bevendo de' liquori di quelle,
stette tanto che agl'iddii prese pietà della sua miseria, sempre piangendo, e
ne' suoi pianti con lamentosa voce le più volte così dicendo:
[34]
«O
impiissima acerbità dell'umane menti, che commisi io ch'io etterno essilio
meritassi della piacevole Marmorina? Niuno fallo commisi: amai e amo. Se questo
merita essilio o morte, torca il cielo il suo corso in contrario moto, acciò
che gli odii meritino guiderdone. Se io forse amando ad alcuno dispiacea, non
con morte mi dovea seguitare, ma con riprensione ammaestrare. Ora che riceverà
da Florio chi odierà Biancifiore? Non so ch'elli gli si possa fare, se a quello
che a me ha fatto vorrà con iguale animo pensare. Ahi, Fisistrato, degno
d'etterna memoria per la tua benignità, il quale, udendo con pianti narrare la
tua figliuola essere baciata, e di ciò dimandarti vendetta, non dubitasti
rispondere: "Che farem noi a' nostri nimici, se colui che ci ama è per noi
tormentato?": tu il picciolo fallo con grandissima temperanza mitigasti,
conoscendo il movimento del fallitore. Dimorar possi tu con pietosa fama sempre
ne' cuori umani! Ma certo egli non è men giusta cosa che io pianga i miei
amori, che fosse il pianto del crudele artefice, che a Falaris presentò il bue
di rame, al quale prima convenne mostrare del suo artificio esperienza. Io
medesimo accesi il fuoco in che io ardo. Io, misero, fui il tenditore de' lacci
ne' quali io son caduto. Chi mi costringea di narrare a Florio i miei
accidenti, e di mostrargli il caro velo? Niuna persona. Ignoranza mi fece
fallire: e però niuno savio piagne, perché il senno leva le cagioni. Ma posto
che io pur per ignoranza fallissi, eragli così gravoso a vietarmi che io più
avanti non amassi? Certo io non mi sarei però potuto poi tenere di non amare,
ma nondimeno per la disubidienza a lui, cui io singulare signore tenea, avrei
meritato essilio o greve tormento; ma egli mai non mi comandò che io non
amassi, anzi là ov'io non mi guardava cercava la mia morte. O ragionevole
giustizia partita delli umani animi, perché del ciclo non provedi tu alle
iniquità? Deh, misero a me!, non ho io per la sfrenata crudeltà di Florio
perduta la debita pietà del vecchio padre e della benigna madre? Certo sì ho.
Io gli ho lasciati per lo mio essilio pieni d'etterne lagrime. Non ho io
perduta la graziosa fama del mio valore? Sì ho. Quanti uomini, ignoranti qual
sia la cagione del mio essilio, penseranno me dovere avere commesso alcuna cosa
iniqua, e, per paura di non ricevere merito di ciò, mi sia partito? I nimici
creano le sconce novelle dove elle non sono, e le male lingue non le sanno tacere.
La iniquità da se medesima si spande più che la gramigna per li grassi prati.
Non sono io per lo mio tristo essilio divenuto povero pellegrino? Non ho io
perduta gioia e festa? Non è per quello la mia cavalleria perduta? Certo sì.
Oimè, quante altre cose sinistre con queste insieme mi sono avvenute per lo mio
sbandeggiamento! Ma certo, per tutto questo, alcuna cosa del vero amore che io
porto a Biancifiore, non è mancato. Più che mai l'amo: niuna pena, niuno
affanno, né alcuno accidente me la potrà mai trarre del cuore. E certo se egli
mi fosse conceduto di poterla solamente vedere, come io vidi già, tutte queste
cose mi parrebbero leggieri a sostenere. Il non poterla vedere m'è sola
gravezza, questo mi fa sopra ogni altra cosa tormentare. Ella co' suoi begli
occhi, avvegna che falsi siano, mi potrebbe rendere la perduta consolazione. Io
vo fuggendo per lei. Se l'amore di lei avessi, non che il fuggire ma il morire
mi sarebbe soave! Ma poi che l'amore non puoi di lei avere, e il poterla vedere
t'è tolto, piangi, misero Fileno, e dà pena agli occhi tuoi, i quali
stoltamente nella forza di tanto amore, quanto tu senti, ti legarono. Oimè
misero, io non so da che parte io mi cominci più a dolere, tante e tali cose
m'offendono! Ma tra l'altre, tu, o crudelissimo signore, non figliuolo di
Citerea, ma più tosto nimico, mi dai infinite cagioni di dolermi di te e di
biasimarti. Tu, giovanissimo fanciullo, con piacevole dolcezza pigli gli stolti
animi degli ignoranti, e in quelli poi con solingo ozio rechi disiderati
pensieri, fabrichi le tue catene, con le quali gli animi de' miseri, che tua
signoria seguitano, sono legati. Ahi, quanto è cieca la mente di coloro che ti
credono e che del loro folle disio ti fanno e chiamano iddio, con ciò sia cosa
che niuna tua operazione si vegga con discrezione fatta! Tu gli altissimi animi
de' valorosi signori declini a sottomettersi alla volontà d'una picciola
feminella. Tu la bellezza d'un giovane, maestrevole ornamento della natura, con
fallace disiderio leghi al volere d'un turpissimo viso, con diverse macule
adornato oltre al dovere, d'una meretrice. E, brievemente, niuna tua operazione
è con iguale animo fatta, anzi sogliono i miseri, ne' tuoi lacci aviluppati,
prendere per te questa scusa: che la tua natura è tale che né i doni di
Pallade, né quelli di Giunone, né gentilezza d'animo riguarda, ma solamente il
libidinoso piacere; e in questo credono alle tue opere aggiungere grandissime
laude, ma con degno vituperio te e sé vituperano. Ma che giova tanto parlare?
Tu se' d'età giovane: come possono le tue operazioni essere mature? Tu, ignudo,
non dei poter porgere speranza di rivestire. Le tue ali mostrano la tua
mobilità, né m'è della memoria uscito averti in alcune parti veduto privato
della vista: dunque, come di dietro alla guida d'un cieco si può fare diritto
cammino? Ahi, tristi coloro che in te sperano! Tu levi loro il pensiero de'
necessarii beni, e empili di sollecitudine di vana speranza. Tu gli fai
divenire cagione delle schernevoli risa del popolo che li vede, e essi, miseri
e di questo ignoranti, assai volte di se stessi con gli altri insieme fanno
beffe, né sanno quello che fanno. Tardi conosco i tuoi effetti, ma certo,
mentre ignorante di quelli fui, niuno suggetto avesti che più fede di me ti
portasse, né che più la tua potenza essaltasse: e ancora in quella semplicità
ritornerei, se benigno mi volessi essere, come già fosti a molti. Oimè misero,
che io non so che io mai contra te adoperassi, per la qual cosa così
incrudelire in me dovessi, come fai! Io mai non ti rimproverai la tua
giovanezza, né biasimai la forza del tuo arco, come fece Febo, né alla tua
madre levai il caro Adone, né scopersi i suoi diletti i quali con Marte
prendea, come tutto il cielo vide. Io mai non adoperai contro a te, perché tu
mi dovessi nuocere; ma tu di mobile natura, e nescio di quel che fai, mi
tormenti oltre al dovere. Solo in uno atto si conosce te avere alcun
sentimento, in quanto mai non cerchi d'essere se non in luogo a te simigliante,
avvegna che questa discrezione più tosto alla natura che a te si dovrebbe
attribuire. Il tuo diletto è di dimorare ne' vani occhi delle scimunite femine,
le quali a te costrigni con meno dolore che i miseri che in tale laccio
incappano; e poi con esse di quelli ti diletti di ridere, consentendo loro il
potersi far beffe de' tristi sanza niuno affanno d'esse: delle quali, schiera
di perfidissima iniquità piene, non posso tenermi ch'io non ne dica ciò che
dentro ne sento.
[35]
Voi,
o sfrenata moltitudine di femine, siete dell'umana generazione naturale fatica,
e dell'uomo inespugnabile sollecitudine e molestia. Niuna cosa vi può
contentare, destatrici de' pericoli, commettitrici de' mali. In voi niuna
fermezza si truova: e, brievemente, voi e 'l diavolo credo che siate una cosa!
E che ciò sia vero, davanti a noi infiniti essempli a fortificare il mio
parlare se ne truovano. E volendo dalla origine del mondo incominciare, si
troverà la prima madre per lo suo ardito gusto essere stata cagione a sé e a'
discendenti d'etterno essilio de' superiori reami. E questo malvagio principio
in tanto male crebbe, che la prima età nello allagato mondo tutta perì, fuori
che Deucalion e Pirra, a cui rimase la fatica di restaurare le perdute
creature. Ma posto che la quantità delle femine mancasse, la vostra malvagità
nella poca quantità non mancò. E non era ancora reintegrato il numero degli
annegati, quando colei che l'antica Bambilonia cinse di fortissime e alte mura,
presa da libidinosa volontà, col figliuolo si giacque, faccendo poi per ammenda
del suo fallo la scelerata legge che il bene placito fosse licito a ciascuno. O
cuore di ferro che fu quello di costei! Quale altra creatura, fuori che femina,
avrebbe potuta sì scelerata cosa ordinare, che, conoscendo il suo male, non
s'ingegnasse di pentere, ma s'argomentasse d'inducervi i suggetti? Ma ancora
che questo fosse grandissimo fallo, quanto fu più vituperevole quello che
Pasife commise, la quale il vittorioso marito, re di cento città, non sostenne
d'aspettare, ma con furiosa libidine essere da un toro ingravidata sostenne? Fu
ciascuno de' detti falli sceleratissimo, ma nullo fu sì crudelmente fatto
quanto quello che Clitemestra miseramente commise: la quale, non guardando alla
debita pietà del marito, il quale in terra era stato vincitore di Marte, per
mare di Nettunno, ma presa del piacere d'un sacerdote, rimaso ozioso ne' suoi
paesi, consentì che, porto ad Agamenone il non perfetto vestimento, e in quello
vedendolo avviluppato, Egisto miserabilemente l'uccidesse, acciò che poi sanza
alcuna molestia i loro piaceri potessero mettere in effetto. Quanta fu ancora
la lascivia di Elena, la quale, abandonando il propio marito, e conoscendo ciò
che dovea della sua fuga seguire, anzi volle che il mondo perisse sotto l'armi
che ella non fosse nelle braccia di Paris, contenta che per lei si possa
etternalmente dire Troia essere strutta e i Greci morti crudelmente! Quanta
acerbità e quanta ira si puote ancora discernere essere stata in Progne,
ucciditrice del propio figliuolo per far dispetto al marito! E Medea
simigliantemente! E in cui si trovò mai tanto tracutato amore quanto in Mirra,
la quale con sottili ingegni adoperò tanto che col propio padre più fiate si
giacque? E la dolente Biblis non si vergognò di richiedere il fratello a tanto
fallo, e la lussuriosa Cleopatra d'adoperarlo. E ancora la madre d'Almeon per
picciolo dono non consentì il mortale pericolo d'Anfirao suo marito? E qual
diabolico spirito avrebbe potuto pensare quello che fece Fedra, la quale non
potendo avere recato Ipolito suo figliastro a giacere con lei, con altissima
voce gridando e stracciandosi i vestimenti e' capelli e 'l viso, disse sé
essere voluta isforzare da lui e, lui preso, consentì che dal propio padre
fosse fatto squartare? Quanto ardire e quanta crudeltà fu quella delle femine
di Lenno, che, essendo degnamente suggette degli uomini, per divenire donne,
quelli nella tacita notte con armata mano tutti diedero alla morte? E simile
crudeltà nelle figliuole di Belo si trovò, le quali tutte i novelli sposi la
prima notte uccisero fuori che Ipermestra. Oimè, ch'io non sono possente a dire
ciò che io sento di voi! Ma sanza dire più avanti, quanti e quali essempli son
questi della vostra malvagità? O femine, innumerabile popolo di pessime
creature, in voi non virtù, in voi ogni vizio: voi principio e mezzo e fine
d'ogni male. Mirabil cosa si vede di voi, fra tanta moltitudine una sola buona
non trovarsene. Niuna fede, niuna verità è in voi. Le vostre parole sono piene
di false lusinghe. Voi ornate i vostri visi con diversi atti ad inretire i
miseri, acciò che poi, liete d'avere ingannato, cioè fatto quello a che la
vostra natura è pronta, ve ne ridiate. Voi siete armadura dello etterno nimico
dell'umana generazione: là ov'egli non può vincere co' suoi assalti, e egli
inconta nente a' pensati mali pone una di voi, acciò che 'l suo intendimento
non gli venga fallito. Guai etterni puote dire colui, che nelle vostre mani
incappa, non gli fallino. Misera la vita mia, che incappato ci sono! Niuna
consolazione sarà mai a me di tal fallo, pensando che una giovane, la quale io
più tosto angelica figura che umana creatura riputava, con falso riguardamento
m'abbia legato il cuore con indissolubile catena, e ora di me si ride, contenta
de' miei mali. Ma certo la miserabile fortuna che abassato per li vostri
inganni mi vede, assai mi nuoce, e niuno aiuto mi porge, anzi s'ingegna con
continua sollecitudine di mandarmi più giù che la più infima parte della sua
rota, se far lo potesse, e quivi col calcio sopra la gola mi tiene; né
possibile m'è lasciare il doloroso luogo».
[36]
Era
il pianto e la voce di Fileno sì grande, però che in luogo molto rimoto gli
parea essere da non dovere potere essere udito, che un giovane il quale a piè
del salvatico monticello passava, sentì quello, e avendovi grandissima
compassione, per grande spazio stette ad ascoltare, notando le vere parole di
Fileno; ma poi volonteroso di vedere chi sì dolorosamente piangesse, seguendo
la dolente voce, si mise per lo inviluppato bosco, e con grandissimo affanno
pervenne al luogo ove Fileno piangendo dimorava. Il quale egli nel primo
avvento rimirando, appena credette uomo, ma poi che egli l'ebbe raffigurato, il
vide nel viso divenuto bruno, e gli occhi, rientrati in dentro, appena si
vedeano. Ciascuno osso pingeva in fuori la ragrinzata pelle, e i capelli con
disordinato rabuffamento occupavano parte del dolente viso, e similmente la
barba grande era divenuta rigida e attorta, i vestimenti suoi sordidi e brutti:
egli era divenuto quale divenne il misero Erisitone, quando sé, per sé
nutricare, cominciò a mangiare. Nullo che veduto l'avesse ne' tempi della sua
prosperità, l'avrebbe per Fileno riconosciuto. Ma poi che il giovane l'ebbe
assai riguardato, così gli disse:
«O
dolente uomo, gl'iddii ti rendano il perduto conforto. Certo il tuo abito e le
tue lagrime con le tue voci m'hanno mosso ad avere compassione di te; ma se
gl'iddii i tuoi disiderii adempiano, dimmi la cagione del tuo dolore: forse non
sanza tuo bene la mi dirai; e ancora mi dì, se ti piace, perché sì solingo
luogo hai per poterti dolere eletto».
Maravigliossi
Fileno del giovane quando parlare l'udì, e voltatosi verso lui, non dimenticata
la preterita cortesia, così gli rispose:
«Io
non spero già che gl'iddii mi rendano quello che essi m'hanno tolto, perché io
i tuoi prieghi adempia: ma però che la dolcezza delle tue parole mi spronano,
mi moverò a contentarti del tuo disio. E primieramente ti sia manifesto che per
amore io sono concio come tu vedi»; e, appresso questo, tutto ciò che avvenuto
gli era particularmente gli narrò. Dopo le quali parole, ancora gli disse:
«La
cagione per che in sì fatto luogo io sono venuto, è che io voglio sanza
impedimento potere piangere. E, appresso, io non voglio essere a' viventi
essemplo d'infinito dolore, ma voglio che infra questi alberi la mia doglia
meco si rimanga».
Udito
questo, il giovane non poté ritenere le lagrime, ma con lui incominciò
dirottamente a piangere, e disse:
«Certo
la tua effigie e le tue voci mostrano bene che così ti dolga, come tu parli;
ma, al mio parere, questa doglia non dovria essere sanza conforto, con ciò sia
cosa che persone, che molto l'hanno avuto maggiore che tu non hai, si sono
confortate e confortansi».
Disse
allora Fileno:
«Questo
non potrebbe essere: chi è colui che maggior dolore abbia sentito di me?».
«Certo
- disse il giovane, - io sono».
«E
come?», disse Fileno. A cui il giovane disse:
«Io
il ti dirò. Non molto lontano di qui, avvegna che vicina sia più assai quella
parte alla città di colui i cui ammaestramenti io seguii, e dove tu non molto
tempo ci fosti sì come tu di', era una gentil donna, la quale io sopra tutte le
cose del mondo amai e amo: e di lei mi concedette Amore, per lo mio buon
servire, ciò che l'amoroso disio cercava. E in questo diletto stetti non lungo
tempo, ché la fortuna mi volse in veleno la passata dolcezza, che quando io mi
credea più avere la sua benivolenza, e avere acquistato con diverse maniere il
suo amore, e io con li miei occhi vidi questa me per un altro avere abandonato,
e conobbi manifestamente che ella lungamente con false parole m'avea ingannato,
faccendomi vedere che io era solo colui che il suo amore avea. La qual cosa
come mi si manifestò, niuno credo che mai simile doglia sentisse com'io sentii:
e veramente per quella credetti morire; ma l'utile consiglio della ragione mi
rendé alcun conforto, per lo quale io ancora vivo in quello essere che tu mi
vedi, ricoprendo il mio dolore con infinta allegrezza. Le cose sono da amare
ciascuna secondo la sua natura: quale sarà colui sì poco savio che ami la
velenosa cicuta per trarne dolce sugo? Molto meno fia savio colui che una
femina amerà con isperanza d'essere solo amato da lei lunga stagione: la loro
natura è mobile. Qual uomo sarà che possa ammendare ciò che gl'iddii o li
superiori corpi hanno fatto? E però sì come cosa mobile sono da amare, acciò
che de' loro movimenti gli amanti, sì come esse, si possano ridere: e se elle
mutano uno per un altro, quelli possa un'altra in luogo di quella mutare. Niuno
si dorrà seguendo questo consiglio. Tu, non avendolo seguito, ora per niente
piangi: con ciò sia cosa che tu niente abbia perduto, di che ti duoli tu? Sì
come tu di', niente possedesti: e chi non possiede non può perdere; e chi non
perde, di che si lamenta? Credesti alcuna volta, per alcuno sguardo fatto a te
da quella giovane cui tu ami, che ella t'amasse: hai conosciuto che quello era
bugiardo, e che ella non t'ama. Certo di questo ti dovresti tu rallegrare e
rendere infinite grazie agl'iddii, che t'hanno aperti gli occhi avanti che tu
in maggiore inganno cadessi. Se forse dello essilio che hai piangi, non fai il
migliore: ché, pensando al vero, niuno essilio si può avere, con ciò sia cosa
che il mondo sia una sola città a tutti. Ove che la fortuna ponga altrui, ella
nol può cacciare di quello. In ciascun luogo giunge altrui la morte con finale
morso. A' virtuosi ogni paese è il loro. Lascia questi pianti e leva su, vienne
con meco, e virtuosamente pensa di vivere, e metti in oblio la malvagità di
quella giovane che a questo partito t'ha condotto: che de' cieli possa fuoco
discendere che ígualmente tutte le levi di terra!».
A
cui Fileno disse:
«Giovane,
ben credo che il tuo dolore fu grande, e similmente il tuo animo, poi che con
pazienza il poté sostenere; ma io mi sento troppo minore l'animo che la doglia,
e però invano ci si balestrano confortevoli parole. Io sono disposto a piangere
mentre io vivrò: gl'iddii per me del tuo buon volere ti meritino. Io ti priego
per quello amore che tu già più fervente portasti alla tua donna, che non ti
sia noia il partirti e 'l lasciarmi con continue lagrime sfogare il mio
dolore».
«Gl'iddii
te ne traggano tosto di cotale vita» disse il giovane. E partitosi da lui, se
ne tornò per quella via onde venuto era.
[37]
Partito
il giovane, Fileno ricominciò il doloroso pianto; e increscendogli della sua
vita, con dolenti voci incominciò a chiamare la morte così:
«O
ultimo termine de' dolori, infallibile avvenimento di ciascuna creatura,
tristizia de' felici e disiderio de' miseri, angosciosa morte, vieni a me!
Vieni a colui a cui il vivere è più noioso che il tuo colpo, vieni a colui che
graziosa ti riputerà! Deh, vieni, ché il tristo cuore ti chiede! Oimè, ch'io
non posso con la debole voce esprimere quanto io ti disidero. Poi che un solo
colpo dei tuoi debbo ricevere, piacciati di concederlo sanza più indugio. Non
sia l'arco tuo più cortese a me che al valoroso Ettore o ad Achille. Io tengo
in villania il lungo perdono che da lui ho ricevuto. I doni disiderati, tosto
donati, doppiamente sono graditi: concedi questo a me che tanto disiderata
t'ho, e che con così dolente voce ti chiamo. Oimè, come sono radi coloro che
con volonteroso animo ti ricevono, come ti riceverò io! Dunque, perché non
vieni? Non consentire che disiderandoti, come io fo, io languisca più. Io non
ricuserò in niuna maniera la tua venuta. Vieni come tu vuoi, solo ch'io muoia.
Io non fuggirei ora gli aguti ferri, né le taglienti spade com'io feci già;
l'agute sanne de' fieri leoni non mi dorrebbeno, né di qualunque altra fiera
dilacerante il mio corpo: dunque vieni. O rapaci lupi, o ferocissimi orsi, se
alcuni nel dolente bosco, bramosi di preda, dimorate, venite a me, facciasi il
mio corpo vostro pasto: adempiete quel disio che altri adempiere non mi vuole.
Oimè, perisca il tristo corpo, poi che perita è la speranza, cerchi la dolente
anima i regni atti al suo dolore e vada con la sua pena alle misere ombre di
Dite, ove forte sarà che maggior pena che ella al presente sostiene, vi truovi.
O iddii abitatori de' celestiali regni, se alcuno mai in questo luogo ricevette
onore di sacrificio, dolgavi di me, O driade, abitatrice di questi luoghi, fate
che la misera vita mi fugga. O infernali iddii, rapite del mio misero corpo la
vostra anima. Cessi che io più me e voi stimoli con le mie voci».
E
così piangendo e gridando, tutto delle propie lagrime si bagnava, baciando
sovente il candido velo, sopra il quale per debolezza sovente cader si
lasciava. Ma Florio, rimaso a Montoro, presto a mettere in essecuzione le
triste insidie sopra Fifeno, udito che il misero per paura di quelle avea preso
volontario essilio, lasciò stare le cominciate cose, e incominciassi alquanto a
riconfortare, imaginando che poi che questo era cessato di che egli più
dubitava, niuna altra cosa, fuori che prolungamente di tempo, al suo disio gli
poteva noiare.
