Giovanni Boccaccio

 

Il Filocolo

 

 

 

Edizione di riferimento:

Giovanni Boccaccio: Filocolo, a cura di E. Quaglio, in Tutte le opere, a cura di V. Branca, vol. I, Mondadori, Milano 1967

 

 

LIBRO PRIMO

 

[1]

 

Mancate già tanto le forze del valoroso popolo anticamente disceso del troiano Enea, che quasi al niente venute erano per lo maraviglioso valore di Giunone, la quale la morte della pattovita Didone cartaginese non avea voluta inulta dimenticare e all'altre offese porre non debita dimenticanza, faccendo degli antichi peccati de' padri sostenere a' figliuoli aspra gravezza, possedendo la loro città, la cui virtù già l'universe nazioni si sottomise, sentì che quasi nelle streme parti dello ausonico corno ancora un picciolo ramo della ingrata progenie era rimaso, il quale s'ingegnava di rinverdire le già seccate radici del suo pedale. Commossa adunque la santa dea per le costui opere, propose di ridurcelo a niente, abbattendo la infiammata sua superbia, come quella degli antecessori avea altra volta abbattuta con degno mezzo. E posti i risplendenti carri agli occhiuti uccelli, davanti a sé mandata la figliuola di Taumante a significare la sua venuta, discese della somma altezza nel cospetto di colui che per lei tenea il santo uficio, e così disse:

 

«O tu, il quale alla somma degnità se' indegno pervenuto, qual negligenza t'ha messo in non calere della prosperità dei nostri avversarii? quale oscurità t'ha gli occhi, che più debbono vedere, occupati? levati su: e però che a te è sconvenevole a guidare l'armi di Marte, fa che incontanente sia da te chiamato chi con la nostra potenza abbatta le non vere frondi, che sopra lo inutile ramo, le cui radici già è gran tempo furono secche, dimorano, e in maniera che di loro mai più ricordo non sia. Intra 'l ponente e i regni di Borrea sono fruttifere selve, nelle quali io sento nato un valoroso giovane, disceso dell'antico sangue di colui che già i tuoi antecessori liberò dalla canina rabbia de' longobardi, loro rendendo vinti con più altri nimici alla nostra potenza. Chiama costui però che noi gli abbiamo quasi l'ultima parte delle nostre vittorie serbata, e sopra noi gli prometti valorose forze. Io gli farò li fauni e' satiri e le ninfe graziose ne' suoi affanni: Nettunno e Eolo disiderano di servirmi; e Marte a' miei prieghi vigorosamente l'aiuterà; e il nostro Giove è di tutte queste cose contento, però c'ha preso isdegno, veggendo a gente portare per insegna quello uccello nella cui forma già molte volte si mostrò a' mondani, che più a' sacrifici di Priapo intendono che a governare la figliuola d'Astreo, loro debita sposa. Io ancora ti prometto di commuovere con le infernali furie un'altra volta gli abondevoli regni in suo servigio, come già feci quando ne' paesi italici entrò il santo uccello, la cui ruinazione non permisi allora, volendogli prestare tempo nel quale potendosi pentere meritasse perdono, e ancora però che sentiva che di lui dovea discendere lo edificatore di questo luogo pontificale. Adunque sollecita queste cose; e se ciò non farai, sanza più porgerti le mie forze io ti lascerò nelle sue mani».

 

E detto questo, si partì, discendendo a' tenebrosi regni di Pluto; e con lamentevole voce chiamata Aletto, disse:

 

«A te conviene la seconda volta rivolgere le fedeli menti de' discendenti di colui, il quale tu non potesti altra volta per tua forza del tutto sturbare che negli italici regni smisurate forze non prendesse: ma ciò fu nel principio delle loro prosperità; ma questo fia nell'ultima parte delle loro avversità, la quale ultima parte la loro fama spegnerà nel mondo».

 

E questo detto, voltato il suo carro, tornò al cielo. Gli oscuri regni, udendo tale novella si dolfero, veggendo apertamente per quella la loro preda mancare: ma al volere della santa dea non si potea resistere. Però Aletto, lasciati quelli, tornò agli altri, i quali ella già a crudeli battaglie aveva commossi, e quivi gli animi de' più possenti impregnò di volontà iniqua contra 'l principale signore, mostrando loro come venereamente le loro matrimoniali letta avea violate; e così, pregni d'iniquo volere e d'ira mormorando, gli lasciò focosi, ritornandosi donde partita s'era. Il vicario di Giunone sanza indugio chiamò il giovane dalla santa bocca eletto a' suoi servigi, il quale allora signoreggiava la terra la quale siede allato alla mescolata acqua del Rodano e di Sorga, e a lui mostrò i larghi partiti promessigli dalla santa dea, se in tale servigio con le loro forze si mettesse; e ultimamente gli promise d'ornare la sua fronte di reale corona del fruttifero paese, se la maladetta pianta del tutto n'estirpasse.

 

Non fece il valoroso giovane disdetta a sì fatta impresa, ma, disideroso di dare a sé e a' suoi simile scanno, chente i predecessori aveano avuto, si mise con vigorose forze alla mirabile impresa; e in brieve tempo con la sua forza e con gli promessi aiuti la recò a fine, posando il suo solio negli adimandati regni, avendo annullati i nemici di Giunone con proterva morte; e quivi nuova progenie generata, stato per alquanto spazio, rendeo l'anima a Dio. Quegli che dopo lui rimase successore nel reale trono, lasciò appresso di sé molti figliuoli: tra' quali uno, nominato Ruberto, nella reale dignità constituto, rimase integramente con l'aiuto di Pallade reggendo ciò che da' suoi predecessori gli fu lasciato. E avanti che alla reale eccellenza pervenisse, costui, preso del piacere d'una gentilissima giovane dimorante nelle reali case, generò di lei una bellissima figliuola; ben che volendo di sé e della giovane donna servare l'onore, con tacito stile, sotto nome appositivo d'altro padre teneramente la nutricò, e lei nomò del nome di colei che in sé contenne la redenzione del misero perdimento che avvenne per l'ardito gusto della prima madre. Questa giovane, come in tempo crescendo procedea, così di mirabile virtù e bellezza s'adornava, patrizzando così eziandio ne' costumi, come nell'altre cose facea; e per le sue notabili bellezze e opere virtuose più volte facea pensare a molti che non d'uomo ma di Dio figliuola stata fosse.

 

Avvenne che un giorno, la cui prima ora Saturno avea signoreggiata, essendo già Febo co' suoi cavalli al sedecimo grado del celestiale Montone pervenuto, e nel quale il glorioso partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di Plutone si celebrava, io, della presente opera componitore, mi ritrovai in un grazioso e bel tempio in Partenope, nominato da colui che per deificare sostenne che fosse fatto di lui sacrificio sopra la grata; e quivi con canto pieno di dolce melodia ascoltava l'uficio che in tale giorno si canta, celebrato da' sacerdoti successori di colui che prima la corda cinse umilemente essaltando la povertade e quella seguendo. Ove io dimorando, e già essendo, secondo che 'l mio intelletto estimava, la quarta ora del giorno sopra l'orientale orizonte passata, apparve agli occhi miei la mirabile bellezza della prescritta giovane, venuta in quel luogo a udire quello ch'io attentamente udiva: la quale sì tosto com'io ebbi veduta, il cuore cominciò sì forte a tremare, che quasi quel tremore mi rispondea per li menomi polsi del corpo smisuratamente; e non sappiendo per che, né ancora sentendo quello che egli già s'imaginava che avvenire gli dovea per la nuova vista, incominciai a dire:

 

«Oimè, che è questo?»; e forte dubitava non altro accidente noioso fosse. Ma dopo alquanto spazio rassicurato, un poco presi ardire, e intentivamente cominciai a rimirare ne' begli occhi dell'adorna giovane; ne' quali io vidi, dopo lungo guardare, Amore in abito tanto pietoso, che me, cui lungamente a mia stanza avea risparmiato, fece tornare disideroso d'essergli per così bella donna suggetto. E non potendomi saziare di rimirare quella, così cominciai a dire:

 

«Valoroso signore, alle cui forze non poterono resistere gl'iddii, io ti ringrazio, però che tu hai dinanzi agli occhi miei posta la mia beatitudine: e già il freddo cuore, sentendo la dolcezza del tuo raggio, si comincia a riscaldare. Adunque io, il quale ho la tua signoria lungamente temendo fuggita, ora ti priego che tu, mediante la virtù de' begli occhi ove sì pietoso dimori, entri in me con la tua deitade. Io non ti posso più fuggire, né di fuggirti disidero, ma umile e divoto mi sottometto a' tuoi piaceri».

 

Io non avea dette queste parole, che i lucenti occhi della bella donna sintillando guardarono ne' miei con aguta luce, per la quale luce una focosa saetta, d'oro al mio parere, vidi venire, e quella, per li miei occhi passando, percosse sì forte il cuore del piacere della bella donna, che ritornando egli nel primo tremore ancora trema; e in esso entrata, v'accese una fiamma, secondo il mio avviso, inestinguibile, e di tanto valore, che ogni intendimento dell'anima ha rivolto a pensare delle maravigliose bellezze della vaga donna. Ma poi che di quindi col piagato cuore partito mi fui, e sospirato ebbi più giorni per la nuova percossa, pur pensando alla valorosa donna, avvenne che un giorno, non so come, la fortuna mi balestrò in un santo tempio dal prencipe de' celestiali uccelli nominato, nel quale sacerdotesse di Diana, sotto bianchi veli, di neri vestimenti vestite, cultivavano tiepidi fuochi divotamente; là dove io giungendo, con alquante di quelle vidi la graziosa donna del mio cuore stare con festevole e allegro ragionamento, nel quale ragionamento io e alcuno compagno domesticamente accolti fummo. E venuti d'un ragionamento in un altro, dopo molti venimmo a parlare del valoroso giovane Florio, figliuolo di Felice, grandissimo re di Spagna, recitando i suoi casi con amorose parole. Le quali udendo la gentilissima donna, sanza comparazione le piacquero, e con amorevole atto inver di me rivolta, lieta, così incominciò a parlare:

 

«Certo grande ingiuria riceve la memoria degli amorosi giovani, pensando alla grande costanza de' loro animi, i quali in uno volere per l'amorosa forza sempre furono fermi servandosi debita fede, a non essere con debita ricordanza la loro fama essaltata da' versi d'alcun poeta, ma lasciata solamente ne' fabulosi parlari degli ignoranti. Ond'io, non meno vaga di potere dire ch'io sia stata cagione di rilevazione della loro fama che pietosa de' loro casi, ti priego che per quella virtù che fu negli occhi miei il primo giorno che tu mi vedesti e a me per amorosa forza t'obligasti, che tu affanni in comporre un picciolo libretto volgarmente parlando, nel quale il nascimento, lo 'nnamoramento e gli accidenti de' detti due infino alla loro fine interamente si contenga».

 

E questo detto, si tacque. Io sentendo la dolcezza delle parole procedenti dalla graziosa bocca, e pensando che mai, cioè infino a questo giorno, di niuna cosa era stato dalla nobilissima donna pregato, il suo priego in luogo di comandamento mi riputai, prendendo per quello migliore speranza nel futuro de' miei disii, e così risposi:

 

«Valorosa donna, la dolcezza del vostro priego, a me espressissimo comandamento, mi stringe sì, che negare non posso di pigliare e questo e ogni maggiore affanno che a grado vi fosse, avvegna che a tanta cosa insofficiente mi senta; ma seguendo quel detto, che alle cose impossibili niuno è tenuto, secondo la mia possibilità, con la grazia di Colui che di tutto è donatore, farò che quello che detto avete sarà fornito».

 

Benignamente mi ringraziò, e io, costretto più da ragione che da volontà, col piacere di lei di quel luogo mi partii, e sanza niuno indugio cominciai a pensare di voler mettere ad essecuzione quello che promesso aveva. Ma però che, come di sopra è detto, insofficiente mi sento sanza la tua grazia, o donatore di tutti i beni, ad impetrar quella quanto più posso divoto ricorro, supplicandoti, con quella umiltà che più può fare i miei prieghi accettevoli, che a me, il quale ora nelle sante leggi de' tuoi successori spendo il tempo mio, che tu sostenghi la mia non forte mano alla presente opera, acciò che ella non trascorra per troppa volontà sanza alcun freno in cosa la quale fosse meno che degna essaltatrice del tuo onore, ma moderatamente in etterna laude del tuo nome la guida, o sommo Giove.

 

 

[2]

 

Adunque, o giovani, i quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzata a' venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane figliuolo di Citerea, negli amorosi pelaghi dimoranti disiosi di pervenire a porto di salute con istudioso passo, io per la sua inestimabile potenza vi priego che divotamente prestiate alquanto alla presente opera lo 'ntelletto, però che voi in essa troverete quanto la mobile fortuna abbia negli antichi amori date varie permutazioni e tempestose, alle quali poi con tranquillo mare s'è lieta rivolta a' sostenitori; onde per questo potrete vedere voi soli non essere sostenitori primi delle avverse cose, e fermamente credere di non dovere essere gli ultimi. Di che prendere potrete consolazione, se quello è vero, che a' miseri sia sollazzo d'avere compagni nelle pene; e similemente ve ne seguirà speranza di guiderdone, la quale non verrà sanza alleggiamento delle vostre pene. E voi, giovinette amorose, le quali ne' vostri dilicati petti portate l'ardenti fiamme d'amore più occulte, porgete le vostre orecchi con non mutabile intendimento a' nuovi versi: li quali non vi porgeranno i crudeli incendimenti dell'antica Troia, né le sanguinose battaglie di Farsaglia, le quali nell'animo alcuna durezza vi rechino; ma udirete i pietosi avvenimenti dello innamorato Florio e della sua Biancifiore, li quali vi fieno graziosi molto. E, udendoli, potrete sapere quanto ad Amore sia in piacere il fare un giovane solo signore della sua mente, sanza porgere a molti vano intendimento, però che molte volte si perde l'un per l'altro, e suolsi dire che chi due lepri caccia, talvolta piglia l'una e spesso non niuna. Dunque apprendete d'amare uno solo, il quale ami voi perfettamente, sì come fece la savia giovane, la quale per lunga sofferenza Amore recò al disiato fine. E se le presenti cose, o voi, giovani e donzelle, generano ne' vostri animi alcun frutto e diletto, non siate ingrati di porgere divote laudi a Giove e al nuovo autore.

 

 

[3]

 

Quello eccelso e inestimabile prencipe sommo Giove, il quale, degno de' celestiali regni posseditore, tiene la imperiale corona e lo scettro, per la sua ineffabile providenza avendo a sé fatti cari fratelli e compagni a possedere il suo regno molti, conosceo lo iniquo volere di Pluto, il quale più grazioso e maggiore degli altri avea creato, che già pensava di volere il dominio maggiore che a lui non si conveniva; per la qual cosa Giove da sé il divise, e in sua parte a lui e a' suoi seguaci diede i tenebrosi regni di Dite, circundata dalli stigi paduli, e loro etterno essilio segnò dal suo lieto regno; e provide di nuova generazione volere riempiere l'abandonate sedie, e con le propie mani formò Prometeo, al quale fece dono di cara e nobile compagnia. Questo veggendo Pluto, dolente che strana prole fosse apparecchiata per andare ad abitare il suo natale sito, del quale elli per suo difetto era stato cacciato, imaginò di far sì che le nuove creature da quella abitazione facesse essiliare; e con sottile inganno la sua imaginazione mise in effetto, e del santo giardino voltò le prime creature, le quali per suo consiglio il precetto del loro creatore miserabilemente prevaricarono, e seguentemente loro con tutti li loro discendenti rivolse alle sue case, e rallegrandosi d'avere per sottigliezza annullato il proponimento di Giove. Lungamente sofferse Colui che tutto vede questa inguiria, ma poi che tempo gli parve di dovere mostrare la sua pietà inver di coloro che stoltamente s'aveano lasciato ingannare e che stavano ne' tenebrosi luoghi rinchiusi, allora miracolosamente il suo unico Figliuolo mandò in terra da' celestiali regni, e disse:

 

«Va, e col nostro sangue libera coloro, a cui Dite è stata così lunga carcere, e appresso te lascia in terra sì fatte armi, che gli altri futuri, a' quali ella ancora non s'è mostrata, prendendole, si possano valorosamente difendere dalle false insidie e occulte di Pluto: e ricominci Vulcano per lo tuo comandamento nuove folgori, le quali, tu gittando, dimostrino quanta sia la nostra potenza, come già feciono».

 

Scese al comandamento del suo Padre l'unico Figliuolo dalla somma altezza in terra, a sostenere per noi la iniqua percossa d'Antropos, apportatore delle nuove armi, in disusato modo, non operando in lui la natura il suo uficio come negli altri uomini. La terra, come sentì il nuovo carico della deità del figliuolo di Giove, diede per diverse parti della sua circunferenza allegri e manifesti segni di futura vittoria agli abitanti; e egli, già in età ferma pervenuto, cominciò a riempiere la terra delle aportate armi e a fare avedere coloro, che con perfetta fede i suoi detti ascoltavano, del ricevuto inganno, porto dall'antico oste; i quali, come il perduto conoscimento riaveano, così delle nuove armi per loro difesa si guarnivano, e contra gli ignoranti la verità moveano varie battaglie e molte; e verso loro alcuno che volesse non si trovava potere resistere, però che sanza cura d'affanno e di corporale morte gli trovavano. E già delle vittorie de' nuovi cavalieri entrati contra Pluto in campo, tutto l'oriente ne risonava; ma ancora le loro magnifiche opere l'occidente non sentiva, quando il Figliuol di Dio, avendo spogliata di molti prigionieri l'antica Dite, e essendo al suo padre ritornato, e mandato a' prencipi de' suoi cavalieri lo 'mpromesso dono del santo ardore, volendo che l'ultimo ponente sentisse le sante operazioni, elesse uno de' suddetti prencipi, quello che più forte gli parve a potere resistere alle infinite insidie che ricevere dovea, e sopra l'onde di Speria trasportare il fece a un notante marmo. Il quale, pervenuto nella strana regione, con la forza della somma deità, cominciate contro quelli, i quali resistenti trovò, aspre battaglie, acquistò molte vittorie, e molti delle celestiali armi novelle vi rivestì. Ma poi, dopo molto combattere, trovata più resistente schiera, sanza volgere viso o sanza alcuna paura l'ultimo colpo d'Antropos umile e divoto sostenne, e al cielo, per lungo affanno meritato, rendé la santa e gloriosa anima. I cui seguaci, dopo la sua passione, prese le martirizzate reliquie, in notabile luogo reverentemente le sepelliro non sanza molte lagrime. E ad etterna memoria di così fatto prencipe, poco lontano all'ultime onde d'occidente, sopra il suo venerabile corpo edificarono un grandissimo tempio, il quale del suo nome intitolarono, ardendo in esso continuamente divotissimi fuochi, rendendo in essi al sommo Giove graziosi incensi. E esso, giusto essauditore, non fu tanto nella sua vita valoroso resistente a' difenditori della falsa oppinione, quanto dopo il suo ultimo dì fu molto più grazioso conservatore de' suoi fedeli, però che Giove in servigio di lui, nel suo tempio essaudendo le debite orazioni, mirabili cose facea, onde la fama dell'occidentale Iddio risonava per l'universo. Certo ella passò in brieve tempo le calde onde dello orientale Ganges, e nelle boglienti arene di Libia fu manifesta, e dagli abitanti nelle ghiacciate nevi d'Aquilone fu saputa, però che egli non porgea risponsi, come far soleano i bugiardi iddii, ma con vere operazioni ne' bisogni soccorrea e soccorre i divoti domandatori: e per questo più la santa fama per il mondo risuona.

 

 

[4]

 

Suona adunque la gran fama per l'universo della mirabile virtù del possente Iddio occidentale, e in te, o al ma città, o reverendissima Roma, la quale igualmente a tutto il mondo ponesti il tuo signorile giogo sopra gl'indomiti colli, tu sola permanendone vera donna, molto più che in alcun'altra parte risuona, sì come in degno luogo della cattedrale sedia de' successori di Cefas. E tu di ciò dentro a te non poco ti rallegri, ricordando te essere quasi la prima prenditrice delle sante armi, però che conoscesti te in esse dovere tanto divenire valorosa, quanto per adietro in quelle di Marte pervenisti, e molto più; onde contentati che come già per l'antiche vittorie più volte la tua lucente fronte ti fu ornata delle belle frondi di Pennea, così di questa ultima battaglia, con le nuove armi triunfando tu vittoriosamente, meriterai d'essere ornata d'etternal corona, e, dopo i lunghi affanni, la tua imagine tra le stelle onorevolemente sarà locata, tra le quali co' tuoi antichi figliuoli e padri beata ti ritroverai. E i tuoi figliuoli già per la nuova fama prendono a' lontani templi divozione, e adomandando allo Iddio dimorante in essi i bisognevoli doni, promettono graziosi boti: i quali doni ricevuti, ciascuno s'ingegna d'adempiere la volontaria promissione visitandoli, ancora che sieno lontani: la qual cosa appo Iddio grandissimo merito sanza fallo t'impetra.

 

 

[5]

 

 Risuona per Roma, com'è detto, la gran fama nella quale un nobilissimo giovane dimorava, il quale si chiamava Quinto Lelio Africano, disceso del nobile sangue del primo conquistatore dell'africana Cartagine. Era questo ornatissimo di belli costumi e abondante di ricchezze e di parenti, già per la sua virtù prescritto all'ordine militare, e avea, secondo la nuova legge del Figliuol di Dio, una giovane romana nobilissima, nata della gente giulia, e Giulia Topazia nominata, presa per sua legit tima sposa, la quale per la sua gran bellezza e infinita bontà era molto da lui amata. E già era con lei, poi che Imineo coronato delle frondi di Pallade fu prima nelle sue case e le sante tede arse nella sua camera, dimorato tanto, che Febo cinque volte era nella casa della celestiale Vergine rientrato, e ancora di lei niuno figliuolo avea potuto avere, de' quali egli sopra tutte le cose era disideroso; e in molte maniere cercato com'egli potesse fare che la giovane concepesse, e niuna pervenuta ad effetto, sentiva nell'animo angoscioso tormento. Ma l'infinita pietà di Colui a cui nulla cosa si nasconde non sostenne che sanza parte del suo disio vedere egli finisse i giorni suoi, a' quali poco più spazio era assegnato, anzi saviamente precorse in cotal modo: che, essendo Lelio un giorno intorno a quel disio molto pensoso, udì narrare di quello Iddio, che sopra gli sperii liti dimorava lontano, maravigliose cose per lui fatte; le quali poi ch'egli ebbe udite, se n'andò in uno santo tempio, là dove la reverenda imagine del glorioso santo era figurata, nel cospetto della quale disse così:

 

«O grazioso Iddio, il quale sopra i liti occidentali lasciasti il tuo santo corpo, l'anima renduta al sommo Giove, ricevi le mie voci, degne d'essere essaudite, nella tua presenza. E così come a niuno, che divotamente giusto dono ti domandi, li nieghi, così a me la mia domanda, s'è giusta, non negare, ma perfettamente me la adempi. Io sono giovane d'eccellentissima fama, e di famosi parenti disceso, e nella presente città copioso di ricchezze e di congiunti parenti, accompagnato di nobilissima e bella giovane, con la quale io sono stato tanto tempo ch' io veggio incominciare la sesta volta al sole l'usato cammino, e niuno figliuolo ancora di lei ho potuto avere, il quale dopo l'ultimo nostro giorno possa il nostro nome ritenere e possedere l'antiche ricchezze possedute lungamente per ereditaggio; di che nell'animo sostengo gravissima noia. Ond'io divotamente ti priego che nel cospetto dello onnipotente Si gnore grazia impetri, che se Egli dee essere della mia anima bene, e del suo e tuo onore essattamento, che Egli uno solamente concedere me ne deggia, il quale dopo me me rapresenti. La qual cosa se Egli me la concede, io ti prometto e giuro per l'anima del mio padre e per la deità del sommo Giove che i tuoi lontani templi saranno da me visitati personalmente, e i tuoi altari di divoti fuochi saranno alluminati».

 

E fatta la degna orazione, tornò al suo militar palagio, quasi contento: "Così come niuno giusto priego può esser fatto sanza essere essaudito, così questo, però che era giusto, sanza essaudizione non pote trapassare". Ma già i disiosi cavalli del sole, caldi per lo diurno affanno, si bagnavano nelle marine acque d'occidente, e le menome stelle si poteano vedere, essendo già Lelio e Giulia, dopo i dilicati cibi da loro presi, quasi contenti del fatto voto, sperando grazia, andatisi a riposare nel congiugale letto, nel quale soavissimo sonno gli avea presi, quando il santo, per cui Galizia è visitata, volle fare a Lelio manifesto quanto il suo giusto priego, fatto il preterito dì, gli fosse a grado; e disceso dagli alti cieli, e entrato radiante di maravigliosa luce nella camera di Lelio, con lieto viso gl'incominciò a parlare, dormendo egli, e disse così:

 

«O Lelio, io sono colui il quale tu il passato giorno con tanta divozione chiamasti, pregando ch'io t'impetrassi grazia, nel conspetto di Colui che tutte le dona sanza rimproverare, che tu potessi avere degna erede del tuo nome, nel quale dopo la tua morte la tua fama vivesse. Onde Egli, misericordioso essauditore de' giusti prieghi, e di tutto bene benignissimo donatore, per me ti manda a dire che il tuo priego è essaudito da Lui, e che, la prima volta che tu con la tua sposa onestamente ti congiugnerai, veramente riceverai il dimandato dono».

 

E queste parole dette, ad un'ora egli e 'l sonno di Lelio si partirono. Lelio, svegliato, pieno di maraviglia e d'allegrezza, per lungo spazio volse gli occhi per la camera per vedere se ancora l'aportatore della lieta novella vi fosse; ma poi che vide lui non esservi, umilemente cominciò a ringraziare colui che mandata aveva tanto disiata ambasciata; e chiamata Giulia, la quale ancora dormia, le narrò la veduta visione. Di che ella si maravigliò molto, e lieta quasi sanza fine incominciò a ringraziare Iddio. E non dopo molto spazio stato tra loro quella congiunzione che annunziata fu a Lelio, s'avide Giulia esser gravida, secondo che il santo Iddio avea annunziato.

 

 

[6]

 

Non dopo molti giorni, mostrando già Calisto dintorno al polo quanto era lucente, incominciò Lelio e Giulia insieme a ragionar della mirabile visione, e dopo alquante parole, Giulia, che già avea sentito e sentia in sé il disiato frutto nascoso, disse:

 

«Certo, Lelio, già per effetto mi par sentire il grazioso dono esserci dato, però che più grave esser mi pare che per lo preterito parere non solea».

 

Quando Lelio udì queste parole fu tanto allegro, che nulla giusta comparazione si potrebbe porre alla sua allegrezza, e disse:

 

«Adunque niuno indugio si vuole porre a fare gl'impromessi doni, ma così tosto come i chiari raggi di Apollo ne recheranno il chiaro giorno, io con quella compagnia che mi parrà voglio prendere il lungo cammino e portare i graziosi incensi promessi a' lontani altari».

 

Allora disse Giulia:

 

«Deh! ora sarà il tuo cammino sanza me fatto?».

 

Lelio rispose:

 

«Giulia, tu se' giovane, e sì fatto affanno sarebbe alla tua tenera età impossibile, e noioso al disiato frutto che tu nascondi; però tu rimarrai degna donna della nostra casa, lietamente aspettando la mia tornata».

 

Giulia, udendo queste parole, bagnò il suo viso d'amare lagrime, dicendo:

 

«Certo, quando la fortuna ti fosse contraria, mi crederei io esser vie più possente sostenitrice dell'armi e degli affanni, sempre aiutandoti e seguendoti, che non fu Issicratea a Mitridate, non che nelle felicità, nelle quali il venirti appresso mi porge smisurato diletto. Se tu mi lasci sola di te, tu mi lascerai accompagnata di molti e varii pensieri: il mio petto sarà sempre pieno di molte sollecitudini, e nascosamente sosterrò maggior affanno, sempre di te dubitando, ch'io non potrei mai fare venendo teco».

 

O Tiberio Gracco, fu tanta la pietà che tu avesti di Cornelia, tua cara sposa, quando lasciasti la femina serpe, risparmiando anzi la sua vita che la tua propia, quanto fu quella di Lelio vedendo le lagrime della cara compagna? Certo appena! Ond'egli le rispose:

 

«Giulia, poni fine alle tue lagrime, ché i lontani templi da me sanza te non saranno cercati; e però disponi il tuo virile animo al nuovo cammino, che al nuovo giorno credo cominceremo».

 

Giulia contenta si tacque.

 

 

[7]

 

L'Aurora avea rimossi i notturni fuochi e Febo avea già rasciutte le brinose erbe, quando Lelio, chiamata Giulia, lieti si levarono da' notturni riposi, e comandarono che quelle cose le quali a camminare fossero necessarie, fossero sanza indugio apparecchiate. E mandato per quelli i quali a loro piacque d'eleggere per loro compagnia, loro narrarono il lieto avvenimento, comandando ad essi che immantanente fossero presti d'andare con loro a mettere ad effetto le fatte promissioni. Al quale comandamento fu risposto loro essere presti ad ogni loro piacere.