[38]
La
santa dea, che due volte era discesa de' suoi regni per impedire il
ferventissimo amore tra Florio e Biancifiore cresciuto per lungo tempo,
sentendo Florio rallegrarsi e il misero Fileno avere per le operazioni di lei
preso dolente essilio, parendole niente aver fatto, propose del tutto di volere
la sua imaginazione compiere. E discesa del cielo la terza volta, sopra un'alta
montagna in forma di cacciatrice si pose ad aspettare il re Felice, che quivi
cacciando su per quella doveva quel giorno venire. Ella avea i biondi capelli
ravolti alla sua testa con leggiadro svolgimento, e il turcasso cinto con molte
saette, e nella sinistra il forte arco portava. E quivi per picciolo spazio
dimorando, di lontano vide il re Felice soletto correre dietro ad un grandissimo
cervio, il quale verso quella parte ov'ella era fuggiva: al quale ella si parò
davanti e con soavissima voce salutatolo, abandonato il cervio, il ritenne a
parlar seco. A cui il re, non conoscendola, disse:
«Giovane
donna, come in questo luogo sì sola dimorate?».
«Di
qui non sono guari lontane le compagne - rispose Diana; - ma tu come a questi
diletti itendi, con ciò sia cosa che il tuo figliuolo, per amor di colei cui tu
tieni in casa, guadagnata ne' sanguinosi campi, si muore? Io conosco il sopravegnente
pericolo, e dicoti che se tosto rimedio a questa cosa non prendi, ella il ti
torrà».
E
questo detto, subitamente sparve. Rimase il re tutto stupefatto e pieno di
pensieri, quando, volendo consiglio domandare, vide la dea sparita, e così tra
sé, voltando i suoi passi, disse:
«Veramente
divina voce m'ha i miei danni annunziati».
E
di grieve dolore oppresso, lasciata la caccia, si tornò in Marmorina.
[39]
Ritornato
il re in Marmorina dentro al suo palagio, in una camera, soletto, con bassa
fronte, si pose pensando a sedere ripetendo in sé l'udite parole dalla santa
dea, e in sé rivolgendo che rimedio alle cose udite potesse pigliare. E in tali
pensieri dimorando, la reina sopravenne; e vedendo il re turbato, si
maravigliò, e timidamente così gli disse:
«O
caro signore, se licito è ch'io possa sapere la cagione della vostra
turbazione, io vi priego che ella non mi si celi».
A
cui il re rispose:
«Ella
non ti si può né dee celare, e però io la ti dirò: oggi nel più forte cacciare
che io facea, correndo dietro a un cervio, non so che si fosse, o dea o altra
creatura, ma in abito d'una cacciatrice, m'apparve una bella donna, la quale,
dopo alquante parole, mi disse che se con subito provedimento noi non
soccorressimo, che Florio per Biancifiore perderemmo: e questo detto, sparve
subitamente, né più la potei vedere. Onde io da quella ora in qua con grieve
doglia sono dimorato e dimoro. Io conosco manifestamente che la fortuna, dei
nostri beni invidiosa, si oppone a quelli, e vuolcene in miserabile modo privare.
Io non so che consiglio pigliare. Io mi consumo pensando che per una serva io
debba perdere il caro figliuolo acquistato con tanti prieghi. O maladetto
giorno, o perfidissima ora della sua natività, perché mai venisti? Egli non per
nostra consolazione, ma per dolorosa distruzione di noi nacque: ma certo la
cagione di tanta e di tale tristizia converrà che prima di me perisca. Questi
mali e queste angosciose fatiche solo per la vilissima serva procedono. Io le
leverò con le propie mani la vita: la mia spada trapasserà il suo sollecito
petto: e di questo segua che puote! E certo se i fati altre volte la trassero
delle cocenti fiamme, essi non la trarranno ora del mio colpo. Oimè, che mi
parea incredibile per adietro, quand'io udiva che sola Biancifiore era ancora
da lui dimandata, e diceva: "Se ciò fosse vero, già il duca e Ascalion me
l'avrebbero fatto sentire!". Ma io credo fermamente che la puttana l'abbia
con virtuose erbe, o con parole, o con alcuna magica arte costretto, però che
mai non si udì che femina con tanto amore durasse in memoria d'uomo, quanto
costei è durata a lui. Ma certo a mio potere l'erbe e le incantazioni le
varranno altressì poco: come a Medea valessero!».
[40]
Poi
che il re, narrate queste cose, si tacque, la reina, dopo alcuno sospiro, così
disse:
«Oimè,
ora ha egli ancora nella memoria Biancifiore? Certo, se questo è, negare non
possiamo che in contrario non ci si volga la prosperevole fortuna passata. Io
imaginava che egli più non se ne ricordasse; ma poi che ancora gli è a mente
soccorriamo con pronto argomento».
«Niuno
rimedio è sì presto come ucciderla - disse il re, - e acciò che infallibile sia
il colpo, io l'ucciderò con la propia mano». A cui la reina disse:
«Cessino
questo gl'iddii, che un re si possa dire che colpevole nella morte d'una
semplice giovinetta sia, o che le mani vostre di sì vile sangue siano
contaminate. Se noi la sua morte disideriamo, noi abbiamo mille servi presti a
maggiori cose, non che a questa; ma noi, sanza esser nocenti contro lo
innocente sangue di lei, possiamo in buona maniera riparare: e ciò v'aveva io
già più volte voluto dire, ma ora, venuto il caso, vel dirò. Io intesi, pochi
dì sono passati, che venuta era ne' nostri porti, là dove il Po le sue dolci
acque mescola con le salse, una ricchissima nave, di che parte si venga non so,
la quale, secondo che m'è stato porto, spacciato il loro carico, si vogliono
partire: mandate per li padroni, e a loro sia Biancifiore venduta. Essi la
porteranno in alcuna parte strana o molto lontana di qui, e di essa mai niuna
novella si saprà: e a Florio date ad intendere che morta sia, faccendole fare
nobilissima sepoltura e bella, acciò che più la nostra bugia somigli il vero. E
egli, credendo questo, poi s'auserà a disamarla».
[41]
Niente
rispose il re a' detti della reina, ma in se medesimo alquanto rattemperato
pensò di volere tal consiglio seguire, e seguendolo imaginò che sanza fallo gli
verrebbe il suo avviso fornito. E uscito della sua camera, a sé chiamò Asmenio
e Proteo, giovani cavalieri e valorosi, e disse così loro:
«Sanza
alcuno indugio cercate i nostri porti là dove il Po s'insala: quivi n'è detto
che una ricchissima nave è venuta; fate che voi la veggiate, e conosciate di quella
i signori, e sappiate di qual paese viene, e di che è carica, e quando si dee
partire, e ordinatamente tutto mi raccontate nella vostra tornata, la quale
sanza niuno indugio fate che sia».
[42]
Mossersi
i due giovani con quella compagnia che piacque loro, e, pervenuti a' dimandati
porti, montarono sopra la bella nave, ove essi onorevolemente ricevuti furono
da Antonio e da Menone, signori e padroni di quella. E poi che Asmenio dimorato
con loro alquanto fu, egli disse:
«Belli
signori, noi siamo cavalieri e messaggi dell'alto re di Spagna, ne' cui porti
voi dimorate; e siamo qui venuti a voi per essere di vostra condizione certi, e
per sapere qual sia il vostro carico, e da quali liti vi siate con esso
partiti, e che intendiate di fare. Piacciavi che di tutte queste cose noi al
nostro signore possiamo rendere vera risposta».
A
cui Antonio, per età e per senno più da onorare, così rispose:
«Amici,
voi siate i ben venuti. Noi, brievemente, siamo ad ogni vostro piacere
disposti, e però alla vostra dimanda così vi rispondiamo, e così a chi vi manda
risponderete: il presente legno è di questo mio compagno e mio, i quali, egli
Menone e io Antonio siamo chiamati, e nascemmo quasi nelle ultime parti
dell'ausonico corno, vicini alla gran Pompeia, vera testimonia delle vittorie
ricevute da Ercule ne' vostri paesi, e da lui edificata; e vegnamo dalli
lontani liti d'Alessandria in questi luoghi, non volonterosi venuti, ma da
fortunale tempo portati, nel quale gl'iddii, la mercé loro, ci hanno tanta di
grazia fatta, che quasi tutto il carico della nostra nave avemo spacciato, il
quale fu in maggior parte spezieria, perle e oro, e drappi dalle indiane mani
tessuti; e intendiamo, ove piacere de' nostri iddii sia, di cercare le sedie
d'Antenore, poste nell'ultimo seno di questo mare, quando avremo tempo; e quivi
di quelle cose che per noi saranno, intendiamo di ricaricare la nostra nave e
di tornare agli abandonati liti. Se per noi si può far cosa che al vostro
signore e a voi piaccia, come umilissimi servidori a' vostri piaceri ci
disponiamo».
Assai
gli ringraziarono i due cavalieri e ultimamente gli pregarono che non fosse
loro noia alquanti giorni attendergli, però che con loro credevano dovere avere
a fare. A cui essi risposero che uno anno, se tanto loro piacesse, gli
attenderebbono.
[43]
Tornarono
i due cavalieri al re, e chiaramente ogni cosa udita da' padroni gli narrarono.
A' quali il re disse:
«Tornate
ad essi e domandateli se essi volessero una bellissima giovane comperare, la
quale innumerabile tesoro ho cara, e con la risposta tacitamente tornate».
Ripresero
i cavalieri il cammino, e, ricevuti con amorosi accoglimenti, a' mercatanti la
loro ambasciata contarono, aggiungendo che dalla bella giovane inverso la reale
maestà grandissimo fallo era stato commesso, per lo quale morte meritava «ma il
signore, pietoso della sua bellezza, non ha voluto privarla di vita: ma, acciò
che il fallo non rimanga impunito, la vuole vendere, come contato v'abbiamo».
A
cui i mercatanti risposero ciò molto piacere loro: e se bella era quanto
contavano, nullo migliore comperatore d'essi se ne troverebbe. «Adunque - disse
Asmenio - arrecate i vostri tesori e venite con noi, acciò che voi veggiate che
quello che vi diciamo è vero».
[44]
Caricati
i mercatanti i loro tesori, e presi molti loro cari gioielli, con li due
cavalieri se ne vennero a Marmorina, ove dal re onorevolmente ricevuti furono.
E quando tempo parve al re di volere che essi vedessero Biancifiore, egli disse
alla reina:
«Va
e fa venire la giovane». Al cui comandamento la reina andata in una camera ove
Biancifiore era, disse:
«O
bella giovane, rallegrati, che picciolo spazio di tempo è a passare che il tuo
Florio sarà qui; e pero adornati, acciò che tu gli possi andare davanti e
fargli festa, e che egli non gli paia che le tue bellezze sieno mancate».
Corse
al cuore di Biancifiore una subita letizia, udendo le false parole, e per poco
non il cuore, abandonato dalle interiori forze, corse di fuori a mostrare
festa, per debolezza perì. Ma poi, quelle tornate ciascuna nel suo luogo
furono, Biancifiore s'andò ad ornare. Ella i dorati capelli con sottile
artificio mise nel dovuto stile, e, sé di nobilissimi vestimenti vestita, sopra
la testa si puose una bella e leggiadra coronetta, e con lieti sembianti
cominciò ad attendere, disiderosa d'udire dire: "Ecco Florio!".
[45]
Il
re fece chiamare i due mercatanti, e con loro sanza altra compagnia, se ne
entrò in una camera, e disse loro:
«Voi
vedrete di presente venire una creatura di paradiso in questo luogo, la quale
sarà al vostro piacere, se assai tesori avete recati».
E
detto questo, comandò che Biancifiore venisse. Allora la reina disse a
Biancifiore:
«Andiamo
nella gran sala, non dimoriamo qui, acciò che di lontano possiamo vedere il
caro figliuolo».
Mossesi
Biancifiore soletta di dietro alla reina e venne nel luogo ove i due mercatanti
dimoravano. E come l'aria, di nuvoli piena, porge alla terra alcuna oscurità,
la quale poi, partendosi i nuvoli, da' solari raggi con lieta luce è cacciata,
così parea che dove Biancifiore giungeva, nuovo splendore vi crescesse. Videro
i mercatanti la bella giovane, e, ripieni d'ammirazione, appena credettero che
cosa mondana fosse, dicendo fra loro che mai sì mirabile cosa non era stata
veduta. Elli comandarono che di presente i loro tesori fossero tutti aportati
davanti al re; i quali venuti in grandissima quantità, così dissero:
«Signore,
sanza altro mercatare, de' nostri tesori prendete quella quantità che a voi
piace, ché noi non sapremmo a così nobile e preziosa cosa porre pregio alcuno».
«Assai
mi piace», rispose il re. E di quelli prese quella quantità che a lui parve e
l'altra rendé loro. E essi, contenti di ciò che fatto avea il re, sopra tutto
ciò che preso avea, gli donarono una ricchissima coppa d'oro, nel gambo e nel
piè della quale con sottilissimo artificio tutta la troiana ruina era smaltata,
cara per maesterio e per bellezza molto. Dopo i ricevuti tesori, il re con
sommessa voce così parlò a' mercatanti:
«A
voi conviene, poi che comperata avete costei, sanza niuno indugio dare le vele
a' venti, né più in questi paesi dimorare, non forse nuovo accidente avvenisse
per lo quale il vostro e mio intendimento si sturbasse».
Dissero
i mercatanti:
«Signore,
co mandate alla giovane, poi che nostra è, che con noi ne venga, che noi non
l'avremo prima sopra la nostra nave, che essendo il tempo ben disposto, come
elli ci pare che sia, che noi prenderemo nostro cammino e sgombreremo i vostri
porti, però che per noi non fa il dimorare».
[46]
Voltossi
allora il re a Biancifiore, e disse:
«Bella
giovane, a me ricorda che quando davanti mi recasti nella festa della mia
natività il velenato paone, io giurai per lo sommo Iddio e per l'anima del mio
padre, e promisi al paone che in brieve tempo io ti mariterei a uno de' grandi
baroni del mio regno: però, volendo osservare il mio voto, t'ho maritata, e il
tuo marito si chiama Sardano, signore dell'antica Cartagine, a noi carissimo
amico e parente. Egli con grandissima festa t'aspetta, sì come i presenti
gentili uomini da sua parte a noi per te venuti ne dicono. Però rallegrati: e
poi che piacere è di lui, a cui oramai sarai cara sposa, con costoro n'andrai,
e noi sempre per padre terrai, là ove bisogno ti fosse tale paternità».
Le
cui parole come Biancifiore udì, tutta si cambiò nel viso e disse:
«Oimè,
dolce signore, e come m'avete voi maritata, che io nel gran pericolo che fui,
quando ingiustamente al fuoco fui condannata, per paura della morte, a Diana
votai etterna virginità, se dallo ingiusto pericolo mi campasse?».
«Come
- disse il re - richiede la tua bellezza etterna virginità, la quale a' venerei
atti è tutta disposta? Giunone, dea de' santi matrimonii, ti rimetterà questo
voto, poi che il suo numero accresci».
«Oimè!
- disse Biancifiore - io dubito che la vendicatrice dea giustamente meco non si
crucci».
«Non
farà - disse il re, - e posto che ciò avvenisse, questo è fatto omai, non può
indietro tornare. Tu dovevi dirloci avanti se così avevi promesso. Imineo lieto
e inghirlandato tenga nella vostra camera le sante facelline».
E
questo detto, comandò che Glorizia sua maestra le fosse per servigiale donata,
sì come della misera Giulia era stata, e che ella fosse da' mercatanti
tacitamente menata via, e i tesori riposti.
[47]
Biancifiore,
che i segreti ragionamenti e l'abito de' mercatanti e i ricevuti tesori tutti
avea veduti, e il tacito stile che il re nella sua partenza teneva, e similmente
l'unica servitrice a lei donata, e le ingannevoli parole della reina che detto
l'avea: "Vieni, che il tuo Florio viene" nella mente notava, fra sé
dolendosi incominciò a dire:
«Oimè,
che è questo? In sì fatta maniera non sogliono le giovani andare a' loro sposi,
anzi si sogliono fare grandissime feste, e io con taciturnità sono cercata di
menar via. Né ancora si sogliono per le mie pari da' mariti mandare tesori,
anzi ne sogliono ricevere. Né ancora costoro paiono uomini atti a portare
ambascerie di sì fatte bisogne, ma mi sembrano mercatanti; e i segreti mormorii
mi danno cagione di dubitare. E ove s'usa ancora una giovane andare a sì fatto
sposo, quale egli dice che m'ha donato, con una sola servitrice? Oimè, che
tutte queste cose mi manifestano che io sono ingannata! Io misera, nata per
aver male, non maritata ma venduta credo ch'io sono, come schiava da pirrata in
corso presa. Oimè, che farò? Come che io mi sia o venduta o maritata, come
potrà io abandonare il bel paese ove il mio Florio dimora?».
E
questo dicendo, incominciò sì forte a piangere, che a forza mise pietà ne'
crudeli cuori del re e della reina. Ma il re ciò non sofferse di stare a
vedere, anzi si partì per paura di non pentersi, e la seconda volta comandò che
portata ne fosse.
[48]
Già
lasciava Febo vedere la sua cornuta sorella disiosa di tornare alquanto con la
sua madre, quando i mercatanti, apparecchiati i cavalli, levarono Biancifiore
di braccio alla reina semiviva, e con Glorizia insieme, di quindi partendosi,
la ne portarono. E pervenuti alla loro nave, contenti di tale mercatantia, lei
sopra quella posero, apparecchiando la più onorevole parte d'essa, e pregando
gl'iddii che prospero viaggio loro concedessero. E date le vele a' venti, si
partirono con Biancifiore da' vietati porti, comandando che ricercati fossero i
lasciati liti di Soria.
[49]
Zeffiro
ancora non era stato da Eolo richiuso nella cavata pietra, anzi soffiando
correa sopra le salate onde con le sue forze, per la qual cosa i mercatanti
prosperamente con la loro nave andavano a' disiderati liti. Ma Biancifiore, che
ora conosceva manifestamente il tradimento dello iniquo re, quivi venuta con
continuo pianto, con più grave doglia veggendosi dalli occidentali liti
allontanare, incomincio a piangere, e a dire così:
«Oimè,
dolorosa la vita mia, ove sono io portata? Chi mi toglie da' dolci paesi ov'io
lascio l'anima mia? O Amore, solo signore della dolorosa mente, quanti e quali
sono i mali che io, per essere fedelissima suggetta alla tua signoria,
sostegno! Ma tra gli altri notabili, come tu sai, io per te ebbi a morire di
vituperevole morte, avvegna che per te simigliantemente da quella campassi, e
ora, come vilissima serva venduta, per te, non so ove io mi sia portata. Se
queste cose fossero manifeste, chi s'arrischierebbe mai a seguire tua signoria?
Deh, perché non mi uccidevi tu avanti, quando ne' begli occhi di Florio
m'apparisti, che ferirmi, acciò che io per la tua ferita tanto male dovessi
sostenere? Oimè, ch'io non so quali liti saranno da me cercati, né alle cui
mani io misera debbo venire. Ma a niune verrò che iguale tristizia non sia la
mia, poi ch'io lascio il mio Florio. Dove, o misera fortuna, ricorrerò per
conforto, con ciò sia cosa che ogni speranza fuggita mi sia di potere mai lui
rivedere? Io sono portata lontana da lui, e egli nol sa, né sa dove: dunque
dove sarò io da lui ricercata? E io come potrò lui ricercare, ché la mia
libertà è stata venduta a costoro infiniti tesori? Ahi misera vita, maladetta
sii tu, che sì lungamente in tante tribulazioni mi se' durata! O dolcissimo
Florio, cagione del mio dolore, gl'iddii volessero che io mai veduto non ti
avessi, poi che per amarti tante tribulazioni e tante avversità sostenere mi
conviene. Ma certo se io mai rivederti credessi, ancora mi sarebbe lieve il
sostenerle. Oimè, or che colpa ho io se tu m'ami? Io mi riputai già grandissimo
dono dagl'iddii l'avere avuto da te soccorso, quando per te credetti morire
nelle cocenti fiamme: ma certo io ora avrei molto più caro l'essere stata
morta. Io non so che mi fare. Io disidero di morire e intanto mi conosco
miserissima, in quanto io veggio alla morte rifiutarmi. Ora faccino di me
gl'iddii ciò che piace loro: niuno uomo fu mai amato da me se non Florio, e
Florio amo e lui amerò sempre. Nulla cosa mi duole tanto, quanto il perduto
tempo, nel quale già potemmo i disiderati diletti prendere e non li prendemmo,
ma quello ozioso lasciammo trascorrere, pensando che mai fallire non ci
dovesse: ora conosco che chi tempo ha e quello attende, quello si perde. O
misero Fileno, in qualunque parte tu vagabundo dimori, rallegrati che io,
cagione del tuo essilio, ti sono fatta compagna con più misera sorte. A te è
licito di tornare, ma a me è negato. Tu ancora la tua libertà possiedi, ma la
mia è venduta. Gl'iddii e la fortuna ora mi puniscono de' mali che tu per me
sostieni: ma certo a torto ricevo per quelli ingiuria, ché, come essi sanno,
mai io non ti mostrai lieto sembiante se non costretta dalla iniquissima madre
di colui di cui io sono. Oimè, quanto m'è la fortuna contraria! Ma certo ciò
non è maraviglia, con ciò sia cosa che i figliuoli debbano succedere a' parenti
nelli loro atti: chi più infortunato fu che il mio padre e la mia misera madre,
avvegna che di tutto io fossi cagione? E se io di ciò fui cagione, dunque maggiormente
conviene che io infortunata sia, anzi posso dire che io sia esso infortunio.
Rallegrinsi le loro anime ove che esse sieno: io porto pena del commesso male.
O iddii, provedete alla mia miseria, poneteci fine. O Nettunno, inghiottisci la
presente nave, acciò che la misera perisca. Racchiudi sotto le tue onde in un
corpo tutte le miserie, acciò che il mondo riposi: elle sono tutte adunate in
me; se tu me nelle tue acque raccogli, tutte l'avrai in tua balia, e potrai poi
di quelle dare a chi ti piacerà. E tu, o Eolo, leva co' tuoi venti le tese
vele, che al mio disio mi fanno lontana. Ove è ora la rabbia de' tuoi suggetti,
che a' troiani levò gli alberi e' timoni, e parte de' loro uomini e delle navi?
Risurga, acciò che io più non sia portata avanti. Io disidero di morire ne'
vicini mari al mio Florio, acciò che il misero corpo, portato dalle salate
acque sopra i nostri liti, muova a pietà colui di cui egli è, e da capo con le
propie lagrime il bagni. O almeno abassa la potenza del fresco vento che ci pinge
alla disiderata parte da costoro. Apri la via agli orientali e agli austri,
acciò che negli abandonati porti un'altra volta sieno gittate le tegnenti
ancore, e quivi forse da Florio, che già dee la mia partita aver sentita, sarò
radomandata con maggior quantità di tesori a costoro. Niuna altra speranza m'è
rimasa, in niuna altra maniera mai rivedere non credo colui che è solo mio
bene. Oimè, i miei prieghi non sono uditi! E chi ascoltò mai priego di misero?