 

 

[8]

 

Fu sanza alcuno indugio messo ad essecuzione il comandamento di Lelio; onde egli e Giulia e la loro compagnia, tornando da' santi templi da porgere pietosi prieghi al sommo Giove che il loro andare e tornare facesse essere prosperevole, salirono sopra i portanti cavalli, e, piangendo, appena a' cari parenti e amici poterono dire addio: e partironsi, e con lieto animo cominciarono il disaventurato cammino.

 

 

[9]

 

Il miserabile re, il cui regno Acheronta circunda, veggendo che lo essercizio era alle sue invasioni inique contrario, e che i lunghi cammini porgevano alla carne affannosa gravezza, per la quale i sostenitori d'essa fuggivano le inique tentazioni e meritavano il mal conosciuto regno da lui, il quale egli, per disiderare oltre dovere, perdé, afflitto di noiosa sollecitudine, veggendo la maggior parte di quelli che andar soleano alle sue case esser disposti a quello affanno, o ad altri simiglianti o maggiori, pensò di volergli ritrarre da sì fatte imprese con paura; e convocati nel suo conspetto gl'infernali ministri, disse:

 

«Compagni, voi sapete che Giove non dovutamente degli ampi regni, i quali egli possiede, ci privò, e diedeci questa strema parte sopra il centro dell'universo a possedere, e in dispetto di noi creò nuova progenie, la quale i nostri luoghi riempisse. Noi ingegnosamente li sottraemmo, sì che noi volgemmo i loro passi alle nostre case: e Egli ancora, non parendogli averci tanto oltraggiato, mandò il suo Figliuolo a spogliarcene al quale non potendo noi resistere, ci spogliò, e dopo tutto questo fece aveduti gli abitanti della terra de' nostri lacciuoli, e donò loro armi con le quali essi leggiermente le nostre spezzano. E che noi di questi oltraggi ci andiamo a vendicare sopra di lui, il salire in su c'è vietato, e Egli è più possente di noi: però ci conviene pur con ingegno il nostro regno aumentare, e fare di ria vere ciò che per adietro abbiamo perduto. Tra l'altre cose che il Figliuolo di Giove lasciò in terra al suo popolo, a noi più contraria, fu continuo essercizio, al quale del tutto si vuole intendere da noi, acciò che si spenga con volonteroso ozio delle loro menti, e li romani massimamente, i quali, quasi agli altri principali, hanno questo essercizio molto impreso, e quasi ogni gente da loro lo 'mprende. Ond'io ho proposto di volerli almeno ritrarre dall'andare li strani templi visitando, con paura; e questo sanza fallo mi verrà fatto troppo bene sopra gran quantità d'essi, che ora al tempio che sopra l'ultime piagge di Speria dimora, vanno, sopra i quali io vendicherò la mia ira, e voi siate intenti di fare il simigliante ovunque voi ne sentite alcuno».

 

 

[10]

 

Dette queste parole a' suoi, prese vana forma simigliante d'un nobilissimo cavaliere, il quale sotto la potenza del gran re Felice, reggitore de' regni di Speria, nipote di Atalante, sostenitore de' cieli, governava vicino a' colli d'Appennino una città chiamata Marmorina. E salito sopra un cavallo, le cui ossa per magrezza quasi quante fossero apertamente mostrava, e correndo sopra esso, pervenne ne' lontani regni, e trovato il re, il quale le silvestre bestie cacciando prendea diletto, fu davanti a lui. E come tal volta sogliono i corpi morti gravosi cadere alla terra sanza essere urtati, cotale costui fittivamente cadendo davanti gli si gittò, e con voce affannata, tanto che appena s'udiva, piangendo cominciò a dire:

 

«O signor mio, tu vai l'innocenti bestie davanti a te cacciando, e nelle loro innocenti interiora metti aizzando gli aguti denti de' feroci cani, ma io misero ho nella vostra città Marmorina lasciato il romano fuoco, il quale, sì com'io vidi già per li più alti luoghi, tutta la città guasta va: e come ciò avvenisse a me è occulto; se non che avendo noi il giorno davanti celebrati i santi sacrificii di Bacco con grandissima festa, e la vegnente notte, riposandosi, ciascuno avea già di sé la quarta parte passata, quando io, quasi dormendo, cominciai a sentire grandissimo pianto d'uomini, di garzoni e di femine, e impetuoso suono di non usate armi. Allora, abandonato del tutto il quieto sonno, pauroso mi levai, e salii negli alti luoghi della nostra casa, e vidi tutta la città piena di fuoco e di noiose ruine, e di maggior pianto furono ripiene le mie orecchie. E già presso alla nostra casa udendo il terribile suono delle sonanti trombe, disarmato corsi per le fidate armi, per risalire armato nelle fortezze della nostra casa, scendendo contra i molti amici, i quali contra i crudeli osti, per lo bene della città, s'apparecchiavano con le taglienti spade d'aspramente combattere. Allora dissi, quasi avendo nella loro vita compassione: "O giovani, or non vedete voi che fortuna sia nelle presenti cose? Quelli iddii nei quali la forza in che la speranza della nostra signoria dimorava, sono fuggiti e hanno abandonato i loro altari e però voi soccorrete indarno alla città. Ma se voi avete certa fidanza nelle vostre armi, andiamo, e in mezzo de' nemici combattiamo, essendo io duce: e quivi, o vinciamo, o, sdebitandoci di tal vergogna, mandiamo le nostre anime alle infernali sedie: "sola salute è a' vinti non isperar salute"". La città, da tutte parti presa, era da' nemici con gli aguti spuntoni guardata; ma noi poi, assicurati, ci movemmo ad andare alla non dubbiosa morte tutti per una via. Oimè! chi potrebbe mai narrare la ruina e la tempesta di quella notte? Chi potrebbe parlando dire la menoma parte della uccisione o con le lagrime agguagliare la fatica? L'antica città, la quale molti anni vittoriosa sotto le nostre braccia dimorò, fu da' miei occhi veduta quella notte cadere quasi tutta in picciola ora; ma noi miseri, portati da' miserabili fati, ovunque andavamo, per le larghe vie trovavamo cadere corpi gravati da mortale gelo: ad ogni passo trovavamo nuovo pianto, e in ogni parte era romore e uccisione infinita. E andando per diverse parti della città, dandone l'accese case aperti passaggi, più volte scontrandoci in picciole schiere di nemici combattemmo. Ma già quasi propinqui all'ultima ora della notte, vaghi del nuovo giorno, fummo da innumerabile moltitudine di nemici aspramente assaliti, e quivi difendendoci virilmente, vidi io gran parte de' miei compagni bagnare la terra del loro sangue, e sanza niuna misericordia essere dagli avversario uccisi. Onde non potendo noi più sostenere il crudele assalto, con alquanti diedi le spalle, fuggendo verso il nostro palagio; ma quivi trovata più aspra battaglia, quasi furiosi, sanza alcuna speranza di salute, io e' miei compagni tra gli aguti ferri de' nemici ci gittammo. Quivi io, ferito in molte parti, rientrai nelle mie case, nelle quali alquanti de' miei compagni vinti vilmente si fuggirono; e saliti nel superiore pavimento, vedemmo tutta la città essere d'ardenti fiamme e di noiosi fummi ripiena, la quale piangendo riguardavamo. Allora fummo assaliti di nuovo accidente, però che rotte le porti dell'antico palagio, salì uno grandissimo uomo romano con molti seguaci, il quale, sì come il fiero lupo le timide pecore sanza difesa strangola, così costui andava uccidendo qualunque davanti gli si parava. A lui vidi io uccidere il vecchio padre e due miei figliuoli, e altri molti. Sopra il quale volendo io prendere debita vendetta, ricevetti infiniti colpi della sua spada; ma poi la vecchia madre e altre femine con lei, mettendo le loro persone per la mia vita tra la sua spada e 'l mio corpo, fortunosamente mi trassero delle sue mani. E uscito fuori della non già città, veggendo che per me più niuno soccorso vi si potea porgere, miserabilemente me verso queste parti mi dirizzai, e qui nel vostro conspetto mi sono fuggito. E dicovi che il vostro regno è sanza dubbio assalito da gente tanto acerba, che non che contro a voi, ma ancora contro i nostri iddii hanno prese armi; e che ciò ch'io ho narrato sia vero, manifestevelo il sangue mio, il quale per tante ferite potete vedere davanti da voi spandere. Io ho appena, fuggendo, potuta la mia vita ricuperare, la quale omai credo sarà brieve; e le mie ferite, le quali più tosto medico e riposo che affanno richiedevano, marcite costringono l'anima d'abandonare il misero corpo. E però vi priego che voi v'apparecchiate acciò che i vostri nemici, i quali credo che non sieno di qui guari lontani, possiate con più forte fronte ricevere che io non potei, e acciò che voi altressì vendichiate le mie ferite, acciò che io tosto tra gli altri spiriti possa alzare la testa per la vendicata morte».

 

E appena finì queste parole con intera voce, che davanti al re il corpo sanza anima freddo lasciò.

 

 

[11]

 

Con le mani prese, nell'aspetto stupefatto stava il re Felice ad ascoltare le fitte parole; ma poi che vide lo spirito del parlante cavaliere avere abandonato il corpo e più non dire, mutato il naturai colore, tornò palido, e, oppresso nel segreto petto di varie cure, quasi per greve doglia appena ritenne le lagrime. E non sappiendo che partito prendere del subito annunzio, mostrandosi vigoroso per rincorare i suoi, comandò che al morto corpo fosse data sepoltura; e abandonata la cominciata caccia, volse i passi co' suoi compagni verso le reali case. Alle quali poi che fu giunto sospirando, a' suoi cavalieri comandò che sanza niuno dimoro prendessero l'usate armi; e sollecitamente fatti convocare i vicini popoli, i quali sotto la sua signoria si costringeano, adunò grandi dissimo essercito in pochi giorni, intendendo di volere obviare gli assalitori del suo regno.

 

 

[12]

 

Poi che questo tutto fu fatto, e il giorno, il quale segretamente avea proposto di movere col suo essercito, fu venuto, egli comandò che divoti sacrificii s'apparecchiassero a Marte, acciò che la sua deità, la quale verso loro parea indebitamente crucciata, sacrificando si mitigasse; e esso personalmente volendo sacrificare acciò che il suo andare prosperamente si dirigesse verso i suoi nemici, andò al sacrato tempio davanti agli altari di Marte, la cui effigie riguardando per più effettuosamente porgere pietosi prieghi, vide bagnata di novelle lagrime, le quali non poco dubbio gli porsero. Ma poi, imaginando che Marte per compassione de' suoi danni avesse lagrimato, alquanto riprese conforto, e fatto venire un giovane toro per volerlo sopra i detti altari sacrificare, disse così:

 

«O vera deità, la quale a' nostri danni hai mostrata lagrimando vera compassione, ricevi i nostri volontarii sacrificii, i quali presenzialmente ti facciamo, e con lieto viso ne porgi speranza di prosperevole andata».

 

E dette queste parole, ferì lo 'ndomito toro, il quale, sì tosto come sentì la puntura del freddo coltello, per duolo sì forte si scosse, che, uscito delle mani di coloro che 'l teneano, furiosamente fuggì verso i marini liti d'occidente, il suo sangue spandendo, allungandosi, e torcendo i passi da quella parte onde i nimici, secondo il falso detto, doveano il reame avere assalito.

 

 

[13]

 

Vedendo questo, il re non poté dentro per fortezza d'animo ritenere le lagrime, ma forte piangendo cominciò a dire:

 

«Ora manifestamente possiamo noi ben vedere l'ira degl'iddii quanto ella verso noi adopera, e quanto i fortunosi fati ci si sono incontro rivolti! Oimè, che Marte, lagrimando, non de' preteriti danni ma de futuri mostra d'aver compassione! Egli e gli altri iddii rifiutano i nostri sacrificii, sì come di non degni sacrificatori: e ciò apertamente si vede, ché già il toro ferito per mitigar la loro ira è fuggito dinanzi da' loro altari delle nostre mani, e va dello innocente sangue bagnando il nostro terreno, mostrandone manifesti segni della nostra fuga, la quale infino agli ultimi termini della nostra potenza mostra che si debba con crudele uccisione distendere. Ma, o sommi iddii, se i miseri meritano d'essere da voi in alcuno atto essauditi, non ischifate le mie piangenti voci, però che, come voi sapete, io non sono quello Dionisio, il quale più volte i vostri templi e le vostre imagini privò di corone e d'altri ornamenti degni a' vostri altari. Io già mai, o Giove, non ti spogliai come costui fece, dicendo che la risplendente roba fosse di state grave e di verno fredda, rivestendoti di comuni drappi, utili all'uno tempo e all'altro. Né a te, o figliuolo d'Apolio, feci mai con tagliente ferro levare la cara barba; né a te, o santa Giunone, scopersi il santo tempio, come Quinto Fulvio fece, per ricoprirne alcuno altro: per le quali cose, sì come sacrilego, io e 'l mio popolo meritiamo giusta distruzione, ma sempre voi e' vostri templi furono da noi onorati. Dunque non consentite che la nostra potenza, da voi a' nostri antecessori benignamente conceduta, crudelmente sanza cagione si distrugga, e almeno da quel popolo, il quale con nuove armi alla vostra forza s'ingegna di contrastare. E se pure ci è alcuna cagione per la quale la vostra ira giustamente contro a noi si muova, la quale o io o 'l mio popolo abbia commessa contro la vostra deità, venga di grazia sopra me tutto il pondo. Deh! non mi fate men degno di questo dono che voi faceste Camillo, il quale i romani per lui molto essaltati, per la sua orazione la quale essaudiste, mandarono ivi a poco tempo in essilio: avvegna che l'arsa Marmorina, e lo sparto sangue, e' partiti spiri ti de' nostri uomini vi dovrebbono essere stati sofficiente sacrificio a mitigarvi. Sia da voi conce, conceduto che io prima, percosso da Antropos, renda lo spirito agl'iddii infernali co' precedenti morti insieme; che io sotto le mie braccia vegga il mio regno annullare».

 

 

[14]

 

Mentre che il re con lagrime e con sospiri faceva la detta orazione, volgendo alquanto i lagrimosi occhi verso quella parte dalla quale il furioso toro era fuggito, vide il toro in uno vicino bosco per difetto di sangue caduto, e sopr'esso essere, come folgore volando, disceso da cielo il divino uccello, e sopr'esso toro per grande spazio essersi pasciuto, e appresso quindi levarsi e volare verso quelle parti onde doveano quello giorno prendere il loro cammino i suoi popoli. La qual cosa veduta, in se medesimo preso il volo di quello uccello per buono agurio, assai più d'allegrezza e di speranza si riempié, che non fece Paulo alla voce di Tarsia, quando disse: " Persio è morto", o Lucio Silla quando vide dallato del suo altare cadere il morto serpente ne' campi di Nola. E mutato il lagrimoso aspetto in lieto, con alta voce cominciò a dire al suo popolo:

 

«Rallegratevi e prendete debito conforto, signori, però che Giove pietosamente ha mutato consiglio e, fatto verso noi pietoso, gli è de' nostri danni incresciuto, però ch'io ho veduto che il sacrificio da noi rifiutato e che delle nostre mani fuggì, egli l'ha benignamente accettato: e ciò ci manifesta il suo santo uccello, al quale io vidi il toro, già con poca forza rimaso, abbattere nel vicino bosco, e sopr'esso per lungo spazio si pascé, levandosi poi, ha il suo volo ripreso, verso i nostri avversarii, quasi mostrandoci che via noi dobbiamo fare. Onde pare che Giove benignamente ricevuto l'abbia, poi che alle nostre schiere ha mandato sì fatto duca. Or dunque cacciate da voi ogni dolore, e pieni d'allegrezza accendete i fuochi sopra i santi altari, e date agl'iddii divoti prieghi per la nostra vittoria, e poi sanza niuno indugio i nostri passi verso quella parte, onde volò il santo uccello, dirizziamo, però che già si manifesta agli occhi la disiderata vendetta dovere pervenire fatta a prosperevole fine».

 

 

[15]

 

Arsi i fatti fuochi e dissoluti i nebulosi fummi avvolti ne' sacri templi, le trombe sonarono e i cavalli presti alle fiere battaglie, udito il suono, cominciarono a fremire; e allora il re, acceso di focoso disio per la speranza presa del detto agurio, comandò che le reali bandiere fossero spiegate a' venti e che tutti i suoi, abandonandosi a' fortunosi fati, verso Marmorina drizzassero il loro cammino: al quale comandamento le bandiere spiegate e la via presa fu sanza niuna dimoranza. Ma il misero Lelio, il quale dell'ultimo giorno, a lui ruinosamente apparecchiato dalla fortuna, e a' suoi compagni simigliantemente, non s'accorgeva, anzi con solleciti passi si studiava di pervenire a' dolenti fati; e già quattro volte cornuta e altretante tonda s'era mostrata la figliuola di Latona dopo la sua partita da Roma, la quale egli mai non dovea rivedere, e camminando s'avea lasciate dietro le bianche spalle d'Appennino, affrettandosi di pervenire al santo tempio, il quale da' suoi occhi non dovea essere veduto, né da alcuno altro de' suoi compagni.

 

 

[16]

 

Entrava il sole nella rosata aurora con lento passo, e' torbidi nuvoli occupavano il suo viso, per la qual cosa la sua luce, come usato era, non porgea chiara; forse a lui, che tutto vede, era già manifesta la fierità del crudel giorno, al quale egli s'apparecchiava di dar lume: quando Lelio e la sua compagnia lieti a' loro danni cavalcavano per una profonda valle, la quale piena di nebbia molto impediva le loro viste, tanto che appena l'uno vicino all'altro si poteano vedere. Era sopra la profonda valle una altissima montagna, tanto che parea che trapassando i nuvoli con le stelle si congiugnesse, la quale dovendo passare, già per la sua ertezza cominciava ad allentare i loro passi. Sopra la detta montagna l'avversario re, da loro non conosciuto, già era pervenuto con la sua gente, e quella notte sopr'essa per più sicurtà del suo essercito, sanza scendere al piano, s'era attendato. Ma già avendo il sole co' suoi aguti raggi cominciato a dissolvere l'oscure nebbie, il re, che sopra l'alta sommità dimorava, nella sua mente imaginando i cammini che col suo popolo far dovea, ficcando gli occhi fra la folta nebbia nel fondo della oscura valle, vide la divota gente cavalcare verso di lui; la quale veduta, incontanente dubitando, non altramenti essarse che fa la piombosa pietra, la quale uscendo della risonante rombola vola, e volando imbianca per l'impeti che davanti truova alla sua foga; e con alta voce voltato a' suoi cavalieri gridò:

 

«Venite, franchi campioni e cari amici e fratelli, però che già credo che i nostri nemici ci si manifestano».

 

E poi alquanto racchetato in se medesimo, parlò loro così:

 

«Signori, se gli occhi non mi mentono, a me par vedere, sì come mostrato v'ho, parte de' nostri avversarii già essere nella profonda valle appiè del monte e venire verso di noi, e essi, sì com'io credo, ancora di nostro movimento, né delle nostre armi prese niente sanno, né noi ancora qui non hanno potuto vedere per la folta nebbia, la quale ancora non è dissoluta. Però a me parrebbe che essi fossero da essere obviati con aspro scontro sanza più dimorare, acciò che essi, avedendosi prima di noi che noi gli assalissimo, non potesseno prendere rimedio a noi nocevole, né al loro scampo utile. Io son certo che essi sono infino a questo luogo venuti sanza trovare alcuna resistenza, per la qual cosa io avviso che essi cavalchino sanza alcuna paura dissolutamente; per che, assalendoli subito, li troverebbe l'uomo sanza alcuno argomento e di loro avrebbe o la morte o la vita, qual più gli piacesse: ond'io vi priego che sanza alcuno dimoro vigorosamente sieno da voi assaliti, cacciando da voi ogni tema. E già vedeste voi, anzi che noi le nostre case abandonassimo, che gi'iddii ne mostrarono segni di riconciliazione, e per più certezza di questo ci dierono il santo uccello per vero duca, il quale voi vedete che ha i nostri passi dirizzati in quella parte, che noi per lo preterito tanto abbiamo disiato. Appresso, voi sapete che questi vengono assetati del nostro sangue, e per voler nelle nostre interiora bagnare le loro spade, sanza ragionevole cagione; e vengono per occupare le nostre case, e per mandar noi nelle estravaganti parti del mondo in doloroso essilio. Adunque, sì per lo laudevole agurio, il quale prospera fine ne dimostrò, sì per la ragione la quale è nostra perfettamente, sì per difendere noi medesimi e le nostre case assalite da nuovi popoli, ciascuno, sì come vigoroso cavaliere, debba le sue armi adoperare. Pensate che voi non siete cavalieri usati di perdere le cominciate battaglie, ma continuamente per la vostra maravigliosa fortezza acquistando molte vittorie, v'avete per adietro fatto temere. Simigliantemente ancora vi dee porgere molto più ardire veggendo me armato disiderare la vostra salute con la mia insieme, essendo oramai quasi negli anni della mia ultima età, alla quale più tosto riposo che affanno si converrebbe. Or poi che tante ragioni vi deono muovere ad esser disiderosi della vittoria, movetevi in quello agurio che voi l'acquistiate».

 

E dette queste parole, comandò che le sue insegne scendessero il monte contro a coloro che ancora nella valle dimoravano. Allora i cavalieri gridando dierono segno di gran volontà di combattere, e le trombe sonarono, e corni e altri strumenti molti; e cavalieri sanza niuno ordine si mossero così furiosi, come talvolta il fiero cane, tratto della catena, sentendo sonare le frondi dell'antico bosco, seguendo la preda corre sanza niuno ritegno, discendendo l'alpestro monte.

 

 

[17]

 

Sì come gli impetuosi fiumi, i quali dell'alte montagne, turbati per la piovuta acqua, ruinosi impetuosamente caggiono sanza ritegno, menando seco alcuna volta grandissime pietre, le quali fanno insieme non minore fracasso che l'acque; così giù per la straripevole montagna, sanza tener via o sentiero diritto, si dirupava lo iniquo essercito, goloso dello innocente sangue, con un romore e con una tempesta sì di suoni di corni e di trombe e d'altri crudeli strumenti, come del forte strepito dell'armi medesime e de' cavalli, che tutta la valle faceano risonare. Giulia, meno piena di varie sollecitudini, sentendo il romore prima s'avvide della iniqua gente; la quale, vedendoli sì tempestosamente ventre, temendo come la timida cerva davanti al leone divenne, e tornata fredda come i bianchi marmi, a Lelio temorosamente s'accostò, e con rotta voce cominciò a dire:

 

«O Lelio, ove è fuggito il tuo lungo provedimento? Or non vedi tu quella gente armata che sì furiosamente verso noi discende dell'alto monte? Che gente può ella essere? Come non provedi tu al necessario rimedio ora, se elli vengono per offenderci?».

 

A queste voci alzò Lelio gli occhi e guardossi davanti, e vide il maladetto popolo ancora assai lontano, ma non tanto che fuga avesse potuto sé e' suoi compagni trarre delle mani degli avversario; ond'egli alquanto pavido nella mente, rivolto alla sua compagna disse:

 

«Non dubitare, fatti sicura che questi non cercano noi» tenendo con forte viso nascosa la creata paura; e poi fra sé cominciò a pensare, dicendo: "Certo costoro scendono sì furiosi per prenderci al varco della montagna, e vogliono di noi l'una delle due cose: o essi vogliono farsi del nostro avere posseditori privandone noi, o elli vengono, sì come ribelli della nostra legge, per privarci di vita, essendosi già loro in alcuno atto manifestata la nostra condizione. E a dire che di qui noi fuggendo volessimo scampare, questo è impossibile, però che i loro cavalli, freschi e possenti, assai tosto sopragiugnerebbono i nostri, affannati; e il volere loro con l'arme resistere, noi siamo picciola quantità a sì gran moltitudine. Dunque solamente aspettare la lor pietà, misericordia chiamando, è il migliore, acciò che fuggendo noi non incrudeliamo più gli animi; la quale s'elli la concedono, avanzeremo con Dio il nostro cammino, e se no, nelle nostre braccia, sperando in Dio, rimanga l'ultima parte della nostra salute».

 

 

[18]

 

Già tutti i compagni di Lelio e altri giovani molti, giunti per loro scampo in loro compagnia, disiderosi di pervenire a quel medesimo tempio ove costoro andavano, cominciavano fra loro a mormorare per la veduta gente; e quasi ciascuno dubitava di muoverne verso Lelio alcuna parola, vedendolo forse nel sopradetto pensiero occupato, quando Lelio, sentito il loro mormorio e veduta la loro dubitanza, si voltò verso essi con pietoso aspetto, così parlando:

 

 

[19]

 

«O nobilissimi giovani e cari amici e compagni, i quali avete infino a questo luogo seguiti i miei passi, faccendo di me duca e principale capo di tutti voi, non per dovere, ma essendone perfetto amore mediante cagione, a' miei orecchi sono pervenute le tacite parole, le quali tra voi della non conosciuta gente, che a' nostri occhi giù per lo monte discendere si manifesta, avete dette. Onde io, essendo stato ne' prosperevoli passi lieto conducitore, ne' dubbiosi non sosterrò, in quanto piacere vi sia, d'essere per alcun altro condotto; ma, prendendo in questo caso luogo di franco e vero duca, prima il mio avviso vi narrerò, poi i miei passi secondo il vostro consiglio perseguirò. Quando prima agli occhi miei, per le parole di Giulia, questa gente che noi veggiamo corse, incontanente, pensando il luogo ove noi siamo, due pensieri nella mente mi vennero: l'uno de' quali fu che costoro, forse indigenti delle mondane ricchezze, veggendo il nostro arnese molto, o forse avendone manifesta indetta, si mossero e vengono per volercene del tutto privare. La qual cosa se così avviene che sia, niuna resistenza se ne faccia loro a lasciarlo prendere, ma liberamente di piano patto sia tutto loro donato, però che, lodato sia Colui che di questo e degli altri beni è donatore, le nostre case sono a Roma copiose di molto oro, e però questo forse a loro fia molto e a noi poco sarebbe. L'altro pensiero fu questo, il quale molto più che 'l primo mi spaventa, che io dubito molto che costoro non rechino nelle loro mani la nostra morte, però che noi dimoriamo in quelle parti nelle quali ha più persecutori della nostra novella e santa legge, che quasi in niuna altra del mondo; e ancora me ne accerta più il vedere il modo per lo quale elli discendono a noi, ché voi vedete che essi vengono con grandissime bandiere spiegate, e con terribile romore, il quale andare non suole esser de' predoni. E però a questo ultimo, più che al primo pensando, nella mia mente ogni via essaminata, e niuna utile per noi ci trovo, però che, come voi vedete, il voler fuggire niuna cosa sarebbe, se non accendere gli animi loro in maggio re ira, e forse dare loro materia d'offenderci, dove essi non l'avessero; e poi che noi volessimo pur fuggire, manifesta cosa è che non ci è il dove, se non nelle loro braccia, però che d'alte montagne d'ogni parte in questa valle ci veggiamo racchiusi. E il volere con le nostre armi resistere alla loro potenza, noi siamo picciolo popolo a rispetto di loro; e però a me pare che qui sieno da aspettare. E convocata la loro misericordia, se essi si muovono a pietà di noi, ringraziando Iddio, il nostro cammino meneremo a perfezione, e se non, con le nostre braccia vigorosamente aiutandoci difenderemo, e vendicheremo le nostre morti, le quali Giove per lungo tempo cessi da noi».

 

 

[20]

 

Mentre Lelio le sue pietose parole porgeva a' cari compagni, ciascuno, portando a se medesimo e a lui compassione, amaramente piangea. Alcuni piangeano dicendo:

 

«Oimè, vecchio padre, che vita sarà la tua dopo la mia morte, s'egli avviene ch'io muoia, il quale ora cresciuto dovea essere bastone che la tua vecchiezza sostenesse?».

 

Altri piangeano i piccioli figliuoli rimasi a Roma con la giovane donna, ramaricandosi del loro infortunio; e altri i cari fratelli, e l'abandonate ricchezze per seguire Lelio. E tutti generalmente piangeano la cara compagnia e amistà tra loro e Lelio sì dolcemente congiunta, che in così brieve tempo mostrava di doversi sì amaramente partire. Ma non dopo molto spazio per li conforti di Lelio, il quale diceva loro:

 

«O vigorosi giovani, ove sono fuggiti i vostri animi virili? Voi spandete per picciola paura amare lagrime, come se voi foste femine. Evvi sì tosto partita della memoria l'aspra morte che Catone sostenne in Utica con forte animo, volendo più tosto morir libero che vivere servo de' suoi nemici, dando insiememente essemplo a' suoi di sostenere ogni gravoso affanno per la cara libertà? Or che fareste voi se io facessi il simigliante? Credo che vie più lagrimereste. Cacciate queste lagrime da voi, e non dubitate de' vecchi padri, né delle giovani donne, né de' piccioli figliuoli, né ancora dell'abondanti ricchezze, le quali voi avete abandonate in servigio di Colui che ve le donò, però che essi tutti nacquero alla sua speranza e non alla vostra, e Egli tutti a buon fine gli recherà. E non è gran fatto se in servigio di così largo donatore di grazie si pone alcuna volta il mortal corpo»; abandonate le lagrime, si deliberarono al consiglio di Lelio, rispondendogli che lui per duca e per signore continuamente aveano tenuto e teneano, e piacea loro per inanzi di tenerlo, e che in questo accidente e in ogni altro essi ad ogni suo piacere erano disposti di metterlo con lui insieme in essecuzione, offerendosi di seguirlo infino alla morte. Allora Lelio di tanto onore reverentemente gli ringraziò e comandò che ciascuno prendesse le sue armi e apprestassesi di resistere a' nemici, faccendo di loro tre schiere. E la prima, nella quale egli mise quelli giovani nelle cui forze più si confidava, fece guidare ad un giovane romano, il quale si chiamava Sesto Fulvio, nobilissimo e ardito. La seconda, nella quale erano quasi tutti quelli che a loro per lo cammino s'erano accostati per compagnia, fece menare ad un giovane della sua terra, Ostazio, sommo poeta, nominato Artifilo, valoroso e possente molto. La terza, nella quale la maggior parte della sua poca gente riservò, diede a conducere a Sculpizio Gaio, suo caro compagno e parente, sé di tutte faccendo capitano e correggitore; e poi che così gli ebbe ordinati, parlò così verso loro:

 

 

[21]

 

«Cari signori e compagni, com'io davanti vi ragionai, questi che noi veggiamo verso di noi venire con tanta fu ria, a noi è di lor venuta la cagione occulta. Ma tanto mi par bene che essi sono iniqua gente e ribelli alla nostra legge, presumendo il luogo ove trovati gli abbiamo. E essendo tal gente, per niuna altra cagione si dee credere che elli s'affrettino tanto di venire a noi, se non per privarci di vita avanti che per noi niuno scampo si possa prendere. Onde se questo avviene, se essi in noi le lor mani voglion crudelmente distendere, voi non siete uomini i quali siate usi di contaminare la vostra fama etterna per viltà, ma continuamente nel preterito tempo voi e' vostri predecessori avete poste l'anime e' corpi per etternale onore. E che questo sia vero, la inestinguibile memoria de' nostri antichi cel manifesta. Ahi, quanto dovrebbe crescere il vostro vigore ogni ora che la gran fortezza d'Orazio Codico vi torna a mente! Il quale, come voi sapete, al tempo che' trusciani entrati in Roma con grandissime forze, già essendo per prendere il ponte Sublicio e per passare nell'altra parte della città, andato sopr'esso, ritenne la loro potenza con aspri combattimenti infino che 'l forte ponte gli fu dietro tagliato, e la città per lo tagliamento liberata. E similemente Marco Marcello, il quale assalì i Galli con minor popolo che voi non siete, e tanto con la sua forza operò, che avuta di loro vittoria e morto il loro re, sacrificò le sue armi a Giove Feretrio. E simigliantemente quello che fece Publio Crasso per non essere suggetto ad Aristonico. Oh quanti e quali essempli de' nostri antichi si potrebbono porre! E tutti non tanto per sé quanto per la republica sostennero gravosi affanni e pericoli. Or adunque noi, che qui per la salute di noi medesimi e per l'onore di tutti siamo a sì stretto partito, che dobbiamo fare? Certo più vigorosamente combattere, anzi che noi, che già molti servi francammo, divegnamo servi degli iniqui barbari o siamo da loro vilmente uccisi. Ma però che io vi conosco tutti vigorosi giovani e forti combattenti, porto nelle vostre destre mani grandissima speranza di vittoria, aiutandoci la fortuna, e in me molto me ne conforto. Ma se pure avvenisse che gli avversarii fati portassero invidia alle nostre forze, non vi lasciate almeno uccidere sì come fanno le timide pecore a' fieri lupi, sanza alcuna difesa, ma fate che essi abbiano la vittoria piangendo. E nondimeno vi torni alla memoria che voi in questo luogo contro a costoro siete in luogo di campioni e forti difenditori della legge del figliuolo di Giove, il quale per trarre noi dell'impie mani di Pluto, nelle quali il primo nostro padre disubidendo miseramente ci mise, sapete quanto fosse obbrobriosa e crudele la morte che egli sostenne! Dunque non pare ingiusta cosa se noi pogniamo in essaltamento della sua legge e per la salute di noi medesimi i nostri corpi, i quali s'avviene che muoiano, per la presente morte meriteranno perdono e etterna fama; e rimesseci le preterite offese, con ciò sia cosa che niuno viva sanza peccare, le nostre anime viveranno in etterno, e ancora le nostre ceneri saranno con divozione visitate, come visitavamo il santo tempio: al quale ancora spero che lietamente e tosto perverremo. E però ciascuno si porti vigorosamente».

 

 

[22]

 

Giulia, la quale dolente ascoltava le parole del suo compagno, incominciò sì forte a dolersi e a fare sì grande il pianto, che niuno, per durezza di cuore, vedendola, s'avrebbe potuto tenere di non fare il simigliante; e parlava così a Lelio:

 

«Oimè, dolce signor mio, questo non è lo 'ntendimento per lo quale noi abandonammo le nostre case. Noi ci partimmo divotamente per pervenire a' santi templi del benedetto Iddio, posti in su li estremi liti d'occidente: e tu ora pare che voglia con arme commuovere nuove battaglie. Deh! or pensa se a' pellegrini sta bene così fatto mestiero! Certo no. Deh! almeno per ché t'affretti tu così di combattere? Che sai tu chi costoro si sieno? Non credi tu che le diverse nazioni del mondo abbiano fra sé altre nimistà che quelle dei romani? Io dubito forte, e è da dubitare, che essi veggendo armati te e' tuoi compagni, forse credano che voi siate quelli nimici che essi vanno cercando, e per questo avranno cagione di cominciare la forse non pensata battaglia, e avranno ragione. Lascia adunque questa volontà per mio consiglio, e pon giù le prese armi, tu e' tuoi compagni! E se tu disarmato temi le loro lance, chi credi tu che sia tanto crudele e sì vile, che andasse armato a ferire i disarmati? Certo non alcuno. E tu simigliantemente per adietro co' tuoi prieghi solevi atutare l'acerbe volontà della romana giovanaglia, superba per troppo bene non conquistato da loro, e non ti fidi con le tue parole amollare l'ira di costoro se sopra te adirati venissero! Forse tu imagini di non essere ascoltato da loro: or credi tu che questi sieno nati delle dure querce o delle alpestre rocce, che essi non abbiano pietà, né che essi non ascoltino le tue parole, le quali sì tosto come l'udiranno piene di soavità, così daranno incontanente luogo alla nostra via? Deh! non ti recare a volere la forza del tuo piccolo popolo sperimentare con così grande essercito, ch'egli è fortuna e non ragione, quando di così fatte imprese si riesce a prosperevole fine. Non vedi tu che i tuoi compagni volentieri sanza prendere armi si sarebbono stati, perché conoscono il pericolo, se a te non l'avessero vedute pigliare? Ma tu, prendendole, ne se' loro stata cagione. E se tu pur dubiti della crudeltà di coloro, molto meglio è a fuggirci mentre che noi possiamo, che voler combattere con loro. Vedi che le vicine montagne sono piene di folti boschi e di nascosi valloni, ne' quali noi ci potremo assai bene nascondere, chi in una parte e chi in un'altra. Deh! non aspettiamo più le punte di quelli ferri, i quali, veggendoli, già mi porgono mortal paura. Andiamo, incominciamo la salutevole fuga, alla quale non nocerà la non dissoluta nebbia che fa questa valle oscura. Niuno nimico dee più volere del suo avversario che vederlosi fuggire davanti, mostrando di temere la sua potenza. Però s'elli vengono per offenderci, essi saranno contenti di vederci fuggire, e, ridendo fra loro, riterranno i correnti cavalli, faccendosi beffe di noi: le cui beffe noi non curiamo, solamente che noi scampiamo delle loro mani. Poi, se licito non c'è d'andar più avanti, tornianci inanzi a Roma che noi vogliamo morire e non sapere come, però che ciascuno è per divino comandamento tenuto di servare la sua vita il più che puote. E siati ancora manifesto che ogni cavaliere non è della volontà del signore, né così fiero. Questi, quando alquanto ci avranno cacciati, lasciandoci andare, volontieri si riposeranno, e trovando le nostre ricchezze, le quali sono assai, intenderanno a prenderle: e in quello spazio, concedendolo Iddio, in alcuna parte ci potremo salvare. Deh! fa, Lelio, che in questa parte sia il mio consiglio udito e servato da voi, e non guardare per che feminile sia, che tal volta le femine li porgono migliori che quelli che subitamente sono presi dall'uomo. Sia questa la prima e ultima grazia a me in questo viaggio, nel quale alcun'altra domandata non te n'ho».

 

Queste parole e molte altre piangendo Giulia fortemente diceva, abbracciando sovente Lelio e rompendogli le parole in bocca; alla quale Lelio, ascoltato un pezzo, rispose così:

 

 

[23]

 

«Giulia, queste non sono le parole le quali a Roma nella nostra casa mi dicevi, quando di grazia mi chiedesti di volere venire meco nel presente viaggio. Ov'è il tuo virile ardire così tosto fuggito? Tu dicevi che più vigorosamente sosterresti ne' bisogni l'armi e gli affanni che la vigorosa moglie di Mitridate, e io avea intendi mento d'aggiugnerti al numero de' miei cavalieri con l'armi indosso, se non fosse il creato frutto che tu nascondi in te. E tu ora solamente nella veduta d'uomini de' quali noi dubitiamo, e ancora di loro condizione non siamo certi, né sappiamo se sono amici o nimici, vuogli, non sappiendo per che, pigliare la fuga? In questo atto non risomigli tu Cesare, il tuo antico avolo, il quale ardire e prodezza ebbe più che alcun altro romano avesse mai. Ora, cara compagna, non dubitare, e renditi sicura che niuno utile consiglio per noi è che nelle nostre menti non sia molte volte stato ricercato e essaminato, e niuno più utile che quello ch'è preso ne troviamo per la nostra salute. E credi che Iddio non vuole che i suoi regni vilmente operando s'acquistino, ma virtuosamente affannando: e però taciti, e nelle nostre virtù come noi medesimi ti confida».

 

 

[24]

 

Udendo Giulia Lelio esser pur fermo nel suo proposito, più amaramente piangendo gli si gittò al collo, dicendo:

 

«Poi che al mio consiglio non ti vuoi attenere, né mi vuoi far lieta della dimandata grazia, fammene un'altra, la quale sia ultima a me di tutte quelle che fatte m'hai. Fa almeno che quando le tue schiere affrontate co' non conosciuti nimici saranno, che quando tu vedrai quel crudele cavaliere, qual che egli si sia, che verso te dirizzerà l'aguta lancia, io misera, sì come tuo scudo, riceva il primo colpo, acciò che agli occhi miei non si manifesti poi alcuno che disideri d'offenderti. Questa mi fia grandissima grazia, però che un colpo terminerà infiniti dolori. Oimè sconsolata! Or s'egli avvenisse che io sanza te mi trovassi viva, qual dolore, quale angoscia fu mai per alcuna misera sentita sì noiosa, che alla mia si potesse assimigliare? E quello che più mi recherebbe pena sarebbe il voler morire e non potere. Ma certo io pur potrei, però che se questo avvenisse, io sanza alcuno indugio, in quella maniera che Tisbe seguì il suo misero Piramo, così la mia anima, cacciata del misero corpo con aguto coltello, seguirebbe la tua ovunque ella andasse. Ma concedimi questa ultima grazia, acciò che tu privi di molta tristizia la poca vita corporale che m'è serbata: e io, la quale spero d'andare ne' santi regni di Giove, ti farò fare presto degno luogo alla tua virtù».

 

Mentre costei così pietosamente piangendo parlava, avendo a Lelio quasi tutto bagnato il viso delle sue lagrime, il suo cuore per greve dolore temendo di morire, chiamate a sé tutte l'esteriori forze, lasciò costei in braccio a Lelio semiviva, quasi tutta fredda. E Lelio che lagrimando la volea confortare, vedendo questo, sceso del suo cavallo, e presala nelle sue braccia, la ne portò in un campo quivi vicino, nel quale fatto distendere alcun tappeto, lei a giacere vi pose suso, e raccomandatala ad alquante damigelle di lei, prestamente risalito a cavallo, tornò a' suoi compagni. Oimè, Lelio, or dove lasci tu la tua cara Giulia, la quale tu mai non dei rivedere? Deh! quanto Amore si portò tra voi villanamente, avendovi tenuti insieme con la sua virtù tanto tempo caramente congiunti! e ora nell'ultimo partimento non consentire che voi v'aveste insieme baciati, o almeno salutati! Tu vai, Lelio, al tuo pericolo correndo, e lei semiviva abandoni ne' suoi danni. Oh! quanto le fia gravoso il ritornare in sé gli spiriti, i quali vagabundi pare che vadano per lo vicino aere, più che se mai non ritornassero, però che con minor doglia le parrebbe essere passata.

 

 

[25]

 

A' quali compagni ritornato, Lelio li trovò per le predette parole sì animosi della battaglia che, poco più che fosse dimorato, gli avrebbe trovati mossi per andare verso i loro nimici. Ma poi che egli con alcuna dolce paroletta gli ebbe alquanto raffrenati, comandò a un santo uomo, il quale menato aveano con seco per tal volta sacrificare a Giove, che egli prestamente gli rendesse degni sacrificii; e questo fatto, davanti alle sue schiere, sì alto che tutti potevano vedere, voltato a' suoi compagni, gli pregò che divotamente pregassero Giove per la loro salute. E così, sanza discendere de' loro cavalli, in atto reverente tutti divotamente cominciarono a pregare; e Lelio, davanti a tutti, dicea così:

 

«O sommo Giove, grazioso Signore, per la cui virtù con perpetua ragione si governa l'universo, se tu per alcuni prieghi ti pieghi, riguarda a noi, e nel presente bisogno ne porgi il tuo aiuto. Noi solamente in te speriamo, i quali disiderosi dimoriamo nel santo viaggio del tuo caro fratello. E come tu, a cui niuna cosa si nasconde, vedi, noi ci apparecchiamo di muovere nuove battaglie a strani popoli, e non per ampliare le nostre ricchezze o il mondano onore, ma solamente perché la tua santa legge per negligenza di noi non si occulti sotto la falsa volontà di questa gente, la quale veramente credo che del tutto le siano ribelli. Adunque prima il tuo aiuto ci porgi, sanza il quale indarno s'affatica ciascuno operante, e appresso alcun manifesto segno dalla tua somma sedia ne dimostra, il quale le nostre speranze conforti e i nostri cuori sempre ne' tuoi servigi. E in questo ne dimostra il tuo piacere, acciò che noi, credendoci bene adoperare, non bagnassimo le nostre mani in innocente sangue, o, sanza dovere, nel nocente».

 

Appena ebbe finita Lelio la sua orazione, che sopra lui e i suoi cavalieri apparve una nuvoletta tanto lucente che appena poteano con li loro occhi sostenere tanta luce; della quale una voce uscì, e disse:

 

«Sicuramente e sanza dubbio combattete, che io sarò sempre appresso di voi aiutandovi vendicare le vostre morti; e sanza alcuna ammirazione le presenti parole ascoltate, che tal volta conviene che 'l sangue d'uno uomo giusto per salvamento di tutto un popolo si spanda. Voi sarete oggi tutti meco nel vero tempio di Colui il cui voi andate a vedere, e quivi le corone apparecchiate alla vostra vittoria vi donerò».

 

E questo detto, come subita venne, così subitamente sparve. Allora Lelio co' suoi, lieti, si dirizzarono, ringraziando la divina potenza, e, riprese le loro armi, s'apparecchiarono di resistere a' loro nimici, i quali con grandissimo romore già s'appressavano a loro.

 

 

[26]

 

Non credo che ancora i giovani compagni di Lelio avesseno riprese nelle destre mani le loro lance, ripieni per le parole di Lelio di vigoroso ardire, disideranti di combattere con la non conosciuta gente, quando a loro si scontrò molto vicino, tanto che i dardi di ciascuna parte poterono, essendo gittati, ferire i suoi avversarii, il nimico essercito. Gli aguti raggi del sole, il quale avea già dissolute le noiose nebbie, gli lasciava insieme apertamente vedere, e quelli che fidandosi della loro moltitudine erano discesi del monte sanza alcuno ordine, credendo i loro avversarii trovare improvvisi, vedendogli armati e con aguzzata schiera, superbi nell'aspetto, aspettarli fermati, dubitarono di correre alla mortale battaglia così subiti.

 

I divoti giovani stavano feroci avendo già dannata la loro vita, sicuri della battaglia, e impalmatasi la morte anzi che cominciare vilissima fuga; e niuno romore avverso rimosse le menti apparecchiate a grandi cose. Lelio allora davanti a tutti i suoi, con dovuto ordine, a piccolo passo mosse la prima schiera, la quale Sesto Fulvio guidava, e con aperto segno manifestò all'altre che sanza bisogno non li seguissero. E già innumerabile quantità di saette e di tremanti dardi erano sopra i romani giovani discese, gittate dagli archi di Partia dalle arabe braccia, quando Lelio, nell'animo acceso di maravigliosa virtù, mosso il potente cavallo, dirizzò il chiaro ferro della sua lancia verso un grandissimo cavaliere, il quale per aspetto parea guidatore e maestro di tutti gli altri, al quale niuna arme fu difesa, ma morto cadde del gran destriere. Questi portò prima novelle della iniqua operazione commessa da Pluto a' fiumi di Stige; questi prima bagnò del suo sangue il mal cercato piano e li romani ferri.

 

Sesto, che appresso Lelio correndo cavalcava, ferendone un altro, diede compagnia alla misera anima. E i valorosi giovani seguendo i loro capitani, niuno ve n'ebbe che peggiore principio facesse di Lelio, ma tutti valorosamente combattendo, abbattuti i loro scontri, cavalcarono avanti. E già aveano la maggior parte di loro, tutti per difetto delle rotte lance, tratte fuori le forbite spade, le quali percosse, da' chiari raggi del sole, riflettendo minacciavano i sopravegnenti nimici. Niuno risparmiava la volonterosa forza, ma tutti sanza alcuna paura combatteano con la vile moltitudine. Lelio e Sesto, i quali avanti procedeano, combatteano virilmente con due grandissimi barbari, i quali forti e resistenti trovarono. E mentre l'aspra pugna durava, la moltitudine della iniqua gente abondante premeva tanto i romani, che quasi costretti da vera forza oltre al loro volere rinculavano. Lelio, il quale avea già abbattuto il suo avversario, rivolto verso i suoi, li vide alquanto tirarsi indietro: allora volto la testa del suo cavallo, con ritondo corso gli circuì, dicendo loro:

 

«L'ora della vostra virtù disiderata è presente: spandete le vostre forze. Alla vostra salute non manca altro che l'opera de' ferri aiutata dalle vostre braccia: qualunque disidera di rivedere l'abandonata patria, e' cari padri, e' figliuoli, e la moglie, e i lasciati amici, con la spada gli domandi. Iddio ha poste tutte queste cose nel mezzo della battaglia. La migliore cagione ci dee porgere speranza di vittoria, e la nostra vittoria ha bisogno di pochi combattitori, però che la gran quantità de' nemici impediranno se medesimi ristretti nel picciolo campo. Imaginate che qui davanti a voi dimorino li vostri padri, e le vostre madri, e' vostri figliuoli piccolini, e ginocchioni lagrimando vi prieghino che voi adoperiate sì l'arme, che voi vi rendiate a loro medesimi vincitori; sì che voi poi narrando loro i corsi pericoli, paurosi e lieti gli facciate in una medesima ora».

 

Le parole di Lelio, parlante cose pietose, infiammarono i non freddi petti de' romani giovani: essi sospinsero avanti la sostenuta battaglia, uccidendo non picciola quantità della canina gente. Scurmenide, potentissimo barbaro, gia riguardando la gente del suo signore per picciola quantità di combattenti invilita voltarsi verso le sue insegne; come stimolo de' suoi e rabbia dell'empio popolo, per tema che 'l cominciato male non perisca, da alcuna parte si parò davanti a' paurosi cavalieri, e mirando verso loro conobbe quali coltelli erano stati poco adoperati, e quali mani tremavano premendo la spada, e chi avea le lance lente e chi le dispiegava, e chi combatte bene e chi no; e questo veduto, parlò così:

 

«Ahi! vilissimo popolazzo, ove torni tu? Con quale merito di guiderdone rivolgi tu i tuoi passi verso le guardate bandiere? Certo la mia spada taglierà qualunque arditamente non combatterà co' nimici».

 

Le spente fiamme de' barbari cuori alquanto per le parole di costui si ravvivarono; e voltarono i visi. Scurmenide accende i furori con le sue voci: elli dava i ferri alle mani di coloro che gli aveano perduti, e gridava che i contrarii volti sanza alcuna pietà sieno uccisi. Egli promuove e fa andare inanzi i suoi, e coloro che si cessano sollicita con la battitura della rivolta asta, e si diletta di veder bagnare i freddi ferri nell'innocente sangue. Grandissima oscurità di mali vi nasce, e tagliamenti e pianti, a similitudine di squarciata nube quando Giove gitta le sue folgori: l'armi sonano per lo peso de' cadenti colpi, le spade sono rotte dalle spade. Sesto co' suoi non possono più sostenere, però che la piccola quantità era tornata a minor numero d'uomini.

 

Lelio, che i casi della battaglia tutti provede con sollicita cura, con altissima voce e con manifesti atti provoca la seconda schiera alla battaglia. Artifilo, che lungo spazio avea sostenuto il disio della battaglia, muove sé e' suoi con dovuto ordine; e volonterosi sottentrano a' gravi pesi della battaglia. E nel primo scontro si dirizzò Artifilo verso il crudele Scurmenide, e mettendo l'aguta lancia nelle sue interiora, sopra il polveroso campo l'abbatté morto.

 

Molti n'uccisero nella loro venuta i nuovi schierati condotti da Artifilo, ma di loro furono simigliantemente molti morti. Artifilo, perduta la lancia, portava nelle sue mani una tagliente accetta, e sostenendo il sinistro corno della battaglia andava uccidendo tutti coloro che davanti gli si paravano; e Lelio e Sesto nel destro corno della battaglia combattevano. Uno ardito arabo, il quale Menaab si chiamava, veduto il crudo scempio che Artifilo del barbarico popolo faceva con la nuova arme, temendo i colpi suoi, prese un arco, e di lontano l'avvisò sotto il braccio nell'alzare ch'egli facea dell'accetta, e quivi feritolo con una velenosa saetta il credette aver morto. Ma Artifilo, sentito il colpo, quasi come se niuna doglia sentisse, con la propia mano trasse la saetta delle sue carni. E ripresa l'accetta, dirizzata la testa del suo cavallo verso colui che già s'era apparecchiato di gittar l'altra, sopragiuntolo, gli diede sì gran colpo sopra la testa che in due parti gliele divise. Quivi fu egli da molti de' nemici intorniato, e il possente cavallo gli fu morto sotto: sopra 'l quale, poi che morto cadde, dritto si levò difendendosi vigorosamente.

 

La furiosa gente premeva tutta adosso a lui: egli uccideva qualunque nimico gli s'appressava. E già n'avea tanti uccisi dintorno a sé, che, quanto la sua accetta era lunga, per tanto spazio dintorno a sé avea di corpi morti ragguagliata l'altezza del suo cavallo; e il taglio della sua arme era perduto, ma in luogo di tagliare, rompeva e ammaccava le dure ossa degli aspri combattitori. Infinite saette e lance sanza numero ferivano sopra Artifilo: il suo forte elmo era in molti pezzi diviso; e già era più carico di saette, fitte per lo forte dosso, che delle sue armi. Niuno era che a lui s'ardisse ad appressare; ma egli, sopra i corpi morti andando, s'appressava a' suoi nimici uccidendoli, e difendendo sé e chiamando i cari compagni che 'l soccorressero.

 

Veggendo questo, Tarpelio, nipote del crudele re, trattosi avanti tra' suoi cavalieri, lui ferì con una grossa lancia nel petto, e egli, già debole per lo mancato sangue, cadde in terra, dove da' compagni di Tarpelio fu morto sanza niuno dimoro. Lelio, che avea gli occhi volti in quella parte e molto si maravigliava della grande virtù di Artifilo, quando vide questo non poté ritenere le lagrime, ma sotto l'elmo chetamente bagnò per pietà il suo viso; e abandonato Sesto, corse in quella parte ove ancora alquanti de' compagni d'Artifilo rimasi vivi combattevano vigorosamente, ingegnandosi di vendicare la morte del loro capitano. E quivi con la sua forza lungamente sostenne i pochi compagni. Ma poi ch'egli vide Sesto, rimaso quasi solo, in molte parti del corpo ferito, combattere, e sé male accompagnato, tirato indietro per convenevole modo, mosse la terza schiera di Sculpizio Gaio, loro ultimo soccorso; alla quale Sesto e quelli che erano per la battaglia pochi rimasi delle due schiere prime, tutti s'accostarono, e rincominciarono sì forte la sventurata battaglia, che alcuna volta prima non v'era stata tale. E ben che i resistenti fossero molti, la loro moltitudine nel piccolo luogo nocea, però che l'uno impediva la spada dell'altro per istrettezza: onde Sesto e Sculpizio, i quali avanti agli altri vigorosamente combattevano con li loro pochi cavalieri, per forza, uccidendogli, gli fecero rinculare e fuggire in campi ancora non bagnati d'alcun sangue.

 

Il re, che della montagna era disceso con fresca schiera, vedendo questo, alquanto raffreddò l'ardente disio, e dubitando mosse i suoi cavalieri, e li terribili suoni de' battagliereschi strumenti fecero di nuovo tremare i secchi campi. E tanta polvere coperse l'aria con la sua nebbia per la furia de' correnti cavalli, quanta ne manda il vento di Trazia nella soluta terra. E poi che la superba e nuova compagnia de' cavalieri sopravenne adosso agli stanchi combattitori, la dubbiosa vittoria manifestò il suo posseditore, però che non fu licito a' cavalieri di Lelio d'andare adosso a' nimici, sì furono subitamente intorniati da lungi e da presso con le piegate e con le diritte lance.

 

La piova delle saette mandate dagli africani bracci, e le gittate lance aveano coperta la luce alla picciola schiera de' romani; ella si raccolse in piccola ritondità, tanto che quelli i quali per le sopravegnenti saette, sanza potere fare alcuna difesa, morivano, rimaneano ritti, i loro corpi sostenuti dagli stretti compagni. Sculpizio, il quale non avea ancora le sue forze provate, fu il primo che partito dalla ritonda schiera uscì correndo verso il re, il quale s'apparecchiava d'affrettare la loro morte, e ferillo sì vigorosamente sopra l'elmo che il re cadde a terra del gran cavallo quasi stordito, ma per lo buon soccorso de' suoi tosto fu rilevato. Lelio e Sesto rincominciarono la battaglia, faccendosi con le loro spade fare amplissimo luogo. Ma Sesto fortunosamente correndo tra' nimici fu intorniato da loro, e mortogli il suo cavallo sotto, e caduto in mezzo il campo, anzi che egli, debile, si potesse rilevare, fu miserabilmente ucciso. Lelio, il quale la sua morte vide, pieno di grave dolore conobbe bene il piacer di Dio; e ricordandosi dello annunzio fatto loro, che tal volta conveniva che uno morisse per salvamento di tutto il popolo, disse così:

 

«O sommo Giove, e tu beato Iddio, i cui templi io visitare credea, poi che a voi è piaciuto che i nostri passi più avanti che questo luogo non si distendano, io non intendo di volere, co' pochi compagni i quali rimasi mi sono, per fuga abandonare l'anime di quelli che davanti agli occhi miei giacciono morti. Io vi priego che le loro anime riceviate e la mia, in luogo di degno sacrificio, se vostro piacere è».

 

E dette queste parole, corse sopra un cavaliere, il quale volea spogliare le pertugiate armadure a Sesto, e lui ferì sì forte sopra il sinistro omero con la sua spada, che gli mandò il sinistro braccio con tutto lo scudo in terra, e quelli cadde morto sopra Sesto. Egli incominciò a fare sì maravigliose cose, che nullo ve n'avea che non se ne maravigliasse; e Sculpizio non si portava male. E' pochi compagni ricominciarono più aspramente a mostrare le loro forze che non aveano fatto davanti, ma poco poterono durare. Il re, che d'ira ardeva tutto dentro, vedendo Lelio sì maravigliosamente combattere e aver già perdute per li molti colpi la maggior parte delle sue armi, quanto poté gli si fece vicino, e gittatagli una lancia il ferì nella gola, e lui cacciò morto in terra del debole cavallo. Sculpizio, vedendo questo, corse con la sua spada in mano per ferire il re e per vendicare la crudele morte del suo amico, ma un cavaliere, il quale si chiamava Favenzio, si parò davanti al colpo, al quale la spada scesa sopra il chiaro cappello d'acciaio, tagliandolo, lui fendé quasi infino a' denti; ma volendo ritrarre a sé la spada per ricoverare il secondo colpo, non la poté riavere. Ond'egli, assalito di dietro, fu da' nimici crudelmente ucciso. Nel campo non era più alcuno rimaso de' miseri compagni, anzi sanza niuno combattimento più rimase il re Felice vittorioso nel misero campo, faccendo cercare se la misera fortuna n'avesse alcuno riposto con cheto nascondimento tra' suoi medesimi. Ma poi che alcuno non ve ne fu vivo trovato, egli comandò che il suo campo fosse quivi fermato quella notte; poi, al nuovo giorno, procederebbero.