Io m'allungo ciascuna ora più da te, o Florio, in cui l'anima mia rimane. E
però rimanti con la grazia degl'iddii, i quali io priego che da sì fatta doglia
come io sento, ti levino. Pensa d'un'altra Biancifiore, e me abbi per perduta:
li fati e gl'iddii mi ti tolgono. Io non credo mai più rivederti, però che
veggendomiti ciascuna ora più far lontana, disperata mi dispongo alla morte, la
quale gl'iddii non lascino impunita in coloro che colpa me n'hanno».
E
piangendo, con travolti occhi e con le pugna chiuse, palida come busso,
risupina cadde in grembo a Glorizia, che con lei miseramente piangeva.
[50]
Li
due mercatanti vedendo questo, dolenti oltre misura, lasciando ogni altro
affare, corsero in quella parte, e di grembo a Glorizia la levarono, e lei non
come comperata serva, ma come cara sorella si recarono nelle braccia, e con
preziose acque rivocarono gli spaventati spiriti a' loro luoghi, e così
cominciarono a parlare a Biancifiore:
«O
bellissima giovane, perché sì ti sconforti? Perché piangendo e con ismisurato
dolore vuoi te e noi insieme consumare? Deh, qual cagione ti conduce a questo?
Piangi tu l'avere abandonato il vecchio re, il quale, pieno d'iniquità e di mal
talento, più la tua morte che la tua vita disiderava? Tu di questo ti dovresti
rallegrare. E forse che ti pare che la fortuna miseramente ti tratti, però che
tu a noi costi la maggior parte de' nostri tesori, parendoti dovere avere preso
nome di comperata serva, sotto la qual voce non pare che lieta vita si deggia
poter menare; ma certo da tale pensiero ti puoi levare, però che noi non
guarderemo mai a' donati tesori per te, ma, conoscendo la tua magnificenza, in
ogni atto come donna ti onoreremo. E se forse ti duole il dover cercare nuovi
liti, imaginando quelli dovere essere strani e voti di' varii diletti, de'
quali forse ti pareva la tua Marmorina piena, certo tu se' ingannata, però che
colà ove noi ti portiamo è luogo abondevole di graziosi beni, pieno di valorosa
gente, nel quale forse la fortuna ti concederà più tosto il tuo disio che fatto
non ti avrebbe onde ti parti: però che noi spesso veggiamo che quelli luoghi
che paiono più atti a uno intendimento d'un uomo o d'una donna, quelli sono
quelli ne' quali mai tale intendimento fornire non si può; e così ne' non
pensati luoghi avviene che l'uomo ha quello che ne' pensati disiderava. I
futuri avvenimenti ci sono nascosi. Il primo aspetto delle cose doni speranza
di quello che dee seguire: tu ricca, tu graziosa, tu bellissima! Le quali cose
pensando, manifestamente si dee credere che gl'iddii a grandissime cose
t'apparecchiano e che in te non dee potere lunga miseria durare. Piangano
coloro a' quali niuna speranza è rimasa. Noi ti preghiamo che tu ti conforti,
con ciò sia cosa che noi manifestamente conosciamo che con aperte braccia
felicità non pensata t'aspetta, alla quale gl'iddii tosto te e noi con
prosperevole tempo, come cominciato hanno, ci portino».
[51]
Con
pietose lagrime ascoltava Biancifiore le parole de' confortanti, e avvegna che
niuno conforto di quelle prendesse, nondimento con rotte voci prometteva di
confortarsi. Ma poi che i due mercatanti, parendola loro quasi avere
riconfortata, la lasciarono con Glorizia, essa soletta in una camera della
nave, donata a lei da' signori, si rinchiuse, e in quella con tacite lagrime
sopra il suo letto così cominciò a dire:
«O
graziosissima Citerea, ove è la tua pietà fuggita? Oimè, come tante lagrime di
me, tua fedelissima suggetta, non ti muovono ad aiutarmi? Chi spererà in te, se
io, che più fede t'ho portata, per te perisco? E quando verrà il tuo soccorso,
se nelle miserie non viene? Io non posso peggio stare che io sto. O misera a
me, che feci io che io meritassi d'essere venduta? Or m'avesse avanti il re
uccisa con le propie mani: almeno il termine de' miei dolori sarebbe finito!
Deh, pietosa dea, quand'io altra volta temetti di morire, tu da quel pericolo
mi campasti: perché ora più grave t'è in questo bisogno aiutarmi? Io mi diparto
dal mio Florio, né so quali paesi fieno cercati da me: e se io credessi
propiamente i tuoi regni venire ad abitare, e' mi sarebbero noiosi sanza
Florio. Dunque comanda che come la saetta del tuo figliuolo con dolcezza mi
passò il cuore per la piacevolezza di Florio, a me tornata in grave amaritudine,
che ella mi si converta in mortal piaga, e tosto. Non consentire che io più
viva languendo. Muovanti tante lagrime, quante io mando nel tuo cospetto, a
questa sola grazia concedermi: e se a te forse la mia morte non piace,
riconfortimi la seconda volta il tuo santo raggio, il quale nella oscura
prigione, ov'io per adietro a torto fui messa, mi consolò faccendomi sicura
compagnia. Io vo sanza alcuna speranza, se da te, non m'è porta. Deh, non mi
lasciare in tanta avversità disperata, ma sì come il tuo pietoso Enea negli
africani liti, a' quali io, più ch'io non disidero, già m'appresso,
riconfortasti con trasformata imagine, così di me ti dolga, e fammi degna del
tuo soccorso. A te niuna cosa s'occulta, il mio bisogno tu il sai: provedivi
sanza indugio, acciò che il numero delle mie miserie non multiplichi. E tu, o
vendicatrice Diana, nel cui coro io per difetto di virginità non avrei minor
luogo, aiutami: io sono ancora del tuo numero, e disidero d'essere infino a
quel tempo che l'inghirlandato Imineo mi penerà a concedere liete nozze.
Concedi che io possa i tuoi beneficii interi servare al mio Florio, al quale se
i fati non concedono che essi pervengano, prima la morte m'uccida, che quelli
tolti mi sieno».
E
mentre che Biancifiore queste parole fra sé tacita pregando dicea, soave sonno
sopravenutole, le parole e le lagrime insieme finio.
[52]
Diana,
che delli alti regni conoscea la miseria in che Biancifiore era venuta per le
operazioni di lei, in se medesima si riputò essere vendica del non ricevuto sacrificio,
e temperò le sue ire con giusto freno, e i santi orecchi piegò a' divoti
prieghi di Biancifiore; e li suoi scanni lasciati, a quelli di Venere se
n'andò, e così le disse:
«O
dea, sono alle tue orecchie pervenuti i pietosi prieghi della tua Biancifiore,
come alle mie?».
«Certo
sì - rispose Citerea, - e già di qui mi volea muovere per andare a porgerle il
dimandato conforto; ma tu, che niuna tua ira vuoi sanza vendetta da te
cacciare, lascia omai le soperchievoli offese e perdona il disaveduto fallo
alla innocente giovane, acciò che io non abbia cagione di contaminare i tuoi
cori con più asprezza. Tu non meno di me se' tenuta d'aiutare costei, però che
ben che essa aggia me col core servita e serve, nondimeno ha ella te sempre con
le operazioni servita, e ora a te, come a me, soccorso nella presente avversità
domanda».
«Adunque
- disse Diana - andiamo: le mie ire sono passate, e vera compassione de' suoi
mali porto nel petto; porgiamole il dimandato conforto».
A
cui Venere disse:
«Io
la veggo sopra le salate onde vinta da angosciosi pianti soavemente dormire, e
esserne portata verso il mio monte, al quale luogo io spero che 'l suo disio
ancora farò con letizia terminare, avvegna che sanza indugio essere non può per
quello che per adietro hai operato».
[53]
Sanza
più parlare si partì il divino consiglio, e amendue le dee, lasciati i luoghi,
con lieto aspetto nel sonno si mostrarono alla dormente giovane. E Diana, che
in quello abito propio che portare solea alle cacce, inghirlandata delle frondi
di Pallade, l'apparve, e così le disse:
«O
sconsolata giovane, l'avermi ne' sacrificii, renduti agli altri iddii per lo
tuo scampo, dimenticata, giustamente verso di te mi fece turbare: per la quale
turbazione, essendone io stata cagione, hai sostenute gravose avversità. Ma ora
i tuoi prieghi hanno addolcita la mia ira, e divenuta sono verso di te pietosa:
per la qual cosa ti prometto che la dimandata grazia infino alla disiderata ora
ti sarà da me conceduta, né niuno sarà ardito di levarti ciò che tu nel cuore
hai proposto di guardare».
Ma
Venere, che tutta nel cospetto di Biancifiore di focosa luce sfavillava,
involte le nude carni in uno sottilissimo drappo porporino, e coronata
dell'amate frondi di Febo, così le disse:
«Giovane,
a me divota e fedelissima suggetta, lascia il lagrimare, e nelle presenti
avversità e nelle future con iguale animo ti conforta. Tu hai co' tuoi prieghi
mosse a pietà le nostre menti, e spera che tu sarai da Florio ricercata: e in
quella parte nella quale più ti parrà impossibile di doverlo potere avere o
vedere, tel troverai nelle tue braccia ignudo».
E
queste cose dette, sparvero, e Biancifiore si svegliò: e lungamente pensando
alle vedute cose, molto conforto riprese, e con lieto viso a Glorizia queste
cose tutte raccontò; di che insieme prendendo buona speranza di futura salute,
fecero maravigliosa festa.
[54]
Nettunno
tenea i suoi regni in pace e Eolo prosperosamente pingeva l'ausonica nave a'
disiati liti, sì che avanti che Febea, nel loro partimento cornuta, avesse i
suoi corni rifatti eguali, essi pervennero all'isola che preme l'orgogliosa
testa di Tifeo. E quivi, di rinfrescarsi bisognosi, là ove Anchise la lunga età
finì, presero porto, e, onorevolemente ricevuti in casa d'una nobilissima donna
chiamata Sisife, a' mercatanti di stretto parentado congiunta, più giorni quivi
si riposarono. Con la quale Sisife dimorando Biancifiore, e nella mente
tornandole alcuna volta Florio e la dolente vita, la quale egli dovea sentire
poi che saputo avesse la partita di lei, pietosamente piangea, e con tutto che
la sua speranza fosse buona e ferma, non cessava però di dubitare, né per
quella potea in alcun modo porre freno alle sue lagrime. La qual cosa Sisife
vedendo un giorno così le disse:
«Dimmi,
Biancifiore, se gl'iddii ogni tuo disio t'adempiano, qual è la cagione del tuo
pianto? Io ti priego, s'elli è licito ch'io la sappia, che tu non la mi celi,
però che grandissima pietà, che di te sento nel cuore, mi muove a questo voler
sapere: la qual cosa, se tu mi dirai, tale potrà essere che o conforto o utile
consiglio vi ti porgerò». A cui Biancifiore disse:
«Nobile
donna, niuna cosa vi celerei che domandata mi fosse da voi, solo ch'io la
sapessi: e però ciò che dimandato avete, volentieri la vostra volontà ne
sodisfarò, avvegna che invano consiglio o conforto mi porgerete. Io, dal mio
nascimento isfortunata, non saprei da qual capo incominciare a narrare i miei
infortunii, tanti sono e tali. Ma posto che sieno stati e sieno al presente
molti, solamente amore mi fa ora lagrimare, con ciò sia cosa che io, più che
alcuna giovane fosse mai, mi truovo nella sua potenza costretta per la bellezza
d'un valoroso giovane chiamato Florio, figliuolo dell'alto re di Spagna, il
quale è rimaso là onde io misera mi partii con questi signori della nave, i
quali me comperata schiava portano, e non so dove. E ben che l'essere io di
costoro mi sia grave, leggerissima riputerei questa e ogni altra maggiore
avversità, se meco fosse il signore dell'anima mia, o in parte che io solamente
alcuna volta il giorno vedere lo potessi. Ma non che alcuna di queste cose
m'abbia la fortuna voluto concedere, ma ella solamente non sofferse che io
vedere il potessi nella mia partita, o udire di lui alcuna cosa: anzi ingannata
e semiviva, e tutta delle mie lagrime bagnata, fui di Marmorina tratta, ove io
l'anima e ogni intendimento ho lasciata con colui di cui io sono tutta. E sanza
fine mi maraviglio come dopo la mia partenza, considerando allo intollerabile
dolore ch'io ho sostenuto, m'è tanto la vita durata: ma la morte perdona a'
miseri le più volte!».
E
qui lagrimando, bassò la testa e tacquesi. E Sisife così le cominciò a parlare:
«Bella
giovane, non ti sconfortare: sanza dubbio conosco il tuo infortunio essere
grande e il dolore non minore che quello; ma per tutto questo, posto ch'è
perduto il luogo ove meno dolore che qui sentivi, non dee però essere da te la
speranza fuggita. E, appresso, nella presente vita si conviene le impossibili
cose rifiutare, e l'avverse con forte animo sostenere. Niuno mai fu in tanta
miseria che possibile non gli fosse l'essere in brieve più che altro felice. I
movimenti della fortuna sono varii, e disusati i modi ne' quali ella i miseri
rileva a maggiori cose. Se a te pare impossibile di dover mai ritornare là ove
Florio di' che lasciasti, né mai speri di rivederlo, fa che tu ti sforzi
d'imaginare di mai non averlo veduto, e ogni pensiero di lui caccia da te. E
quando tu riposata sarai là ove costoro ti portano, tu ne vedrai molti de'
quali non potrà essere che alcuno non te ne piaccia, e niuno sarà a cui tu non
piaccia: colui che ti piacerà, colui sia il tuo Florio. Or conviensi che la tua
bellezza perisca per amore d'un giovane, il quale avere non si può oramai?».
Quando Biancifiore ebbe per lungo spazio ascoltato ciò che Sisife le parlava,
ella alzò la testa e disse:
«Oimè,
quanto male conoscete le leggi d'amore! Certo elle non sono così dissolubili
come voi nel parlare le mostrate. Chi è colui che possa sciogliersi e legarsi a
sua volontà in sì fatto atto? Certo chi è colui che 'l fa, e far lo può, non
ama, ma imponsi a se medesimo falso nome d'amante, però che chi bene ama, mai
non può obliare. E come per niuno altro potrò io dimenticare il mio Florio, il
quale di bellezza, di virtù e di gentilezza ciascuno altro giovane avanza? E
quando alcuna di queste cose in sé non avesse, sì n'è in lui una sola, per la
quale mai per alcuno altro cambiare nol dovrei: che esso ama me sopra tutte le
cose del mondo».
«Fermamente
conosco - disse Sisife - che tu ami e che le tue lagrime da giusta pietà
procedono; ma piacciati confortarti, ché impossibile mi pare che sì leale amore
gl'iddii rechino ad altro fine, che a quello che tu e esso disiderate».
[55]
Poi
che i mercatanti furono alcuni giorni riposati, e il tempo parve al loro
cammino salutevole, risaliti con Biancifiore sopra l'usato legno, a' venti
renderono le vele, e con tranquillo mare infino all'isola di Rodi se
n'andarono. Quivi il tempo mostrando di turbarsi, scesero in terra, e con
Bellisano, nobilissimo uomo del luogo, per più giorni dimorarono. E
Biancifiore, ricevuta dalle paesane non come serva, ma come nobilissima donna,
da tutte fu onorata, e, mentre quivi dimorarono, da tutte confortata fu,
dandole speranza di futuro bene. Ma ritornato la terza volta il tempo da'
padroni dimandato, in su la nave risalirono. E già la nuova luna cornuta di sé
gran parte mostrava, quando essi allegri pervennero a' dimandati porti, ove il
cammino e la fatica insieme finirono.
[56]
Quivi
pervenuti, dico che al vento tolsero le vele e dierono gli aguti ferri a'
tegnenti scogli, e con fido legame fermarono la loro nave. E di quella con
grandissima festa discesi, ringraziando i loro iddii, cercarono la città, e in
quella con la bella giovane entrati, da Dario alessandrino furono graziosamente
non sanza molto onore ricevuti, e massimamente Biancifiore. E in questo luogo
per alquanti giorni dimorati, vi venne un signore nobilissimo e grande, il
quale era amiraglio del possente re di Bambillonia, e per lui quel paese tutto
sotto pacifico stato possedea. Il quale, come la bella nave vide, fece a sé di
quella venire i padroni, e li dimandò qual fosse la loro mercantantia, e onde
venissero. A cui i mercatanti risposero:
«Signore,
noi lasciammo i liti quasi all'ultimo Occidente vicini, e quindi abbiamo, sanza
altra cosa più, recata una nobilissima giovane, in cui più di bellezza che mai
in alcuna si vedesse, si vede, la quale un grandissimo re, in quelle parti
signoreggiante, ci donò per una grandissima quantità de' nostri tesori che noi
a lui donammo».
Disse
allora l'amiraglio:
«Venga
adunque la giovane, la cui bellezza voi fate cotanta, e se bella è come la
vantate, e di nobili parenti discesa, e ancora casta virginità tiene, de'
nostri tesori quelli che vorrete prenderete e donereteci lei».
Piacque
a' mercatanti, e per lei incontanente mandarono, la quale, di nobilissimi
vestimenti vestita e ornata, insieme con Glorizia davanti all'amiraglio si
presentò. Il quale graziosamente, la ricevette, e non sì tosto la vide, come a
lui parve la più mirabile bellezza vedere che mai per alcuno veduta fosse, e
comandò che a' mercatanti fosse donato a loro piacere dei suoi tesori. E poi
ch'egli ebbe di lei da loro ogni condizione udita, pietoso de' suoi affanni
così disse:
«Io
giuro per i miei iddii che omai più la fortuna non le potrà essere avversa:
alle sue tribulazioni io con grandissima felicità mi voglio opporre, e voglio
provare se la fortuna la potrà fare più misera che io felice. E' non passerà
lungo tempo che il mio signore dee qui venire, al quale io intendo, in luogo di
riconoscenza di ciò ch'io tengo da lui, donare questa bellissima cosa, né
conosco che gioia più cara donare gli potessi. E sì prometto per l'anima del
mio padre che tra le sue moglieri io farò che questa sarà la principale, e sì
farò la sua testa ornare della corona di Semiramis; e infino a quel tempo che
questo sarà, tra molte altre giovani, le quali a simil fine si tengono, la farò
sì come donna di tutte onorare, e sotto diligente guardia servare, con tutti
quelli diletti e beni che niuna giovane dee potere disiderare».
E
questo detto, comandò che onorevolemente alla gran Torre dello Arabo insieme
con Glorizia fosse menata Biancifiore, e quivi con l'altre giovani donzelle
dimorasse faccendo festa. Di questo furono assai contenti i mercatanti, sì per
lo loro avere, il quale aveano forse nel doppio multiplicato, e sì per la
giovane a cui prosperevole stato vedeano promesso da signore che bene lo poteva
attenere. E a lei rivolti, con pietose parole la confortarono, e da essa
piangendo si partirono, e pensarono d'altro viaggio fare con la loro nave. E
quella, posta con l'altre pulcelle molte nella gran torre, non sanza molto
dolore, infino a quel tempo che agl'iddii piacque la 'mpromessa di Venere
fornire, dimorò.
[57]
Già
allo iniquo re di Spagna, partita Biancifiore, pareva avere il suo disio
fornito; ma ancora pensando che necessità gli era la sua malvagità con falso
colore coprire, imaginò di far credere che Biancifiore fosse morta, acciò che
Florio, sentendo quella morta essere, dopo alcuna lagrima la dimenticasse. E
preso questo consiglio, per molti maestri mandò segretamente, a' quali sanza
niuno indugio comandò che fosse fatta una bellissima sepoltura d'intagliati
marmi, allato a quella di Giulia. La quale compiuta, preso un corpo morto d'una
giovane quella notte sepellita, la mattina co' vestimenti di Biancifiore e con
molte lagrime la fece sepellire, dicendo che Biancifiore era: e questo con
tanto ingegno fece, che niuno era nella città che fermamente non credesse che
Biancifiore fosse morta, da coloro in fuori a cui di tale inganno il re fidato
s'era. E questo fatto, mandò a Montoro a Florio un messaggiere, il quale così
gli disse:
«Giovane,
il tuo padre ti manda che se a te piace di vedere Biancifiore avanti ch'ella di
questa vita passi, che tu sii incontanente a Marmorina, però che subitamente
una asprissima infirmità l'ha presa, per la qual cosa appena credo che ora viva
sia».
Non
udì sì tosto Florio questo, com'egli tutto si cambiò nel viso, e sanza
rispondere parola, ristretto tutto in sé, quivi semivivo cadde, e dimorò tanto
spazio di tempo in tale stato, che alcuno non era che morto nol riputasse. Il
vermiglio colore s'era fuggito del bel viso, e la vita appena in alcun polso si
ritrovava; ma poi che egli pure fu per alcuni in vita essere ancora conosciuto,
con preziosi unguenti e acque, dopo molto spazio, con molta sollecitudine
furono i suoi spiriti rivocati: e tornato in sé aperse gli occhi, e intorno a
sé vide il duca e Ascalion piangendo, i quali con pietose parole il
riconfortavano, e altri molti con loro. A' quali egli dopo un gran sospiro
disse:
«Oimè,
perché m'avete voi, credendo piacere, disservito? L'anima mia già contenta
andava per li non conosciuti secoli vagando sanza alcuna pena, ma voi a dolersi
ora l'avete richiamata. Oimè, ora sento che la lunga paura, che io ho avuta
della vita di Biancifiore, m'è nell'avvisato modo con pericoloso accidente
venuta adosso. Quale infermità potrebbe sì subita sopravenire a una fresca
giovane, che a morte in un momento la inducesse? Fermamente che a forza è da'
miei parenti stata la mia Biancifiore recata a questa morte, se morta è, o se
ora morrà».
E
levatosi, comandò che i cavalli venissero, e preso il cammino con molta
compagnia, cercando già il sole l'occaso, sempre piangendo se n'andò verso
Marmorina, così nel suo pianto dicendo:
[58]
«O
gloriosi iddii, della cui pietà l'universo è ripieno, porgete i santi orecchi
alquanto a' miei prieghi, e non mi sia da voi negata l'usata benignità tornando
crudeli; discenda de' cieli il vostro aiuto in questo espressissimo bisogno.