 

 

[27]

 

Vedendo il re che i fortunosi casi aveano conceduta la vittoria alle sue armi, in se medesimo molto si rallegrò. Poi andando verso le tese trabacche guardando con torto occhio i sanguinosi campi, vide grandissima quantità de' suoi cavalieri giacer morti dintorno a pochi romani. E ben che l'allegrezza della dolente vittoria gli fosse al principio molta, certo, vedendo questo, ella si cambiò in amare lagrime, imaginando l'aspetto de' suoi cavalieri, i quali tutti sanguinosi giaceano morti al campo, e udendo le dolenti voci e 'l triste pianto che i suoi medesimi feriti faceano per lo campo. Egli diede a' suoi cavalieri libero albitrio che le ricchezze rimase nel misero campo fossero da loro rubate, e che ciò che ciascun si desse fosse suo; la qual cosa in brieve spazio fu fatta. Elli disarmarono tutti i romani con presta mano, e non ne trovarono alcuno che intorno a sé non avesse grandissima quantità di nimici morti né che non fosse passato di cento punte. E i miseri cavalieri, i quali questo andavano faccendo, aveano perduta la conoscenza de' loro padri e fratelli e compagni che morti giacevano, per la polvere mescolata col sangue sopra i loro visi; ma poi che essi, nettandoli co' propii panni per riconoscerli, ve n'ebbero ritrovati molti, e tutti i più valorosi, il pianto e 'l romore cominciò sì grande, che il re si credette da capo essere assalito, e con fatica racchetò i loro pianti, ricogliendoli dentro ne' chiusi campi.

 

 

[28]

 

O misera fortuna, quanto sono i tuoi movimenti varii e fallaci nelle mondane cose! Ove è ora il grande onore che tu concedesti a Lelio quando prescritto fu all'ordine militare? Ove sono i molti tesori che tu con ampia mano gli avevi dati? Ove la gran famiglia? Ove i molti amici? Tu gli hai con subito giramento tolte tutte queste cose, e il suo corpo sanza sepoltura giace morto negli strani campi. Almeno gli avessi tu concedute le romane lagrime, e le tremanti dita del vecchio padre gli avessero chiusi i morienti occhi, e l'ultimo onore della sepoltura gli avesse potuto fare!

 

 

[29]

 

Avea già, nel brieve giorno, Pean, che nell'ultima parte della guizzante coda d'Almatea, nutrice dell'alto Giove, dimorava, trapassato il meridiano cerchio, e con più studioso passo cercava l'onde di Speria, quando Giulia misera dintorno a sé, ritornate le forze nel palido corpo, sentì piangere le dolenti compagne, che già i loro danni aveano veduti; alle cui voci subitamente levatasi, disse:

 

«Oimè misera, qual è la cagione del vostro pianto?».

 

E riguardandosi dintorno non vide il caro marito, nelle cui braccia avea perdute le forze degli esteriori spiriti. Allora, non potendo tenere le triste lagrime, disse:

 

«Oimè! or dov'è fuggito, il mio Lelio? Ecco se la fortuna ha ancora concedute le 'nsegne al mio marito contra i non conosciuti nimici!».

 

E dicendo queste parole, quasi uscita di sé si drizzò, e i miseri fati le volsero gli occhi verso quella parte, la quale le dovea mostrare il suo dolore manifestamente; e verso quella mirando, sentì lo spiacevole romore degli spogliatori e vide il secco campo essere di caldo sangue tutto bagnato, e pieno della nimica gente. Allora il dubitante cuore di quello che avvenuto era, manifestamente conobbe i suoi gran danni. Ella non fu dalla feminile forza delle sue compagne potuta ritenere, che ella non andasse tra' morti corpi sanza alcuna paura; ma come persona uscita del natural sentimento, messesi le mani ne' biondi capelli, gli cominciò con isconcio tirare a trarre dell'usato ordine. E i vestimenti squarciati mostravano le colorite membra, che in prima soleano nascondere. E bagnando le sue lagrime il bianco petto, sfrenatamente sicura contra' nemici ferri, incominciò a cercare tra' morti corpi del suo caro marito, dicendo alle sue compagne:

 

«Lasciatemi andare: e' non è convenevole che così valoroso uomo rimanga ne' lontani campi dalla sua città, sanza essere lagrimato e pianto. Poi che la fortuna gli ha negate le lagrime del suo padre e de' suoi parenti e del romano popolo, non gli vogliate anche torre quelle della misera moglie».

 

E andando ella per lo campo piangendo e sprezzando le sue bellezze, molti corpi morti con le propie mani rivolgea per ritrovare il suo misero marito, ma i sanguinosi visi nascondeano la manifesta sembianza allo 'ntelletto. E poi che ella molti n'ebbe rivolti, riconosciuto alle chiare armadure il suo Lelio, il quale di molti morti nimici morto attorniato giacea, quivi sopr'esso semiviva piangendo cadde; e dopo picciolo spazio drizzatasi, piangendo amaramente s'incominciò a battere il chiaro viso con le sanguinose mani e a graffiarsi le tenere gote. E aveasi già sì concia, che tra 'l vivo e 'l morto sangue che sopra il viso le stava, non Giulia, ma più tosto uno de' brutti corpi morti nel campo parea. Ella non si curava di bagnare il suo viso nell'ampie piaghe di Lelio, anzi l'avea già quasi tutte piene d'amare lagrime. Ella spesse volte il baciava e abbracciava strettamente, e nell'amaro pianto, riguardandolo, diceva così:

 

«Oimè, Lelio, ove m'hai tu abandonata? ove m'hai tu lasciata? Tra gente araba diversa da' nostri costumi, de' quali niuno io non conosco! Almeno mi facesse Giove tanta di grazia, che la loro crudeltà fosse con le loro mani operata in me, come elli l'operarono in te; ma il feminile aspetto porta pietà in quelli petti ov'ella non fu mai. Almeno sarei io più contenta che la mia anima seguisse la tua ovunque ella fosse, che rimaner viva nella mortale vita dopo la tua morte. Deh! per ché non fu licito al tuo virile animo di credere al feminile consiglio? Certo tu saresti ancora in vita, e forse per lungo spazio saremmo lieti insieme vivuti. Deh! ove fuggì la tua pietà, quando tu in dubbio di morte nelle feminili braccia mi lasciasti di lungi alle tue schiere? Come non aspettasti tu che io almeno t'avessi veduto inanzi che tu fossi entrato nell'amara battaglia, e che io con le propie mani t'avessi allacciato l'elmo, il quale mai per mia voglia non sarebbe stato legato, perché io conoscea sola la fuga essere rimedio alla nostra salute? Oimè dolente, quanto è sconvenevole cosa di volere adempiere l'uomo i suoi disideri contra 'l piacer di Giove! Noi desiderammo miseramente i nostri danni quell'ora che noi domandammo d'aver figliuoli, i quali se convenevole fosse suto che noi dovessimo avere, quella allegrezza Giove sanza alcun boto ce l'avrebbe conceduto. O iniquo pensiero e sconvenevole volontà, recate la morte in me, che non l'ho meno meritata che costui; o almeno, o dolorosa fortuna, mi fosse stato licito di pararmi dinanzi a' crudeli colpi, i quali costui innocente sostenne, sì com'io avea di grazia adimandato! Omai non è al mio dolore niuno rimedio se non tu, morte! La quale io sì come misera priego che tu non mi risparmi, ma vieni a me sanza niuno indugio. Tu non dei omai potere più esser crudele, e massimamente a' prieghi delle giovani donne, in tal luogo se' stata! Deh! piacciati inanzi di farmi fare compagnia ne' miseri campi al mio marito, che lasciarmi nel mondo essemplo di dolore a quelli che vivono. Uccidimi, non indugiar più! Oimè dolente! come i' ho malamente seguito con effetto il perfetto amore della mia antica avola Giulia, la quale, poi che vide i drappi del suo Pompeo tinti di bestial sangue, temendo non fosse stato offeso, costrinse l'anima di partirsi dal misero corpo, subitamente rendendola a' suoi iddii. Oh quanto le fu prosperevole il morire, però che morendo poté dire: "Io non vedrò quella cosa la quale per dolore mi conducerebbe a maggior pena, e poi a morte, ma morendo vincerò il dolore". E io, misera!, davanti agli occhi miei veggio il mio dolore, e non m'è licito di morire, né posso cacciar da me la misera anima, la quale per paura sento che cerca l'ultime parti del cuore, fuggendosi dalla mia crudeltà. Oimè, morte, io ti domando con graziosa voce, e non ti posso avere! Certo la tua signoria è contraria del tutto agli atti umani, i quali i disprezzatori delle loro potenze s'ingegnano di sottomettersi, risparmiando i fideli: e tu coloro che più ti temono crudelmente assalisci, dispregiando gli schernitori della tua potenza lungamente, e di questi sempre più tardi che degli altri ti vendichi. Oh, quanto è misero colui che così comunal cosa, come tu se', gli manca ad uno bisogno!».

 

Ella, piangendo, più volte con aguti ferri caduti per lo campo si volle ferire il tenero petto, ma, impedita dalle compagne, non potea. Poi si voltava agli aspri rubatori e dicea:

 

«Deh! crudeli cavalieri, i quali sanza alcuna pietà metteste l'agute lance per l'innocente corpo, deh!, ammendate il vostro fallo tornando pietosi: uccidete me, poi che voi avete morto colui che la maggior parte di me in sé portava! Fate che io sia del numero degli uccisi! Questa pietà sola usando vi farà meritar perdono di ciò che voi avete oggi non giustamente adoperato».

 

E dette queste parole, ritornava a baciare il sanguinoso viso; e di questo non si potea veder sazia, anzi l'avea già quasi tutto con le amare lagrime lavato, e piangendo forte sopr'esso si dimorava dolente.

 

 

[30]

 

Ma poi che il sole nascose i suoi raggi nelle oscure tenebre e le stelle cominciarono a mostrare la loro luce, il campo si cominciò con taciturnità a riposare, sì per l'affanno ricevuto il preterito giorno che richiedeva agli affannati membri riposo, sì per l'allegrezza della vittoria che molte menti avea nel vino sepellite. Solo l'angoscioso pianto di Giulia e delle sue compagne facea risonare la trista valle, e questo risonava nelle orecchie al vittorioso re. E egli, che ne' tesi padiglioni si riposava, udendo queste voci, chiamò un nobile cavaliere, il quale s'appellava Ascalion, e disseli:

 

«Deh, or di cui sono le misere voci che io odo, che non lasciano partire della nostra mente in alcuno modo la crudele uccisione fatta nel passato giorno?».

 

«Sire - disse Ascalion, - io imagino che sia alcuna donna, la quale forse era moglie d'alcuno del morto popolo, e così mi pare avere inteso da' compagni, e similmente la sua favella, la quale io intendo bene, il manifesta».***

 

Allora gli comandò il re che elli andasse ad essa, e comandassele ch'ella tacesse, acciò che 'l suo pianto non gli accrescesse più dolore che il preterito danno. Mossesi Ascalion con alquanti compagni, e per l'oscura notte con picciol lume, per lo sanguinoso campo scalpitando i morti visi, andarono in quella parte ove essi sentirono le dolenti voci, e pervennero a Giulia; la quale, come Ascalion la vide, imaginando le nascose bellezze sotto il morto sangue del suo viso, mosso dentro a pietà, quasi lagrimando disse:

 

«O giovane donna, il cui dolore invita gli occhi miei, veggendoti, a lagrimare, io ti priego, per quella nobiltà che il tuo aspetto ne rapresenta, che tu ti conforti e ponghi fine alle tue lagrime. Certo io non so qual sia la cagione della tua doglia, ma credo che sia grande; e chente ch'ella sia, io non credo che per lo tuo pianto si possa emendare, ma più tosto piangendo aumentare la potresti. E noi medesimi, i quali, se al ricevuto danno volessimo ben pensare, certo noi non faremmo mai altro che piagnere; e considerando quello che è detto, ci ingegnamo di dimenticare quello che ancora non vuole fuggire delle nostre memorie. E simigliantemente il re nostro signore te ne manda pregando; e credo che molto gli sarebbe caro, secondo il suo parlare, che tu venissi dinanzi al suo cospetto».

 

Giulia, udendo la romana loquela, la quale Ascalion, lungamente dimorato a Roma, impresa avea, alzò il viso verso lui, forse credendo che fosse alcun de' miseri compagni di Lelio, e con torti occhi riguardando il cavaliere e vedendo ch'egli era della iniqua gente, piangendo il richinò, e gittando un gran sospiro, disse:

 

«Niun conforto sentirà l'anima mia, se voi nol mi porgete. Voi m'avete con le vostre spietate braccia ucciso colui il quale era mio conforto e mia ultima speranza. Acciò che l'anima mia possa seguire per le dilettevoli ombre quella del mio Lelio, questo graziosamente vi domando, questo fia l'ultimo bene che io spero, e a voi non fia niente. Voi avete oggi bagnate le vostre mani in tanti sangui, che io non accrescerò la somma del vostro peccato per la mia morte, ma la farò più lieve per la pietà che voi userete uccidendomi. Deh! aggiungetemi al triste numero, acciò che si possa dire: "Giulia amò tanto il suo Lelio, che ella fu del numero de' corpi morti con lui insieme ne' sanguinosi campi". E se voi non volete usar questa pietà, almeno prestate alle mie mani la tagliente spada, e consentite che sanza briga di queste mie compagne io possa morire, essendone le mie mani cagione».

 

Ascalion e' suoi compagni, che vedeano il chiaro viso tutto rigare di vermiglio sangue, lagrimavano tutti per pietà di costei; e piangendo le rispose e disse:

 

«Giovane, gl'iddii facciano le mie mani di lungi da sì fatto peccato. Certo io fuggii oggi per non bagnarmi nella dolente occisione: ma tu, perché piangendo e sconfortandoti guasti il tuo bel viso? Perché desideri d'incrudelire contra te medesima? Credi tu con la tua morte render vita al morto marito? Questo sarebbe impossibile. Ma levati su, e non volere qui però nelle sopravegnenti tenebre apparecchiare la tua bella persona alle selvatiche bestie, le quali alla tua salute potrebbono essere contrarie, però che vivendo ancora potrai forse riavere il perduto conforto. Levati su, e segui i nostri passi, e non dubitar di venire a' reali padiglioni con le tue compagne, ch'io ti giuro, per quelli iddii ch'ìo adoro, che, mentre che essi mi concederanno vita, il tuo onore e delle tue compagne sarà sempre salvo a mio potere, solo che vostro piacer sia. Ora ti leva, non dimorare più qui, vieni nella presenza del nostro signore, il quale, ancora che dolente sia, veggendo il tuo grazioso aspetto, ti onorerà sì come degna donna. Or se noi ti volessimo qui lasciare, non ti spaventano gl'infiniti spiriti de' morti corpi, sparti per lo piagnevole aere? Non dubiti tu degli scelerati uomini che sogliono essere ne' tumultuosi esserciti, i quali, trovandoti qui, non si curerebbono di contaminare il tuo onore e delle tue compagne? Deh! vieni adunque, ché vedi che io e' miei compagni per compassione di te righiamo i nostri visi d'amare lagrime».

 

Giulia non facea altro che piagnere; e ben ch'ella fosse molto dolorosa, non per tanto dimenticò la sua anima i cari ammaestramenti della gentilezza, e non volle nelle avversità parere villana a' divoti prieghi del nobile cavaliere; ma preso con le sue mani un bianco velo, coperse il palido viso di Lelio e con un suo mantello tutto il corpo, e poi si voltò ad Ascalion e disse:

 

«I vostri prieghi hanno sì presa la mia dolorosa anima, che io non mi so mettere al niego di quello che dimandato m'avete. E poi che Iddio e voi mi negate la morte, quella cosa che io più disidero, io m'apparecchio di venire in quelle parti ove piacer vi fia; ma caramente raccomando in prima me e le mie compagne e 'l nostro onore nelle vostre braccia, pregandovi, per la gentile anima che guida i vostri membri, che come di care sorelle il serviate e non consentiate che di quello che le misere anime de' nostri mariti, rinchiuse ne' mortali corpi, si contentarono, sciolte da essi si possano ramaricare».

 

E volendosi levare, per debolezza fra le sue compagne supina ricadde. Allora Ascalion teneramente per lo destro braccio la prese; e dall'altra parte un suo compagno sostenendola e con dolci parole confortandola, e con lento passo andando, pervennero alle reali tende, nelle quali entrati, il re vedendo costei, vinto per lo pietoso aspetto, umilmente la riguardò; e avendo già udito da Ascalion gran parte della condizione di lei, comandò ch'ella fosse onorata. Giulia, veduto il re, ancor che per debolezza le fosse grave, pur gli s'inginocchiò davanti e lagrimando disse:

 

«Alto signore, a questi nobili cavalieri è piaciuto di menarmi nel vostro cospetto, nel quale piacciavi che io trovi quella grazia che da loro non ho potuta avere. Io non credo che la misera Ecuba né la dolente Cornelia ne' loro danni sentissero maggiore doglia che io fo in quello che da voi ho ricevuto, né credo che effettuosamente alcuna di loro disiderasse de' suoi nimici vendetta, com'io disidero di voi, solo che prendere ne la potessi. Ma poi che la fortuna m'ha il potere levato, e fattami vostra prigione, datemi, per guiderdone della fiera volontà ch'io ho verso di voi, la morte».

 

Non sofferse il re che Giulia stesse in terra davanti a lui, ma con la propia mano levatala in piè, la fece sedere davanti a sé, e risposele così:

 

«Giovane donna, il vostro lagrimoso aspetto m'ha fatto divenire pietoso e quasi m'invita con voi insieme a lagrimare. E certo io non mi maraviglio del vostro parlare, il quale dimostra bene il vostro gran dolore, ché usanza suole essere de' miseri di volere quello che maggior miseria loro arrechi, infino a quell'ora che la tristizia pena a dar luogo al natural senno. E però che io conosco che voi ora più adirata che consigliata domandate la morte, e mostrate ver me crudel volontà, né la morte vi fia per me conceduta, né ancora le adirate parole credute. Ma quando voi avrete alquanto mitigate le giuste lagrime che voi spandete, io vi farò conoscere come la fortuna non sia contro di voi del tutto adirata, né ch'ella v'abbia fatta mia prigione; e ancora conoscerete che sia suto il migliore rimanere in vita, sì per voi e sì per l'anima del vostro marito. Ma ditemi, se vi piace, qual sia la cagione del vostro pianto, e chi voi siete, e onde e ove voi andavate».

 

Giulia, piangendo, con pietosa voce gli rispose:

 

«lo sono romana, e fui misera sposa del morto Lelio, il quale voi oggi con le propie mani uccideste, e quinci muove il mio tristo lagrimare; e andavamo al santo Iddio, posto nell'ultime fini de' vostri regni, per lo ricevuto dono della mia pregnezza».

 

Udendo questo, il re, quasi stupefatto, tutto si cambiò, e disse:

 

«Oimè! or dunque non foste voi con gli assalitori del mio regno, i quali all'entrare in esso arsero la ricca Marmorina?».

 

«Signore no - rispose Giulia, - ma passando per essa, la vedemmo bella e ornata di nobile popolo».

 

Allora dolfe al re molto di quello che era fatto; e sospirando le disse:

 

«Giovane donna, i fortunosi casi sono quasi impossibili a fuggire; a noi fu porto tutto il contrario di quello che voi ne porgete, e questo ne mosse a fare quello che omai non può tornare adietro, e che ci duole. E non è dubbio che voi avete nel preterito giorno gran danno ricevuto, e io non piccolo; ma però che il nostro lagrimare niente il menomerebbe, convienci prender conforto. E a cui che il lagrimare stia bene, a noi e' si disdice, i quali co' propii visi abbiamo a confortare i nostri sudditi. Adunque confortatevi, e qui meco rimanete; e dopo il preso conforto, se a voi piacerà altro marito, io ho nella mia corte assai nobili cavalieri, de' quali quello che più vi piacerà, in guiderdone dell'offesa che fatta v'ho, vi donerò volontieri; e se voi alle ceneri del morto marito vorrete pure servar castità, continuamente in compagnia della mia sposa come cara parente vi farò onorare. E se l'esser meco non vi piacerà, io vi giuro per l'anima del mio padre che, dopo l'alleviamento del vostro peso, infino in quella parte ove più vi piacerà d'andare, onorevolemente vi farò accompagnare. A dire quanto mi dolga di quello ch'è fatto per lo mio subito furore, sarebbe troppo lungo a narrare, però ch'io ci ho perduto un caro nipote e molti buoni cavalieri, e voi ho sanza vostra colpa offesi».

 

Giulia non rattemperava per tutte queste parole il dolente pianto, anzi, piangendo, nel savio animo diliberò che molto valea meglio di rimanere al proferto onore, fingendo il suo mal talento, infino che la fortuna la recasse nel pristino stato, che miseramente cercare gli strani paesi; e con sospirevole voce, rotta da dolenti singhiozzi, rispose:

 

«Signor mio, nelle vostre mani è la mia vita e la mia morte: io non mi partirò mai dal vostro piacere».

 

Comandò allora il re che ella in alcuno padiglione, sotto la fidata guardia di Ascalion, ella e le sue compagne fossero onorate.

 

 

[31]

 

Come il nuovo sole uscì nel mondo, il re con la sua compagnia, insieme con Giulia, verso Sibilia, antica città negli esperii regni, presero il cammino; ma avanti che i loro passi si mutassero, Giulia di grazia domandò che 'l corpo del suo Lelio non rimanesse esca de' volanti uccelli. Al quale il re comandò che onorevole sepoltura fosse data, ad esso e a tutti gli altri che piacesse a lei, e agli altri del campo. Fu allora Lelio, e molti altri, con molte lagrime sepellito dopo i fatti fuochi, ben che molti ne rimanessero sopra la vermiglia arena, che di varii ruscelletti di sangue era solcata.

 

 

[32]

 

Rimaso solo di vivi il tristo campo, in pochi giorni col corrotto fiato convocò in sé infinite fiere, delle quali tutto si riempié. E non solamente i lupi di Spagna occuparono la sventurata valle, ma ancora quelli delle strane contrade vennero a pascersi sopra' mortali pasti. E i leoni affricani corsero al tristo fiato, tignendo gli aguti denti negli insensibili corpi. E gli orsi, che sentirono il fiato della bruttura dello 'nsanguinato tagliamento, lasciarono l'antiche selve e i segreti nascondimenti delle lor caverne. E i fedeli cani abandonaron le case de' lor signori: e ciò che con sagace naso sente la non sana aria si mosse a venir quivi. E gli uccelli, che per adietro avean seguitati i celestiali pasti, si raunarono; e l'aria mai non si vestì di tanti avoltoi, e mai non furono più uccelli veduti adunati insieme, se ciò non fosse stato nella misera Farsaglia, quando i romani prencipi s'afrontarono.

 

Ogni selva vi mandò uccelli: e i tristi corpi, a cui la fortuna non avea conceduto né fuochi né sepoltura, erano miseramente dilacerati da loro, e le lor carni pasceano gli affamati rostri. Ogni vicino albero parea che gocciolasse sanguinose lagrime per li sanguinosi unghioni che premeano gli spogliati rami: il passato autunno gli aveva spogliati di foglie, e' crudeli uccelli col morto sangue premuto da' lor piedi gli aveano rivestiti di color rosso, e' membri portati sopra essi ricadevano la seconda volta nel tristo campo, abandonati dagli affaticati unghioni. Ma con tutto questo il gran numero de' morti non era tutto mangiato infino all'ossa, ancor che squarciato tra le fiere si partisse; gran parte ne giace rifiutato, ben che dilacerato sia tutto: il quale il sole e la pioggia e 'l vento macera sopra la tinta terra, fastidiosamente mescolando le romane ceneri con l'arabiche non conosciute.

 

 

[33]

 

Entrò il re Felice vittorioso con gran festa in Sibilia; e poi che egli fu smontato del possente cavallo e salito nel real palagio, e ricevuti i casti abbracciamenti dell'aspettante sposa, egli prese l'onesta giovane Giulia per la mano destra, e davanti alla reina sua sposa la menò dicendo:

 

«Donna, te' questa giovane la quale è parte della nostra vittoria: io la ti raccomando, e priegoti che ella ti sia come cara compagna e di stretta consanguinità congiunta in ogni onore».

 

Teneramente a' prieghi del re ricevette la reina Giulia e le sue compagne; ma non dopo molti giorni, partendosi il re di Sibilia, con lui se n'andarono in Marmorina: la quale quando il re vide non essere quello che falsamente Pluto in forma di cavaliere gli aveva narrato, e trovò ancor vivo colui il quale morto credeva aver lasciato ne' lontani boschi, forte in se medesimo si meravigliò, e dicea:

 

«O gl'iddii hanno voluto tentare per adietro la mia costanza, o io sono ingannato. A me pur con vera voce pervenne che la presente città era da romano fuoco arsa, e ora con aperti occhi veggo il contrario. E il narratore di così fatte cose pur morì nella mia presenza, e io gli feci dare sepoltura: e ora qui davanti vivo mi si rapresenta».

 

In questi pensieri lungamente stato, non potendo più la nuova ammirazione sostenere, chiamò a sé quel cavaliere, il quale già credeva che nell'arene di Spagna fosse dissoluto, e dissegli:

 

«Le tue non vere parole t'hanno degna morte guadagnata, però che esse non è ancora passato il secondo mese poi mossero il nostro costante animo a grandissima ira e ad inique operazioni sanza ragione. Or non ci narrasti tu la distruzione della presente città con piagnevole voce, la quale noi ora trovata abbiamo sanza niuno difetto? Tu fosti cagione di farci commuovere tutto il ponente contra la inestimabile potenza de' romani, del qual movimento ancora non sappiamo che fine seguire ce ne debbia».

 

Maravigliossi molto il cavaliere, udite le parole, dicendo umilemente:

 

«Signor mio, in voi sta il farmi morire o il lasciarmi in vita, ma a me è nuovo ciò che voi mi narrate; e poi che voi qui mi lasciaste, mai io non mi partii, e a ciò chiamo testimonii gl'iddii e 'l vostro popolo della presente città, il quale seco mi ha continuamente veduto; né mai dopo la vostra partita ci fu alcuna novità».

 

Allora si maravigliò il re molto più che mai, dicendo fra se medesimo: "Veramente hanno gl'iddii voluto tentar le mie forze e aggiungere la presente vittoria alle nostre magnificenzie". E allegro della salva città abandonò i pensieri, contento di rimaner quivi per lungo spazio.

 

 

[34]

 

La reina, gravida di prosperevole peso, affannata per lo lungo cammino, volontieri si riposava, e con lei Giulia molto più affaticata, ma quasi continuamente o il bel viso bagnato d'amare lagrime o la bocca piena di sospiri teneva; alla quale un giorno la reina, vedendola dirottamente piangere, disse così:

 

«Giulia, sanza dubbio io so che tu, sì come io, in te nascondi disiato frutto, e' manifesti segnali mostrano te dovere essere vicina al partorire, onde col tuo piangere gravemente te e lui offendi. Tu hai già quasi il bel viso tutto consumato e guasto, e le tue lagrime l'hanno occupato d'oscura caligine e di palidezza; onde io ti priego che tu non facci più questo: anzi ti conforta, e spera che noi insieme avremo gioioso parto. Non sai tu che per lo tuo lagrimare il ricevuto danno non menoma? Poi che i fati ti sono stati avversi, appara a sostenere con forte animo le contrarie cose e' dolenti casi della fortuna. Deh! or tu m'hai già detto, se io ho bene le tue parole a mente, che tu se' nata di nobilissima prole romana; or se questo è il vero, come io credo, e' ti dovrebbe tornare nella mente del forte animo che Orazio Pulvillo, appoggiato alla porta del tempio di Giove Massimo, udendo la morte del figliuolo, ebbe; e come Quinto Marzio, tornato da' fuochi dell'unico figliuolo, diede quel giorno sanza lagrimare le leggi al popolo. Questi e molti altri vostri antichi avoli con fermo animo nelle avversità mostrarono la loro virtù, per la quale il mondo lungamente si contentò d'essere corretto da cotali reggitori. Adunque, poi che di tal gente hai tratta origine, si disdicono a te, più che ad un'altra, le lagrime. Non credi tu che essi nelle loro avversità sostenessero doglia, come tu fai? Certo sì fecero; ma volsero anzi seguire la magnanimità de' loro nobili animi, i quali conosceano la natura delle caduche e transitorie cose, che la pusillanimità della misera carne, acciò che le loro operazioni fossero essemplo a' loro successori in ciascuno atto».

 

Queste e molte altre parole usava spesso la reina in conforto di Giulia.

 

 

[35]

 

Giulia conoscea veramente che la reina l'amava molto, e da grande amore procedeano queste parole, le quali vere la reina le diceva, ond'ella incominciò a riprender conforto e a porre termine alle sue lagrime. E per fuggire ozio, il quale di trista memorazione de' suoi danni l'era cagione, con le propie mani lavorando, sovente faceva di seta nobilissime tele di diverse imagini figurate, allato alle quali, o misera Aragne, le tue sarebbero parute offuscate da nebulose macchie, come altra volta parvero, quando con Pallade avesti ardire di lavorare a pruova. Queste opere aveano sanza fine multiplicato l'amore della reina in lei, però che molto in simili cose si dilettava. Onde, come l'amore, così l'onore a lei e alle sue compagne multiplicare fece.

 

 

[36]

 

Non parve a Pluto avere ancora fornito il suo iniquo proponimento, posto ch'egli avesse con le sue false parole commosse l'occidentali rabbie sopra gl'innocenti romani; ma poi ch'egli ebbe nel cospetto del re Felice lasciato vilmente disfatto il falso corpo, un'altra volta riprese vana forma d'una giovane damigella di Giulia, chiamata Glorizia, la quale con lei ancora viva dimorava, e con sollicito passo entrò nell'ampio circuito delle romane mura. E già Calisto mostrando le sue luci, tacitamente, disciolti i capelli, entrò negli alti palagi di Lelio, stracciandosi tutta; ne' quali poi che ella fu ricevuta dal padre del morto Lelio e da' cari fratelli di Giulia, i quali, stupefatti tutti di tale accidente, taciti si maravigliavano, forte piangendo così cominciò loro a parlare:

 

 

[37]

 

«Poi che gli avversari movimenti della fortuna, invidiosa della nostra felicità, trassero della dolente città il vostro caro figliuolo e la sua moglie, a me carissima donna, con quella compagnia con la quale voi medesimi ci vedeste, e da cui voi, porgendo teneri baci e le vostre destre mani, piangendo vi dipartiste, noi avventurosamente, fin che a' miseri fati piacque, camminammo. Ma poi che a loro piacque di ritrarre la mano dalle nostre felicità, noi una mattina quasi nelle prime ore cavalcando per una profonda valle, occupate le nostre luci da noiosa nebbia, assaliti fummo da innumerabile quantità di predoni, vaghi del copioso arnese, il quale a noi non molto lontano andava, e del nostro sangue: e l'assalirci e 'l privarci dell'arnese non occupò più che un medesimo spazio di tempo. E appresso rivolti a noi con li aguzzati dardi, Lelio co' suoi compagni e la vostra Giulia di vita amaramente privarono. Io pavida piangendo, non so come delle inique mani fuggii; e fuggendo, per tema non ritornare nelle loro mani, per lo dolente cammino più volte ho sostenuto mortal dolore».

 

E co' pugni stretti, dette queste parole, cadde semiviva nelle loro braccia, la quale essi piangendo portarono sopra un letto, richiamando con freddi liquori le forze esteriori.

 

 

[38]

 

Incominciossi nel gran palagio un amarissimo pianto, e quasi per tutta Roma, ovunque il grazioso giovane e la piacente Giulia erano conosciuti, si piangea. L'aere risonava tutto di dolenti voci, tali che per lo preterito tempo alcuno anziano non si ricordava che tal doglia vi fosse stata per alcuno accidente. E certo che tu appena, o Bruto, riformatore della libertà del romano popolo, vi fosti tanto lagrimato dal rozzo popolo. E da quell'ora inanzi ciascun romano cominciò ad essere pauroso d'andar cercando gli strani altari o di portare gl'incensi a' lontani iddii fuori di Roma; e per lo gran dolore del morto Lelio lungamente lasciarono i nobili adornamenti, vestendo lugubri veste, così gli altri romani come i suoi distretti parenti.

 

 

[39]

 

Mentre la fortuna con la sua sinistra voltava queste cose, s'appressò il termine del partorire alla reina, e simigliantemente a Giulia; e nel giocondo giorno eletto per festa de' cavalieri, essendo Febo nelle braccia di Castore e di Polluce insieme, non essendo ancora la tenebrosa notte partita, sentirono in una medesima ora quelle doglie che partorendo per l'altre femine si sogliono sentire. Dopo molte grida, essendo già la terza ora del giorno trapassata, e la reina del gravoso affanno, partorendo un bel garzonetto, si diliberò, contenta molto in se medesima di tal grazia, sanza fine lodando i celestiali iddii; e similmente il re, udita la novella, fece grandissima festa, però che sanza alcun figliuolo era infino a quello giorno dimorato. Niuno altare fu in Marmorina negli antichi templi sanza divoto fuoco. E i freschi giovani con varii suoni, cantando, andavano faccendo smisurata festa. L'aere risonò d'infiniti sonagli per li molti armeggiatori, continuando per molti giorni grandissima gioia.

 

 

[40]

 

Avea già il sole per lungo spazio trapassato il meridiano suo cerchio, avanti che Giulia del disiderato affanno liberare si potesse: anzi, con grandissime voci invocando il divino aiuto, sostenea grandissima doglia. Ma tra la erronea gente si dubitava non Lucina sopra i suoi altari stesse con le mani comprese, resistendo a' suoi parti, come fece alla dolente Iole, quando ingannata da Galanta la convertì in mustella; e con divoti fuochi s'ingegnavano di mitigare la colei ira, per liberare Giulia di tale pericolo. Ma poi che a Giove piacque di dar fine a' suoi dolori, egli, ella partorendo, le concedette una figliuola non variante di bellezza dalla sua madre; la quale come fu nata, Giulia, sentendo la sua anima disiderosa di partirsi dal debile corpo, contenta del piacere di Dio, domandò che la sua unica figliuola, avanti la morte sua, le fosse posta nelle tremanti braccia. Glorizia, cameriera e compagna di Giulia, coperta la picciola zitella con un ricco drappo, la pose in braccio alla madre, la quale, poi che la vide, sospirando la baciò, e piangendo, voltata a Glorizia, gliele rendé, dicendo:

 

«Cara compagna, sanza dubbio di presente sento mi converrà rendere l'anima a Dio, e nel presente giorno ringraziarlo di doppio dono, sì come della dimandata progenie e della disiderata morte. Ond'io ti raccomando la cara figliuola, e, per quello amore che tra te e me è stato, ti priego che in luogo di me le sii sempre madre»; e dicendo queste parole alla dolente Glorizia, che nell'un braccio tenea la picciola fanciulla e nell'altro il capo di lei parlante, rendé l'anima al suo fattore umile e divota.

 

 

[41]

 

Cominciossi nella camera un doloroso pianto, e massimamente da Glorizia, la quale, tenendo in braccio la figliuola della morta Giulia, dicea:

 

«O sventurata figliuola, inanzi alla tua natività cagione della morte del tuo padre, e nascendo hai la tua madre morta! Oimè! quanta sarebbe l'allegrezza de' miseri parenti, se in vita t'abbracciassero, come io fo! O figliuola di lagrime e d'angoscia, quanto ha Giove mostrato che la tua natività non gli piacea! Oimè, di che amaro peso sono io ancora sanza umano conoscimento divenuta madre!».

 

E poi si volgea sopra il freddo corpo di Giulia, il quale tanta pietà porgea a chi morto il riguardava, che per vivere ciascuno ne torcea le luci; e dicea:

 

«O cara donna, ove m'hai tu misera con la tua figliuola lasciata? Deh! perché non m'è elli licito poterti seguire? Già era uscito della mia mente il gravoso dolore della crudele morte di Lelio, ma tu ora morendo m'hai doppia doglia rinnovata. Oimè misera! omai niuno conforto più per me s'aspetta».

 

Così piangendo questa, e l'altre che con lei nella camera dimoravano, pervennero le dolorose voci alle orecchie della reina, la quale, allegra del nato figliuolo, prima si maravigliò, dicendo:

 

«Chi piange invidioso de' nostri beni?», poi più efficacemente domandando, volle sapere la cagione di cotal pianto. E fatta chiamare alcuna femina della camera ove le misere piangeano, domandò qual fosse la cagione del loro pianto. Quella rispose:

 

«Madonna, quando Febo lasciò il nostro emisperio sanza luce, Giulia si diliberò, partorendo una bellissima creatura, del noioso peso; e non dopo molto spazio, rimasa debile, passò a miglior vita, e ha lasciato fra noi il grazioso corpo sì pieno d'umiltà nell'aspetto, che alcuno che il guardi non può ritenere in sé l'amaro pianto; e questo è quello che voi udito avete».

 

 

[42]

 

Quando la reina udì queste parole, sospirando disse:

 

«Oimè!, dunque ci ha la piacente Giulia abandonati?»; e comandò che 'l corpo di Giulia fosse nel suo cospetto recato; sopra 'l quale, poi che ella il vide, sparse amare lagrime e molte. E veramente il suo lieto animo non era il presente giorno tanto rallegratosi della natività dell'unico figliuolo, quanto la morta Giulia col suo pietoso aspetto l'attristò più. Ella comandò ch'ella fosse il vegnente giorno onorevolemente sepellita; e presa nelle sue braccia la bella figliuola, lagrimando molte volte la baciò, dicendo:

 

«Poi che alla tua madre non è piaciuto d'esser più con noi, certo tu in luogo di lei e di cara figliuola ne rimarrai. Tu sarai al mio figliuolo cara compagna e parente del continuo».

 

Molte fiate nel futuro pianse queste parole la reina, le quali nescientemente profetico spirito l'avea fatta parlare.

 

 

[43]

 

Sparsesi per la reale corte e per tutta Marmorina la morte della graziosa Giulia, la quale con la sua piacevolezza aveva sì presi gli animi di coloro che sua notizia aveano, che niuno fu che per pietà non spandesse molte lagrime. E il re similemente piangendo mostrò che di lei molto gli dolesse. Ma poi che il seguente giorno, lavato il corpo e rivestito di reali vestimenti, fu sepellito tra' freddi marmi, con quello onore che a sì nobile giovane si richiedea, elli scrissero sopra la sua sepoltura questi versi:

 

Qui d'Antropòs il colpo ricevuto,

giace di Roma Giulia Topazia,

dell'alto sangue di Cesare arguto

discesa, bella e piena d'ogni grazia,

che, in parto, abandonati in non dovuto

modo ci ha: onde non fia già mai sazia

l'anima nostra il suo non conosciuto

Iddio biasmar, che fé sì gran fallazia.

 

 

[44]

 

Assai sturbò la gran festa incominciata della natività del giovane la compassione che ogni uomo generalmente portava alla morte di Giulia. Ma poi che alquanti giorni furono passati, piacque al re Felice di vedere il suo figliuolo e la bella pulcella nata con lui in un medesimo giorno; e entrato con alcuno barone nella camera della reina, prima dolcemente la confortò domandandola di suo stato, poi comandò che le due creature gli fossero arrecate davanti. Furongli arrecati amenduni i garzonetti involti in preziosi drappi: i quali, poi ch'egli gli ebbe amenduni nelle sue braccia, per lungo spazio li riguardò, e vedendoli amenduni pieni di maravigliosa bellezza, e simiglianti insieme, disse così:

 

«Certo piacevole e giocondo giorno vi ci donò, nel quale ogni fiore manifesta la sua bellezza: i cavalieri simigliantemente e le gaie donne si rallegrano faccendo gioiosa festa. Adunque convenevole cosa è che voi in rimembranza della vostra natività, e per aumentamento delle vostre bellezze, siate da così fatto giorno nominati. E però tu, caro figliuolo, sì come primo nato, sarai da tutti universalmente chiamato Florio, e tu, giovane pulcella, avrai nome Biancifiore»; e così comandò che da quella ora in avanti fossero continuamente chiamati. E voltatosi alla reina, principalmente Florio le raccomandò; dopo questo la pregò molto che Biancifiore tenesse cara, però che aspetto avea di dovere ogni altra donna passare di bellezza, e che egli in luogo di Giulia sempre la volea tenere. E dopo queste parole, contento di sì bella erede, si partì dalla reina.

 

 

[45]

 

Teneramente raccomandò la reina alle balie le picciole creature, e con sollecita cura le facea nudrire. Ma poi che, lasciato il nudrimento delle balie, vennero a più ferma età, il re facea di loro grandissima festa, e sempre insieme realmente vestir li facea; e quasi non gli era la pulcella, che in bellezza ciascun giorno crescea, men cara che fosse il suo Florio. E vedendo che già Citerea, donna del loro ascendente, s'era dintorno a loro ne' suoi cerchi voltata la sesta volta, provide di volere che, se la natura in senno gli avesse in alcuno atto fatti difettosi, elli, studiando, per la scienza potessero ricuperare cotal difetto. E fatto chiamare un savio giovane, nominato Racheio, nell'arti di Minerva peritissimo, gli commise che i due giovinetti effettuosamente dovesse in saper leggere ammaestrare. E appresso chiamato Ascalion, simigliantemente amendue glieli raccomandò, dicendo:

 

«Questi sieno a te come figliuoli. Niuno costume né alcuna cosa, che a gentili uomini o donne si convenga, sia che tu a costoro non insegni, però che in loro ogni mia speranza è fissa: e essi sono l'ultimo termine del mio disio».

 

Ascalion e Racheio presero i commessi uficii; e sanza alcuna dimoranza incominciò Racheio a mettere il suo in essecuzione con intera sollecitudine. E loro in brieve termine insegnate conoscer le lettere, fece loro leggere il santo libro d'Ovidio, nel quale il sommo poeta mostra come i santi fuochi di Venere si deano ne' freddi cuori con sollecitudine accendere.

 

 

 

LIBRO SECONDO

 

 

[1]

 

Adunque cominciarono con dilettevole studio i giovani, ancora ne' primi anni puerili, ad imprendere gli amorosi versi: nelle quali voci sentendosi la santa dea, madre del volante fanciullo, nominare con tanto effetto, non poco negli alti regni con gli altri dei se ne gloriava. Ma non sofferse lungamente che invano fossero da' giovani petti sapute così alte cose come i laudevoli versi narravano, ma, involti i candidi membri in una violata porpore, circundata di chiara nuvoletta, discese sopra l'alto monte Citerea, là ove ella il suo caro figliuolo trovò temperante nuove saette nelle sante acque, a cui ella con benigno aspetto cominciò così:

 

«O dolce figliuolo, non molto distante agli aguti omeri d'Appennino, nell'antica città Marmorina chiamata, secondo che io ho ne' nostri alti regni sentito, ha due giovinetti, i quali effettuosamente studiando i versi che le tue forze insegnano acquistare, invocano con casti cuori il nostro nome, disiderando d'essere del numero de' nostri suggetti. E certo il loro aspetto, pieno della nostra piacevolezza, molto più s'appresta a' nostri servigi che a cultivare i freddi fuochi di Diana. Lascia dunque la presente opera, e intendi a maggiori cose, e solo il rimanente di questo giorno in mio servigio ti spoglia le leggieri ali. E come già nella non compiuta Cartagine prendesti forma del giovane Ascanio, così ora ti vesti del senile aspetto del vecchio re, padre di Florio; e quando se' là ove essi sono, sì come egli quando va a loro gli abbraccia e bacia costretto da pura benivolenza, così tu, abbracciandoli e baciandoli, metti in loro il tuo segreto fuoco, e infiamma sì l'un dell'altro, che mai il tuo nome de' loro cuori per alcuno accidente non se ne spenga. E io in alcuno atto occuperò sì il re, che la tua mentita forma per sua venuta non si manifesterà».

 

 

[2]

 

Mossesi Amore a' prieghi della santa madre, poi che spogliate s'ebbe le lievi penne; e pervenuto al dimandato luogo, vestitosi la falsa forma, entrò sotto i reali tetti, passando con lento passo nella segreta camera, ove egli Florio e Biancifiore trovò soletti puerilmente giuocare insieme. Essi si levarono verso lui come fare soleano, e egli primieramente preso Florio, il si recò nel santo seno, e porgendoli amorosi baci, segretamente gli accese nel cuore un nuovo disio: il quale Florio poi, guardando ne' lucenti occhi di Biancifiore con diletto, il vi fermò. Ma poi Cupido, presa Biancifiore, e spirandole nel viso con piccolo fiato, l'accese non meno che Florio avesse davanti acceso. E dimorato alquanto con loro, rivolti i passi indietro, li lasciò stare; e rivestendosi le lasciate penne, tornò al lasciato lavoro. E i giovani, rimasi pieni di nuovo disio, riguardandosi, si cominciarono a maravigliare stando muti. E da quell'ora in avanti la maggior parte del loro studio era solamente in riguardar l'un l'altro con temorosi atti; né mai l'un dall'altro, per alcuno accidente che avvenisse, partir si volea, tanto il segreto veleno adoperò in loro subitamente.

 

 

[3]

 

Sì tosto come Amore dalla sua madre fu partito, così ella nella lucida nuvoletta fendendo l'aere pervenne a' medesimi tetti, e, tacitamente preso il vecchio re, il portò in una camera sopra un ricco letto, dove d'un soave sonno l'occupò. Nel qual sonno il re vide una mirabi le visione: che a lui pareva esser sopra un alto monte, e quivi avere presa una cerbia bianchissima e bella, la quale a lui molto parea avere cara; la quale tenendola nelle sue braccia, gli pareva che del suo corpo uscisse un leoncello presto e visto, il quale egli insieme con questa cerbia sanza alcuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma, stando alquanto, vedeva discender giù dal cielo uno spirito di graziosa luce risplendente, il quale apriva con le proprie mani il leoncello nel petto; e quindi traeva una cosa ardente, la quale la cerbia disiderosamente mangiava. E poi gli pareva che questo spirito facesse alla cerbia il simigliante; e fatto questo si partiva.

 

Appresso questo, egli temendo non il leoncello volesse mangiar la cerbia, la lontanava da sé: e di ciò pareva che l'uno e l'altro si dolesse. Ma, poco stante, apparve sopra la montagna un lupo, il quale con ardente fame correva sopra la cerbia per distruggerla, e il re gliele parava davanti; ma il leoncello correndo subitamente tornò alla difesa della cerbia, e co' propii unghioni quivi dilacerò sì fattamente il lupo, che egli il privò di vita, lasciando la paurosa cerbia a lui che dolente gliele pareva ripigliare, tornandosi all'usato luogo. Ma non dopo molto spazio gli parea vedere uscir de' vicini mari due girfalchi, i quali portavano a' piè sonagli lucentissimi sanza suono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da' piedi i detti sonagli, e dava loro la cerbia cacciandogli da sé. E questi, presa la cerbia, la legavano con una catena d'oro, e tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e quivi ad un grandissimo veltro così legata la lasciavano. Ma poi, sappiendo questo, il leoncello mugghiando la ricercava; e presi alquanti animali, seguitando le pedate della cerbia, n'andavano là ove ella era; e quivi gli parea che il leoncello, occultamente dal cane, si congiungesse con la cerbia amorosamente. Ma poi avedendosi il veltro di questo, l'uno e l'altro parea che divorar volesse co' propii denti. E subitamente cadutagli la rabbia, loro rimandava là onde partiti s'erano. Ma inanzi che al monte tornassero, gli parea che essi si tuffassero in una chiara fontana, della quale il leoncello uscendone, pareva mutato in figura di nobilissimo e bel giovane, e la cerbia simigliantemente d'una bella giovine: e poi a lui tornando, lietamente li ricevea; e era tanta la letizia la quale egli con loro facea, che il cuore, da troppa passione occupato, ruppe il soave sonno. E stupefatto delle vedute cose si levò, molto maravigliandosi, e lungamente pensò sopra esse; ma poi non curandosene, venne alla reale sala del suo palagio in quell'ora che Amore s'era da' suoi nuovi suggetti partito.

 

 

[4]

 

Taciti e soli lasciò Amore i due novelli amanti, i quali riguardando l'un l'altro fiso, Florio primieramente chiuse il libro, e disse:

 

«Deh, che nuova bellezza t'è egli cresciuta, o Biancifiore, da poco in qua, che tu mi piaci tanto? Tu non mi solevi tanto piacere; ma ora gli occhi miei non possono saziarsi di riguardarti!».

 

Biancifiore rispose:

 

«Io non so, se non che di te poss'io dire che in me sia avvenuto il simigliante. Credo che la virtù de' santi versi, che noi divotamente leggiamo, abbia accese le nostre menti di nuovo fuoco, e adoperato in noi quello già veggiamo che in altrui adoperarono».

 

«Veramente - disse Florio - io credo che come tu di' sia, però che tu sola sopra tutte le cose del mondo mi piaci».

 

«Certo tu non piaci meno a me, che io a te», rispose Biancifiore. E così stando in questi ragionamenti co' libri serrati avanti, Racheio, che per dare a' cari scolari dottrina andava, giunse nella camera e loro gravemente riprendendo, cominciò a dire:

 

«Questa che novità è, che io veggio i vostri libri davanti a voi chiusi? Ov'è fuggita la sollecitudine del vostro studio?».

 

Florio e Biancifiore, tornati i candidi visi come vermiglie rose per vergogna della non usata riprensione, apersero i libri; ma gli occhi loro più disiderosi dell'effetto che della cagione, torti, si volgeano verso le disiate bellezze, e la loro lingua, che apertamente narrare solea i mostrati versi, balbuziendo andava errando. Ma Racheio, pieno di sottile avvedimento, veggendo i loro atti, incontanente conobbe il nuovo fuoco acceso ne' loro cuori, la qual cosa assai gli dispiacque; ma più ferma esperienza della verità volle vedere, prima che alcuna parola ne movesse ad alcuno altro, sovente sé celando in quelle parti nelle quali egli potesse lor vedere sanza essere da essi veduto. E manifestamente conoscea, come da loro partitosi, incontanente chiusi i libri, abbracciandosi si porgeano semplici baci, ma più avanti non procedeano, però che la novella età, in che erano, non conoscea i nascosi diletti. E già il venereo fuoco gli avea sì accesi, che tardi la freddezza di Diana li avrebbe potuti rattiepidare.

 

 

[5]

 

Poi che più volte Racheio gli ebbe veduti nella soprascritta maniera, e alcuna volta gravemente ripresigliene, egli tra se medesimo disse: "Certo questa opera potrebbe tanto andare avanti, sotto questo tacere ch'io fo, che pervenendo poi alle orecchi del mio signore, forse mi nocerebbe l'aver taciuto. Io manifestamente conosco ne' sembianti e negli atti di costoro la fiamma di che elli hanno acceso i cuori: dunque perché non gli lascio io ardere sotto altrui protezione, che sotto la mia? Io pur ho infino a qui fatto l'uficio mio, riprendendoli più volte, né m'è giovato: e però per mio scarico è il meglio dirlo al re". E così ragionando Racheio, Ascalion sopravenne: il quale, in molte cose peritissimo, quando lo studio rincrescea loro, mostrava loro diversi giuochi, e tal volta cantando con essi si sollazzava, avendo già ciascuno da lui medesimo appresa l'arte del sonare diversi strumenti; e trovò Racheio pensando, a cui e' disse:

 

«Amico, qual pensiero sì ti grava la fronte, che occupato in esso, altro che rimirare la terra non fai?».

 

A cui Racheio narrando il suo pensiero rispose. Quando Ascalion intese questo, niente gli piacque, ma disse:

 

«Andiamo, e sanza alcuno indugio il narriamo al re, acciò che se altro che bene n'avvenisse, noi non possiamo essere ripresi».

 

E dette queste parole, voltati i passi, amenduni n'andarono nella presenza del re; al quale Ascalion parlò così:

 

 

[6]

 

«Nella vostra presenza, o vittoriosissimo prencipe, ci presenta espressa necessità a narrarvi cose le quali, se esser potesse suto, disiderato avremmo molto che dicendole altri, agli orecchi vostri fossero pervenute. Ma però che noi, disiderosi del vostro onore, non volendo anche il nostro contaminare, conosciamo che da tenere occulte non sono, e massimamente a voi, onde acciò che il futuro danno, che seguire ne potrebbe di ciò che vi diremo, non sia a noi noia né mancamento de' vostri onori, vi facciamo manifesto che novello amore è generato ne' semplici cuori del vostro caro figliuolo Florio e di Biancifiore. E questo nelli loro atti più volte abbiamo conosciuto, sì come l'iddii sanno: essi più volte effettuosamente abbracciarsi e darsi graziosi baci abbiamo veduti, e appresso sovente, guardandosi nel viso, l'un l'altro gittare sospiri accesi di gran disio. E ancora più manifesto segnale n'appare, il quale voi assai tosto potete provare, che niuna cosa è che l'uno sanza l'altro voglia fare, né li possiamo in alcuna maniera partire, e hanno del tutto il loro studio abandonato: anzi, così tosto come noi della loro presenza siamo partiti, così incontanente chiusi i libri intendono a riguardarsi; e di ciò, come dell'altre cose, gravemente più volte ripresi gli abbiamo, credendo poterli da ciò ritrarre, ma poco giova la nostra riprensione. E però, acciò che noi per ben servire mal guiderdone non riceviamo, e acciò che subito rimedio ci sia da voi preso, v'abbiamo voluto questo palesare. Voi, sì come savio, anzi che più s'accenda il fuoco, providamente pensate di stutarlo, ché, quanto a noi, il nostro potere ci abbiamo adoperato».

 

 

[7]

 

Niente piacquero al re l'ascoltate parole; ma celando il suo dolore con falso riso, rispose:

 

«Però non cessi il vostro con riprensione gastigarli e con ispaventevoli minacce impaurirli. Essi ancora per la loro giovane età sono da potere essere ritratti da ciò che l'uomo vuole; e io, quando per voi dell'incominciata follia rimaner non si volessono, prenderà in questo mezzo altro compenso, acciò che il vostro onore per vile cagione non diventi minore».

 

E detto questo, con l'animo turbato si partì da loro, e entrossene in una camera; e quivi da sé cacciando ogni compagnia, solo a sedere si pose, e, con la mano alla mascella, cominciò a pensare e a rivolversi per la mente quanti e quali accidenti pericolosi poteano avvenire del nuovo innamoramento; e di tale infortunio tra se medesimo cominciò a dolersi. E mentre in tal pensiero il re dimorava occupato, la reina, passando per quella camera, sopravenendo il vide, e con non poca maraviglia, fermata nel suo cospetto, gli disse:

 

«O valoroso signore, quale accidente o qual pensiero occupa sì l'animo vostro, che io, pensando, nell'aspetto vi veggo turbato? Non vi spiaccia che io il sappia, però che niuna felicità né avversità ancora dovete sanza me sostenere: se voi 'l mi dite, forse o consiglio o conforto vi porgerò».

 

Rispo se il re allora con voce mescolata di sospiri, e disse:

 

«E' mi piace bene che a voi non sia la mia malinconia celata, la cagione della quale è questa: con ciò sia cosa che la fortuna infino a questo tempo ci abbia con la sua destra tirati nell'auge della sua volubile rota, accrescendo il numero de' nostri vittoriosi triunfi, ampliando il nostro regno, multiplicando le nostre ricchezze e concedendone, insieme con gli altri iddii, cara progenie, a cui la nostra corona è riserbata, ora pensando dubito che ella, pentuta di queste cose, non s'ingegni con la sua sinistra d'avvallarci. E gl'iddii credo che ciò consentono; e la maniera è questa: niuna allegrezza fu mai maggiore a noi, che quella quando il nostro unico figliuolo dagl'iddii lungamente pregati ricevemmo; e sapete che ne' nostri regni nella sua natività niuno altare fu sanza divoto fuoco e sanza incensi, né niuno iddio fu che con divota voce non fosse per le nostre città ringraziato. Ora, conoscendo la fortuna quanto questo figliuolo ne sia caro per le rendute grazie, per porre noi in maggior doglia e tristizia, in vile modo s'ingegna di privarcene, minuendo i nostri onori, essendo egli in vita, dandoci manifesto essemplo che, poi che alla più cara cosa comincia, discenderà sanza fallo all'altre minori: e udite come ella s'è ingegnata di levarci Florio. Essa ha tanto il giovane figliuolo di Citerea, non meno mobile di lei, con lusinghe mosso, che egli, entrato nel giovane petto di Florio, l'ha sì infiammato della bellezza di Biancifiore, che Paris di quella di Elena non arse più; e non vede più avanti che Biancifiore, secondo che i loro maestri m'hanno detto poco avanti. E certo io non mi dolgo che egli ami, ma duolmi di colei cui egli ama, perché alla sua nobiltà è dispari. Se una giovane di real sangue fosse da lui amata, certo tosto per matrimonio gliele giugneremmo; ma che è a pensare che egli sia innamorato d'una romana popolaresca femina, non conosciuta e nutricata nelle nostre case come una serva? Ora adunque che cercherete voi più avanti della mia malinconia? Non è questa gran cagione di dolersi, pensando che un sì fatto giovane, il quale ancora dee sotto il suo imperio governare questi regni, sia per una feminella perduto? Certo io non avria avuta alcuna malinconia se gl'iddii l'avessero al loro servigio chiamato nella sua puerizia, come Ganimede fecero. E certo la morte di Gilo non fu da Xenofonte suo padre sostenuta con sì forte animo, com'io avrei fatto o farei, se gl'iddii avessero consentito ch'io avessi per simile caso perduto Florio che Xenofonte perdé Gilo. Né Anassagora ancora ebbe cagione di piagnere, però che saviamente aspettava cosa naturale del suo figliuolo, come io medesimo quello accidente sanza lagrime aspetterei. Ma pensando che per vile avvenimento, vivendo il mio figliuolo, io il posso più che morto chiamare, il dolore che quinci mi nasce mi trasporta quasi infino agli ultimi termini della vita. Né so che di questo io mi faccia, ché io dubito che, se io di tal fallo il riprendo, o m'ingegno con asprezza di ritrarlo da questa cosa, che io non ve lo accenda più suso, o forse egli del tutto non m'abandoni e vada vagabundo per gli strani regni, fuggendo le mie riprensione: e così avremmo sanza alcuno utile accresciuto il danno. E d'altra parte se io taccio questa cosa, il fuoco ognora più s'accenderà, e così mai da lei partire nol potremo».