Venga la vostra grazia, d'ogni noioso accidente cacciatrice, sopra la innocente
Biancifiore, la quale ora per noiosa infermità pare che si disponga a rendervi
la graziosa anima. Sostengasi per vostra pietà la sua vita, e siale renduta la
perduta sanità, e la giovane età, nella quale essa dimora, prima di lei si
consumi. Non muoiano in una morte due amanti. O buono Apollo, o luminoso Febo
per cui ogni cosa ha vita, ascolta i miei prieghi! Non consentire che tanta
bellezza alla tua simigliante per mortal colpo al presente perisca. O Citerea,
o Diana, aiutate la vostra giovane. O qualunque iddio dimora nel celestiale
coro, sturbate la costei morte, acciò che io, a voi fedelissimo servidore,
viva. O Lachesis, tieni ferma l'ordita conocchia, composta da Cloto, tua fatale
sorella, non lasciare ancora il dilettevole uficio, dove sì corto affanno hai
infino a qui sostenuto. E tu, o morte, generale e infallibile fine di tutte le
cose, in cui la maggior parte della mia speranza dimora, quasi imaginando che
in te stia quella salute la quale io cerco, non mi consumare ferendo la mia
Biancifiore: dilungati da lei per li miei prieghi. In te sta il donarlami e il
torlami. Deh, non essere tuttavia crudele! Vincasi questa volta per prieghi la
tua fierezza, e pietosa ti volgi a riguardare con quanta umiltà i miei prieghi
ti sono porti, e riguarda quanta sia la noia che ricevo, se verso la bella
giovane incrudelisci. Oimè, che io nol posso dire, ma il mio aspetto tel dee
manifestare. Oimè, perdona, risparmiando un solo colpo, allo infinito valore
che dal mondo si partirebbe morendo questa. Perdona a tanta bellezza quanta
ella possiede: non si fugga per te tanta leggiadria quanta in costei si vede,
né si diparta per lo tuo operare il fedele amore che insieme lungamente ci ha
tenuti legati con pura fede, il quale a mano a mano se la ferissi, per lo tuo
medesimo colpo si ricongiugnerebbe. Ahimè, raffrena per Dio il tuo volere: leva
la pungente saetta che già in sul tuo arco mi pare vedere posta, per uccidere
colei in cui gl'iddii più di grazia che in alcuna altra posero. Sostieni che
nel mondo si vegga costei per mirabile essemplo delle celestiali bellezze. Se
alcuni prieghi ti deono fare pietosa, faccianti i miei, e questo sia sanza
alcuno indugio: io non temo niuna cosa se non te. Riguarda le mie lagrime e il
palido aspetto già dipinto della tua sembianza: sola questa grazia mi concedi, la
quale se dura t'è a concederlami, concedi che quella saetta che il tuo arco dee
nel dilicato petto di lei gittare, prima il mio trapassi, acciò che dopo il
trapassare della mia Biancifiore io non rimanga per doverti biasimare, e più la
tua crudeltà far manifesta nella poca vita che mi lascerai».
[59]
Mostravasi
già il cielo d'infiniti lumi acceso, quando così piangendo e parlando Florio
entrò in Marmorina: per la quale tacito e sanza niuna festa, maravigliandosi e
dubitando, passò infino che alle reali case pervenne. Nelle quali entrato con
la sua compagnia, e da cavallo smontati, e salendo su per le scale, la perfida
madre gli si fé incontro con dolente aspetto. A cui Florio, come la vide,
dimandò che di Biancifiore fosse, se migliorata era o come stava, ché egli
avanti venire non la si vedea. Alla cui domanda la madre niente rispose, ma
abbracciatolo, cominciò a lagrimare, e lui menò davanti al padre che nella gran
sala sedea, vestito di vestimenti significanti tristizia, tenendo crucciato
aspetto, con molta compagnia.
[60]
Levossi
lo iniquo re alla venuta del figliuolo, e fattoglisi incontro, lui teneramente
abbracciò e baciò, dicendo:
«Caro
figliuolo, assai mi sarebbe stato caro che ad altra festa la tua tornata fosse
stata, o almeno più sollicita, acciò che licito ti fosse stato di avere veduta
la vita in colei, la cui morte ora con pazienza ti conviene sostenere; e però
sì come savio, con forte animo ascolta le mie parole. E siati manifesto che la
bellissima Biancifiore è stata chiamata al glorioso regno, là ove le sante
opere sono guiderdonate. E in quello Giove e gli altri beati della sua andata
si rallegrano, i quali, invidiosi forse di tanto bene quanto noi per la sua
presenza sentivamo, l'hanno a loro fatta salire. E ben che ella lietamente viva
ne' nuovi secoli, a noi gravissima noia ne' cuori di tale partita è rimasa,
però che infinito amore le portavamo, sì per la virtù e per la piacevolezza di
lei, e sì per l'amore che sentivamo che tu le portavi. Ma però che nuova cosa
né inusitata è stata la sua partita, ma cosa la quale ogni giorno avvenire
veggiamo, e a noi similmente con forte animo aspettare la conviene sanza
speranza di poterla fuggire, ci conviene con pazienza tale accidente sostenere,
e prendere conforto: però che sapere dobbiamo che per greve doglia da noi
sostenuta non sarebbe a noi renduta la cara giovane. Adunque, caro figliuolo,
confortati, ché se gl'iddii ci hanno costei tolta, elli non ci hanno levato il
poterne una più bella cercare e averla. Noi te ne troveremo una la quale più
bella e di reale prosapia discesa sarà, e a te in luogo di Biancifiore per cara
sposa la congiungeremo. Certo ella nella sua vita, affannata da mortale
infermità e già presso al suo passare, ebbe tanta memoria di te, che, chiamati
me e la tua madre, con lagrime sopra le nostre anime puose che noi con ogni
sollecitudine ti dovessimo del suo trapassare rendere conforto, e pregarti che
per quello amore che tra te e lei era nella presente vita stato, che tu ti
dovessi confortare, e niente ti dolessi, però che ella si vedea grazioso luogo
apparecchiato ne' beati regni, ne' quali essendo, se le tue lagrime sentisse,
molto la sua beatitudine mancheresti. E questo detto, con pietoso viso, e col
tuo nome in bocca, rendé l'anima agl'immortali iddii: e però noi così te ne
preghiamo, e per parte di lei e per la nostra. Ella ha lasciati i mondani
affanni; non le volere porgere nuova pena, ché doppiamente offende chi contra
coloro opera, che dopo la loro morte sono beatificati. Confortati, e della sua
morte inanzi gioia che tristizia prendi, imaginando che ella in cielo, ove ora
dimora, di te e dell'amore, che mentre fu di qua ti portò, si ricorderà, per
merito del quale ragionando con gl'iddii delle tue virtù, li farà verso te
benivoli: la qual cosa sanza grandissimo bene di te non potrà essere».
[61]
Con
grandissima pena sostenne Florio le parole dello iniquo re, ma poi ch'egli si
tacque, Florio, gittata una grandissima voce, disse:
«Ahi,
malvagio re, di me non padre ma perfidissimo ucciditore, tu m'hai ingannato e
tradito!». E messesi le mani nel petto, dal capo al piè tutta si squarciò la
bella roba, e cadde in terra con le pugna serrate, e con gli occhi torti nel
viso sanza alcun colore rimaso, risomigliando più uomo morto che vivo. Ma dopo
picciolo spazio ritornato in sé, e alzata la testa di grembo alla madre,
incominciò a dire:
«O
iniquo re, perché l'hai uccisa? Che aveva la giovane commesso ch'ella meritasse
morte? Tu se' stato cagione della morte di lei, e ora credi con lusinghevoli
parole sanare la piaga che il tuo coltello m'ha fatta, la quale altro che morte
mai non sanerà. Ora se' contento, iniquo re! Omai hai quello che lungamente hai
disiderato: ma io ti farò tosto di tal festa tornare dolente!».
E
poi ricadde in grembo alla madre tramortito. E così piangendo e battendosi,
sanza volere udire alcun conforto da nullo che vi fosse, tutta la notte stette,
faccendo piangere chiunque il vedea, tanto era pietoso il suo parlare, che col
doloroso pianto mescolato faceva.
[62]
Era
la misera madre insieme con Florio piangendo, quando il nuovo giorno apparve, e
con alcune parole lui confortare non potea. A cui egli disse:
«Siami
mostrato il luogo ove la mia Biancifiore giace sanza anima».
A
cui la madre rispose:
«Come
vuoi tu andare in tale maniera a visitare la sepoltura di Biancifiore? Vuoi tu
far fare beffe di te? Rattempera il tuo dolore in prima, poi temperato quello,
v'andremo, ché certo niuna persona è che ora ti vedesse, che non credesse che
tu fossi del senno uscito: e io similemente sanza fine di te mi maraviglio, non
sappiendo onde questo si muova. Oimè misera, ora hai tu perduto ogni sentimento
a Montoro, che tu vuogli per una giovane di sì picciola condizione come fu Biancifiore,
consumarti e privarmi di te, così nobile figliuolo? Hai paura che un'altra
giovane non si truovi più bella di Biancifiore? Si farà! A' nostri regni non è
guari lontano il nobilissimo re di Granata, il quale si può gloriare della più
bella figliuola che mai niuno uomo del mondo avesse: ella sarà tua sposa, se tu
ti vuoi confortare».
A
cui Florio disse:
«Reina,
non volere porgere ora con lusinghevoli parole conforto colà dove con inganno
hai messa tristizia: folle è colui che per medico prende il nimico da cui
davanti è stato ferito a morte. Fammi mostrare dove giace colei cui uccisa
avete, e a cui l'anima mia si dee oggi accompagnare».
Piangendo
allora la reina, con lui, al quale niuno colore era nel viso rimaso, e i cui
occhi aveano per lo molto piangere intorno a sé un purpureo giro, e essi rossi
erano rientrati nella testa, e molti altri si mossero con loro, lui menando al
tempio. Al quale andando Florio, ovunque egli giungeva vedea genti piene di
dolore, e nuovo pianto facea cominciare, tanta era la pietà che 'l suo aspetto
porgeva a chi 'l vedeva. E dopo alquanto pervennero al tempio dove Giulia
sepulta stava, e dove le non vere scritte lettere significavano che quivi
Biancifiore morta giacesse.
[63]
Nel
qual tempio entrati, la reina mostrò a Florio la sepoltura nuova, e disse:
«Qui
giace la tua Biancifiore». La quale come Florio la vide, e le non vere lettere
ebbe lette, incontanente perduto ogni sentimento, quivi tra le braccia della
madre cadde, e in quelle semivivo per lungo spazio dimorò. Quivi corsa quasi
tutta la città, di doppio dolore compunti, faceano sì gran pianto e sì gran
romore, che se Giove allora gli spaventatori de' Giganti avesse mandati, non si
sariano uditi. Ciascuno era tutto stracciato e di lugubri veste vestito, e gli
uomini e le donne, e alcuni, ma quasi tutti, credeano Florio morto giacere
nelle braccia della reina: per la qual cosa il piangere Biancifiore aveano
lasciato, e tutti Florio miseramente piangeano. Ma poi che Florio fu per lungo
spazio così dimorato, il cuore rallargò le sue forze, e ritornate tutte per gli
smarriti membri, Florio si dirizzò in piè, e cominciò a piagnere
fortissimamente, e a gridare e a dire:
«Oimè,
anima trista, ove se' tu tornata? Tu ti cominciavi già a rallegrare, parendoti
essere da me disciolta e cercare nuovi regni. Oimè, perché hai tu tornato il
diletto che tu sentivi, parendoti che io fossi morto, in grieve noia,
rendendomi la vita? Ora di nuovo sento i dolori che la trista memoria aveva
messi in oblio, mentre che tu in forse fuori di me dimorasti».
E
appresso questo gittatosi sopra la nuova sepoltura, incominciò a dire:
«O
bellissima Biancifiore, ove se' tu? Quali parti cerca ora la tua bella anima?
Deh, tu solevi già con lo splendore del tuo bel viso tutto il nostro palagio di
dilettevole luce fare chiaro: come ora in picciolo luogo, tra freddi marmi, se'
costretta di patire noiosa oscurità! Misera la mia vita, che tanto sanza te
dura! O dilicati marmi, cui mi celate voi? Perché colei che più che altro
piacque agli occhi miei mi nascondete? Voi forse insieme col mio nimico padre,
invidiosi de' miei beni, mi celate quello che io più mi dilettai di vedere,
servando la natura d'Agliauro, con voi insieme d'una qualità tornata. Ma se
gl'iddii ancora vi concedano d'esser lieti ornamenti de' loro altari, apritevi,
e concedete che io vegga quel viso che già assai fiate, vedendolo, mi consolò;
il quale io vedutolo, possa contento prendere spontanea morte. Sostenete che
gli occhi miei nel picciolo termine della vita loro serbata abbiano questa sola
consolazione, poi che licito non fu loro, anzi ch'ella mutasse vita, rivederla.
O inanimato corpo, come non t'è egli possibile una sola volta richiamare la
partita anima, e levarti a rivedermi? Io l'ho dalla passata sera in qua
richiamata in me tante volte: richiamala tu una sola, e solamente la tieni
tanto che tu mi possi morendo vedere seguirti. Oimè, Biancifiore, quale
doloroso caso mi t'ha tolta? Deh, rispondimi, non ti odi tu nominare al tuo
Florio? Deh, qual nuova durezza è ora in te, che 'l mìo nome che ti solea
cotanto piacere non è da te ascoltato, né alle mie voci risposto? Come ha
potuto la morte tanto adoperare che il vero e lungo amore tra noi stato si sia
in poco di tempo partito? Oimè, giorno maledetto sii tu! Tu perderai insieme
due amanti. O Biancifiore, io, misero, fui della tua morte cagione! Io, o
misera Biancifiore, t'ho uccisa per la mia non dovuta partenza! Per ubidire al
mio nemico ho io perduta te, dolcissima amica! Oimè, che troppo amore t'è stato
cagione di morte! Io ti lasciai paurosa pecora intra li rapaci lupi. Ma, certo,
amore mi conducerà a simigliante effetto, e come io ti sono stato cagione di
morte, così mi credo ti sarò compagno. Io solo ti potea dare salute, la quale
omai da te avere non posso. Gl'iddii e la fortuna e 'l mio padre e la morte
hanno avuta invidia a' nostri amori. Io, o morte perfidissima, s'io credessi
che mi giovasse, il tuo aiuto dimanderei con benigna voce. Certo tu se' stata
in parte che essere dovresti pietosa e ascoltare i miseri; ma però che i miseri
e quelli che più ti chiamano sono più da te rifiutati, io con aspra mano ti
costrignerò di farti venire a me».
E
posta la destra mano sopra l'aguto coltello, incominciò a dire:
«O
Biancifiore, leva su, guatami: apri gli occhi avanti ch'io muoia, e prendi di
me quella consolazione che io di te avere non potei. Io ti farò fida compagnia.
Io per seguirti userò l'uficio della dolente Tisbe, avvegna che ella più
felicemente l'usasse ch'io non farò, in quanto ella fu dal suo amante veduta.
Ma io non farò così. Io vengo: riceva la tua anima la mia graziosamente, e
quello amore che tra noi nel mortale mondo è stato, sia nell'etterno».
Questo
detto, si levò di sopra la sepoltura, la quale delle sue lagrime tutta era
bagnata, e tratto fuori l'aguto ferro, dicendo:
«Il
misero titolo della tua sepoltura, o Biancifiore, sarà accompagnato di quello
del tuo Florio», si volle ferire con esso nello angoscioso petto. Ma la dolente
madre con fortissimo grido, preso il giovane braccio, disse:
«Non
fare Florio, non fare, tempera la tua ira, né non voler morire per colei che
ancora vive».
Il
romore si levò grandissimo nel tempio, e 'l pianto e le grida non lasciavano
udire niuna cosa. Ma poi che Florio da molti fu preso, e trattogli della
crudele mano l'aguto coltello, egli piangendo disse:
«Perché
non mi lasciate morire, poi che la cagione m'avete porta? Questa morte potrà indugiarsi
alquanto ma non fallire. Consentite innanzi ch'io muoia ora, ch'io viva con più
dolore infino a quel termine che, sanza essere tenuto, mi fia licito
d'uccidermi».
«O
caro figliuolo, perché il tuo padre e me e tutto il nostro regno tanto vuoi far
miseri? Confortati, che la tua Biancifiore vive».
A
cui Florio rivolto disse:
«Le
vostre parole non mi inganneranno più; con niuna falsità più potrete la mia
vita prolungare».
«Certo
- disse la reina - ciò che della sua morte abbiamo parlato, sanza dubbio è
stato falsamente detto: ma al presente noi non ti mentiamo».
«E
come poss'io credere - disse Florio - che voi ora diciate il vero, se per
adietro siete usati di mentire?».
Disse
la reina:
«Di
ciò veramente ci puoi al presente credere; e se ciò forse credere non volessi,
i tuoi occhi te ne possono rendere testimonianza, che questa che qui giace è
un'altra giovane, e non Biancifiore».
«E
come può questo - essere disse Florio - che tutta Marmorina piange la morte
sua, e ciascheduno rende testimonio d'averla veduta mettere in questo luogo?».
«Di
ciò non mi maraviglio io - disse la reina - che certo quelli che qui la misero
credono che ella sia. Ma noi per darti questo a credere, acciò che tu la
dimenticassi, demmo la voce che morta era Biancifiore, e una giovane morta in
quell'ora che tal voce demmo, tratta della sua sepoltura occultamente, ornata
de' vestimenti di Biancifiore, qui a sepellire la mandammo: e che questa sia
un'altra, com'io ti dico, tu il puoi vedere».
E
fatta aprire la sepoltura, a tutti si manifestò che questa non era Biancifiore,
ma un'altra giovane. «Adunque - disse Florio - Biancifiore dove è?».
«Ella
non è qui al presente - disse la reina; - ov'ella sia, andianne al nostro
palagio: io tel dirò».
«Certo,
io dubito ancora de' vostri inganni - disse Florio; - voi avete in alcuno altro
luogo sotterrata la giovane, e ora col darmi ad intendere che viva sia, e che
in altra parte mandata l'avete, volete la mia vita prolungare: ma ciò niente è
a pensare».
«Fermamente
- disse la reina - Biancifiore è viva. Partiamci di qui, che tutto ti dirà nel
nostro palagio come la cosa è andata sanza parola mentirti».
[64]
Allora
si levò in piè Florio con la reina e altra compagnia assai, e tornarono nel
loro palagio, dove il re doloroso a morte di queste cose, le quali tutte avea
sapute, trovarono. E quivi pervenuti, e trattisi tacitamente in una camera, la
reina così cominciò a dire a Florio:
«Noi,
il tuo padre e io, sentendo che in niuna maniera Biancifiore di cuore ti potea
uscire, ben che lontano le dimorassi, proponemmo di pur volere che ella di
mente t'uscisse, e fra noi dicemmo: "Già mai questa giovane del cuore non
uscirà a Florio mentre viverà, ma se ella morisse, a forza dimenticare gliele
converrà, vedendo che impossibile sia ad averla". E quasi deliberammo
d'ucciderla: poi per non volere essere nocenti sopra il giusto sangue di lei,
mutammo consiglio, e a ricchissimi mercatanti, venuti ne' nostri mari per
fortuna, fattigli qua venire, infinito tesoro la vendemmo loro, e essi ci promisero
di portarla in parte sì di qui lontana, che mai alcuna novella per noi se ne
sentirebbe. E come essi l'ebbero portata via, noi comandammo che la nuova
sepoltura fosse fatta, nella quale dando voce che Biancifiore era morta, con
occulto ingegno quella giovane che dentro vi vedesti vi facemmo mettere,
credendo fermamente che dopo alquante lagrime il tuo dolore insieme con lei
dimenticassi. E però a te, come a savio, sanza fare queste pazzie, le quali hai
da questa sera in qua fatte, ti conviene confortare, e fare ragione che mai
veduta non l'avessi, e lasciarla andare. Noi ti doneremo la più bella giovane
del mondo e la più gentile per compagna: quella t'imagina che sia la tua
Biancifiore».
[65]
Quando
Florio ebbe queste cose dalla madre udite, teneramente cominciò a piagnere, e
così alla madre disse:
«O
dispietata madre, ove è fuggito quello amore che a me, tuo unico figliuolo,
portar solevi? Quali tigre, quali leoni, quale altro animale inrazionale ebbe
mai tanta di crudeltà, che più benigno verso li suoi nati non fosse che tu non
se' verso di me? Come, poi che tu conoscevi l'amore che io portava a
Biancifiore, potesti mai tu consentire o pensare che sì vile cosa di lei si
facesse come fu venderla? Deh, ora ella t'era come figliuola, e tu come figliuola
la solevi trattare quando io c'era: or che ti fece ella che tu sì subitamente
incrudelire verso di lei dovessi? L'altre madri sogliono francare le serve
amate da' figliuoli, ma tu la libera hai fatta serva perché io l'amo. Oimè, che
il tuo cuore con quello del mio padre è tornato di ferro! Di voi ogni pietà è
fuggita. In voi niuna umanità si trova. A voi che facea se io amava
Biancifiore, o se ella amava me? Perché ne dovevate voi entrare in tanta
sollecitudine? Io credo che in te è entrato lo spirito di Progne o di Medea. Ma
la fortuna mi farà ancora vedere che il crudele vecchio e tu, vinti da focosa
ira di voi medesimi, con dolente laccio caricherete le triste travi del nostro
palagio, con peggiore agurio che Aragne non fece quelle del suo. E io ne farò
mio potere, rallegrandomi se la fortuna mi concede di vederlo e dirò allora che
mai gl'iddii niuna ingiusta cosa lasciano sanza vendetta trapassare. Voi prima
con ardente fuoco la morte della innocente giovane cercaste, la quale io con
l'aiuto degli iddii col mio braccio campai, punendo degnamente colui che di
tale torto, in servigio di mio padre, si facca difenditore: così avessi io con
la mia spada voi due puniti, quando in questo palagio lei paurosa vi rendei! Ma
certo, se allora ella fosse morta, io con lei moria. Ora l'avete venduta e
mandata in lontane parti, acciò che io pellegrinando vada per lo mondo. Ma
volessero i fati che ella fosse ora qui, che io giuro, per quelli iddii che mi
sostengono, che io più miseramente di qui partire vi farei che Saturno, da
Giove cacciato, non si partì di Creti! E allo ra provereste qual fosse l'andare
tapini per lo mondo, come a me converrà provare, infino a tanto ch'io ritruovi
colei la quale con tanti ingegni vi siete di tormi ingegnati. E certo se non
fosse che io non ho il cuore di pietra, come voi avete, io non vi lascerei di
dietro a me con la vita; ma non voglio che di tale infamia, pellegrinando, la
coscienza mi rimorda. Voi avete disiderata la mia morte, della quale poi che
gl'iddii non ve n'hanno voluti fare lieti, né io altressì ve ne credo
rallegrare, ma inanzi voglio lontano a voi vivere che presenzialmente della
morte rallegrarvi».
[66]
Faceva
la reina grandissimo pianto, mentre Florio diceva queste parole, dicendo:
«Oimè,
caro figliuolo, che parole son queste che tu di'? Cessino gi'iddii che tu possi
vedere di noi ciò che tu di' che ne disideri di vedere, avvegna che niuna
maraviglia sia del tuo parlare, imperciò che, sì come adirato, parli sanza
consiglio. Niuna creatura t'amò mai, o potrebbeti amare, quanto tuo padre e io
t'abbiamo amato e amiamo: e ciò che noi abbiamo fatto, solamente perché la tua
vita più gloriosa si consumi, che oramai non farà, l'abbiamo adoperato. Perché
dunque ci chiami crudeli e disideri la nostra morte? Maladetta sia l'ora che il
tuo padre assalì gl'innocenti pellegrini. Ora avesse egli almeno tra tanta
gente uccisa colei che nel suo ventre la nostra distruzione in casa ci recò!
Oh, ella niuna cosa disiderava tanto quanto la morte, e intra mille lance
stette, e niuna l'offese. I suoi iddii, più giusti che i nostri, non vollero
che tale ingiuria rimanesse impunita. Ora mi veggo venire adosso quello che
detto mi venne ignorantemente, quando la maladetta giovane per noi nacque, la
quale recandolami in braccio, dissi lei dovere essere sempre compagna e parente
di te. Ora il veggo venire ad essecuzione».
[67]
Il
re in un'altra camera dimorava dolente, in sé tutti i casi ripetendo dall'ora
che il misero Lelio avea ucciso infino a questa ora, maladicendo sé e la sua
fortuna; e ricordandosi di ciò che di Marmorina gli era stato contato, e del
morto cavaliere nel suo cospetto, le cui parole ritrovò mendaci, si pensò tutto
questo essere piacere degl'iddii, al volere de' quali niuno è possente a
resistere. E però in sé propose di volere per inanzi con più fero mezza d'animo
lasciare a' fati muovere queste cose, che per adietro non avea fatto. Ma
Florio, cambiato viso e mostrandolo meno dolente, lasciò la madre piangendo
nella camera, e, rivestito d'altre robe, venne nella gran sala, là ove egli
molti di tale accidente trovò che parlavano. Egli si fece quivi chiamare il
vecchio Ascalion e Parmenione e Menedon e Messaallino, a' quali elli disse
così:
«Cari
amici e compagni, quanta forza sia quella d'amore a niuno di voi credo occulta
sia, però che ciascuno, sì com'io penso, le sue forze ha provate. E là dove
questo non fosse, manifestare vi si puote, se mai di Elena, o della dolente
Dido, o dello sventurato Leandro e d'altri molti avete udito parlare: i quali
chi l'etterno onore con vituperevole infamia non curava d'occupare, chi di
perdere la propia vita si metteva in avventura per ervenire a' disiati effetti,
e chi una cosa e chi un'altra facea per venire al disiato fine. E ultimamente,
ove a tutti i detti essempli di sopra mancasse per lungo trapassamento di tempo
degna fede, in me misero si puote la sua inestimabile potenza conoscere, il
quale dagli anni della mia puerizia in qua ho tanto amato e amo Biancifiore,
che ogni essemplo ci sarebbe scarso. E certo in alcuno amore i fati non furono
mai tanto traversi quanto nel mio sono stati, però che sanza alcuno diletto
infinite avversità me ne sono seguite, e ora in quelle più che mai sono. E che
l'amore di Biancifiore abbia sopra me grandissima forza e muovami a grandi
cose, potrete appresso per le mie parole comprendere. Come io v'ho detto, dalla
mia puerizia fu Biancifiore amata da me: del quale amore non prima il mio padre
s'avvide, che sotto scusa di mandarmi a studiare, mandandomi a Montoro, da lei
mi dilungò, pensando che per lontanarmi ella si partisse del cuore, dove con
catena da non potere mai sciogliere la legò amore in quell'ora ch'ella prima mi
piacque. E questo non bastandogli, acciò che più intero il suo iniquo volere
fornisse, lei a morte falsamente fece condannare: ma gl'iddii che le mal fatte
cose non sostengono, prestandomi il loro aiuto, fecero sì che io di tal
pericolo la liberai. Della qual cosa il mio padre dolente, dopo lungo indugio
vedete quello che egli ha fatto: che egli lei, sì come vilissima serva, ha a'
mercatanti venduta, e mandatala non so in che parti. E perché questo non
pervenisse a' miei orecchi, falsamente mostrò che Biancifiore di subita
infermità morta fosse, un'altra giovane morta in forma di lei sotterrando:
della qual cosa io sono sanza fine turbato. E certo, se licito fosse di
mostrare la mia ira contro al mio padre e alla mia madre, io non credo che mai
di tale accidente tale vendetta fosse presa quale io prenderei! Ma non m'è
licito, e dubito che gl'iddii ver me non se ne crucciassero. Ora è mio intendimento
di già mai non riposare, infino a tanto che colei cui io più che altra cosa
amo, ritrovata avrò. Ciascun clima sarà da me cercato, e niuna nazione rimarrà
sotto le stelle la quale io non cerchi. Io sono certo che in quale che parte
ella sia, se non vi perverremo, la fama della sua gran bellezza cel
manifesterà, né ci si potrà occultare. Quivi, o per amore o per ingegno o per
denari o per forza intendo di rivoleria. E perciò ho io fatti chiamare voi, sì
come a me più cari, per caramente pregarvi che della vostra compagnia mi
sovegnate, e meco insieme volontario essilio prendiate: e massimamente te, o
Ascalion, le cui tempie già per molti anni bianchissime, più riposo che affanno
domandano, acciò che sì come padre e duca e maestro ci sii, però che tutti
siamo giovani, e niuno mai fuori de' nostri paesi uscì, e il cercare i non
conosciuti luoghi sanza guida ci saria duro. Né ti spiaccia la nostra giovane
compagnia, però che come figliuolo i tuoi passi divotamente seguirò. E in
verità questo, di che io e te e gli altri priego, il mio partire di qui, credo
che degl'iddii sia piacere, acciò che i miei giovani anni non si perdano in
accidiose dimoranze: con ciò sia cosa che noi non ci nascessimo per vivere come
bruti, ma per seguire virtù, la quale ha potenza di fare con volante fama le
memorie degli uomini etterne, così come le nostre anime sono. Adunque voi
ancora come me giovani, non vi sia grave, ma al mio priego vi piegate, e
qualunque di voi in ciò come fedele amico mi vuole servire liberamente di sì risponda,
sanza volermi mostrare che la mia impresa sia meno che ben fatta: ché quello
ch'io fo, io il conosco, e invano ci balestrerebbe parole chi s'ingegnasse di
farmene rimanere».
[68]
Tacque
Florio, e Ascalion così gli rispose:
«O
caro a me più che figliuolo, tu mostri nel fine delle tue parole di me avere
poca fidanza, e simile nel pregare che fai; di che io mi maraviglio. Certo non
che a' tuoi prieghi ma a' tuoi comandamenti, se la mia vecchiezza fosse tanta
che il bastone per terzo piede mi bisognasse, mai dalla tua signorevole
compagnia né da' tuoi piaceri mi partirei infino alla morte. Ben conosco come
amore stringe: e però muovati qual cagione vuole, che me per duca e per
vassallo mi t'offero a seguirti infino alle dorate arene dello indiano Ganges e
infino alle ruvide acque di Tanai, e per li bianchi regni del possente Borrea,
e nelle velenose regioni di Libia, e, se necessario fia, ancora nell'altro
emisperio verrò con teco. Le quali parti tutte cercate, dietro a te negli
oscuri regni di Dite discenderò, e se via ci sarà ad andare alle case de'
celestiali iddii, insieme con teco le cercherò, né mai da me sarai lasciato
mentre lo spirito starà con meco».
Così
appresso ciascuno degli altri giovani rispose, e si profersero lieti sempre al
suo servigio, dicendo di mai da lui non partirsi per alcuno accidente, e che
più piaceva loro per l'universo con lui affannare, che nel suo regno, sanza
lui, in riposo vivere. Allora li ringraziò Florio tutti, e pregolli che sanza
indugio ciascuno s'apprestasse di ciò che a fare avesse, ch'egli intendea con
loro insieme di partirsi al nuovo giorno vegnente appresso quello.
[69]
E
queste cose dette, se n'andò davanti al re, che dolente dimorava pensoso, e
così gli disse:
«Poi
che voi avete avuti gl'infiniti tesori, presi dalla venduta Biancifiore, più
cari che la mia vita o che la mia presenza, assai mi spiace, però che da voi
partire mi conviene, e andare pellegrinando infino a tanto che io truovi colei
cui voi con inganno m'avete levata, né mai nella vostra presenza spero di
ritornare se lei non ritruovo, la quale ritrovata, forse a voi con essa
ritornerò: priegovi che vi piaccia ch'io vada con la vostra volontà».
Udendo
il re queste cose, il suo dolore radoppiò, e non potendo le lagrime ritenere,
alzò il viso verso il cielo, dicendo:
«O
iddii, levimi per la vostra pietà la morte da tante tribulazioni! Non si
distendano più i giorni miei: troppo son vivuto! Chi avrebbe creduto ch'io
fossi venuto nell'ultima età ad affannare?».
Poi
rivolto a Florio così gli disse:
«O
caro figliuolo, che mi domandi tu? Tu sai che io non ho, né mai ebbi altro
figliuolo che te, e in te ogni mia speranza è fermata. Tu dei il mio grande
regno possedere, e la tua testa si dee coronare della mia corona. Tu vedi che
la mia vita è poca oramai, e i miei vecchi membri ciascuno cerca di riposarsi
sopra la madre terra: la quale vita se forse troppo ti pare che duri, prendi al
presente la corona. Oimè, or che cerchi tu, poi che a tanto onore se' apparecchiato?
Dove ne vuo' tu ire? Che vuo' tu cercare? E chi sarà colui, mentre che tu vivi,
che nell'ultimo mio dì degnamente mi chiuda gli occhi? Oimè, caro figliuolo,
dalla natività del quale in qua io ho sempre per te tribulazioni intollerabili
sostenute, concedi questa sola grazia a me vecchio. Fammi questa sola
consolazione, che io sopra la mia morte ti possa vedere. Statti meco quelli
pochi giorni che rimasi mi sono della presente vita. A te non si conviene
d'andare cercando quello che cercare vuoi: e se pur cercare vuoi colei, falla
cercare ad altri, o indugiati dopo la mia morte a ricercarla, però che male
sarebbe se io in quel termine che tu fuori del reame stessi, passassi ad altra
vita, e convenisse che tu fossi cercato».
[70]
Florio
allora così rispose:
«Padre,
impossibile è che io rimanga, e veramente io non rimarrò: io in persona sarà
colui che la cercherò; se voi mi concedete ch'io vada, io andrò, e se voi noi
mi concedete, ancora andrò. Dunque piacciavi ch'io vada con la vostra licenza,
acciò che io, della vostra grazia avendo buona speranza, se mai avviene che io
colei cui io vo cercando ritruovi, io possa con più sollecitudine e con
maggiore sicurtà tornare a voi. Né crediate che niuna grande impromessa che mi
facciate qui ritenere mi potesse, ché certo tutti i reami del mondo alla mia
volontà sommessi mi sarebbero nulla sanza Biancifiore. Se forse la mia partita
quanto dite vi grava, ciò, inanzi che voi la vendeste, dovavate pensare, acciò
che, vendendola, cagione non mi donaste di pellegrinare: però che conoscere
potevate me tanto amarla, che ove che voi la mandaste, io la seguirei. Gli
avvenimenti di dietro poco vagliono o niente».
[71]
Vedendo
il re Florio disposto pure ad andare, né potendolo con parole rivolgere da tale
intendimento, così gli disse:
«Caro
figliuolo, assai mi duole il non poterti da questa andata levare, e però ella
ti sarà conceduta, e con la mia grazia andrai; ma concedi a me e alla tua
madre, co' quali tu già è cotanto tempo non se' stato, che alquanti giorni
della tua dimoranza ci possiamo consolare, e poi con l'aiuto degl'iddii prendi
il cammino».
A
cui Florio rispose a ciò non essere disposto, però che troppo gli parea aver
perduto tempo, e però sanza indugio avea proposto di partirsi. A cui il re
disse:
«Figliuolo,
adunque oramai a te stia il partire; fermato ho nell'animo d'abandonarti a'
fati e di sostenere questo accidente, e ogni altro che di te per inanzi
m'avvenisse, con forte animo, però che quanto io per adietro a quelli ho voluto
con diversi modi resistere, tanto mi sono trovato più adietro del mio
intendimento, e vedute ho le cose pur di male in peggio seguire. Ma poi che
disposto se' all'andare, fa prendere tutti i tesori che della tua Biancifiore
ricevemmo, e degli altri nostri assai, e quelli porta con teco, e in ogni parte
ove la fortuna ti conduce fa che cortesemente e con virtù la tua magnificenza
dimostri: e appresso prendi de' cavalieri della nostra corte quelli che a te
piacciono, sì che bene sii accompagnato. E poi che rimanere non vuoi, va in
quell'ora che li nostri iddii in bene prosperino i passi tuoi, a' quali acciò
che più brieve affanno s'apparecchi, primieramente cercherai le calde regioni
d'Alessandria, però che a quelli liti i mercatanti che Biancifiore ne
portarono, quivi mi dissero di dovere andare. La quale se mai avviene che tu
ritruovi e che il tuo disio di lei s'adempia, o caro figliuolo, sanza rimanere
in alcuna parte ti priego che tosto a me ritorni, però che mai lieto non sarò
se te non riveggo. E se prima che tu torni si dividerà l'anima mia dal vecchio
corpo, dolente se n'andrà agl'infernali fiumi: la qual cosa gl'iddii priego che
nol consentano».
[72]
Fece
allora Florio prendere i molti tesori e fare l'apprestamento grande per montare
sopra una nave, posta nel corrente Adice, vicino alle sue case. Le quali cose
vedendo la reina uscì della sua camera, e bagnata tutta di lagrime venne a
Florio nella sala dove con li compagni dimorava, e disse:
«O
caro figliuolo, che è quello ch'io veggo? Hai tu proposto d'abandonarci così
tosto? Ove ne vuoi tu ire? Che vuoi tu andare cercando? Oimè, come così
subitamente ti parti tu da me? Non pensi tu quanto tempo egli è passato che io
non ti vidi, se non ora? E ora con tanta tristizia t'ho veduto, che se veduto
non t'avessi, mi sarebbe più caro! Deh, per amor di me, non ti partire al
presente. Non vedi tu le stelle Pliade, le quali pur ora cominciano a
signoreggiare? Aspetta il dolce tempo nel quale Aldebaran col gran pianeto
insieme surge sopra l'orizonte: allora Zeffiro levandosi fresco aiuterà il tuo
cammino, e il mare, lasciato il suo orgoglio, pacifico si lascerà navicare.
Deh, non vedi tu tempo ch'egli è? Tu puoi vedere ad ora ad ora il cielo
chiudersi con oscuro nuvolato, e, levandoci la vi sta de' luminosi raggi di
Febo, di mezzo giorno ne minaccia notte: e poi di quelli puoi udire solversi
terribilissimi tuoni e spaventevoli corruscazioni e infinite acque. E tu ora
vuoi i non conosciuti regni cercare, ne' quali se tu fossi, non saria tempo di
partirtene per tornare qui? Deh, or non ti muove a rimanere la pietà del tuo
vecchio padre, il quale vedi che del dolore che sente di questa partita si
consuma tutto? Non ti muove la pietà di me, tua misera madre, la quale ho de'
miei occhi per te fatte due fontane d'amare lagrime? Oimè, caro figliuolo,
rimani. Ove vuoi tu ire? Tu vuoi cercare quello che tu non hai, per lasciare
quello che tu possiedi, né forse avrai già mai! Tu vuoi cercare Biancifiore, la
quale non sai ove si sia: e se pure avvenisse che tu la trovassi, chi credi tu
che sia colui che a te forestiero e strano la rendesse? Non credi tu che le
belle cose piacciano altrui come a te? Chiunque l'avrà, la terrà forse non meno
cara che faresti tu. Lasciala andare, e diventa pietoso a stanza de' miei
prieghi. E se tu non vuoi di noi aver pietà, increscati di te medesimo e de'
tuoi compagni, e non vogliate in questo tempo abandonarvi alle marine onde, le
quali niuna fede servano, avvegna che esse con li loro bianchi rompimenti
mostrano le tempeste ch'elle nascondono; e i venti similemente sanza niuno
ordine trascorrono, ora l'uno ora l'altro, e fanno strani e pericolosi
ravolgimenti di loro in mare, e sogliono in questi tempi con tanta furia
assalire i legni opposti alle loro vie, che essi rapiscono loro le vele e gli
alberi con dannoso rompimento, e talora loro o li percuotono a' duri scogli, o
li tuffano sotto le pericolose onde. Temperati e rimanti di questa andata al
presente: la qual cosa se tu non farai, più tosto delle dure pietre e delle
selvatiche querce sarai da dire figliuolo, che di noi. E se a te e a' tuoi
compagni, i quali paurosi ti seguitano conoscendo questi pericoli, farai questo
servigio di rimanere, io m'auserò a sostenere la futura noia, pensando
continuamente che da me ti debbi partire, né mi sarà poi la tua andata sì
noiosa come al presente sarà, se subitamente m'abandoni. A cui Florio rispose:
«Cara
madre, per niente prieghi, e dell'audacia che hai di pregarmi mi maraviglio.
Fermamente, se io già col capo in quelli pericoli che tu m'annunzi mi vedessi,
io più tosto consentirei d'andare giuso e di morire in quelli, che di tornare
suso per dovere con voi rimanere, però che sì fattamente avete l'anima mia
offesa, che mai perdonato da me non vi sarà, infino a tanto che colei cui tolta
m'avete, io non riavrò. E però voi rimarrete, e io co' miei compagni, come la
rosseggiante aurora mostrerà domattina le sue vermiglie guance, ci partiremo
sopra la nostra nave, la quale forse ancora qui carica tornerà del mio disio».
[73]
Piangendo
allora la reina, che pur Florio fermo a tale andata vedea, così disse:
«Figliuolo,
poi che né priego né pietà ti può ritenere, prendi questo anello, e teco il
porta, e ognora che 'l vedi della tua misera madre ti ricordi. Egli fu dello
antichissimo Giarba re de' Getuli, mio antico avolo: e acciò che tu più caro il
tenghi, siati manifesto ch'egli ha in sé mirabili virtù. Egli ha potenza di
fare grazioso a tutte genti colui che seco il porta, e le cocenti fiamme di
Vulcano fuggono e non cuocono nella sua presenza, né è ricevuto negli ondosi
regni di Nettunno chi seco il porta. Il mio padre, pacificato col tuo, quando a
lui per isposa mi congiunse, il mi donò acciò che graziosa fossi nel suo
cospetto. Egli ti potrà forse assai valere se 'l guardi bene. Priegoti che, se
vai, il tornare sia tosto: e priego quelli iddii, i quali, vinti da' molti
prieghi, graziosamente ti ci donarono, che essi ti guardino e conservino
sempre, e a noi tosto con alle grezza ti rendino».
Prese
Florio l'anello, e quello per caro dono ritenne; e lei lasciata, a' suoi
compagni si ritornò.
[74]
Sentì
Ferramonte, duca di Montoro, di presente lo 'nganno fatto a Florio, e la
partenza che fare dovea de' suoi regni; onde egli chiamato Fineo, valoroso
giovane e suo nipote, la signoria di Montoro infino alla sua tornata gli
assegnò, e sanza niuno dimoro a Marmorina se ne venne a Florio. Il quale, lui
e' compagni trovati, narrata la cagione della sua venuta, pregò Florio che in
compagnia gli piacesse di riceverlo in tale affare. Il quale Florio ringraziò
assai, e lui per compagno benignamente ricolse, pregandolo ch'egli
s'apprestasse per venire il seguente giorno.
[75]
Acconci
i molti arnesi e' gran tesori nella bella nave, e Florio e' suoi compagni e'
servidori tutti di violate veste vestiti, e i corredi della ricca nave e i
marinari similemente, la notte sopravenne. E i sei compagni per riposarsi in
una camera insieme se n'andarono, nella quale del loro futuro cammino entrati
in diversi ragionamenti, Florio così comincio a parlare:
«Cari
amici, quanto la potenza del mio padre sia grande è a tutto il mondo manifesto,
e similemente che io gli sia figliuolo, e il grande amore che io ho portato e
porto a Biancifiore è da molti saputo: per la qual cosa nuovo dubbio m'è
nell'animo nuovamente nato. Noi non sappiamo certamente in che parte
Biancifiore sia stata portata, né alle cui mani ella sia venuta, onde io dico
così: s'egli avvenisse che noi forse portati dalla fortuna pervenissimo là ove
Biancifiore fosse, tale persona la potrebbe avere, che sentendo il mio nome, di
noi dubiterebbe e lei occultamente terrebbe infino che nel luogo dimorassimo, e
massimamente i mercatanti, che di qui la portarono. E se forse lei possente
persona tenesse, sentendomi nel suo paese, ragionevolemente m'avrebbe sospetto,
e di quello o mi caccerebbe, o in quello forse occultamente m'offenderebbe, o
lei guardando da' nostri agguati, con maggiore guardia servirebbe: per la quale
cosa, acciò che 'l mio nome non possa porgere ad alcuni temenza, o insidie a
noi, mi pare che piu non si deggia ricordare, ma che in altra maniera mi
deggiate chiamare; e il nome il quale io ho a me eletto è questo: Filocolo. E
certo tal nome assai meglio che alcuno altro mi si confà, e la ragione per che,
io la vi dirò. Filocolo è da due greci nomi composto, da "philos"
e da "colon"; e "philos" in greco tanto viene
a dire in nostra lingua quanto "amore" e "colon" in
greco similemente tanto in nostra lingua risulta quanto "fatica":
onde congiunti insieme, si può dire, trasponendo le parti, fatica d'amore. E in
cui più fatiche d'amore sieno state o sieno al presente non so: voi l'avete
potuto e potete conoscere quante e quali esse siano state. Sì che, chiamandomi
questo nome, l'effetto suo s'adempierà bene nella cosa chiamata, e la fama del
mio nome così s'occulterà, né alcuno per quello spaventeremo: e se necessario
forse in alcuna parte ci fia, il nominare dirittamente non ci è però tolto».
Piacque
a tutti l'avviso di Florio e il mutato nome, e così dissero da quell'ora in
avanti chiamarlo, infino a tanto che la loro fatica terminata fosse con
grazioso adempimento del loro disio.
[76]
Mentre
la notte con le sue tenebre occupò la terra, i giovani si riposarono, e la
mattina levati, accesero sopra gli altari di Marmorina accettevoli sacrificii
al sommo Giove, a Venere, a Giunone, a Nettunno e ad Eolo e a ciascuno altro
iddio, pregandoli divotamente che per la loro pietà porgessero ad essi grazioso
aiuto nel futuro cammino. E fatti con divozione i detti sacrificii,
s'apparecchiarono per montare sopra l'adorno legno con la loro compagnia nobile
e grande. Ma venuti alla riva del fiume, videro quello con torbide onde più
corrente che la passata sera non era: per la qual cosa mutato consiglio,
comandarono a' marinari che la nave menassero nel porto d'Alfea, e quivi li
attendessero. E essi, fatti venire i cavalli, e montati, con molte lagrime dal
re e dalla reina, e dagli amici, e da' parenti, dando le destre mani, dicendo
addio, si partirono; e lasciata Marmorina, al loro viaggio presero il meno
dubbioso cammino.