 

 

[8]

 

Molto fu la reina di quelle parole dolente, e quasi lagrimando ne 'l dimostrò; ma, dopo poco spazio, con pietoso aspetto disse:

 

«Caro signore, non è per questo accidente da disperarsi, né degl'iddii né della fortuna, però che non è mirabile cosa se Florio s'è della bellezza della vaga giovane inamorato, con ciò sia cosa che egli sia giovanissimo e continuamente con lei dimori, e ella sia bellissima giovane e piacevole. E non è dubbio che, se questo amore s'avanzasse, come voi dite che egli è cominciato, che noi potremmo dire che 'l nostro figliuolo fosse vivendo perduto, pensando alla piccola condizione di Biancifiore. Ma quando le piaghe sono recenti e fresche, allora si sanano con più agevolezza che le vecchie già putrefatte non fanno. Secondo le vostre parole, questo amore è molto novello, e sanza dubbio egli non può essere altramente, e simigliantemente gli amanti novelli sono, né mai altro fuoco non li scaldò; e però questo fia lieve a spegnere seguendo il parer mio, né niuna più legger via ci è che dividere l'uno dall'altro; la qual cosa in questa maniera si può fare. Florio, già ne' santi studii dirozzato, è da mettere a più sottili cose; e voi sapete che noi abbiamo qui vicino Ferramonte, duca di Montoro, a noi per consaguinità congiuntissimo, e in niuna parte del nostro regno più solenne studio si fa che a Montoro. Noi possiamo sotto spezie di studio mandar Florio là a lui, e quivi faccendolo per alcuno spazio dimorare, gli potrà agevolemente della memoria uscir questa giovane, non vedendola egli. E come noi vedremo che egli alquanto dimenticata l'aggia, allora noi gli potremo dare sposa di real sangue sanza alcuno indugio, e così potremo essere agevolmente fuori di cotale dubbio. E già però esso non ci sarà tanto lontano, che noi nol possiamo ben sovente vedere. Ond'io, caro signore, vi priego che questa malinconia cacciate da voi prendendo sanza indugio questo rimedio».

 

 

[9]

 

Piacque al re il consiglio della reina, il quale giovare non dovea ma nuocere, però che quanto più si strigne, il fuoco con più forza cuoce; e poi ch'egli sopra ciò ebbe lungamente pensato, le rispose che ciò farebbe, però che altra via a tal pericolo fuggire non vedea. Ma, oh quanto fu tale imaginazione vana, con ciò sia cosa che durissimo sia resistere alle forze de' superiori corpi, avvegna che possibile! Venus era nell'auge del suo epiciclo, e nella sommità del differente nel celestiale Toro, non molto lontana al sole, quando ella fu donna, sanza alcuna resistenza d'opposizione o d'aspetto o di congiunzione corporale o per orbe d'altro pianeto, dello ascendente della loro natività; il saturnino cielo, non che gli altri, pioveva amore il giorno che elli nacquero.

 

Oimè, che mai acqua lontana non spense vicino fuoco! Ove credea il re potere mandar Florio sanza la sua Biancifiore, con ciò fosse cosa che ella era continuamente nel suo animo figurata con più bellezza che il vero viso non possedea, e quello che prende e lascia amore era sempre con Biancifiore? I corpi si doveano allontanare, ma le menti con più sollecitudine si doveano far vicine. Niuna cosa è più disiderata che quella che è impossibile, o molto malagevole, ad avere. Per quale altra cagione diventò il gelso vermiglio, se non per l'ardente fiamma costretta, la quale prese più forza ne' due amanti costretti di non vedersi? Chi fece Biblide divenir fontana se non il sentirsi esser negato il suo disio? Ella fu femina mentre ella ne stette in forse con isperanza. O re, tu credi apparecchiare fredde acque all'ardente fuoco, e tu v'aggiugni legne. Tu t'apparecchi di dare non conosciuti pensieri a' due amanti sanza alcuna utilità di te o di loro, e affrettiti di pervenire a quel punto il quale tu con disio ti credi più fuggire. Oh quanto più saviamente adoperresti lasciandoli semplicemente vivere nelle semplici fiamme, che voler loro a forza fare sentire quanto sieno amari o dilettevoli i sospiri che da amoroso martiro procedono! Elli amano ora tacitamente. Né niuno disidera più avanti che solo il viso, il quale per forza conviene che per troppa copia, se stare gli lascia, rincresca, però che delle cose di che l'uomo abondevole si truova, sfastidiano. Ma che si può qui più dire, se non che il benigno aspetto, col quale la somma benivolenza riguarda la necessità degli abandonati, non volle che il nobile sangue, del quale Biancifiore era discesa, sotto nome d'amica divenisse vile, ma acciò che con matrimoniale nodo il suo onore si servasse, consentì che le pensate cose sanza indugio si mettessero in effetto?

 

 

[10]

 

Diede il giorno luogo alla sopravegnente notte, e le stelle mostrarono la lor luce; ma poi che Febo co' tiepidi raggi recò nuovo splendore, il re fece a sé chiamare Florio, e con lieto viso ricevuto il suo saluto, a sé l'accolse, e così gli disse:

 

«Bello figliuolo, a me sopra tutte cose caro, ascoltino le tue orecchi pazientemente le mie parole; e i miei comandamenti, i quali da te debitamente deono essere osservati, per te sieno messi ad effetto. Con ciò sia cosa che niuna speranza rimasa fosse alla mia lunga età di gloria, agl'iddii piacque di donarmi te, in cui la mia speme, sanza fallo già secca, ritornò verde; e dissi: "Omai la fama del nostro antico sangue non perirà, poi che gl'iddii ci hanno conceduto degna erede"; e sopra te tutto il mio intendimento fermai, sì come sopra unico bastone della mia vecchiezza. E volendo che l'alto uficio a che gl'iddii t'hanno apparecchiato, sì come è a ornare la tua fronte di splendida corona degli occidentali regni, non patisse difetto di savio duca, ancora che io nella tua effigie conoscessi che valoroso uomo dovevi per natura pervenire, nondimeno con essaminato animo imaginai che per le accidentali scienze molto t'avanzeresti. E dalla imaginazione nel dovuto tempo venni all'effetto; e infino a questo giorno, così come la tua età è stata per la gioventudine deboletta a sostenere, così con picciole scienze t'ho fatto nutricare. Ora che in più ferma età se' pervenuto, disidero che tu a più alti studii disponghi il tuo intelletto, e massimamente a' santi principii di Pittagora, de' quali venendo con l'aiuto de' nostri iddii a perfezione, sì come io estimo, ti seguirà grandissimo onore, con ciò sia cosa che la scienza in niuna maniera di gente tanto sia lucida e risplendente quanto ne' prencipi. E ciò puoi tu per te medesimo considerare, ricordandoti quanta fosse eccellente la fama del gran re Salamone, ancora che giudeo e lontano dalla nostra setta fosse. E per imprendere questa scienza, certo a te non converrà andare cercando Elicona, né i solleciti studii d'Attene, né alcuno altro lontano paese, però che qui a noi molto vicina è una città chiamata Montoro, dotata di molti diletti, la quale per noi il valoroso duca Ferramonte governa, a noi congiustissimo parente, non molto men giovane di te, il quale continua compagnia ti sarà. Quivi con ordinato stile si leggono le sante scienze; quivi, secondo che io estimo, tu potrai in picciolo termine divenire valoroso giovane: per la qual cosa io voglio che sanza indugio vi vada. Né ciò ti dee parer grave, considerando principalmente che tu vai a divenire valoroso uomo, per la qual cosa acquistare niuno affanno né sconcio se ne dee rifiutare: appresso, tu non sarai però da noi diviso, però che ci se' per picciolo spazio vicino, e sovente potremo noi venire a veder te e tu noi sanza sconcio dello studio: il quale noi non intendiamo che tu prenda in maniera che niuno tuo diletto se ne sconci; dall'altra parte, tu sarai con persona che sanza fine t'ama e che disidera molto di vederti, cioè il duca. E però ora che il tempo è molto più atto allo studio che al sollazzo, però che sì come già vedi signoreggiare le stelle Pliade e la terra rivestire di bianco molto sovente, avendo perduto il verde colore, prendi quella compagnia che più ti diletta, e vavvi».

 

 

[11]

 

Florio, udendo queste parole, in se medesimo si turbò molto, però che nemiche le sentia al suo disio, e, lasciando parlare il padre, lungamente guardando la terra, mutolo sanza niente rispondere stette; e dimandatagli più volte dal padre risposta, dopo il trarre d'un grandissimo sospiro, disse così:

 

«A me, o reverendissimo padre, è occulta la cagione per che da voi sì giovane e con tanta fretta dividere mi volete, essendo voi pieno d'età, com'io vi veggo. Voi disiderate che io per studio divenga in scienza valoroso, la qual cosa non è meno da me disiderata. Ma qual dovuto pensiero vi mostra che io debba meglio, da voi lontano, studiare, che nella vostra presenza? Non imaginate voi che io lontano da voi continuamente sarò pieno di varie sollecitudini? Io non ispesso, ma quasi continuo crederò che sconcio accidente occupi con infermità la vostra persona, o dubiterò che voi di me non dubitiate. E ancora mi si volgeranno dubbii per la mente che la vostra vita, a me molto da tener cara, non sia con insidie appostata dagli occulti nemici per la mia assenza. Queste cose non sono impossibili ad essere ogni ora del giorno pensate da me, però che io non fui generato dalle querce del monte Appennino, né dalle dure grotte di Peloro, né dalle fiere tigre, ma da voi, cui io amo più che niuna altra cosa: e di quelle cose che sono amate si dee dubitare. E andandomi queste sollecitudini per lo petto, qual parte di scienza vi potrà mai entrare? E ancora manifestamente veggiamo che a niuna persona i futuri casi sono palesi. Chi sa se gl'iddii, non essendo io con voi, vi chiamassero subitamente a' loro regni? la qual cosa sia lontana per molto tempo da noi; ma se pure avvenisse, chi vi chiuderebbe con più pietosa mano gli occhi nell'ultima ora gravati, che farei io? La qual cosa, se io vi sono lontano, come la farò? E se a me lontano da voi questo accidente avvenisse, che 'l veggiamo sovente avvenire, ché più tosto si secca il giovane rampollo che il vecchio ramo, chi porterebbe a' miei fuochi l'acceso tizzone? Certo strana mano, e non la vostra. Adunque guardate a quello che voi avete pensato, e vedete ancora s'è convenevole cosa che io, unico figliuolo di così fatto re come voi siete, vada studiando per lo mondo attorno. E però più utile e migliore consiglio mi pare il fare qui da Montoro o d'altra parte ove più sofficienti fossero, venire maestri in quella scienza la quale più v'aggrada che io appari, e qui in vostra presenza, di miglior cuore, cessando ogni dubbio, apprenderò e con più diletto studierò, vedendovi continuamente in prosperevole stato».

 

 

[12]

 

Quando il re udì la risposta di Florio, ben conobbe il suo volere occulto, e che le scuse da lui porte, non da pietà che di lui padre avesse, ma sola la forza d'amore che a Biancifiore lo stringea li facea questo dire; onde egli così gli disse:

 

«Figliuolo, siano di lungi da noi gli avversi casi, i quali tu ora in forse mettevi futuri, però che se pure avvenissero, tanto ne sarai vicino, che ben potrai al pietoso uficio esser chiamato. Ma tu sanza dovere ti ramarichi, ponendolo, in non convenevole cosa, che un figliuolo di tal re, quale tu se', vada per le strane scuole studiando. Or ove ti mando io? Se tu riguardi bene, tu vai in casa tua e nella tua città e nel tuo regno a dimorare. E se non fosse che 'l troppo amore de' padri verso i figliuoli li fa le più volte pigri alle virtù, certo io m'atterrei al tuo consiglio di farti appresso di me studiare; ma acciò che niuno atto di pigrizia dal grande amore ch'io ti porto ti succedesse, mi fo io alquanto contra me medesimo rigido, dilungandoti un poco da me. E certo tu il dei aver caro, però che la tua età richiede più tosto affanno che agio: il sole, poi che Lucina chiamata dalla tua madre mi ti donò, è quattordici volte ad un medesimo punto ritornato nelle braccia di Castore e di Polluce, e è entrato nel cammino usato per compiere la quintadecima, e è già al terzo della via, o più avanti. Deh, se tu rifiuti, e dubiti d'andar così vicino a noi, come poss'io presumere che tu, per divenire valoroso, se accidente avvenisse, prendessi sopra te un grave affanno? Caro figliuolo, e' non si disdice a' giovani disiderosi di pervenire valorosi prencipi l'andare veggendo i costumi delle varie nazioni del mondo. Già sappiamo noi che Androgeo, giovane quasi nella tua età, solo figliuolo maschio di Minòs, re della copiosa isola di Creti, andò agli studii d'Attene, lasciando il padre pieno d'età forse più ch'io non sono, perché in Creti non era studio sofficiente al suo valoroso intendimento. E Giansone, più disposto all'armi che a' filosofichi studii, con nuova nave prima tentò i pericoli del mare per andare all'isola de' Colchi a conquistare il Montone con la cara lana, e con esso etterna fama, perché ne' suoi paesi non potea mostrare la sua virtuosa forza, e giovanissimo abandonò i vecchi padre e ziano sanza alcuna erede: l'onore del mondo né i celestiali regni non s'acquistano sanza affanno. Io conosco manifestamente che effettuoso amore ti strigne a essere sempre meco, e niuna altra cagione ti fa scusare l'andata; ma l'andare a Montoro non sarà allontanarsi da me. Onde, caro figliuolo, va, e sì sollecitamente con acconcio modo studia, che tu possi a me in brieve tempo sanza più avere a studiare ricongiugnerti valoroso giovane».

 

 

[13]

 

Allora Florio, non potendosi quasi più celare, però che ira e amore dentro l'ardeano, rispose:

 

«Caro padre, né Androgeo né Giansone non seguirono l'uno lo studio e l'altro l'armi, se non per averne il glorioso fine disiderato da loro: e questo è manifesto. E veramente a me non sarebbe grave il provare le tempestose onde del mare, né i pericoli della terra, andando molto più lontano da voi, in qualunque parte del mondo, che niuno di loro fece, credendovi io trovare la cosa da me disiata a quietare la mia volontà. Ma che andrò io adunque cercando per lo mondo? Quel ch'io amo e quel ch'io disidero è meco; voglio io andare perdendomi, e non sapere in che? Voletemi voi fare usare il contrario degli altri uomini che affannando vanno? Niuno è che affannando vada, se non a fine d'avere alcuna volta riposo: e io, partendomi di qui, fuggirò il riposo per affannare! Io non posso fare che io non mi vi scuopra: egli è qui nella nostra reale casa la nobile Biancifiore, la quale io sopra tutte le cose del mondo amo; e certo non sanza cagione: ella è l'ultimo fine de' miei disii, e solamente vedere il suo bel viso, il quale più che matutina stella risplende, è quello che io disidero di studiare. Onde io caramente vi priego che voi della mia vita aggiate pietà sì come padre di figliuolo, la quale sanza fallo, dividendomi io da Biancifiore, si dividerà da me. E acciò che 'l tempo in lungo sermone non si occupi, vi dico che sanza lei io non sono disposto ad andare in alcuna parte del mondo, né vicina né lontana di qui. Se lei volete mandar meco, mandatemi ove volete, ché tutto mi parrà leggiero e grazioso l'andare. E dell'amore ch'io porto a costei vi dovete voi molto contentare, pensando che Amore abbia tanto bene per noi preveduto, che egli non ha consentito che io disiando donna lontana da' nostri regni faccia come già fece Perseo, il quale tra li neri indiani scelse Andromeda, e similemente Paris degli altrui regni ne portò Elena insieme col fuoco che arse poi i suoi regni; e cercando lei abandoni voi vecchio. Adunque da poi che Amore in un regno, in una città e in una medesima casa m'ha conceduto dilettoso piacere, di sì grazioso dono gli siamo noi molto tenuti. E poi che così è, io vi priego che vi piaccia che graziosamente e sanza affanno voi mi lasciate questo singular bene possedere».

 

 

[14]

 

Sì tosto come Florio tacque, il re, che non meno cruccioso era di lui, ben che nel sembiante allegro si mostrasse, alquanto turbato così gli rispose:

 

«Ahi, caro figliuolo, che è quello che tu di'? Io non avrei mai creduto che sì vile cagione ti ritenesse da volere andare a pervenire a così alti effetti come lo studiare nelle filosofiche scienze reca altrui. Sola pietà di me vecchio credea ti ritenesse: ora hatti già tanto insegnato Amore, che sotto spezie di verità porgi inganno a me, tuo padre? Hai tu questo appreso nel lungo studio che io sotto la correzione di Racheio t'ho fatto fare? Oimè, che ora pur conosco io manifestamente quello a che il tuo poco senno ti tira! e ben conosco che la verità da' tuoi maestri mi fu porta, poi che così parli; e sanza fine di te mi maraviglio, il quale mi vuoi dare a vedere che quello di che tu e io più ci dovremmo dolere, ne dovremo far festa e ringraziare Amore; e non pensi quanta sia la viltà, la quale ha il tuo animo occupato in disporti ad amare così fatta femina, come tu ami; della qual cosa doppiamente se' da riprendere e principalmente d'aver avuta sì poca costanza in te, che a sì vile passione, com'è amare una femina oltre misura, hai lasciato vincere il tuo virile animo, non ponendo mente quanti e quali sieno i pericoli che da questo amare sieno già proceduti e procedano. Non udisti tu mai dire come miserabilmente Narcisso per amore si consumò, e con quanta afflizione Biblide per amore divenne fontana? E ancora gl'iddii sostennero noia di tal passione, e massimamente Apollo, il quale, di tutte cose grandissimo medico, a sé medicina non poté porgere, poi che ferire s'ebbe lasciato, forse non per viltà ma per provare; e in brieve, niuno non è a cui questo amore non dissecchi le medolle dell'ossa. E tu con disiderio il vai seguendo! Ma ancora di tutto questo, tenendo lo stile della più gente, ti potresti scusare; ma non consideri tu di cui tu ti sei innamorato, e per cui tu così faticosa passione sostieni? e ciò è d'una serva nata nelle nostre case, la quale a comparazione di te non ti si confarebbe in niuno atto. Deh! or ti fossi tu d'una valorosa e gran donna simile alla tua nobiltà innamorato! assai mi dorrebbe, ma ancora mi sarebbe alcuna consolazione. Io non ti potrei mai tanto sopra questo dire quanto io disidero; ma però ch'io so che ancora in te medesimo, sanza riprensione alcuna, ti riconoscerai del tuo errore, e rimarra'tene, mi taccio. E se io credessi che ciò non avvenisse, certo legger cosa mi sarebbe ora io medesimo ucciderti. Ma acciò che tu seguiti lo studio, io in questa parte, ancora che io conosca che manifesto biasimo ti sia menarti dietro per le strane scuole quella che tu sconciamente ami, ne seguirò il tuo volere; e sì tosto come tua madre, la quale alquanto non sana è stata, come tu puoi vedere, avrà intera sanità ricuperata, io la ti manderò a Montoro; e ora teco la ne manderei, se non fosse che sanza lei tua madre in cotale atto non vuoi rimanere».

 

 

[15]

 

Turbossi alquanto Florio veggendo il padre turbato, ma non pertanto quasi lagrimando così li rispose:

 

«Padre mio, sì come voi sapete, né il sommo Giove né il risplendente Apolto, da voi ora davanti ricordato, né alcuno altro iddio ebbe all'amorevole passione resistenza; né tra' nostri predecessori fu alcuno tanto di virile forza armato, né sì crudo, che da simile passione non fosse oppresso. Adunque, se io giovinetto contra così generale cosa non ho potuto resistere, certo non ne sono io sì gravosamente da riprendere, come voi fate, ma emmi da rimettere, pensando che il mio spirito è stato sì volgare, che per rigidezza non ha rifiutato quello che ciascuno altro gentile ha sostenuto. E la mia forma, la quale mercé degl'iddii è bellissima, richiede tale uficio, più tosto che alcuno altro. E che si potrà giustamente dire a me s'io amo, poi che ad Ercule e ad Aiace uomini robusti non si disdisse? Appresso dite che gravoso vi sembra pensando la qualità della femina che io amo, però che popolaresca e serva la riputate; e voi credo che in parte ignoriate di qual sangue questa giovane, cui io amo, sia discesa, sì come quegli che ingiustamente il suo padre valoroso, resistente con picciola schiera alla vostra moltitudine di gente, uccideste, il quale forse non fu di minor qualità che voi siate, pensando alla grandezza di tanto animo quanto nella sua fine mostrò. E ancora che certamente noi nol sappiamo, noi pure avemo udito che la madre di costei, la quale voi non serva prendeste, discese dell'alto sangue del vittorioso Cesare, già conquistatore de' nostri regni per adietro. E posto che manifestamente la nazione di questa giovane esser vile si conoscesse, sì conosciamo noi lei esser tanto gentile o più, quanto se d'imperiale progenie nata fosse, se riguardiamo con debito stile che cosa gentilezza sia, la quale troveremo ch'è sola virtù d'animo. E qualunque è quelli che con animo virtuoso si truova, quelli debitamente si può e dee dire gentile. E in cui si vide già mai tanta virtù, quanta in costei si truova e vede manifestamente? Ella è di tutte generalmente vera fontana. In lei pare la prudentissima evidenzia della cumana Sibilla ritornata; né fu la casta Penolope più temperata di costei, né Catone, più forte negli avversarii casi, né con più equalità d'animo: liberalissima la veggiamo. La grazia della sua lingua si potrebbe adeguare alla dolcissima eloquenzia dell'antico Cicerone. A cui mai tanta grazia concessero gl'iddii? Questa è sommamente virtuosa: adunque sanza comparazione gentile. Non fanno le vili ricchezze, né gli antichi regni, forse come voi, essendo in uno errore con molti, estimate, gli uomini gentili né degni posseditori de' grandi uficii: ma solamente quelle virtù che costei tutte in sé racchiude. Deh, or come mi potea o potrebbe già mai Amore di più nobil cosa fare grazia? Questa ha in sé una singular bellezza, la quale passa quella che Venus tenea, quando ignuda si mostrò nelle profonde valli dell'antica selva chiamata Ida a Paris, la quale, ognora che io la veggio, m'accende nel cuore uno ardore virtuoso sì fatto, che s'io d'un vile ribaldo nato fossi, mi faria subitamente ritornare gentile. Né niuna volta è che io i suoi lucentissimi occhi riguardi, che da me non fugga ogni vile intendimento, se alcuno n'avessi. Adunque, poi che questa a virtuosa vita mi muove, non che ella è gentile, come di sopra detto è, ma se ella fosse la più vil feminella del mondo, sì è ella da dovere essere amata da me sopra ogni altra cosa. Ma poi che tanto v'aggrada che io studii, acciò che riputato non mi possa essere in vizio il non ubidirvi, farollo volentieri; ma se mia vergogna vi sembra che costei per le strane scuole mi venga seguendo, levate la cagione acciò che non seguiti l'effetto: non vi mandate me, il quale sono presto d'andarvi, poi che a voi piace, e impromettetemi di mandarmi lei. Sieno del loro amore ripresi la trista Mirra e lo scelerato Tireo e la lussuriosa Semiramis, i quali sconciamente e disonestamente amarono, e me più non riprendete, se la mia vita v'aggrada».

 

 

[16]

 

Non rispose più il re a Florio, però che sì gli vedeva gli argomenti presti, che volendo parlare con lui avrebbe di gran lunga perduto, ma lasciandolo solo, si partì da esso e comandò che s'acconciasse l'arnese, acciò che Florio la seguente mattina n'andasse a Montoro.

 

 

[17]

 

Alle parole state tra 'l re e Florio non era guari lontana la misera Biancifiore, ma, celata in alcuno luogo, con intentivo animo tutte l'avea notate, ascoltando quello ch'ella non avrebbe voluto udire né che per altrui le fosse stato raportato. E bene avea con grave doglia intese le gravi riprensioni fatte a Florio per l'amore che a lei portava, e similmente udito avea vilmente dispregiarsi dal re, dicendo che serva era e di vile nazione discesa; ma di ciò la vera e buona difensione di Florio, fatta in aiuto di lei, le rendé molto il perduto conforto. Ma quando ella dire udì a Florio: «Poi che mandare mi dovete Biancifiore a Montoro, io v'andrò», allora dolore intollerabile l'assalì, però che manifestamente conobbe lo iniquo intendimento del re, il quale questo impromettea per più leggiermente poter Florio allontanare da lei; e cominciò con tacito pianto a lagrimare e a dire fra sé così: "Oimè, Florio, solo conforto dell'anima mia, a cui io tutta mi donai per mia salute quel giorno che tu prima mi piacesti, ora che credi tu? Alle cui parole t'hai tu lasciato ingannare! Or non vedevi tu che mi ti prometteva di mandarmiti, perché tu consentissi, come tu hai fatto, all'andata? Egli non mi manderà mai ove tu sii. Deh, non conosci tu la falsità del tuo padre? Certo non che egli mandi me a te, ma egli non lascerà mai te venire dove io sia. Tu ti sei lasciato ingannare con meno arte che non lasciò Isifile: ella credette alle parole e agli atti, e alla fede promessa, e alle lagrime dello ingannatore; ma tu per la menoma di queste cose se' stato ingannato, e hai detto di sì di quella cosa che laida ti sarebbe a tornare adietro; e non hai conosciuto che egli, non disideroso del tuo studio, ma di trarre me della tua memoria, t'allontana da me, acciò che per distanza tu mi dimentichi! Oimè, or dove abandoni tu, o Florio, la tua Biancifiore? Ove n'andrai tu con la mia vita? Oimè, misera! E io come sanza vita rimarrò? E se a me vita rimarrà, come sarà ella fatta trovandomi sanza esser teco continuamente e sanza vederti? O luce degli occhi miei, perché ti fuggi tu da me? Oimè, quale speranza mi potrà mai di te riconfortare, che con la tua bocca hai consentita e impromessa la partita? O beata Adriana, che ingannata dal sonno e da Teseo, dopo poche lagrime meritò miglior marito! E più felice Fedra, che col suocero in nome d'amante finì il disiato cammino! Or mi fosse stata licita l'una di queste felicità: o l'essere stata da te con ingegno abandonata o d'averti potuto seguire. Oimè, se quello amore il quale tu m'hai più volte con piacevole viso mostrato è vero, perché nel cospetto della crudeltà del tuo padre non piangevi tu, veggendo che i prieghi non valeano? E' non ti si disdicea, ché ciascuno sa che alcuno non può dar legge all'amorevole atto, però che la forza d'amore tiene l'uomo, più che alcun altro vinco, costretto. Io credo che se le tue lagrime fossero state con prieghi mescolate egli avrebbe conceduto che tu fossi avanti qua rimaso che vedutoti più lagrimare, però che la pietà, che sarebbe stata da avere di te, avrebbe vinto e rimutato il suo nuovo proponimento: ché tutti i padri non hanno gli animi feroci contra i figliuoli come ebbe Bruto, primo romano consolo, il quale giustamente per la sua crudeltà fu da riprendere. Ma, oimè!, che se 'l tuo amore non è falso, tu dovevi sofferire aspri tormenti anzi che consentire di dovervi andare, o almeno, per consolazione di me misera, farviti quasi per forza menare. Né in questo ti si disdicea l'essere al tuo padre disubidiente, però che, quando cosa impossibile si dimanda, è lecito il disdirla. Come ti sarà egli possibile il partirti sanza me, se le tue parole a me dette per adietro non sono quali fu rono quelle del falso Demofonte a Filis, il quale la promessa fede e le vele della sua nave diede ad un'ora a' volanti venti? O come potrai tu in alcuna parte sanza cuore andare? Tu mi solevi dire ch'io l'avea nelle mie mani e che io sola era l'anima e la vita tua: ora se tu sanza queste cose ti parti, come potrai vivere? Oimè misera, quanto dolore è quello che mi strigne, pensando che tu contra te medesimo sii incrudelito, né hai avuta alcuna pietà alla tua vita! Or con che viso ti potrò io pregare che della mia t'incresca, alla quale alcuna compassione dovresti avere avuta, pensando che io per te la metterei ad ogni pericolo, credendoti da noia allontanare? Tu avrai, partendoti, guadagnata la tua morte e la mia: e se non morte, vita più dolorosa che morte non ci falla! Tu te n'andrai a Montoro col vero corpo, e io misera rimarrò seguendoti sempre con la mente; né mai in alcuna parte sanza me sarai, e niun diletto da te fia preso, che io con lamentevole disio non ti seguiti addesso. Né fia per te fatto alcuno studio che io similemente imaginando non studii, disiderando più tosto di convertirmi in libro per essere da te veduta, che stare nella mia forma da te lontana. Ma certo la fortuna e gl'iddii hanno ragione d'essere avversi a' nostri disii, i quali abbiamo sì lungamente avuto spazio di potere toccare l'ultime possanze d'amore, e mai non le tentammo: la qual cosa forse, se stata fosse fatta, o più forte vinco avrebbe te meco a me teco legato, per lo quale partiti non potremmo essere stati di leggere, come ora saremo, o quello che ci strigne si sarebbe o tutto o in maggior parte soluto, né mi dorrebbe tanto la tua partenza. Certo per le dette ragioni me ne duole, ma per la servata onestà sono contenta che la nostra età sia stata casta, alla quale ancora ben bene sì fatta cosa non si convenia. E appresso credo che forse gl'iddii ci serbano più lieti congiungimenti, e con migliore cagione: ma, oimè dolente!, che questo non so io, né già per tale speranza il mio dolor non scema! Or volessono gl'iddii che, poi che dividere mi debbo da te, che se' solo mio bene, mia luce e mia speranza, mi fosse licito il morire! Oimè, Aretusa, quanto miseramente, fuggendo il tuo amante, divenisti fontana! e io più affannata di dolore che tu di paura, non sono da loro udita, né però si muovono a pietà! Ahimè, Ecuba, quanto ti fu felice nel tuo ultimo dolore, poi che morte t'era negata, il convertirti in cane! Io ti porto invidia; e similmente alla tua morte, o Meleagro, la cui vita dimorava nel fatato bastone, però ch'io disidererei che i tuoi fati si fossero rivolti sopra di me! O sommi iddii, se i miseri meritano d'essere uditi, io vi priego che di me v'incresca, e che voi al mio dolore o fine o conforto sanza indugio mandiate. E tu, o più che crudele, te ne va', ché in verità mai nel tuo aspetto non conobbi che crudeltà in te dovesse aver luogo. Ma poi che lontanandoti la dimostri, io ti giuro per l'anima della mia madre che mai sanza continua sollecitudine non sarò, sempre pensando com'io a vedere ti possa venire. E quale che modo io mi elegga, se io non sarò mandata a te, io vi pur verrò".