LIBRO
QUARTO
[1]
Il
volonteroso giovane, abandonate le sue case con poco dolore, sollecita i passi
de' compagni, seguendo quelli d'Ascalion, ammaestratissimo duca del loro
cammino: ma i fati da non poter fuggire volsero in arco la diritta via. E
primieramente venuti alla guazzosa terra ove Manto crudissima giovane lasciò le
sue ossa con etterno nome, passarono oltre per lo piacevole piano. Ma, poi che
dietro alle spalle s'ebbero le chiare onde di Secchia lasciate, e saliti sopra
i fronzuti omeri d'Appennino, e discesi di quelli, essi si trovarono nel
piacevole piano del fratello dello imperiale Tevero, vicini al monte donde gli
antichi edificatori del superbo Ilion si dipartirono. Quivi s'apersero gli occhi
d'Ascalion, e forte si maravigliò della travolta via, ignorando ove i fortunosi
casi li portassero; ma sanza parlarne a' compagni, passando allato alle
disabitate mura di Iulio Cesare e da' compagni costrutte negli antichi anni,
per uno antico ponte passarono l'acqua. Né però verso Alfea diritto cammino
presero, avvegna che picciolo spazio la loro via forse per più sicurtà elessero
più lunga, o che gl'iddii, a cui niuna cosa si cela, volonterosi a tal cammino
li dirizzassero; e pervennero nella solinga pianura, vicina al robusto cerreto
nel quale fuggito s'era il misero Fileno. E quivi trovandosi, l'acque venute
per subita piova dalle vicine montagne, ruvinosa avanzò i termini del picciolo
fiume che a piè dell'alto cerreto correa, e di quelli abondevolmente uscì
allagando il piano: onde costretti furono a tirarsi sopra il cerruto colle,
forse di maggiore pericolo dubitando. E quivi tirandosi, di lontano videro tra
gli spogliati rami antichissime mura, alle quali, forse imaginando che
abitazione fosse, s'accostarono, e entrarono in quelle; né più tosto vi furono,
che il luogo essere stato tempio degli antichi iddii conobbero. Quivi piacque a
Filocolo di fare sacrificii a' non conosciuti e strani iddii, poi che i fati
nel tempio recati li aveano: e fatte levare l'erbe e le fronde e' pruni,
cresciute per lungo abuso sopra il vecchio altare, e similemente le figure
degl'iddii con pietosa mano ripulire e adornare di nuovi ornamenti, domandò che
un toro gli fosse menato. E vestito di vestimenti convenevole a tale uficio,
fece sopra l'umido altare accendere odorosi fuochi; e con le propie mani ucciso
il toro, le interiora di quello per sacrificio nell'acceso fuoco divotamente
offerse; e poi inginocchiato davanti all'altare, con divoto animo incominciò
queste parole:
«O
sommi iddii, se in questo luogo diserto n'abita alcuno, ascoltate i prieghi
miei, e non ischifi la vostra deità il modo del mio sacrificare, il quale non
forse con quella solennità che altre volte ricevere solavate, è stato fatto;
ma, riguardando alla mia purità e alla buona fede, il ricevete, e a' miei
prieghi porgete le sante orecchi. Io giovane d'anni e di senno, oltre al dovere
innamorato, pellegrinando cerco d'adempiere il mio disio, al quale sanza il
vostro aiuto conosco impossibile di pervenire, onde meriti la divozione avuta
nel vecchio tempio, e l'adornato altare, e gli accesi fuochi con gli offerti
doni, che io da voi consiglio riceva del mio futuro cammino, e, con quello,
aiuto alla mia fatica».
Egli
non aveva ancora la sua orazione finita, ch'egli sentì un mormorio grandissimo
per lo tempio, soave come pietre mosse da corrente rivo, il quale dopo picciolo
spazio si risolveo in soave voce, né vide onde venisse, e così disse:
«Non
è per lo insalvatichito luogo mancata la deità di noi padre di Citerea
abitatore di questo tempio, a cui tu divotamente servi, e dalla quale costretti
siamo di darti risponso; e però che con divoto fuoco hai i nostri altari
riscaldati, lungamente dimorati freddi, molto maggiormente meriti d'avere a'
tuoi divoti prieghi vera risponsione de' futuri tempi, e però ascolta. Tu,
partito domane di questo luogo, perverrai ad Alfea: quivi la mandata nave
t'aspetta, nella quale dopo gravi impedimenti perverrai nell'isola del fuoco, e
quivi novelle troverai di quello che vai cercando. Poi, quindi partitoti,
perverrai dopo molti accidenti nel luogo ove colei cui tu cerchi dimora, e là
non sanza gran paura di pericolo, ma sanza alcun danno, la disiderata cosa
possederai. Onora questo luogo, però che quinci ancora si partirà colui che i
tuoi accidenti con memorevoli versi farà manifesti agli ignoranti, e 'l suo
nome sarà pieno di grazia».
Tacque
la santa voce; e Filocolo, d'ammirazione e di letizia pieno, tornò a' compagni,
e loro il consiglio degl'iddii ordinatamente recitò; e di questo contenti tutti
a prendere il cibo nel salvatico luogo si disposero.
[2]
Era
nel non conosciuto luogo davanti al vecchio tempio un pratello vestito di
palida erba per la fredda stagione, nel quale una fontana bellissima si vedea,
alle cui onde la piovuta acqua niente aveva offeso, ma chiarissime dimoravano,
e nel mezzo di quella a modo di due bollori si vedea l'acqua rilevare. Alla
quale Filocolo, uscito del tempio, e appressandosili, gli piacque, così chiara
vedendola, e divenne disideroso di bere di quella, e fecesi un nappo d'argento
apportare; e con quello dall'una delle parti si bassò sopra la fontana per
prenderne, e, bassato, col nappo alquanto le chiare onde dibatté. E questo
faccendo, vide quelle gonfiare, e fra esse sentì non so che gorgogliare, e dopo
picciolo spazio il gorgogliare volgersi in voce e dire:
«Bastiti,
chi che tu sii che le mie parti molesti con non necessario ravolgimento, che io
sanza essere molestato, o molestarti, mitigo la tua sete, né perisca il
fraternale amore per che io, che già fui uomo, sia ora fonte».
A
questa voce Filocolo tutto stupefatto tirò indietro la mano, e quasi che non
cadde, né i suoi compagni ebbero minore maraviglia; ma dopo alquanto spazio,
Filocolo rassicuratosi così sopra la chiara fonte parlò:
«O
chi che tu sii, che nelle presenti onde dimori, perdonami se io t'offesi, ché
non fu mio intendimento, quando per le tue parti sollazzandomi menava il mio
nappo, d'offendere ad alcuno. Ma se gl'iddii da tal molestia ti partano e le
tue onde lungamente chiare conservino, non ti sia noia la cagione per che qui
relegato dimori narrarci, e chi tu se', e come qui venisti e onde, acciò che
per noi la tua fama risusciti, e, i tuoi casi narrando, di te facciamo ancora
molte anime pietose, se pietà meritano i tuoi avvenimenti».
[3]
Tacque
Filocolo, e l'onde tutte s'incominciarono a dimenare, e dopo alquanto spazio,
una voce così parlando uscì del vicino luogo a' due bollori:
«Io
non so chi tu sii, che con così dolci parole mi costringi a rispondere alla tua
domanda; ma però che maravigliare mi fai della tua venuta, non sarà sanza
contentazione del tuo disio, solo che ad ascoltarmi ti disponghi. E però che
più mia condizione ti sia manifesta, dal principio de' miei danni ti narrerò i
miei casi. E sappi ch'io fui di Marmorina, terra ricchissima e bella e piena di
nobilissimo popolo, posseduta da Felice, altissimo re di Spagna, e il mio nome
fu Fileno, e giovane cavaliere fui nella corte del detto re. Nella quale corte
una giovane di mirabilissima bellezza, il cui nome era Biancifiore, con la luce
de' suoi begli occhi mi prese in tanto il cuore del suo piacere, che mai uomo
di piacere di donna non fu sì preso. Niuna cosa era che io per piacerle non
avessi fatto, e già molte cose feci laudevoli per amor di lei. Io ricevetti da
lei, un giorno che la festività di Marte si celebrava in Marmorina, un velo col
quale ella la sua bionda testa copriva, e quello per sopransegna portato nella
palestra, sopra tutti i compagni per forza ricevetti l'onore del giuoco. E da
Marmorina partitomi andai a Montoro, dove un figliuolo del detto re chiamato
Florio dimorava; e quivi in sua presenza i miei amorosi casi narrai, ignorando
che esso Biancifiore più che altra cosa amasse, come poi detto mi fu che esso
facea: per le quali cose narrate meritai a torto d'essere da lui odiato. Queste
furono principali cagioni de' miei mali, però che, se io fossi taciuto, ancora
in Marmorina dimorerei, contentandomi di poter vedere quella bellezza per la
quale ora lontano in altra forma dimoro. Ma non essendo io ancora di Marmorina
partito, poco tempo appresso della fatta narrazione, Diana, pietosa del crudele
male che mi si apparecchiava, in sonno mi fece vedere infinite insidie poste da
Florio alla mia vita, e similemente mi fece sentire i colpi che la sua spada e
quelle de' suoi compagni s'apparecchiavano di dovermi dare. Le quali cose
vedute, narrandole poi io ad un mio amico, il quale de' segreti di Florio
alcuna cosa sentiva, m'avverò quello che veduto aveva essermi sanza alcun fallo
apparecchiato, se io di Marmorina non mi partissi. Seguitai adunque il
consiglio del mio amico, e abandonata Marmorina, e cercati molti luoghi, e
pervenuto qui, mi piacque qui di finire la mia fuga e di pigliare questo luogo
per etterno essilio: e ancora mi parve solingo e rimoto molto, onde io imaginai
di poterci sanza impedimento d'alcuni nascosamente piangere l'abandonato bene;
e così lungamente il piansi. Ma per le mie lagrime, non per l'essere lontano,
mancava però il verace amore ch'io portava e porto in colei che più bella che
altra mi parea, anzi più ciascun giorno mi costringeva e molestava molto.
Laonde io un giorno incominciai con dolenti voci a pregare gl'iddii del cielo e
della terra e qualunque altri che i miei dolori terminassero, e infinite volte
domandai e chiamai la morte, la quale impossibile mi fu di potere avere. Ma
pure pietà del mio dolore vinse gl'iddii, li quali chiamando, come io ho detto
che faceva, sedendo in questo luogo, mi sentii sopra subitamente venire un
sudore e tutto occuparmi, e, dopo questo, ciò che quello toccava in quello
medesimo convertiva, e già volendomi con le mani toccare e asciugare quello, né
la cosa disiderata toccava, né la mano sentiva l'usato uficio adoperare, ma mi
sentiva nel muovere de' membri e nel toccarsi insieme né più né meno come
l'onde cacciate l'una dal vento e l'altra dalla terra insieme urtarsi: per che
io incontanente me conobbi in questi liquori trasmutato, e mi sentii occupare
questo luogo, il quale io poi con la gravezza di me medesimo ho più profondo
occupato. E così trasmutato, solo il conoscimento antico e il parlare
dagl'iddii mi fu lasciato. Né mai mancarono lagrime a' dolenti occhi, i quali
nel mezzo di questa posti, da essi, come da due naturali vene, surge ciò che
questa fontana tiene fresca, come voi vedete. E quella verdura sottile, che in
alcuna parte cuopre le chiare onde, fu il velo della bella giovane col quale io
coperto m'era quel giorno che con tanto effetto la morte disiderava, acciò che
sotto la sua ombra, pensando di cui era stato, mi fosse più dolce il morire: e,
come vedete, ancora mi cuopre, e emmi caro. Ora hai per le mie parole potuto
tutto il mio stato comprendere, il quale io quanto più brievemente ho potuto
t'ho dichiarato: non ti sia dunque grave manifestarmi a cui io mi sia
manifestato».
[4]
Ascoltando
Filocolo le parole di Fileno, si ricordò lui di tutto dire la verità, e
cominciò quasi per pietà a lagrimare, e così gli rispose:
«Fileno,
pietà m'ha mosso de' tuoi casi a lagrimare; e certo io soverrò al tuo domando,
poi che al mio se' stato cortese, e non sanza consolazione delle tue lagrime
ascolterai le mie parole. E primieramente ti sia manifesto che io mi chiamo
Filocolo, e sono di paese assai vicino alla tua terra, nato di nobili parenti,
e per quello signore per lo quale tu in lagrime abondi e in dolore, io
similemente pellegrinando d'acerbissima doglia pieno vo per lo mondo. Quel
Florio, il quale tu mi nomini, io il conosco troppo bene, e non ha guari che io
il vidi, e con lui parlai, e tanto dolente per le parole sue essere il
compresi, che mai sì doloroso uomo non vidi. Ma certo egli, per quello ch'io intendessi,
ha ben ragione di vivere dolente, però che il re suo padre quella bella giovane
Biancifiore, la quale tu già amasti, vendé a' mercatanti sì come vilissima
serva. I quali mercatanti lei sopra una loro nave trasportarono via, e dove non
si sa: per la qual cosa egli, non sappiendo che si fare, muore a dolore. Onde
se egli a te nuocere voleva, di tale ingiuria gl'iddii l'hanno ben pagato,
avvegna che la tua fuga gli spiacque e fugli noia. E però non pur crescere in
angoscia, ma, con ciò sia cosa che a te siano molti compagni e in simiglianti
affanni, e io sia uno di quelli, confortati, sperando che quella dea che dalle
insidie di Florio ti levò, così come agevole le fu a rendere lo sbranato
Ipolito vivo con intera forma, così te nel pristino stato potrà a' suoi servigi
recandoti, rintegrare».
[5]
La
chiara fonte, finite le parole di Filocolo, tutta enfiò, e con le sue onde
passò gli usati termini, producendo un nuovo soffiare, ma più a Filocolo non
parlò, il quale lungamente alcuna parola attese. Ma poi che per lungo spazio fu
dimorato, e quella riposata vide sì come quando prima col nappo mossa l'avea,
egli si dirizzò, e con li compagni suoi, di questa cosa tutti maravigliando si,
incominciarono a ragionare, dolendo a ciascuno del misero avvenimento di
Fileno, dicendo:
«O
quanto è dubbiosa cosa nella palestra d'Amore entrare, nella quale il
sottomesso arbitrio è impossibile da tal nodo slegare, se non quando a lui
piace. Beati coloro che sanza lui vita virtuosa conducono, se bene guardiamo i
fini a' quali egli i suoi suggetti conduce. Chi avrebbe ora creduto nel
salvatico paese trovare Fileno convertito in fontana di lagrime, il quale fu il
più gaio cavaliere e il più leggiadro che la nostra corte avesse? Chi potrebbe
pensare Filocolo, figliuolo unico dell'alto re di Spagna, essere per amore
divenuto pellegrino, e andare cercando le strane nazioni poste sotto il cielo,
e ora in questo luogo trovarsi in questo tempo?».
A
questo rispose Filocolo dicendo:
«L'essere
venuto qui m'è assai caro; né per alcuna cosa vorrei non esserci stato, però
che mirabile cosa e da notare abbiamo veduta nel diserto luogo, il quale n'è
stato dagl'iddii comandato d'onorare, e detto il perché. E certo io non so in
che atto io il possa avanti di più onore accrescere che io m'abbia fatto,
rinnovando il santo tempio e il suo altare».
A
cui Ascalion disse:
«Noi
andremo secondo il santo consiglio, e fornito il nostro cammino e ricevuta la
cercata cosa, nel voltare de' nostri passi il tornar qui non ci falla, e allora
quello onore che in questo mezzo avremo ne' nostri animi diliberato di fare,
faremo agl'iddii e al luogo, però che gl'iddii, solleciti a' beni dell'umana
gente niuna utilità per i nostri doni ci concedono; ma poi ch'elli hanno le
dimandate cose a' dimandanti concedute, dilettansi e è loro a grado che i
ricevitori in luogo di riconoscenza offerino graziosi doni e rendano debiti
onori alle loro deità, mostrandosi grati del ricevuto beneficio. E però, come
dissi, nel nostro tornare, ricevute le disiate cose, ci mostreremo conoscenti
del ricevuto consiglio, onorandolo come si converrà».
[6]
Questo
consiglio a tutti piacque, e tutto quel giorno e la notte quivi dimorarono
sanza più molestare la misera fontana; e la vegnente mattina, secondo
l'ammaestramento dello strano iddio, mancate l'abondanti acque che il solingo
piano aveano il preterito giorno allagato, presero il cammino, per lo quale
sollecitamente pervennero ad Alfea e a' suoi porti, avanti che l'occidentale
orizonte fosse dal sole toccato. Quivi la mandata nave quasi in un'ora con loro
insieme trovarono essere venuta: di che contenti, sperando per quello le cose
più prospere nel futuro, su vi montarono sanza alcuno indugio, e a'
prosperevoli venti renderono le sanguigne vele, comandando che all'isola del fuoco
il cammino della nave si dirizzasse. Eolo aiutava con le sue forze il nuovo
legno, e lui con Zeffiro a' disiati luoghi pingeva, e Nettunno pacificamente i
suoi regni servava: onde Filocolo e' suoi compagni contenti al loro cammino
sanza affanno procedeano. Ma la misera fortuna, che niuno mondano bene lascia
gustare sanza il suo fele, non consentì che lungamente questa fede fosse a'
disiosi giovani servata; ma, avendo già costoro dopo il terzo giorno assai
vicini al luogo ove, quando nella nave entrarono, aveano diliberato di
riposarsi, riposti, le bocche di Zeffiro richiuse e diede a Noto ampissima via
sopra le salate acque: e Nettunno in se medesimo tutto si commosse con
ispiacevol mutamento. Onde dopo poco spazio i giovani, non usi di queste cose, quasi
morti in tale affanno, sanza ascoltare alcun conforto, nella nave si
riputavano.
[7]
Erasi
Noto con focoso soffiamento d'Etiopia levato, volendo già il giorno dare luogo
alla notte, e avea l'emi sperio tutto chiuso d'oscurissimi nuvoli, minacciando noiosissimo
tempo: e i marinari di lontana parte vedeano il mare aver mutato colore. Ma poi
che il giorno fu partito, i marinari, da doppia notte occupati, non vedeano che
si fare. Elli s'argomentavano quanto potevano di prendere alto mare e di
resistere alla sopravegnente tempesta per li veduti segni; ma mentre che gli
argomenti utili alla loro salute si prendeano, subitamente incominciò da'
nuvoli a scendere un'acqua grandissima, e 'l vento a multiplicare in tanta
quantità, che levate loro le vele e spezzato l'albero, non come essi voleano,
ma come a lui piaceva, li guidava. E li mari erano alti a cielo e da ogni parte
percoteano la resistente nave, coprendo quella alcuna volta dall'un capo
all'altro: e già tolto avea loro l'uno de' timoni, e dell'altro stavano in
grandissimo affanno di guardare. E il cielo s'apriva sovente mostrando
terribilissimi e focosi baleni con pestilenziosi tuoni, i quali, in alcuna
parte colti della nave, n'aveano tutte le bande mandate in mare: laonde tutti i
marinari dopo lunga fatica, e combattuti dal vento e dalla sopravegnente acqua
e da' tuoni, il potersi aiutare, o loro o la nave, aveano perduto, e chi qua e
chi là quasi morti sopra la coperta della nave prostrati giaceano vinti; e
quasi ogni speranza di salute, per lo dire de' padroni e per le manifeste cose,
era perduta. Né ancora la notte mezze le sue dimoranze avea compiute, né il
tempo facea sembianti di riposarsi, ma ciascuna ora più minaccevole proffereva
maggiori danni con le sue opere: onde niuno conforto né a Filocolo né ad alcuno
che vi fosse era rimaso, se non aspettare la misericordia degl'iddii.
[8]
Multiplicava
ciascuna ora alla sconsolata nave più pericolo, e ancora che il romore e del
mare e de' venti e de' tuoni e dell'acque fosse grandissimo, ancora il faceano
molto maggiore le dolenti voci de' marinari, le quali alcune in ramarichii,
altre in prieghi agl'iddii che gli dovessero atare dolorosissime delle loro
bocche procedeano, conoscendo il pericolo in che erano. Le quali cose Filocolo
per lungo spazio avendo vedute, e a quelle e conforto e aiuto co' suoi compagni
avea porto quanto potuto avea, vedendo la loro salute ognora più fuggire, con
gli altri insieme quasi disperato piangendo s'incominciò a dolere, dicendo
così:
«O
fortuna, sazia di me omai la tua iniqua volontà. Assai ti sono stato trastullo,
assai hai di me riso, ora in alto e ora in basso stato. Non penare più di
recarmi a quell'ultimo male che continuamente hai disiderato: fallo tosto. Non
m'indugiare più la morte, poi che tu la mi disideri: ma se esser puote, io solo
la morte riceva, acciò che costoro, i quali per me ingiustamente i tuoi assalti
ricevono, non sofferiscano sanza peccato pena. I tuoi innumerabili pericoli
tutti, fuori che questo, m'hai fatti provare, e in questo, il quale ancora non
avea provato, ogni tua noia si contiene: sia adunque questo, sì come maggiore,
a me per fine riserbato nelle mie miserie. A questa niuna cosa peggiore mi può
seguire se non morte. Io la disidero: mandalami, acciò che gli altri campino, e
la tua voglia s'adempia e i miei dolori si terminino. Sazisi ora ogni tua
voglia, e in questo finiscano le tue fatiche e i miei danni. O miseri parenti
rimasi sanza figliuolo, confortatevi, ché più aspro fine gli seguita che voi
non gli dimandavate: egli è ora nelle reti tese da voi miseramente incappato.
Le vostre operazioni questa notte avranno fine e la vostra letizia non vedrà il
morto viso, il quale vivo invidiosi lagrimato avete. Solo in questo m'è benigna
la fortuna, e in questo la ringrazio, che sì incerta sepoltura mi donerà, che
né vivo né morto mai a' vostri occhi mi ripresenterò: per che se mi odiate,
come le vostre operazioni hanno mostrato, sanza consolazione in dubbio viverete
della mia vita; se mi amate, come figliuolo da' parenti dee essere amato, la
fortuna, rapportatrice de' mali, morto mi vi paleserà sanza indugio, e allora
potrete conoscere voi debita pena portare del commesso male. Ma la mia
oppinione sola questa consolazione ne porterà con l'anima al leggero legnetto
d'Acheronte, pensando che la vostra vecchiezza in dolore si consumerà, la quale
non consentì che io lieti usassi i miei giovani anni. O Nettunno, perché tanto
t'affanni per avere la mia anima? Cuopri la trista nave se possibile è, e me
solo in te ne porta. Finisci il tuo disio e le mie pene a un'ora: non nuoccia
il mio infortunio agl'innocenti compagni».
E
poi ch'egli aveva per lungo spazio così detto, e egli con più pietosa voce
alzava il viso mirando il turbato cielo, e diceva:
«O
sommo Giove, venga la tua luce alla sconsolata gente, per la quale i non
conosciuti cammini del tuo fratello ci si manifestino, e aiuta il tuo popolo
che solo in te spera, e, sanza guardare a' nostri meriti, con pietoso aspetto
alla nostra necessità ti rivolgi, e se licito non ci è di potere la dimandata
isola prendere con le nostre ancore, prenda la già non nave, sanza pericolo di
noi, qualunque altro porto. Umilia il tuo fratello a cui niuna ingiuria facemmo
mai, muovasi la tua pietà a' nostri prieghi, né resistano i commessi difetti, i
quali sì come uomini continui adoperiamo. E tu, o santo iddio, a cui non ha tre
dì passati, o forse quattro, feci debiti sacrificii, aiutaci, e la 'mpromessa
fatta dalla santa bocca non la mettere in oblio. Non si conviene agl'iddii
essere fallaci, né possibile è che siano; ma cessi che così la tua promessa mi
sia attenuta, come quella di Giove fu a Palinuro. Io non men tosto disidero di
prendere altri liti, se possibile non è d'avere questi, che per tal maniera la
promessione ricevere. O santa Venus, aiutami nel tuo natale luogo. Non mi far
perire là ove tu nascesti e dove tu più forza che in altra parte dei avere.
Ricordati della mia diritta fede. Cessino per lo tuo aiuto questi venti, e
manifestisici la bellezza del bel nido di Leda e la figliuola di Latona, e i
mari, che di sé fanno spumose montagne, nelle sue usate pianezze riduci. Vedi
che niuno di noi non può più; solo il vostro soccorso sostiene le nostre
speranze: quello solo attendiamo. Non si 'ndugi: l'albero, le vele, i timoni e
le sarte da' venti e dall'onde ci sono state tolte. E i tuoni e le spaventevoli
corruscazioni e le gravi acque cadenti da cielo e mosse da' venti ci hanno i
nocchieri e i marinari e noi vinti, e renduti impossibili a più aiutarci: in
tempestoso mare, sanza guida e in isconosciuto luogo, abandonato da ogni
speranza, per li tuoi servigi così mi ritruovo».
[9]
Gli
altri compagni di Filocolo tutti piangeano, e nulla salute speravano, ma del
fiero colpo d'Antropos, il quale vicino si vedeano, impauriti, mezzi morti
giaceano tutti bagnati, e quasi ogni potenza corporale perduta, si conduceano
secondo i disordinati movimenti della nave. Ma il vecchio Ascalion, il quale
altre volte di simiglianti avversitadi provate avea, ancora che pauroso fosse,
non gli parea cosa nuova, e con migliore speranza viveva che alcuno degli
altri, e tutti li giva riconfortando con buone parole come cari figliuoli. E
mentre queste cose così andavano, la nave portata da' poderosi venti sanza
niuno governamento, avanti che il giorno apparisse da nulla parte, ne' porti
dell'antica Partenope fu gittata da' fieri venti, quasi vicina agli ultimi suoi
danni: e quivi da' marinari, che vedendosi in porto ripresero conforto, così
spezzata dalle bande e fracassata, in sicuro luogo dall'ancore fu fermata, e
aspettarono il nuovo giorno ringraziando gl'iddii, non sappiendo in che parte
la fortuna gli avesse balestrati.
[10]
Poi
che il giorno apparve e il luogo fu conosciuto da' marinari, contenti d'essere
in sicuro e grazioso luogo, discesero in terra. E Filocolo co' suoi compagni,
a' quali più tosto della sepoltura risuscitati parea uscire che della nave,
scesi in terra, e rimirando verso le crucciate acque, ripetendo in se medesimi
i passati pericoli della presente notte, appena parea loro potere essere
sicuri, e ringraziando gl'iddii che da tal caso recati gli avea a salute,
offersero loro pietosi sacrificii e incominciaronsi a confortare. E da un amico
d'Ascalion onorevolemente ricevuti furono nella città, e quivi la loro nave
fecero racconciare tutta, e di vele e d'albero e di timoni migliori che i
perduti la rifornirono; e incominciarono ad aspettar tempo al loro viaggio, il
quale molto più si prolungò che 'l loro avviso non estimava. Per la qual cosa
Filocolo più volte volle per terra pigliare il cammino, ma, sconfortato da
Ascalion, se ne rimase, aspettando il buon tempo in quel luogo.
[11]
Videro
Filocolo e' suoi compagni Febeia cinque volte tonda e altretante cornuta,
avanti che Noto le sue impetuose forze abandonasse: né quasi mai in questo
tempo videro rallegrare il tempo. Per la qual cosa gravissima malinconia e ira
la desiderosa anima di Filocolo stimolava, dolendosi della ingiuria che da Eolo
ricevere gli pareva. E più volte la sua ira con voti e con pietosi sacrificii e
con umili prieghi s'ingegnò di piegare, ma venire non ne poté al disiderato
fine, anzi parea che quelli più nocessero; onde egli spesso di ciò si doleva
dicendo:
«Oimè,
che ho io verso gl'iddii commesso, che i miei sacrificii puramente fatti non
sono accettati? Io non sacri lego, io non invido de' loro onori, io non
assalitore de' loro regni, né tentatore della loro potenza, ma fedelissimo e
divoto servidore di tutti: adunque che mi nuoce?».
Egli
dopo le lunghe malinconie andava alcuna volta a' marini liti, e in quella
parte, verso la quale egli imaginava di dovere andare, si volgeva e rimirava,
dicendo:
«Sotto
quella parte del cielo dimora la mia Biancifiore. Quella parte è testé da lei
veduta, e io la voglio rimirare. Io sento la dolcezza ch'ella adduce seco,
presa dalla luce de' begli occhi di Biancifiore. E poi bassati gli occhi sopra
le salate onde, e vedendole verdi e spumanti biancheggiare nelle sue rotture
con tumultuoso romore, e similmente il vento con sottili sottentramenti
stimolare quelle, turbato in se medesimo dicea:
«O
dispietata forza di Nettunno, perché commovendo le tue acque impedisci il mio
andare? Forse tu pensi ch'io un'altra volta porti il greco fuoco alla tua
fortezza, come fecero coloro a' quali se tu così crudele, come a me se', fossi
stato, ancora le sue mura vedresti intere e piene di popolo sanza essere mai
state ofese. Io non porto insidie, ma come umile amante, col cuore acceso di
fiamma inestinguibile, per lo piacere d'una bellissima giovane, sì come tu già
avesti, cerco mediante la tua pace di ritrovare lei, allontanata per inganni
d'alcuni dalla mia presenza. Di che meritarono più coloro nel tuo cospetto, che
portandonela da me la divisero, che meriti io? Che ho io verso di te offeso,
che commesso più che li ausonici mercatanti? Niuna cosa: con continui
sacrificii ho la tua deità essaltata cercandola di pacificare verso me. Alla
quale s'io forse mai offesi, ignorantemente il male commisi: e che che io
m'avessi commesso, ben ti dovrebbe bastare, pensando quello che mi facesti, non
è lungo tempo passato, quando me e' miei compagni per morti quasi in questo
luogo ci gittasti sopra lo spezzato legno. Adunque perché sanza utilità pìù
avanti mi nuoci? Certo, se i tuoi regni fossero da essere cercati brieve
quantità come da Leandro erano, con la virtù dell'anello ricevuto dalla pietosa
madre, mi metterei a cercare il disiato luogo oltre al tuo piacere e crederei
poter fornire quello che a lui fornire non lasciasti; ma sì lungo cammino per
quelli ho ad andare, che più tosto la forza mi mancherebbe che il tuo potere
m'offendesse: e per questo la tua pace cerco, e quella disidero; non la mi
negare, io te ne priego per quello amore che già per Esmenia sentisti. E tu, o
sommo Eolo, spietato padre di Cannace, tempera le tue ire, ingiustamente verso
me levate. Apri gli occhi, e conosci ch'io non sono Enea, il gran nemico della
santa Giunone: io sono un giovane che amo, sì come tu già amasti. Pensi tu
forse per nuocermi avere da Giunone la seconda impromessa? Raffrena le tue ire,
racchiudi lo spiacevole vento sotto la cavata pietra: io non sono Macareo, né
mai in alcuna cosa t'offesi. Sostieni ch'io compia lo incominciato viaggio, e
quello compiuto, quando nel disiato luogo sarò con la mia donna, quanto ti
piace soffia: graziosa cosa mi sarà di quel luogo mai non partirmi. Allora
mostrerai le tue forze, quando noioso non mi sarà il dimorare. Ma ora che con
angoscia perdo tempo, mitiga la tua furia, e sostieni che 'l mio disio io il
possa fornire, ché se tu non fossi, ben conosco che Nettunno priega di starsi
in pace».
Poi
diceva:
«Oimè,
ove mi costrigne amore di perdere i prieghi? Alle sorde onde e a' dissoluti
soffiamenti, ne' quali niuna fede, sì come in cosa sanza niuna stabilità, si
truova!».
[12]
Con
tali parole più volte si dolea lo innamorato giovane sopra i salati liti, e da
malinconia gravato tornava al suo ostiere. Ma essendo già Titan ricevuto nelle
braccia di Castore e di Polluce, e la terra rivestita d'ornatissimi vestimenti,
e ogni ramo nascoso dalle sue frondi, e gli uccelli, stati taciti nel noioso
tempo, con dolci note riverberavano l'aere, e il cielo, che già ridendo a
Filocolo il disiderato cammino promettea con ferma fede, avvenne che Filocolo
una mattina, pieno di malinconia e tutto turbato nel viso, si levò dal notturno
riposo. Il quale vedendolo, i compagni si maravigliarono molto per che più che
l'altre fiate turbato stesse. Al quale Ascalion disse:
«Giovane,
caccia da te ogni malinconia, ché il tempo si racconcia, per lo quale, sanza
dubbio di più ricevere sì noioso accidente come già sostenemmo, ci sarà licito
il camminare».
A
cui Filocolo rispose:
«Maestro,
certamente quello che dite, conosco, ma ciò alla presente malinconia non
m'induce».
«E
come - disse Ascalion - è nuovo accidente venuto, per lo quale tu debbi
dimorare turbato?».
«Certo
- disse Filocolo - l'accidente della mia turbazione è questo, che nella passata
notte io ho veduta la più nuova visione che mai alcuno vedesse, e in quella ho
avuta gravissima noia nell'animo, veggendo le cose ch'io vedeva: per la qual
cosa la turbazione, poi ch'io mi svegliai, ancora da me non è partita, ma sanza
dubbio credo che meco non lungamente dimorerà». Pregaronlo Ascalion e' compagni
che, cacciando da sé ogni malinconia, gli piacesse la veduta visione narrare
loro, nella quale tanta afflizione sostenuta avea. A' quali Filocolo con non
mutato aspetto rispose che volentieri, e così cominciò a parlare:
[13]
«A
me parea essere da tutti voi lasciato e dimorare sopra lo falernese monte, qui
a questa città sopraposto, e sopra quello mi parea che un bellissimo prato
fosse, rivestito d'erbe e di fiori dilettevoli assai a riguardare, e pareami di
quello potere vedere tutto l'universo; né mi parea che alli miei occhi alcuna
nazione s'occultasse. E mentre che io così rimirando intorno le molte regioni
dimorava, vidi di quello cerreto ove noi la misera fontana trovammo, uno
smeriglione levarsi e cercare il cielo; e poi che egli era assai alzato,
pigliando larghissimi giri il vidi incominciare a calare, e dietro a una
fagiana bellissima e volante molto, che levata s'era d'una pianura fra
selvatiche montagne posta, non guari lontana al natale sito del nostro poeta
Naso: e nel già detto prato a me assai appresso mi parea ch'egli la sopragiungesse,
e ficcatasela in piedi sopra la schiena, forte ghermita la tenea. Poi appresso,
assai vicino di quel luogo onde levata s'era la fagiana, mi parve vedere levare
quello uccello che a guardia dell'armata Minerva si pone, e con lui uno
nerissimo merlo, e volando quella seguire, e nel suo cospetto e dello
smeriglione posarsi. Poi, volti gli occhi in altra parte di quella isola la
quale noi cerchiamo, il semplice uccello, in compagnia di Citerea posto, vidi
di quindi levare e insieme con un cuculo in quel luogo ancora porsi. E mentre
che io in giro gli occhi volgeva, vidi tra l'ultimo ponente e i regni di Trazia
di sopra a Senna levarsi uno sparviere bellissimo e uno gheppo, e seguitare un
girfalco e un moscardo e un rigogolo e una grua, che di sopra alla riviera del
Rodano levati s'erano, e dintorno alla fagiana posarsi. Poi, in più prossimana
parte tirati gli occhi, vidi delle guaste mura, lasciate da noi nel piano del
fratello del Tevero, uscire un terzuolo, e con forte volo aggiungersi agli
altri sopradetti, di dietro al quale la misera reina, ancora de' suoi popoli
nimica, levata di presso al luogo onde lo smeriglione levare vidi, volando
seguiva: e di non molto lontano alla nostra Marmorina surse il padre d'Elena, e
quivi venne, e d'una costa d'una di queste montagne vicine venne uno avoltoio e
con gli altri nel bel prato si pose. E mentre che io della adunazione di questi
uccelli in me medesimo mi maravigliava, e io guardai e vidi di questa piaggia
molti e diversi altri levarsi, e con gli sopradetti giugnersi: e' mi parea, se
bene estimai, un nibbio e un falcone e un gufo vedere agli altri precedere, e,
a loro dietro, una delle figliuole di Piero conobbi, e una ghiandaia che
pigolando forte volava; e, dopo loro, quelli da cui Apollo è accompagnato, e il
mirifico tiratore de' carri di Giunone, e una calandra, e un picchio e poi un
grande aghirone con la misera Filomena e con Tireo, a' quali dietro volava un
indiano pappagallo e un frisone, e con gli altri accolti, fatto di loro un
cerchio dintorno alla fagiana, da' piè di Niso sopr'essa. Io maravigliandomi
incominciai ad attendere che questi volessero fare. E come ciò rimirava, tutti
incominciarono a dare gravissimi assalti alla fagiana, e alcuni allo smerlo,
gridando e stridendo, quale tirandosi adietro e quale mettendosi avanti; e chi
penne e chi la viva carne di quella ne portava; ma lo smeriglione gridando,
sanza ghermirla punto, quanto potea da tutti la difendea; e in questa battaglia
per lungo spazio dimorò, e quasi io più volte fui mosso per andare ad aiutarlo,
poi ritenendomi fra me dicea: "Veggiamo la fine di costui, se egli avrà
tanto vigore che da tutti la difenda". E così attendendo, delle montagne
vicine a Pompeana vidi un gran mastino levarsi e correre in questo luogo, e tra
tutti gli uccelli ficcatosi, con rabbiosa fame il capo della fagiana prese, e
quello divorato, per forza l'altro busto trasse degli artigli di Niso: il quale
poi che voti della presa preda si trovò gli artigli, gridando il vidi non so
come in tortola essere trasmutato, e sopra un vicino albero, nel quale fronda
verde il nuovo tempo non avea rimessa, posarsi, e sopra quello a modo di pianto
umano quasi la sentiva dolere. E così stando, mi parve vedere il cielo
chiudersi d'oscuri nuvoli, molto peggio che quella notte, che noi di morire
dubitammo, non fece. E picciolo spazio stette ch'egli ne cominciò a scendere
un'acqua pistolenziosa con una grandine grossa, con venti e con tempesta simile
mai non veduta: e i tuoni e' lampi erano innumerabili e grandissimi. E certo io
dubitava non il mondo un'altra volta in caos dovesse tornare! E tutta questa
pistolenzia parea che sopra il dolente uccello cadesse: la quale dolendosi con
l'alie chiuse tutta la sostenea. La terra e 'l mare e 'l cielo crucciati e
minacciando peggio, pareano contra a quella commossi, né parea che luogo fosse
alcuno ove essa per sua salute ricorso avere potesse. E così di questa visione
in altre, le quali alla memoria non mi tornano, mi trasportò la non stante
fantasia, infino a quell'ora che io poco inanzi mi svegliai, trovandomi ancora
nella mente turbato della compassione avuta al povero uccello».
[14]
«Strane
cose ne conta il tuo parlare -disse Ascalion, - né che ciò si voglia
significare credo che mai alcuno conoscerebbe: e però niuna malinconia te ne
dee succedere. Manifesta cosa è che ciascuno uomo ne' suoi sonni vede mirabili
cose e impossibili e strane, dalle quali poi isviluppato si maraviglia, ma
conoscendo i principii onde muovono, quelle sanza alcun pensiero lascia andare:
e però quelle cose che ne conti che vedute hai, sì come vane, nella loro vanità
le lascia passare. E poi che il tempo si rallegra, e de' nostri disiderii lieto
indizio ci dimostra, e noi similmente ci rallegriamo; andiamo e la piacevole
aere su per li salati liti prendiamo: e ragionando, del nostro futuro viaggio
ci proveggiamo passando tempo». Così Filocolo col duca e con Parmenione e con
gli altri compagni si mosse, e con lento passo, di diverse cose parlando, verso
quella parte ove le reverende ceneri dell'altissimo poeta Maro si posano,
dirizzano il loro andare. I quali non furono così parlando guari dalla città
dilungati, che essi pervenuti allato ad un giardino, udirono in esso graziosa
festa di giovani e di donne. E l'aere di varii strumenti e di quasi angeliche
voci ripercossarisonava tutta, entrando con dolce diletto a' cuori di coloro a'
cui orecchi così riverberata venia: i quali canti a Filocolo piacque di stare
alquanto a udire, acciò che la preterita malinconia, mitigandosi per la
dolcezza del canto, andasse via. Ristette adunque ad ascoltare: e mentre che la
fortuna così lui e i compagni fuori del giardino tenea ad ascoltare sospesi, un
giovane uscì di quello, e videli, e nell'aspetto nobilissimi e uomini da
riverire gli conobbe. Per che egli sanza indugio tornato a' compagni, disse:
«Venite,
onoriamo alquanti giovani, ne' sembianti gentili e di grande essere, i quali,
forse vergognandosi di passare qua entro sanza essere chiamati, dimorano di
fuori ascoltando i nostri canti».
Lasciarono
adunque i compagni di costui le donne alla loro festa, e usciti del giardino se
ne vennero a Filocolo, il quale nel viso conobbero di tutti il maggiore, e a
lui, con quella reverenza che essi avevano già negli animi compresa che si
convenisse, parlarono, pregandolo che in onore e accrescimento della loro festa
gli piacesse co' suoi compagni passare con loro nel giardino, con più prieghi
sopra questo strignendolo che esso loro questa grazia non negasse. Legarono i
dolci prieghi l'animo gentile di Filocolo, e non meno quello de' compagni; e
così a' preganti fu da Filocolo risposto:
«Amici,
in verità tal festa da noi cercata non era, né similemente fuggita, ma sì come
naufragi gittati ne' vostri porti, per fuggire gli accidiosi pensieri che
l'ozio induce, andavamo per questi liti le nostre avversità recitando; e come
che la fortuna ad ascoltare voi c'inducesse non so, ma disiderosa, pare, di
cacciare da noi ogni noia, pensando che voi, in cui cortesia infinita conosco,
ci ha parati davanti: e però a' vostri prieghi satisfaremo, ancora che forse
parte della cortesia, che da noi procedere dovrebbe, guastiamo».
E
così parlando insieme nel bel giardino se n'entrarono, ove molte belle donne
trovarono; dalle quali graziosamente ricevuti furono, e con loro insieme
accolti alla loro festa.
[15]
Ma
poi che Filocolo per grande spazio ebbe la festa di costoro veduta, e
festeggiato con essi, a lui parve di partirsi. E volendo prendere congedo da'
giovani e ringraziarli del ricevuto onore, una donna più che altra da riverire,
piena di maravigliosa bellezza e di virtù, venne dov'egli stava, e così disse:
«Nobilissimo
giovane, voi per la vostra cortesia questa mattina a questi giovani avete fatta
una grazia, per la quale essi sempre vi sono tenuti, cioè di venire ad onorare
la loro festa: piacciavi, adunque, all'altre donne e a me la seconda grazia non
negare».
A
cui Filocolo con soave voce rispose:
«Gentil
donna, a voi niuna cosa giustamente si poria negare; comandate: io e' miei
compagni a' vostri piaceri tutti siamo presti».
A
cui la donna così disse:
«Con
ciò sia cosa che voi, venendo, in grandissima quantità la nostra festa
multiplicaste, io vi voglio pregare che partendovi non la manchiate, ma qui con
noi questo giorno, in quello che cominciato avemo, infino alla sua ultima ora
consumate».
Filocolo
rimirava costei parlante nel viso, e vedea i suoi occhi pieni di focosi raggi
sintillare come matutina stella, e la sua faccia piacevolissima e bella; né poi
che la sua Biancifiore non vide, gli parea sì bella donna avere veduta. Alla
cui domanda così rispose:
«Madonna,
disposto sono a più tosto il vostro piacere che 'l mio dovere adempiere: però
quanto a voi piacerà, tanto con voi dimorerò, e' miei compagni con meco».
Ringraziollo
la donna, e ritornando all'altre, con esse insieme s'incominciò a rallegrare.
[16]
In
tal maniera dimorando Filocolo con costoro, prese intima dimestichezza con un
giovane chiamato Caleon, di costumi ornatissimo e facundo di leggiadra
eloquenza, a cui egli parlando così disse:
«Oh,
quanto voi agl'iddii immortali siete tenuti più che alcuni altri, i quali in
una volontà pacifici vi conservano di far festa!».
«Assai
loro ci conosciamo obligati - rispose Caleon; - ma quale cagione vi muove a
parlare questo?».
Filocolo
rispose:
«Certo
niuna altra cosa se non il vedervi qui così assembrati tutti in un volere».
«Certo
- disse Caleon - non vi maravigliate di ciò, ché quella donna, in cui tutta
leggiadria si riposa, a questo ci mosse e tiene».
Disse
Filocolo:
«E
chi è questa donna?».
Caleon
rispose:
«Quella
che vi pregò che voi qui rimaneste, quando partire poco inanzi vi volevate».
«Bellissima
e di gran valore mi pare nel suo aspetto - disse Filocolo, - ma se ingiusta non
è la mia domanda, manifestimisi per voi il suo nome, e donde ella sia e di che
parenti discesa».
A
cui Caleon rispose:
«Niuna
vostra domanda potrebbe essere ingiusta; e però che di così valorosa donna
niuno è che apertamente parlando non deggia palesare la sua fama, al vostro
dimando interamente sodisfarò. Il suo nome è da noi qui chiamato Fiammetta,
posto che la più parte delle genti il nome di Colei la chiamino, per cui quella
piaga, che il prevaricamento della prima madre aperse, richiuse. Ella è
figliuola dell'altissimo prencipe sotto il cui scettro questi paesi in quiete
si reggono, e a noi tutti è donna: e, brievemente, niuna virtù è che in
valoroso cuore debbia capere, che nel suo non sia; e voi, sì come io estimo,
oggi dimorando con noi, il conoscerete».