 

 

[18]

 

Florio, che malvolentieri a' piaceri del padre avea consentito, ricevuto il comandamento del doversi partire la seguente mattina, e partitosi il re da lui, solo pensando si pose a sedere, e fra se medesimo dicea: "Oimè, or che ho io fatto? A che ho io consentito? Alla mia medesima distruzione, per ubidire il crudel padre! Or come mi potrò io mai partire sanza Biancifiore? Deh, or non poteva io almeno dicendo pur di no, aspettare quello ch'egli avesse fatto? Di che aveva io paura? Ucciso non m'avrebbe egli, ché io non m'avrei lasciato. Né niuna peggior cosa mi potea fare che da sé cacciarmi: la qual cosa egli non avrebbe mai fatto; ma se pur fatto l'avesse, Biancifiore non ci sarebbe rimasa, però che meco ove che io fossi andato l'avrei menata; la quale io più volentieri, sanza impedimento d'alcuno, liberamente possederei, che io non farei la grande eredità del reame che m'aspetta. Ma poi che promesso l'ho, io v'andrò, acciò che non paia ch'io voglia tutto ogni cosa fare a mia maniera. Egli m'ha impromesso di mandarlami; se elli non la mi manda, io avrò legittima cagione di venirmene dicendo: "Voi non m'atteneste lo 'mpromesso dono: io non posso più sostenere di stare lontano da lei per ubidire voi". E da quella ora in avanti mai più un tal sì non mi trarrà della bocca, quale egli ha oggi fatto. Se egli me la manda, molto sono più contento d'esser con lei lontano da lui che in sua presenza stare, e più beata vita mi riputerò d'avere". E con questo pensiero si levò e andonne in quella parte ove egli ancora trovò Biancifiore, che tutta di lagrime bagnata ancora miseramente piangea; a cui egli, quasi tutto smarrito guardandola, disse:

 

«O dolce anima mia, qual è la cagione del tuo lagrimare?». La quale prestamente dirizzata in piè, piangendo gli si fece incontro, e disse:

 

«Oimè, signor mio, tu m'hai morta: le tue parole sono sola cagione del mio pianto. O malvagio amante, non degno de' doni della santa dea, alla quale i nostri cuori sono disposti, or come avesti tu cuore di dire tu medesimo sì di dovermi abandonare? Deh, or non pensi tu ove tu m'abandoni? Io, tenera pulcella, sono lasciata da te come la timida pecora tra la fierità de' bramosi lupi. Manifesta cosa è che ogni onore, il quale io qui ricevea, m'era per lo tuo amore fatto, non perché io degna ne fossi, sì come a colei che era tua sorella da molti riputata per lo nostro egual nascimento. E molti, invidiosi della mia fortuna, a me, per loro estimazione, prospera e benivola tenuta per la tua presenza, ora, partendoti tu, non dubiteranno la loro nequizia dimostrare con aperto viso, avendola infino a ora per tema di te celata. Ma ora volessero gl'iddii che questo fosse il maggior male che della tua andata mi seguitasse! Ma tu mi lasci l'animo infiammato del tuo amore, per la qual cosa io spero d'avere sanza te angosciosa vita! la quale, ancora che io da te non abbia meritata, mi fia bene investita, però che, quando prima ne' tuoi begli occhi vidi quel piacere, che poi a' tuoi disii mi legò il cuore con amoroso nodo, sanza pensare alla mia qualità vile e popolaresca, e ancora in servitudine coatta, in niuna maniera da potere alla tua magnificenza adeguare, mi lasciai con isfrenata volontà pigliare, aggiungendo al tuo viso piacevolezza col mio pensiero. Onde se tu, ora, abandonandomi sì come cosa da te debitamente poco cara tenuta, e Amore, costringendomi di te, da me stoltamente amato, con greve doglia mi punite, faccendomi riconoscere la mia follia, questo non posso né io né alcuno altro dire che si sconvenga. E se non fosse che io fermamente credo che alcuna parte di quella fiamma amorosa, la qual pare che per me ti consumi, t'accenda il cuore, se vero è che ogni amore acceso da virtù, com'è il mio verso di te, sempre accese la cosa amata, sol che la sua fiamma si manifesti, io avrei sconciamente nociuto alla mia vita, però che Cupido da piccolo spazio in qua m'ha più volte posta in mano quella spada, con la quale la misera Dido nella partita di Enea si passò il petto, acciò che io quello uficio essercitassi in me: e certo io l'avrei per me volentieri fatto, ma dubitando d'offendere quella piccola particella d'amore che tu mi porti, mi ritenni, tenendo solamente la mia vita cara per piacere a te. Ma gl'iddii sanno quale ella sarà partendoti tu, però che io non credo che mai giorno né notte sia, che io non sofferi molti più aspri dolori che il morire non è. Ma forse tu ti vuogli scusare che altro non puoi; ma non bisogna scusa al signore verso il vassallo: tanto pur udi' io che tu con la tua bocca dicesti d'andare a Montoro! Oimè, or m'avessi tu detto davanti: "Biancifiore, pensa di morire, però che io intendo d'abandonarti", però che tu non dovevi dire sì a fidanza delle vane e false parole di tuo padre, il quale ti promise di mandarmi a te. Certo egli nol farà già mai, però che egli guarda di farti tanto da me star lontano, che io possa essere uscita della tua mente».

 

Queste e molte altre parole, piangendo e tal volta porgendogli molti amorosi baci, gli diceva Biancifiore, quando Florio non potendo le lagrime ritenere, rompendole il parlare, le disse così:

 

 

[19]

 

 Oimè, dolce anima mia, or che è quello che tu di'? Come potrei io mai consentire se non cosa che ti piacesse? Tu ti duoli della menoma parte de' nostri danni. Principalmente già sai tu che mai per me onorata non fosti, ma sola la tua virtù è stata sempre cagione debita agli onoranti di tale onore farti: la qual virtù per la mia partita non credo che manchi, né similemente l'onore. E chi sarebbe quelli che contra te potesse incrudelire, o per invidia o per altra cagione? certo nullo; e se pure alcuno ne fosse, io non sarò sì lontano che tu di leggieri non possi farlomi sentire, acciò che io con subita tornata qui punisca la iniquità di quelli: e però di questo vivi sicura e sanza pensiero. Ma, ohimè, che di quel fuoco, del qual tu di' che io ti lascio l'anima accesa, io ardo tutto! E veramente mentre io starò lontano da te, la mia vita non sarà meno angosciosa che la tua: e io il sento già, però che nuova fiamma mi sento nel cuore aggiunta. Ma sanza fine mi dolgono le parole le quali tu di', avvilendoti sanza alcuna ragione. E certo di quello che io ora dirò, né me ne sforza amore né me n'inganna, ma è così la verità come io estimo. In te niuna virtù pate difetto, né belli costumi fecero mai più gentilesca creatura nell'aspetto, che i tuoi, sanza fallo buoni, fanno te. La chiarità del tuo viso passa la luce d'Appollo né la bellezza di Venere si può adeguare alla tua. E la dolcezza della tua lingua farebbe maggiori cose che non fece la cetera del trazio poeta o del tebano Anfion. Per le quali cose lo eccelso imperador di Roma, gastigatore del mondo, ti terrebbe cara compagnia, e ancora più: ch'egli è mia oppinione che, se possibil fosse che Giunone morisse, niuna più degna compagna di te si troverebbe al sommo Giove. E tu ti reputi vile? Or che ha la mia madre più di valore di te, la quale nacque de' ricchissimi re d'Oriente? Certo niuna cosa, né tanto, traendone il nome, che è chiamata reina. Adunque per lo tuo valore se' tu da me degnamente amata, sì com'io poco inanzi dissi al mio padre. E cessino gl'iddii che tu in niuno atto o per nulla cagione t'avessi offesa o t'offendessi, però che niuna persona m'avrebbe potuto ritenere, che io subitamente non mi fossi con le propie mani ucciso. Vera cosa è, e ben lo conosco, che, consentendo io l'andata mia a Montoro, io diedi a te gravoso dolore; ma certo e' non dolfe più a te che a me. Ma che volevi tu che io facessi più avanti? Volevi tu che io con mio padre avessi sconce parole per quello che ancora si può ammendare? Se a te tanto dispiace la mia andata, comanda che io non vi vada: egli potrà assai urtare il capo al muro, che io sanza te vi vada! E se tu consenti che io vi vada, egli m'ha promesso di mandarmiti: la qual cosa se egli non fa, io volgerò tosto i passi indietro, però che io so bene che sanza te vivere non potrei io lungamente. E non pensare che mai, per lontanarmi da te, egli mi possa mai trarre te della mente, che, quanto più ti sarò col corpo lontano, tanto più ti sarò con l'anima vicino, ché certo impossibile sarebbe ch'io ti dimenticassi, se tutto Letè mi passasse per la bocca. Però, anima mia, confortati, e lascia il lagrimare; e fa ragione ch'io sia sempre teco, e non pensare che 'l mio amore sia lascivo come fu quello di Giansone e di molti altri, i quali per nuovo piacere sanza niuna costanza si piegavano. Veramente io non amerò mai al tra che te, né mai altra donna signoreggerà l'anima mia se non Biancifiore».

 

E dicendo queste parole, piangeano amenduni teneramente, spesso guardando l'uno l'altro nel viso, e tal volta asciugando ora col dilicato dito, ora col lembo del vestimento, le lagrime de' chiari visi.

 

 

[20]

 

Nel tempo della seconda battaglia stata tra 'l magnifico giovane Scipione Africano e Annibale cartaginese tiranno, essendo già la fama del valore di Scipione grandissima, avvenne che uscito del campo d'Annibale un cavaliere in fatto d'arme virtuosissimo, chiamato Alchimede, con molti compagni per prender preda nel terreno de' romani, acciò che 'l campo d'Annibale copioso di vittuaglia tenessero, Scipione, uscitogli incontro, dopo gran battaglia tra loro stata, gli sconfisse, e lui ferì mortalmente abbattendolo al campo. Alchimede, vedendosi abbattuto e sentendosi solo, da' suoi abandonato e ferito a morte, alzò il capo e riguardò il giovane, il quale la sua lancia avea a sé ritratta, forse per riferirlo, e videlo nel viso piacevole e bello, e niente parea robusto né forte come i suoi colpi il facevano sentire, a cui egli gridò:

 

«O cavaliere, non ferire, però che la mia vita non ha bisogno di più colpi a essere cacciata che quelli che io ho, né credo che il sole tocchi le sperie onde che l'anima mia fia a quelle d'Acheronta. Ma dimmi se tu se' quel valoroso Scipione cui la gente tanto nomina virtuoso».

 

Il quale Scipione, riguardandolo, e udita la voce, il riconobbe, però che in altra parte aveva la sua forza sentita, e disse:

 

«O Alchimede, io sono Scipione».

 

Allora Alchimede gli porse la destra mano e con fievole voce gli disse:

 

«Disarma il già morto braccio, e quello anello il quale nella mia mano troverai, prendilo e guardalo, però che in lui mirabile virtù troverai: che a qualunque perso na tu il donerai, elli, riguardando in esso, conoscerà incontanente se noioso accidente avvenuto ti fia, però che il colore dell'anello vedrà mutato, e sì tosto come egli l'avrà veduto, la pietra tornerà nel primo colore bella. E a me per tale cagione il donò Asdrubal, fratello al mio signore Annibale, a cui tu tanto se' avverso, quando di Spagna mi partii da lui, che più che sé m'amava. Io sento al presente la mia vita fallire, e sola d'alcuno amico; onde, se io qui muoio con esso, o perderassi, o troverallo alcuno il quale forse la sua virtù non conoscerà, o che forse non sarà degno d'averlo: e però io amo meglio che tu, posto che offeso m'abbi, il tenghi in guiderdone della tua virtù, che alcuno altro il possegga per alcuno de' detti modi».

 

E detto questo, la debole testa sopra il destro omero bassò; e dopo picciolo spazio si morì. Scipione, prestamente disarmata la mano del rilucente ferro, più disioso della virtù dell'anello che del valore, trovò il detto anello bellissimo, e fino oro il suo gambo, la pietra del quale era vermiglia, molto chiara e bella: il quale egli prese, e mentre che viveo con gran diligenza il guardò. Ma poi, pervenendo d'uno discendente in altro della casa, pervenne al valoroso Lelio, il quale, essendo consueto d'andare sovente per lo bene della republica, come valoroso cavaliere non tralignante da' suoi antichi, fuori di Roma contro a' resistenti, donò questo anello alla misera Giulia, dicendole la virtù, acciò che ella sanza cagione di lui non dubitasse. E quando lo infortunato caso da non ricordare l'avvenne, l'avea ella in mano, e per dolore il si trasse e diedero a guardare a Glorizia, dicendo:

 

«Omai non ho io di cui io viva più in dubbio, né per cui la virtù del presente anello più mi bisogni».

 

Ma dopo la morte di Giulia, Glorizia il donò a Biancifiore, dicendole come del padre di lei era stato e appresso della madre, e la virtù di lui: il quale Biancifiore lungo tempo caramente guardò. E ricordandosene allora, lo portò dove Florio era, e così cominciò piangendo a parlare:

 

 

[21]

 

«Deh, perché s'affannano le nostre mani a rasciugare le lagrime de' nostri visi nel principio del nostro dolore? Sia di lungi da me che io mai di lagrimare ristea, mentre che tu sarai lontano da me. Oimè, che tu mi dì: "Comanda che io non vada a Montoro!". Deh, or perché bisognava egli che io il ti comandassi? Non sai tu come io volentieri vi ti vedrò andare? Tu il dovevi ben pensare. Ma volentieri i' 'l farei, se convenevole mi paresse; ma però che io non disidero meno che 'l tuo dovere s'adempia che 'l mio volere, poi che tu promettesti d'andarvi, fa che tu vi vada, acciò che vituperevole cosa non paia, volendosene rimanere, il disdire quello che tu hai promesso. E acciò che le tue parole non paiano vento, io concedo, così volentieri come Amore mi consente, che tu vi vada, e ubidendo anzi adempi il piacere del tuo padre. Ma sopra tutte le cose del mondo ti priego che tu per assenza non mi dimentichi per alcuna altra giovane. Io so che Montoro è copioso di molti diletti: tutti ti priego che da te siano presi. Solamente a' tuoi occhi poni freno quando le vaghe giovani scalze vedrai andare per le chiare fontane, coronate delle frondi di Cerere, cantando amorosi versi, però che a' loro canti già molti giovani furono presi: però che se io sentissi che alcuna con la sua bellezza di nuovo t'infiammasse, come furiosa m'ingegnerei di venire dove tu e ella fosse; e se io la trovassi, con le propie mani tutta la squarcerei, né nel suo viso lascerei parte che graffiata non fosse dalle mie unghie, né niuno ordine varrebbe a' composti capelli che io, tutti tirandoglieli di capo, non gli rompessi; e dopo questo, per vituperevole e etterna sua memoria, co' propii denti del naso la priverei: e questo fatto, me medesima m'ucciderei. Questo non credo però che possibile sia di dovere avvenire: ma sì come leale amante ne dubito, e però il dico. Tu avrai molti altri diletti, e ciascuno s'ingegnerà di piacerti, acciò che io ti dispiaccia: ma io mi fido nella tua lealtà. E però che io sono certa che come tu in molti e varii diletti starai, così io in molte avversità, le quali forse io non ti potrò far note così com'io vorrei, ti voglio pregare, poi che gl'iddii adoperano verso noi tanta crudeltà, e la fortuna ne mostra le sue forze in dipartirci, che ti piaccia per amore di me portar questo anello, il quale, mentre che io sanza pericolo dimorerò, sempre nella sua bella chiarezza il vedrai, ma, come io avessi alcuna cosa contraria, tu il vedrai turbare. Io ti priego che allora sanza niuno indugio mi venghi a vedere: e priegoti che tu sovente il riguardi, ogni ora ricordandoti di me che tu il vedi. Più non ti dico, se non che sempre il tuo nome sarà nella mia bocca, sì come quello che solo è nella memoria segnato, e nello innamorato cuore col tuo bel viso figurato. Tu solo sarai i miei iddii, i quali io pregare debbo della mia felicità: a te saranno tutte le mie orazioni diritte, sì come a quelli in cui i miei pensieri tutti si fermano per aver pace. Veramente una cosa ti ricordo: che s'egli avviene che il tuo padre non mi mandi a te come promesso t'ha, che il tornare tosto facci a tuo potere, però che se troppo sanza vederti dimorassi, lagrimando mi consumerei».

 

E dette queste parole, piangendo gli si gittò al collo; né prima abbracciando si giunsero, che i loro cuori, da greve doglia costretti per la futura partenza, paurosi di morire, a sé rivocarono i tementi spiriti, e ogni vena vi mandò il suo sangue a render caldo, e i membri abandonati rimasero freddi e vinti, e essi caddero semivivi, avanti che Florio potesse alcuna parola rispondere. E così, col natural colore perduto, stettero per lungo spazio, sì che chi veduti gli avesse, più tosto morti che vivi giudicati gli avrebbe. Ma dopo certo spazio, il cuore rendé le perdute forze a' sopiti membri di Florio, e tornò in sé tutto debole e rotto, come se un gravissimo affanno avesse sostenuto, e tirando a sé le braccia, gravate dal candido collo di Biancifiore, si dirizzò, e vide che questa non si movea, né alcun segnale di vita dimostrava. Allora elli, ripieno di smisurato dolore, appena che la seconda volta non ricadde, e disiderato avrebbe d'esser subitamente morto; ma veggendo che 'l dolore nol consentiva, piangendo forte si recò la semiviva Biancifiore in braccio, temendo forte che la misera anima non avesse abandonato il corpo e mutato mondo, e con timida mano cominciò a cercare se alcuna parte trovasse nel corpo calda, la quale di vita gli rendesse speranza. Ma poi che egli dubbioso non consentiva alla verità, ché forse caldo trovava e pareagli essere ingannato, cominciò piangendo a baciarla, e dicea:

 

«Oimè, Biancifiore, or se' tu morta? Deh, ove è ora la tua bella anima? In quali parti va ella sanza il suo Florio errando? Oimè, or come poterono gl'iddii essere tanto crudeli ch'elli abbiano la tua morte consentita? O Biancifiore, deh, rispondimi! Oimè, ch'io sono il tuo Florio che ti chiamo! Deh, or tu mi parlavi ora inanzi con tanto effetto, disiderando di mai da me non ti partire, e ora solamente non mi rispondi! Or se' tu così tosto sazia dell'essere meco? Oimè, che gl'iddii mi manifestano bene ora che di me sono invidiosi e hannomi in odio. Ma di questo male m'ha più cagione il mio crudel padre, il quale sì subitamente ha affrettata la mia partita. O crudele padre, tu l'avrai interamente! Le parole da me dette stamattina ti saranno dolente agurio e oggi ti faranno dolente portatore del fuoco, ove tu miseramente ardere mi vedrai: la tua crudeltà è stata cagione della morte di costei, e ella e tu sarete cagione della mia. Vivere possi tu sempre dolente dopo la mia morte, e gl'iddii prolunghino gli anni tuoi in lunga miseria! Or ecco, o anima graziosa, ove che tu sii, rallegrati che io m'apparecchio di seguitarti, e quali noi fummo di qua congiunti, tali infra le non conosciute ombre in etterno amandoci staremo insieme. Una medesima ora e uno medesimo giorno perderà due amanti, e alle loro pene amare sarà principio e fine».

 

E già avea posto mano sopra l'aguto coltello, quando egli si chinò per prima baciare il tramortito viso di Biancifiore, e chinandosi il sentì riscaldato, e vide muovere le palpebre degli occhi, che con bieco atto riguardavano verso di lui. E già il tiepido caldo, che dal cuore rassicurato movea, entrando per li freddi membri, recando le perdute forze, addusse uno angoscioso sospiro alla bocca di Biancifiore, e disse:

 

«Oimè!».

 

Allora Florio, udendo questo, quasi tutto riconfortato, la riprese in braccio e disse:

 

«O anima mia dolce, or se' tu viva? Io m'apparecchiava di seguitarti nell'altro mondo».

 

Allora si dirizzò Biancifiore con Florio insieme, e ricominciarono a lagrimare. Ma Florio, veggendola levata, disse:

 

«O sola speranza della vita mia, ove se' tu infino a ora stata? Qual cagione t'ha tanto occupata? Io estimava che tu fossi morta! Oimè, perché pigli tu tanto sconforto per la mia partita? Tu me la concedi con le parole, e poi con gli atti pieni di dolore il mi vieti. Io ti giuro per li sommi iddii che, s'io vi vado, che o tu verrai tosto a me come promesso m'ha il mio padre, o io poco vi dimorerò, che io tornerò a te; e mentre che io là dimorerò, o ancora, mentre ch'io starò, in vita, mai altra giovane che te non amerò. E però confortati, e lascia tanto dolore: ché s'io credessi che questa vita dovessi tenere, io in niuno atto v'andrei; o s'io vi pure andassi, credo che pensando al tuo dolore morrei. E promettoti per la leal fede che io ti porto, come a donna della mia mente, che il presente anello, il quale ora donato m'hai, sempre guarderò, tenendolo sopra tutte cose caro, e spesso riguardandolo, sempre imaginerò di veder te. E se mai accidente avviene che egli si turbi, niuno accidente mi potrà ritenere che io non sia a te sanza alcuno indugio: e però io ti priego che tu ti conforti».

 

Queste parole, e altre molte, con amorosi baci mescolati di lagrime e di sospiri furono tra Florio e Biancifiore quanto quel giorno mostrò la sua luce; ma poi che egli chiudendola tornò tenebroso, i due amanti pensosi teneramente dicendo "A Dio!" si partirono, tornando ciascuno sospirando alla sua camera.

 

 

[22]

 

Quella notte fu a' due amanti molto gravosa, e non fu sanza molti sospiri trapassata, ancor che assai brieve la riputassero, però che più tosto avrebbero quelle pene sostenute essendo così vicini, che doversi il vegnente giorno partire. Ma poi che il sole sparse sopra la terra la sua luce, e i cavalli e la compagnia di Florio furono nella gran corte del real palagio apparecchiati aspettando lui, Florio si levò e con lento passo n'andò davanti al re suo padre e alla reina, dove Biancifiore similmente pensosa già era venuta; e fatta la debita riverenza al padre, e preso congedo dalla madre, la quale in vista non sana, giaceva sopra un ricco letto, prima si voltò verso il re e poi verso la madre, e caramente raccomandò loro Biancifiore, pregandoli che tosto gliele mandassero, e poi abbracciata Biancifiore, in loro presenza la baciò dicendo:

 

«A te sola rimane l'anima mia; chi onorerà te onorerà lei»; e appena così parlando, costrinse con vergogna le lagrime, che il greve dolore che il cuor sentiva si sforzava di mandar per gli occhi fuori, e appena con voce intera poté dire:

 

«Rimanetevi con Dio»; e discese le scale, salì a cavallo, e sanza più indugio si partì.

 

 

[23]

 

Molto dolfe a tutti la partita di Florio, posto che il re e la regina contenti ne fossero, credendo che il loro avviso dovesse per quella partita venir fatto; ma sopra tutti dolse a Biancifiore. Ella l'accompagnò infino in piè delle scale, sanza far motto l'uno all'altro; e poi che a cavallo il vide, riguardato lui con torto occhio, tacita se ne tornò indietro, e salì sopra la più alta parte della real casa, e quivi, guardando dietro a Florio, stette tanto, quanto possibile le fu il vederlo. Ma poi che più veder nol poté, ella, accomandandolo agl'iddii, si tornò alla sua camera, faccendo sì gran pianto, che ne sarebbe presa pietà a chiunque udita l'avesse o veduta, e dicea:

 

«Oimè, Florio, or pur te ne vai tu: or pure ho io veduto quello che io non credetti che mai gli occhi miei sostenessero di potere vedere! Deh, or quando sarà che io ti rivegga? Io non so com'io mi faccia; io non so come io sanza te possa vivere. Oimè, perché non morii io ieri nelle tue braccia, quando io fui sì presso alla morte, che tu credesti ch'io morta fossi? Io non sentirei ora questa doglia per la tua partenza: l'anima mia ne sarebbe andata lieta, in qualunque mondo fosse ita, essendo io morta in sì beato luogo».

 

Glorizia, la quale allato le sedea, piangea forte per pietà di lei, e piangendo la confortava quanto più potea, dicendo:

 

«O Biancifiore, deh, pon fine alle tue lagrime: vuoi tu piangendo guastare il tuo bel viso, e consumarti tutta? Tu ti dovresti ingegnare di rallegrarti, acciò che la tua bellezza, conservata, multiplicasse sì che, quando tu andrai a Montoro, tu potessi piacere a Florio, il quale, se consumata ti vede, ti rifiuterà: e io so che tu vi sarai tosto mandata, sì come io ho udito dire al re. Confortati, che se Florio sapesse che tu questa vita menassi, egli s'ucciderebbe. Or che faresti tu s'egli fosse andato molto più lontano, dove a te non fosse licito l'andare? E' non si vuol far così ! Usanza è che gli uomini e le donne innamorate spesso abbiano per partenze o per altri accidenti alcune pene: ma non tali chente tu le prendi; pensa che tu questa vita durare non potresti lungamente, e, se tu morissi, tu faresti morire lui: adunque se per amore di te non vuoi prendere conforto, prendilo per amor di lui, acciò ch'e' viva».

 

E con cotali parole e con molte altre appena la poté racconsolare.

 

 

[24]

 

Ma Florio, partito, alquanto si turbò nel viso, mostrando il dolore che l'angoscioso animo sentiva. Andavano i suoi compagni lasciando i volanti uccelli alle gridanti grue, faccendo loro fare in aria diverse battaglie. E altri con gran romore sollecitavano per terra i correnti cani dietro alle paurose bestie. E così, chi in un modo e chi in un altro, andavano prendendo diletto, mostrando a Florio alcuna volta queste cose, le quali molta più noia gli davano che diletto: però che egli alcuna volta imaginando andava d'essere stretto dalle dilicate braccia di Biancifiore, come già fu, e non gli parea cavalcare; le quali imaginazioni sovente, col mostrarli le cacce, gli erano rotte. Ma egli poco a quelle riguardando, pur verso la città, la quale egli mal volontieri abandonava, si rivolgea; e così volgendo s'andò infino che licito gli fu di poterla vedere. E così andando con lento passo, costoro s'erano molto avvicinati a Montoro, quando il duca Ferramonte, che la sua venuta avea saputa, contento molto di quella, con molti nobili uomini della terra s'apparecchiò di riceverlo onorevolemente. E coverti sé e i loro cavalli di sottilissimi e belli drappi di seta, rilucenti per molto oro, circundati tutti di risonanti sonagli, con bigordi in mano, accompagnati da molti strumenti e varii, e coronati tutti di diverse frondi, bigordando e con la festa grande gli vennero incontro, faccendo risonare l'aere di molti suoni.