«Ciò
che voi dite - disse Filocolo - non si può ne' suoi sembianti celare: gl'iddii
a quel fine, che sì singulare donna merita, la conducano; e certo quello e più
che voi non dite, credo di lei. Ma queste altre donne chi sono?».
Disse
Caleon:
«Queste
donne sono alcune di Partenope, e altre altronde in sua compagnia, sì come noi
medesimi, qui venute».
E
poi che essi ebbero per lungo spazio così ragionato, disse Caleon:
«Deh,
dolce amico, se a voi non fosse noia, a me molto sarebbe a grado di vostra
condizione conoscere più avanti che quello che il vostro aspetto ripresenti,
acciò che forse, conoscendovi, più degnamente vi possiamo onorare: però che tal
fiata il non conoscere fa negli onoranti il debito dell'onorare mancare».
A
cui Filocolo rispose:
«Niuno
mancamento dalla vostra parte potrebbe venire in onorarmi, ma tanto n'avete
fatto avanti, che soprabondando avete i termini trapassati. Ma poi che della
mia condizione disiderate sapere, ingiusto saria di ciò non sodisfarvi, e però,
quanto licito m'è di scoprirne, ve ne dirò. Io sì sono un povero pellegrino
d'amore, il quale vo cercando una mia donna a me con sottile inganno levata da'
miei parenti: e questi gentili uomini i quali con meco vedete, per loro
cortesia nel mio pellegrinaggio mi fanno compagnia: e il mio nome è Filocolo,
di nazione spagnuolo, gittato da tempestoso mare ne' vostri porti, cercando io
l'isola de' siculi».
Ma
tanto coperto parlare non gli seppe, che il giovine di sua condizione non
comprendesse più avanti che Filocolo disiderato non avrebbe: e de' suoi
accidenti compassione avendo, il riconfortò alquanto con parole che nel futuro
vita migliore gli promettevano. E da quell'ora inanzi multiplicando l'onore,
non come pellegrino e come uomo accettato a quella festa, ma come maggiore e
principale di quella, a tutti il fece onorare, e la donna massimamente comandò
che così fosse, poi che da Caleon la sua condizione intese, in sé molto caro
avendo tale accidente.
[17]
Era
già Appollo col carro della luce salito al meridiano cerchio e quasi con
diritto occhio riguardava la rivestita terra, quando le donne e' giovani in
quel luogo adunati, lasciato il festeggiare, per diverse parti del giar dino
cercando, dilettevoli ombre e diversi diletti per diverse schiere prendevano,
fuggendo il caldo aere che li dilicati corpi offendeva. Ma la gentil donna, con
quattro compagne appresso, prese Filocolo per la mano dicendoli:
«Giovane,
il caldo ci costringe di cercare i freschi luoghi: però in questo prato, il
quale qui davanti a noi vedi, andiamo, e quivi con varii parlamenti la calda
parte di questo giorno passiamo».
Andò
adunque Filocolo, lodando il consiglio della donna, dietro a' passi di lei, e
con lui i suoi compagni, e Caleon e due altri giovani con loro: e vennero nel
mostrato prato, bellissimo molto d'erbe e di fiori, e pieno di dolce soavità
d'odori, dintorno al quale belli e giovani albuscelli erano assai, le cui
frondi verdi e folte, dalle quali il luogo era difeso da' raggi del gran
pianeto. E nel mezzo d'esso pratello una picciola fontana chiara e bella era,
dintorno alla quale tutti si posero a sedere; e quivi di diverse cose, chi
mirando l'acqua chi cogliendo fiori, incominciarono a parlare. Ma però che tal
volta disavvedutamente l'uno le novelle dell'altro trarompeva, la bella donna
disse così:
«Acciò
che i nostri ragionamenti possano con più ordine procedere e infino alle più
fresche ore continuarsi, le quali noi per festeggiare aspettiamo, ordiniamo uno
di noi qui in luogo di nostro re, al quale ciascuno una quistione d'amore
proponga, e da esso a quella debita risposta prenda. E certo, secondo il mio
avviso, noi non avremo le nostre quistioni poste, che il caldo sarà, sanza che
noi il sentiamo, passato, e il tempo utilmente con diletto sarà adoperato».
Piacque
a tutti, e fra loro dissero:
«Facciasi
re».
E
con unica voce tutti Ascalion, per che più che alcuno era attempato, in re
eleggevano. A' quali Ascalion rispose sé a tanto uficio essere insofficiente,
però che più ne' servigi di Marte che in quelli di Venere avea i suoi anni
spesi; ma, se a tutti piacesse di rimettere in lui la elezione di tal re, egli
si credea bene tanto conoscere avanti delle qualità di tutti, che egli il
costituirebbe tale che vere risposte a tali dimande renderebbe. Consentirono
allora tutti che in Ascalion fosse liberamente la elezione rimessa, poi che
assumere in lui tale dignità non volea.
[18]
Levossi
allora Ascalion, e colti alcuni rami d'un verde alloro, il quale quasi sopra la
fontana gittava la sua ombra, di quelli una bella coronetta fece, e quella
recata in presenza di tutti costoro, così disse:
«Da
poi che io ne' miei più giovani anni cominciai ad avere conoscimento, giuro per
quelli iddii che io adoro, che non mi torna nella memoria di avere veduta o
udita nomare donna di tanto valore, quanto questa Fiammetta, nella cui presenza
Amore di sé tutti infiammati ci tiene, e da cui noi questo giorno siamo stati
onorati in maniera da mai non doverlo dimenticare. E però che ella, sì come io
sanza fallo conosco, è d'ogni grazia piena e di bellezza, e di costumi
ornatissima e di leggiadra eloquenza dotata, io in nostra reina la eleggo; e
molto meglio, per la sua magnificenza, la imperiale corona le si converrebbe! A
costei di reale stirpe ancora discesa, e a cui le occulte vie d'amore sono
tutte aperte, sarà lieve cosa nelle nostre quistioni contentarci».
E
appresso questo, alla valorosa donna davanti umilemente le si inchinò, dicendo:
«Gentile
donna, ornate la vostra testa di questa corona, la quale non meno che d'oro è
da tener cara a coloro che degni sono per le loro opere di tali coprirsi la
testa».
Alquanto
il candido viso della bella donna si dipinse di nuova rossezza, dicendo:
«Certo
non debitamente avete di reina proveduto all'amoroso popolo, che di
sofficientissimo re avea bisogno, però che di tutti voi, che qui dimorate, la
più semplice e con meno virtù sono, né alcuno di voi è a cui meglio che a me
investita non fosse. Ma poi che a voi piace, né alla vostra elezione posso
opporre, e acciò che io alla fatta promessa non sia contraria, io la prenderò,
e spero che dagl'iddii e da essa l'ardire dovuto a tanto uficio prenderò: e con
l'aiuto di colui a cui queste frondi furono già care, a tutti risponderò
secondo il mio poco sapere. Nondimeno io divotamente il priego che egli nel mio
petto entri, e muova la mia voce con quel suono, col quale egli già l'ardito
uomo vinto fece meritare d'uscire della guaina de' suoi membri. Io, per via di
festa, lievi risposte vi donerò, sanza cercare le profondità delle proposte
questioni, le quali andare cercando più tosto affanno che diletto recherebbe
alle nostre menti».
E
questo detto, con le dilicate mani prese l'offerta ghirlanda, e la sua testa ne
coronò, e comandò che, sotto pena d'essere dall'amorosa festa privato, ciascuno
s'apparecchiasse di proporre alcuna quistione, la quale fosse bella e
convenevole a quello di che ragionare intendeano, e tale, che più tosto della
loro gioia fosse accrescitrice, che per troppa sottigliezza o per altro
guastatrice di quella.
[19]
Dalla
destra mano di lei sedea Filocolo, a cui ella disse:
«Giovane,
cominciate a proporre, acciò che gli altri ordinatamente come noi qui seggiamo,
più sicuramente dopo voi proponga».
A
cui Filocolo rispose:
«Nobilissima
donna, sanza alcuno indugio al vostro comandamento ubidirò»; e così disse:
«Io
mi ricordo che in quella città dov'io nacqui si faceva un giorno una
grandissima festa, alla quale cavalieri e donne erano molti ad onorarla. Io che
similemente v'era, andando con gli occhi intorno mirando quelli che nel luogo
stavano, vidi due giovani graziosi assai nel loro aspetto, i quali amenduni una
bellissima giovane rimiravano, né si saria per alcuno potuto conoscere chi più
stato fosse di loro acceso della bellezza di costei. E quando essi lungamente
costei ebbero riguardata, non faccendo essa all'uno migliori sembianti che
all'altro, elli incominciarono fra loro a ragionare di lei: e fra l'altre
parole che io del loro ragionamento intesi, si fu che ciascuno diceva sé essere
più amato da lei, e in ciò ciascuno diversi atti dalla giovane per adietro
fatti allegava in aiuto di sé. E essendo per lungo spazio in tale quistione
dimorati, e già quasi per le molte parole venuti a volersi oltraggiare, si
riconobbero che male faceano, però che in tale atto danno e vergogna di loro e
dispiacere della giovane adoperavano; ma mossi con iguale concordia, amenduni
davanti alla madre della giovane se n'andarono, la quale similemente a quella
festa stava, e così in presenza di lei proposero che, con ciò fosse cosa che
sopra tutte l'altre giovani del mondo a ciascuno di loro la figlia di lei
piaceva e essi fossero in quistione quale d'essi due piacesse più a lei, che le
piacesse di concedere loro questa grazia, acciò che maggiore scandolo tra loro
non nascesse, cioè che alla figlia comandasse che o con parole o con atti loro
dimostrasse qual di loro da lei più fosse amato. La pregata donna ridendo rispose
che volentieri; e chiamata la figliuola a sé, le disse: "Bella figlia,
ciascuno di questi due più che sé t'ama, e in quistione sono quale da te più
sia amato, e cercano, di grazia, che tu o con segno o con parola ne li facci
certi; e però, acciò che d'amore, di cui pace e bene sempre dee nascere, non
nasca il contrario, falli di ciò contenti, e con cortesi sembianti mostra
inverso del quale più il tuo animo si piega". Disse la giovane: "Ciò
mi piace". E rimiratili amenduni alquanto, vide che l'uno avea in testa
una bella ghirlanda di fresche erbette e di fiori, e l'altro sanza alcuna
ghirlanda dimorava. Allora la giovane, che similmente in capo una ghirlanda di
verdi frondi avea, levò quella di capo a sé, e a colui che sanza ghirlanda
davanti le stava la mise in ca po; appresso, quella che l'altro giovane in capo
avea ella la prese e a sé la pose, e, loro lasciati stare, si ritornò alla
festa, dicendo che il comandamento della madre e il piacere di loro avea fatto.
I giovani rimasi così, nel primo quistionare ritornarono, ciascuno dicendo che
più da lei era amato; e quelli la cui ghirlanda la giovane prese e posela sopra
la sua testa, diceva: "Fermamente ella ama più me, però che a niuno altro
fine ha ella la mia ghirlanda presa, se non perché le mie cose le piacciono, e
per avere cagione d'essermi tenuta; ma a te ha ella la sua donata quasi in
luogo d'ultimo congedo, non volendo, come villana, che l'amore che tu l'hai
portato sia sanza alcuno merito; ma quella ghirlanda donandolati, ultimamente
t'ha meritato". L'altro dicendo il contrario, così rispondeva:
"Veramente la giovane le tue cose ama più che te, ciò si può vedere, ché
ella ne prese; ma ella ama più me che le mie cose, in quanto ella delle sue mi
donò: e non è segno d'ultimo merito il donare, come tu di', ma è principio
d'amistà e d'amore. E fa il dono colui che 'l riceve suggetto al donatore: però
costei, forse di me incerta, acciò che più certa di me avere per suggetto
fosse, con dono mi volle alla sua signoria legare, se io legato forse non vi
fossi. Ma tu, come puoi comprendere che se ella dal principio ti leva, ch'ella
mai ti debbia donare?". E così quistionando dimorarono per grande spazio,
e sanza alcuna diffinizione si partirono. Ora, dico io, grandissima reina, se a
voi fosse l'ultima sentenza in tale questione domandata, che giudichereste
voi?».
[20]
Con
occhi d'amorosa luce sfavillanti, alquanto sorridendo si rivolse la bella donna
a Filocolo, e dopo un lieve sospiro così rispose:
«Nobilissimo
giovane, bella è la vostra quistione, e certo saviamente si portò la donna, e
ciascun de' giovani assai bene la sua parte difendea; ma acciò che ne
richiedete quello che ultimamente di ciò giudicheremo, così vi rispondiamo. A
noi pare, e così dee parere a ciascuno che sottilmente riguarda, che la giovane
ami l'uno, e l'altro non abbia in odio; ma, per più il suo intendimento tener
coperto, fece due atti contrarii, come appare, e ciò non sanza cagione fece, ma
acciò che l'amore di colui cui ella amava più fermo acquistasse è quello
dell'altro non perdesse: e ciò fu saviamente fatto. E però venendo alla nostra
quistione, la quale è a quale de' due sia più amore stato mostrato, diciamo che
colui a cui ella donò la sua ghirlanda è più da lei amato. E questa ne pare la
ragione: qualunque uomo o donna ama alcuna persona, per la forza di questo
amore portato è ciascuno sì forte obligato alla cosa amata, che sopra tutte le
cose a quella disidera di piacere, né a più legarla bisognano o doni o servigi;
e questo è manifesto. Ma veggiamo che chi ama, la cosa amata, in qualunque
maniera puote, di farsela benigna e suggetta s'ingegna in diversi modi, acciò
che quella possa a' suoi piaceri recare, o con più ardita fronte il suo disio
dimandare. E che questo sia come noi parliamo, assai la infiammata Dido con le
sue opere cel palesa, la quale, già dell'amore d'Enea ardendo, infino a tanto
che essa con onori e con doni non gliele parve aver preso, non ebbe ardire di
tentare la dubbiosa via del dimandare. Dunque la giovane colui cui essa più amò,
quello di più obligarsi cercò: e così diremo che quelli che 'l dono della
ghirlanda ricevette, colui sia più dalla giovane amato».
[21]
Rispose
Filocolo poi che la reina tacque:
«Discreta
donna, assai è da lodare la vostra risposta, ma non per tanto molta
d'ammirazione mi porge, però che di ciò che diffinito avete della proposta
quistione, io terrei che il contrario fosse da giudicare, con ciò sia cosa che
generalmente tra gli amanti soglia essere questa consuetudine, cioè disiderare
di portare sopra sé alcuna delle gioie della cosa amata, però che di quelle le
più volte più che di tutto il rimanente si sogliono gloriare, e, quella
sentendo sopra sé, nell'animo si rallegrano. E come voi potete avere udito,
Paris rade volte o nulla entrava nell'aspre battaglie contra i Greci sanza
soprasegnale donatogli dalla sua Elena, credendosi per quello molto meglio, che
sanza quello, valere: e certo, secondo il mio giudicio, il suo pensiero non era
vano. Per la qual cosa io così direi che, sì come voi diceste, saviamente fece
la giovane, non diffinendo però come voi faceste, ma in questa maniera:
conoscendo la giovane che da' due giovani era molto amata e ella più che l'uno
amare non potesse, però che amore indivisibile cosa si truova, ella l'uno
dell'amore che le portava volle guiderdonare, acciò che tale benivolenza non
rimanesse da lei inguiderdonata, e donogli la sua ghirlanda in merito di ciò.
All'altro, cui ella amava, volle porgere ardire e ferma speranza del suo amore,
levandogli la sua ghirlanda e ponendola a sé: nel quale levare gli mostrò sé
essergli obligata per la presa ghirlanda; e però, a mio giudicio, più costui a
cui tolse, che quello a cui donò amava».
[22]
Al
quale la gentil donna rispose:
«Assai
il tuo argomentare ci piacerebbe, se tu te stesso nel tuo parlare non dannassi.
Guarda come perfetto amore insieme col rubare può concorrere: come mi potrai tu
mai mostrarne che io ami quella persona la quale io rubo più che quella a cui
io dono, con ciò sia cosa che tra più manifesti segni d'amare alcuna persona è
il donare? E secondo la quistione proposta, ella all'uno donò la ghirlanda,
all'altro la tolse, non le fu dall'altro donata: e quello che noi tutto giorno
per essemplo veggiamo può qui per essemplo bastare, che si dice volgarmente
coloro essere da' signori più amati i quali le grazie e' doni ricevono, che
quelli che di quelli privati sono. E però noi ultimamente tegnamo,
conchiudendo, che quegli sia più amato a cui è donato, che a cui è tolto. Ben
conosciamo che alla presente questione molto contro alla nostra diffinizione si
potrebbe opporre e alle opposte ragioni rispondere; ma ultimamente tale
determinazione rimarrà vera. Ma però che il tempo non è da porre in una cosa
sola, sanza più sopra questa parlare, gli altri ascolteremo, se vi piace».
A
cui Filocolo disse che assai gli piacea, e che bene bastava tale soluzione alla
sua domanda; e qui si tacque.
[23]
Sedea
appresso Filocolo un giovane cortese e grazioso nello aspetto, il cui nome era
Longanio, il quale, sì tosto come Filocolo tacque, così cominciò a dire:
«Eccellentissima
reina, tanto è stata bella la prima questione, che la mia appena piacerà, ma
non per tanto, per non essere fuori di sì nobile compagnia cacciato, io dirò la
mia».
E
così parlando seguì:
«E'
non sono molti giorni passati, che io soletto in una camera dimorando, involto
negli affannosi pensieri porti dagli amorosi disii, i quali con aspra battaglia
il cuore assalito m'aveano, sentii un pietoso pianto, al quale, perché vicino a
me la stimativa il giudicava, porsi intentivamente gli orecchi e conobbi che
donne erano. Laond'io, per vedere chi fossero e dove, subito mi levai, e,
rimirando per una finestra, vidi a fronte alla mia camera in un'altra dimorare
due donne sanza più, le quali erano carnali sorelle, di bellezza ine stimabile
ornate, le quali vidi che questo pianto solette facevano. Onde io in segreta
parte dimorando, sanza essere da loro veduto, lungamente le riguardai; né però
potei comprendere tutte le parole che per dolore con le lagrime fuori
mandavano, se non che l'effetto di tale pianto, secondo quello che compresi,
per amore mi parve. Per che io sì per la pietà di loro, sì per la pietà di sì
dolce cagione, a piangere incominciai così nascoso. Ma dopo lungo spazio,
perseverando queste pure nel loro dolore, con ciò fosse cosa che io fossi assai
dimestico e parente di loro, proposi di volere più certa la cagione del loro
pianto sapere, e ad esse andai. Le quali non prima mi videro, che vergognandosi
ristrinsero le lagrime ingegnandosi d'onorarmi. A cui io dissi: "Giovani
donne, per niente v'affannate di ristringere dentro il vostro dolore per la mia
venuta, con ciò sia cosa che tutte le vostre lagrime mi sieno state, già è gran
pezza, manifeste. Non vi bisogna di guardarvi da me né di celarmi per vergogna
la cagione del vostro pianto, la quale io sono venuto qui per sapere, però che
da me mal merito in niuno atto ne riceverete, ma aiuto e conforto quant'io
potrò". Molto si scusarono le donne dicendo sé di niuna cosa dolersi; ma
poi che pure scongiurandole mi videro disideroso di sapere quello, la maggiore
di tempo così cominciò a parlare: "Piacere è degl'iddii che a te li nostri
segreti si manifestino: e però sappi che noi, più che altre donne mai, fummo
crude e aspre resistenti agli aguti dardi di Cupido, il quale, lunga stagione
saettandoci, mai ne' nostri cuori alcuno ne poté ficcare. Ma egli ultimamente
più infiammato, avendo proposto di vincere la sua puerile gara, aperse il
giovane braccio, e con la più cara saetta, nel macerato per li molti colpi
avanti ricevuti, ci ferì con sì gran forza, che i ferri passarono dentro e
maggiore piaga fecero, che, se agli altri colpi fatta non avessimo resistenza,
non avriano fatta: e per lo piacere di due nobilissimi giovani alla sua
signoria divenimmo suggette, seguendo i suoi piaceri con più intera fede e con
più fervente volere che mai altre donne facessero. Ora ci ha la fortuna e amore
di quelli, come io ti dirò, sconsolate. Io, che prima che costei, amai, con
ingegno maestrevolemente credendo il mio disio terminare, feci sì che io ebbi
al mio piacere l'amato giovane, il quale io trovai altrettanto di me quanto io
di lui essere innamorato. Ma certo già per tale effetto l'amorosa fiamma non
mancò, né menomò il disio, ma ciascuno crebbe, e più che mai arsi e ardo: il
quale fuoco, tenendo lui nelle braccia e tal volta vedendolo, come io poteva il
meglio mitigava tenendolo dentro nascoso. Avvenne, non si rivide poi la luna
tonda, che costui commise disavedutamente cosa, per la quale etterno essilio della
presente città gli fu donato: ond'egli, dubitando la morte, di qui s'è partito,
sanza speranza di ritornare. E io, sopra ogni altra femina, ardendo più che
mai, sanza lui sono rimasa disperata, onde io mi dolgo; e quella cosa che più
la mia doglia aumenta è che io da tutte parti mi veggo chiusa la via di poterlo
seguire: pensa oramai se io ho di dolermi cagione". Dissi io allora:
"E quest'altra perché si duole?". Quella rispose: "Questa
similmente com'io innamorata d'un altro, e da lui similmente sanza fine amata,
acciò che i suoi disii non passassero sanza parte d'alcun diletto, per gli
amorosi sentieri più volte s'è ingegnata di volergli recare ad effetto, a' cui
intendimenti gelosia ha sempre rotte le vie e occupate: per che mai a quelli
non poté pervenire, né vede di potere, onde ella si consuma stretta da
ferventissimo amore, come tu puoi pensare se mai amasti. Trovandoci noi,
adunque, qui solette, de' nostri infortunii cominciammo a ragionare, e
conoscendoli più che d'alcuna altra donna maggiori, non potemmo ritenere le
lagrime, ma piangendo ci dolavamo, sì come tu potesti vedere". Assai mi
dolfe di loro udendo questo, e con quelle parole che al loro conforto mi
parvero utili le sovenni, e da loro mi partii. Ora mi s'è più volte per la
mente rivolto il loro dolore, e alcuna volta ho fra me pensato qual doveva
essere maggiore, e l'una volta consento quello dell'una, l'altra quello
dell'altra: e le molte ragioni per le quali ciascuna mi pare che abbia da
dolersi non mi lasciano fermare ad alcuna, onde io ne dimoro in dubbio.
Piacciavi che per voi io di questa erranza esca, dicendomi quale maggiore
doglia vi pare che sostenga».