 

Quando Florio vide questo, sforzatamente si cambiò nel viso, mostrando allegrezza e festa, quella che del tutto era di lungi da lui; e con lieto aspetto il duca e i suoi compagni ricevette, e fu da loro ricevuto. E con questa festa, la quale quanto più alla terra s'appressavano tanto più crescea, n'andarono infino nella città, della quale trovarono tutte le rughe ornate di ricchissimi drappi, e piena di festante popolo. Né niuna casa v'era sanza canto e allegrezza: ogni uomo in qualunque età facea festa, e similemente le donne cantando versi d'amore e di gioia. Pervenne adunque Florio con costoro al gran palagio del duca, e quivi con tutto quello onore che pensare o fare si potesse a qualunque iddio, se alcuno in terra ne discendesse, fu Florio da' più nobili della terra ricevuto. E, scavalcati, tutti salirono alla gran sala, e quivi per picciolo spazio riposatisi presero l'acqua e andarono a mangiare. E poi per amore di Florio, molti giorni solennemente per la città festeggiarono.

 

 

[25]

 

Biancifiore così rimasa, alquanto da Glorizia riconfortata, ogni giorno andava molte fiate sopra l'alta casa, in parte onde vedeva Montoro apertamente, e quello riguardando dopo molti sospiri avea alcun diletto, imaginando e dicendo fra se medesima: "Là è il mio disio e il mio bene". E tal volta avvenia che stando ella sentiva alcun soave e picciolo venticello venire da quella parte e ferirla per mezzo della fronte, il quale ella con aperte braccia ricevea nel suo petto, dicendo: "Questo venticello toccò il mio Florio, com'egli fa ora me, avanti che egli giungesse qui"; e poi, quindi partendosi, andava in tutti quelli luoghi della casa ov'ella si ricordava d'avere già veduto Florio, e tutti gli baciava, e alcuni ne bagnava alcune volte d'amare lagrime. Questi erano i templi degl'iddii e gli altari, i quali ella più visitava. E niuna persona venia da Montoro, che ella o tacitamente o in palese non domandasse del suo Florio. Ella mai non mangiava che Florio da lei non fosse molte fiate ricordato; e s'ella andava a dormire, non sanza ricordare più volte Florio vi si ponea, e niuna cosa sanza il nome di Florio non faceva; e se ella dormendo alcun sogno vedea, sì era di Florio; e per questo sempre avrebbe di dormire disiderato, acciò che spesso in tale inganno dormendo si fosse trovata: ben che poi, trovandosi dal sonno ingannata, le fosse gravosa noia. E sempre pregava gl'iddii che 'l suo Florio da infortunoso caso guardassero e che le dessero grazia che tosto potesse andare a lui, o egli tornare a essa. Ella non si curava mai di mettere i suoi biondi capelli con sottile maestria in dilicato ordine, ma quasi tutta rabuffata sotto misero velo gli lasciava stare. Né mai curava di lavarsi lo splendido viso, o di vestire i preziosi e belli vestimenti, però che non v'era a cui ella disiderasse di piacere. E il cantare e l'allegrezza e la festa tutta avea lasciato per intendere a sospirare. Né niuno strumento era che allora da lei molestato fosse, ma tacitamente sperando di tosto riveder Florio prendea quel conforto che ella poteva, tenendo sempre l'anima nelle mani di Florio.

 

 

[26]

 

E Florio simigliantemente a niuna cosa, stando a Montoro, avea tanto lo 'ntendimento fisso quanto alla sua Biancifiore, né era da lei una volta ricordato che egli non ricordasse lei infinite. E così come Montoro era da Biancifiore vagheggiato e rimirato spesso, così egli riguardava sovente Marmorina. Né niuno suo ragionamento era già mai se non d'amore o della bellezza della sua Biancifiore, la quale sopra tutte le cose disiava di vedere. Egli da quel dì che Amore occultamente gli accese del suo fuoco infino a quell'ora non la baciò mai, né fece alcun altro amoroso atto, che cento volte il dì fra sé nol ripetesse, dicendo: "Deh, ora mi fosse licito pur di vederla solamente!"; e fra sé sovente piangea il tempo il quale indarno gli parea avere perduto stando con Biancifiore sanza baciarla e abbracciarla, dicendo che se mai più con lei per tal modo si ritrovasse, come già era trovato, mai più per ozio o per vergogna non perderebbe che egli non spendesse il tempo in amorosi baci. Egli si portava saviamente molto, prendendo col duca e con Ascalion e con altri molti varii diletti, quali nel iemale tempo prendere si possono, sperando sempre che il re di giorno in giorno gli dovesse mandar Biancifiore. E con questi diletti mescolati di speranza, sempre aspettando, assai leggiermente si passò tutto quel verno sanza troppa noia, però che alquanto l'amoroso caldo per lo spiacevole tempo era nel cuore rattiepidato e ristretto. Ma poi che Febo si venne appressando al Monton frisseo, e la terra incominciò a spogliarsi le triste vestige del verno, e a rivestirsi di verdi e fresche erbette e di varie maniere di fiori, incominciarono a ritornare l'usate forze nell'amorose fiamme, e cominciarono a cuocere più che usate non erano per adietro nella mente allo innamorato Florio. Egli per lo nuovo tempo trovandosi lontano a Biancifiore, incominciò a provare nuovo dolore da lui ancora non sentito in alcun tempo, che egli dicea così:

 

«Ora pur festeggia tutta Marmorina, e la mia Biancifiore, stando all'alte finestre della nostra casa, vede i freschi giovani sopra i correnti cavalli, adorni di bellissimi vestimenti, passarsi davanti, e ciascuno per la bellezza di lei si volge a riguardarla. Or chi sa se alcuno tra' molti ne le piacerà, per lo quale non potendo ella veder me, e avendomi dimenticato, s'innamori di colui? Oimè, che questo m'è forte a pensare che possa essere; ma tuttavia la poca stabilità la qual nelle donne si trova, e massimamente nelle giovani, me ne fa molto dubitare; e se questo pure avvenisse che fosse, niuna cosa altro che la morte mi sarebbe beata. O sommi iddii, se mai per me o per li miei antichi si fece o si dee far cosa che alla vostra deità aggradi, cessate che questo non sia».

 

E questo pensiero più che altro gli stava nella mente. Egli non vedea alcuna giovane che 'l riguardasse, che egli immantanente non dicesse:

 

«Oimè, così fa la mia Biancifiore; i non conosciuti giovani ella li mira tutti, così come costoro fanno me, cui esse forse mai più non videro. E qual cagione recò Elena ad innamorarsi dello straniere Paris se non la follia del suo marito, che, andandosene all'isola di Creti, lasciò lei assediata da' piacevoli occhi dello innamorato giovane? Né mai Clitemestra si sarebbe innamorata di Egisto, se Agamenon fosse con lei continuamente stato: il quale poi lei insieme con la vita per tale innamoramento perdé. Ma di questo non m'ha colpa se non la empia nequizia del mio padre, il quale gl'iddii consumino, così come egli fa me consumare. Egli m'impromise più volte di mandarlami sanza fallo qua brievemente, e mai mandata non me l'ha. Oimè, che ora conosco il manifesto suo inganno e truovo che vere sono le parole che Biancifiore mi disse, dicendo che mai non ce la manderebbe e che egli qua non mi mandava se non perch' ella m'uscisse di mente. Oh, come male è il suo avviso venuto al pensato fine, con ciò sia cosa che io mai del suo amore non arsi com'io ardo ora».

 

E istando Florio in questi pensieri, in tanto gl'incominciò a crescere il disio di volere vedere Biancifiore che egli non trovava luogo, né ad altro pensar poteva né giorno né notte. Egli avea per questo ogni studio abandonato, né di mangiare né di bere parea che gli calesse: e tanto dubitava di tornare a Marmorina sanza licenza del re, acciò che egli a far peggio non si movesse, che egli volea avanti sostenere quella vita così noiosa; e era già tale nel viso ritornato, che di sé facea ogni uomo maravigliare. E non avendo ardire di tornare in Marmorina, andava il giorno sanza alcun riposo cercando gli alti luoghi, de' quali egli potesse meglio vedere la sua paternale casa, ove egli sapeva che Biancifiore dimorava. E similmente la notte non dormiva, ma furtivamente e solo se n'andava infino alle porti del palagio del suo padre, non dubitando d'alcun fiero animale, o d'ombra stigia, o d'insidie di ladroni, né d'altra cosa: e quivi giunto, si ponea a sedere e con sospiri e con pianto più volte le baciava, dicendo:

 

«O ingrate porti, perché mi tenete voi che io non posso appressarmi al mio disio, il quale dentro da voi serrato tenete?».

 

E certo egli più volte fu tentato o di picchiare acciò che aperto gli fosse, o di romperle per passar dentro, ma per paura della fierità del padre, il cui intendimento già apertamente conoscere gli parea, se ne rimanea, tornandosi a Montoro per l'usata via. E sì lo stringea amore, che vita ordinata non potea tenere, ma sì disordinatamente la tenea, che più volte il duca e Ascalion avedendosene il ne ripresero; ma poco giovava. E pur da amore costretto, più volte mandò a dire al re che omai il caldo era grande, e allo studio più intendere non potea, e però egli se ne volea con suo congedo tornare a Marmorina.

 

 

[27]

 

Il re, il quale più volte avea inteso che Florio voleva a Marmorina tornare, e similemente avea udito a molti recitare la dolorosa vita che Florio a Montoro menava, da grieve dolor costretto, sospirando se n'andò in una camera dove la reina era; il quale sì tosto come la reina il vide, il dimandò quello che egli avea, che sì pieno d'ira e di malinconia nell'aspetto si dimostrava. Il re rispose:

 

«Noi ci allegrammo molto dell'andata di Florio a Montoro, credendo che egli incontanente dimenticasse Biancifiore, ma egli m'è stato detto da più persone che la sua vita è tanto angosciosa, perché egli non può venire a vederla, che ciò è maraviglia. E diconmi più, che egli del tutto lo studiare ha lasciato: la qual cosa fosse il maggior danno che mai seguire ce ne potesse! Ma egli ancora da grande amore costretto non mangia né dorme, ma in pianto e in sospiri consuma la sua vita: per la qual cosa egli è nel viso tornato tale che poco più fu Erisitone quando in ira venne a Cerere: e non pare Florio, sì è impalidito, e non vuole udire d'altrui parlare che di Biancifiore, né prendere vuole alcun conforto che porto gli sia. Né a questo vale alcuna riprensione che fatta gli sia; e ancora m'ha mandato più volte dicendo che venir se ne vuole; ond'io non so che mi fare, se non che d'ira e di malinconia mi consumo e ardo».

 

 

[28]

 

Grave parve molto alla reina udire quelle parole, e, accesa d'ira nel viso, subitamente rispose:

 

«Ahi, come gl'iddii giustamente ti pagano! Or che avevi tu a fare co' romani pellegrinanti, quando tu tanti n'uccidesti? E poi che tanti n'avevi uccisi, perché la vita ad una sola femina, che di grazia dimandava la morte, lasciasti? Certo o la morte di coloro o la vita di quella spiacque loro: per la qual cosa essi nel ventre di quella occulto fuoco ti mandarono in casa. Or chi dubita che mentre che Biancifiore viverà, Florio mai non la dimenticherà? Certo no, e questo è manifesto. E così per la vita di costei perderemo Florio; e così per una vil femina potremo dire che perduto abbiamo il nostro figliuolo. Adunque pensisi come costei muoia».

 

Rispose il re:

 

«E avanti oggi che domani, ché certo mi pare che, come voi dite, mai mentre ella sarà in vita, non sarà dimenticata da Florio».

 

Allora disse la reina:

 

«E come faremola noi subitamente morire sanza avere cagione che legittima paia? Se noi il facciamo, e' ce ne potrà gran biasimo seguitare. E certo se Florio il risapesse, e' sarebbe un dargli materia di disperarsi e d'uccidersi se medesimo, o di partirsi da noi, in maniera che mai nol rivedremmo. Ma, quando a voi paresse, qui sarebbe da procedere con lento passo, e, quando luogo e tempo fosse, trovarle alcuna cagione adosso, per la quale faccendola morire, ogni uomo giudicasse che ella giustamente morisse; e così saremo di mala fama e della vita di Biancifiore insieme disgravati».

 

E sanza guari pensare, la reina più avanti disse:

 

«E la cagione potrà essere questa. Voi sapete che il giorno, nel quale per tutto il vostro regno si fa la gran festa della vostra natività, s'appressa; e dove ch'ella si faccia grandissima, sì si fa ella qui in Marmorina. E niuno gran barone è nel vostro regno che con voi non sia a questa festa: e però quando essi saranno nella vostra gran sala assettati alle ricche tavole, ciascuno secondo il grado suo, allora ordinate col siniscalco vostro che o pollo o altra cosa in presenza di tutti vi sia da parte di Biancifiore presentato, o che Biancifiore medesima da sua parte il vi rechi davanti, acciò che paia che ella con la bellezza del suo viso venendovi davanti voglia rallegrar la festa; ma veramente abbiate ordinato col siniscalco che qual che si sia quella cosa ch'ella apporterà, celatamente di veleno sia piena. E come il presente davanti a voi sarà posato, e ella partita del vostro cospetto, fate che in alcun modo o cane o altra bestia faccia la credenza, acciò che altra persona non ne morisse: della qual cosa chiunque sarà il primo mangiatore, o subitamente morrà, o enfierà, per la potenza del veleno. E così a tutti fia manifesto che ella abbia voluto avvelenare voi; e come voi avrete questo veduto, fate che voi vi turbiate molto, e, faccendo il romore grande, la facciate prendere, e subitamente giudicare per tale offesa al fuoco. Chi sarà colui che non dica che tale morte sia ragionevole, o che, veggendovi turbato, vi prieghi per la sua salute? E certo questo non vi sarà malagevole a fare, però che il siniscalco vostro l'ha in odio molto; e la cagione è questa, che egli più volte ha voluto il suo amore, e ella sempre l'ha rifiutato faccendosi di lui beffe».

 

«Certo - disse il re - voi avete ben pensato, e così sanza indugio si farà, né già pietà che la sua bellezza porga mi vincerà».

 

 

[29]

 

Partissi il re dalla reina e fece chiamare a sé incontanente Massamutino, suo siniscalco, uomo iniquo e feroce, al quale egli disse così:

 

«Tu sai che mai a' tuoi orecchi niuno mio segreto fu celato, né mai alcuna cosa sanza il tuo fedel consiglio feci: e questo solamente è avvenuto per la gran leanza la quale io ho trovata in te. Ora, poi che gl'iddii hanno te eletto a mio segretario, più che alcuno altro, io ti voglio manifestare alcuna cosa del mio intendimento, del tutto necessaria di mettere ad effetto, la quale sanza manifestare mai ad alcuno, fa che tenghi occulta; però che se per alcun tempo fosse rivelata ad altrui, sanza fallo gran vergogna ce ne seguirebbe, e forse danno. Ciascuno, il quale vuole sua vita saviamente menare seguendo le virtù, dee i vizi abandonare, acciò che fine onorevole gli seguisca; ma quando avvenisse che viziosa via per venire a porto di salute tenere gli convenisse, non si disdice il saviamente passare per quella acciò che maggior pericolo si fugga: e fra gli altri mondani prencipi che più nelle virtuose opere si sono dilettati, sono stato io uno di quelli, e tu il sai. Ma ora nuovo accidente a forza mi conduce a cessarmi alquanto da virtuosa via, temendo di più grave pericolo che non sarà il fallo che fare intendo; e dicoti così, che a me ha la fortuna mandato tra le mani due malvagi partiti, i quali sono questi: o voglio io ingiustamente far morire Biancifiore, la quale in verità io ho amata molto e amo ancora, o voglio che Florio, mio figliuolo, per lei vilmente si perda; e sopra le due cose avendo lungamente pensato, ho preveduto che meno danno sarà la morte di Biancifiore che la perdenza di Florio, e più mio onore e di coloro che dopo la mia morte deono suoi sudditi rimanere: e ascolta il perché. Tu sai manifestamente quanto Florio ama Biancifiore; e certo se egli, giovanissimo d'età e di senno, è di lei innamorato, ciò non è maraviglia, ché mai natura non adornò creatura di tanta bellezza, quanta è quella che nel viso a Biancifiore risplende; ma però che di picciola e popolaresca condizione, sì come io estimo, è discesa, in niuno atto è a lui, di reale progenie nato, convenevole per isposa; e io dubitando che tanto amore non l'accendesse della sua bellezza, che egli se la facesse sposa, per fargliele dimenticare il mandai a Montoro, sotto spezie di volerlo fare studiare. Ma egli già per questo non l'ha dimenticata, ma, secondo che a me è stato porto, egli per l'amore di costei si consuma, e, rimossa ogni cagione, ne vuole qua venire: onde io dubito che, tornando egli, dare non me gliele convenga per isposa, e s'io non gliele do, che egli niuna altra ne voglia prendere. E se egli avvenisse che io gliele donassi, o che egli da me occultamente la si prendesse, primieramente a me e a' miei sanza fallo gran vergogna ne seguirebbe, pensando al nostro onore, tanto abassato per isposa discesa di sì vile nazione, come estimiamo che costei sia. Appresso, voi nol vi dovreste riputare in onore, considerando che, dopo costui, signore vi rimarrebbe nato di sì picciola condizione, come sarebbe nascendo di lei. E s'io non gliele dono per isposa, egli niun'altra ne vorrà, e non prendendone alcuna altra, sanza alcuna erede seguirà l'ultimo giorno: e così la nostra signoria mancherà, e converravvi andar cercando signore strano. Adunque, acciò che queste cose dette si cessino, è il migliore a fare che Biancifiore muoia, come detto ho, imaginando che com'ella sarà morta, egli per forza se la caccerà di cuore, dandogli noi subitamente novella sposa tale, quale noi crederemo che a lui si confaccia. Ma però che del fare subitamente morire Biancifiore ci potrebbe anzi vergogna che onore seguire, ho pensato che con sottile inganno possiamo aver cagione che parrà giusta e convenevole alla sua morte: e odi come. E' non passeranno molti giorni che la gran festa della mia natività si farà, alla quale tutti i gran baroni del mio reame saranno a onorarmi: in quel giorno ti conviene ordinare che tu abbi fatto apparecchiare uno paone bello e grasso, e pieno di velenosi sughi, il quale fa che Biancifiore il mi presenti da sua parte, quando io e' miei baroni staremo alla tavola. E acciò che alcuno non prendesse di questa opera men che buona presunzione, veggendolo più tosto recare a Biancifiore che ad alcuno altro scudiere o damigella, sì le dirai che a me e a tutti coloro i quali alla mia tavola meco sederanno, col paone in mano vada domandando le ragioni del paone, le quali se non da gentile pulcella possono essere adimandate. E sì tosto come questo fatto avrai, e ella avrà lasciato davanti a me il paone, io, faccendone prendere alcuna stremità, e gittarla in terra, so che alcuno cane la ricoglierà, la quale mangiando subitamente morrà. E quinci sembrerà a tutti quelli che nella sala saranno, che Biancifiore m'aggia voluto avvelenare, e imagineranno che Biancifiore abbia voluto far questo, perché io la dovea mandare a Montoro, e non la vi ho mandata. E io mostrandomi allora di questo forte turbato, so che, secondo il giudizio di qualunque vi sarà, ella sarà giudicata a morte: la qual cosa io comanderò che sanza indugio sia messa ad essecuzione, e così saremo fuori del dubbio nel quale io al presente dimoro».

 

Poi che il re ebbe così detto, e egli si tacque aspettando la risposta del siniscalco; la quale fu in questo tenore:

 

 

[30]

 

«Signor mio, sanza dubbio conosco la gran fede, la quale in me continuamente avuta avete, la quale sempre con quella debita lealtà che buon servidore dee a naturale signore servare, ho guardata e guarderò mentre in vita dimorerò. E l'avviso, il quale fatto avete, a niuno, in cui conoscimento fosse, potrebbe altro che piacere: onde io il lodo, e dicovi che saviamente proveduto avete, con ciò sia cosa che non solamente il giudicare le preterite cose e le presenti con diritto stile è da riputare sapienza, tanto quanto è le future con perspicace intendimento riguardare. E sanza dubbio, se molto durasse la vita di Biancifiore, quello che narrato m'avete, n'avverrebbe; ma mandando inanzi cautamente le predette cose, credo sì fare che il vostro intendimento verrà fornito sanza che alcuno mai niente ne senta».

 

E questo detto, sanza più parlare, partirono il maladetto consiglio.

 

 

[31]

 

Oimè, misera Biancifiore, or dove se' tu ora? Perché non ti fu e' lecito d'udire queste parole, come quelle della partenza del tuo Florio? Tu forse stai a riguardar que' luoghi ove tu continuamente con l'animo corri e dimori, disiderando d'esservi corporalmente. O tu forse con isperanza o d'andare a Montoro a veder Florio, o che Florio ritorni a veder te, nutrichi l'amorose fiamme che ti consumano, e non pensi alle gravi cose che la fortuna t'apparecchia a sostenere? A te pare ora stare nella infima parte della sua rota, né puoi credere che maggior dolore ti potesse assalire, che quello che tu hai per l'assenza di Florio, ma tu dimori nel più alto luogo, a rispetto che tu starai. Oimè, che tu, lontana allo iniquo consiglio, spandi amare lagrime per amore, le quali più tosto per pietà di te medesima spandere dovresti, avvegna che a coloro che semplicemente vivono, gl'iddii provengono a' bisogni loro, e molte volte è da sperare meglio quando la fortuna si mostra molto turbata, che quando ella falsamente ride ad alcuno.

 

 

[32]

 

La reale sala era di marmoree colonne di diversi colori ornata, le quali sosteneano l'alte lammie che la coprivano, fatte con non picciolo artificio e gravi per molto oro, e le finestre divise da colonnelli di cristallo, i cui capitelli e d'oro e d'argento erano, per le quali la luce entrava dentro ad essa. Nelle notturne tenebre non si chiudeano con legno, ma l'ossa degl'indiani elefanti, commesse maestrevolemente e con sottili intagli lavorate, v'erano per porte; e in quella sala si vedeano ne' rilucenti marmi intagliate l'antiche storie da ottimo maestro. Quivi si potea vedere la dispietata ruina di Tebe, e la fiamma dei due figliuoli di locasta, e l'altre crudeli battaglie fatte per la loro divisione, insiememente con l'una e con l'altra distruzione della superba Troia. Né vi mancava alcuna delle gran vittorie del grande Alessandro. E con queste ancora vi si mostrava Farsalia tutta sanguinosa del romano sangue, e' prencipi crucciati, l'uno in fuga e l'altro spogliare il ricco campo degli orientali tesori. E sopra tutte queste cose v'era intagliata la imagine di Giove, vestita di più ricca roba che quella che Dionisio fero già gli spogliò, intorniato d'alberi d'oro, le cui frondi non temevano l'autunno, e i loro pomi erano pietre lucentissime e di gran valore. In questa sala, quando il giorno della gran festa venne, furono messe le tavole, sopra le quali risplendeano copiosa quantità di vasella d'oro e d'argento; né fu alcuno strumento che là entro quel giorno non risonasse, accompagnato da dolcissimi e diversi canti. Né in tutta Marmorina fu alcun tempio che visitato non fosse, né alcuno altare di qualunque iddio vi fu sanza divoto fuoco e debito sacrificio, da' quali il re e gli altri gran baroni tornando si raunarono nella detta sala, tutti lodando la bellezza d'essa. E appressandosi l'ora del mangiare, presa l'acqua alle mani, andarono a sedere. Il re s'assettò ad una tavola, la quale per altezza sopragiudicava tutte l'altre, e con seco chiamò sei de' più nobili e maggiori baroni che seco avesse, faccendone dalla sua destra sedere tre e altrettanti dalla sinistra, stando di reali vestimenti in mezzo di loro vestito. E quelli che dalla sua dritta mano gli sedea allato, fu un giovane chiamato Parmenione, disceso dell'antico Borea, re di Trazia; appresso del quale seguiva Ascalion, nobilissimo cavaliere e antico per età e per senno, degno d'ogni onore; e poi sedea un altro giovane chiamato Messaallino, figliuolo del gran re di Granata, piacevolissimo giovane e valoroso. Ma dalla sua sinistra Ferramonte duca di Montoro più presso gli sedea, il quale avea Florio quel giorno lasciato soletto per venire a tanta festa; appresso il quale uno chiamato Sara, ferocissimo nell'aspetto, e signore de' monti di Barca, sedea con un giovane grazioso molto, chiamato Menedon, di Giarba re de' Getuli disceso. Appresso, nelle più basse tavole, ciascuno secondo il grado suo fu onorato, serviti tutti da nobilissimi giovani e di gran pregio.

 

 

[33]

 

Massamutino, al quale non era già il comandamento del re uscito di mente, fece occultamente e con molta sollecitudine apparecchiare un bel paone, il quale egli di sugo d'una velenosa erba tutto bagnò, pensando che quello giorno per tale operazione si vedrebbe vendico di Biancifiore, che per amadore l'avea rifiutato. E fatto questo, avendo già la reale mensa e l'altre di più vivande servite, né quasi altro v'era rimaso a fare che mandare il paone, accompagnato con più scudieri andò per Biancifiore, la quale la reina, acciò che ella non potesse niente di male pensare, avea fatta quel giorno vestire nobilmente d'un vermiglio sciamito e mettere i biondi capelli in dovuto ordine con bella treccia avolti al capo, sopra li quali una piccola coronetta ricca di preziose pietre risplendea, e 'l chiaro viso, già lungamente di lagrime bagnato, lavato quel giorno per volere della reina, dava piacevole luce a chi il vedea, posto che questo Biancifiore avea mal volentieri fatto, pensando che 'l suo Florio non v'era. Ma perché bisognava alla reina tanto ingegno ad ingannare la semplice giovane? Ella non avrebbe mai saputo pensare quello che ella non avrebbe saputo né ardito di fare ad alcuno. Ma venuto il siniscalco davanti alla reina, e salutata lei e la sua compagna, disse così:

 

«Madonna, oggi si celebra, sì come voi sapete, la gran festa della natività del nostro re, per la qual cosa volendo noi la nostra festa fare maggiore e più bella, provedemmo di fare apparecchiare un paone, il quale noi vogliamo fare davanti al re presentare e a' suoi baroni, acciò che ciascuno, faccendo quello che a tale uccello si richiede, si vanti di far cosa per la quale la festa divenga maggiore e più bella; né sì fatto uccello è convenevole d'esser portato alla reale tavola se non da gentilissima e bella pulcella; né io non ne conosco alcuna, né qua entro né in tutta la nostra città, che a Biancifiore si possa appareggiare in alcuno atto. E però caramente vi priego che a sì fatto servigio vi piaccia di concederle licenza, che con noi venga incontanente, però che l'ora del portarlo è venuta, né si può più avanti indugiare».

 

La reina, che ben sapeva come l'opera dovea andare, sì come quella che ordinata l'avea, stette alquanto sanza rispondere; ma poi che la crudele volontà vinse la pietà che di Biancifiore le venne, udendo ch'ella era richiesta ad andare a quella cosa per la quale a morte doveva essere giudicata, e ella disse:

 

«Certo questo ci piace molto»; e voltata verso Biancifiore, le disse: «Vavvi », ammaestrandola che saviamente i debiti del paone adimandasse a tutti i baroni che alla reale tavola dimoravano, sanza andare ad alcuno altro, e poi davanti al re posasse il paone, e ritornassesene, tenendo bene a mente quello in che ciascuno si vantava. Biancifiore, disiderosa di piacere e di servire a tutti, sanza aspettare più comandamenti se n'andò col siniscalco. Il quale, poi che presso furono all'entrare della sala, le pose in mano un grande piattello d'argento, sopra 'l quale l'avvelenato paone dimorava, dicendo:

 

«Portalo avanti, però che più non è da stare».

 

Biancifiore, preso quello sanza farsene fare alcuna credenza, non avedendosi dello inganno, e con esso passò nella sala, nella quale, sì tosto com'ella entrò, parve che nuova e maravigliosa luce vi crescesse per la chiarezza che dal suo bel viso movea; e fatta la debita reverenza al re, e con dolce saluto tutti gli altri che mangiavano salutati, s'appressò alla reale mensa, e con vergognoso atto, dipinta nel viso di quel colore che il gran pianeto, partendosi l'aurora, il cielo in diverse parti dipinge, così disse:

 

 

[34]

 

«Poi che gl'iddii si mostrano verso me graziosi e benigni, avendomi conceduto che io a questo onore, più tosto che alcuna altra giovane, eletta fossi a portare davanti alla vostra real presenza il santo uccello di Giunone, il quale per quella dea, al cui servigio già fu disposto, merita che qualunque alla sua mensa il dimanda si doni alcun vanto, il quale poi ad onore di lei con sollecitudine adempia: onde io per questo prendo ardire a dimandarlovi, e caramente vi priego che voi né i vostri compagni a ciò rendere mi siate ingrati, ma con benigni aspetti continuiate la valorosa usanza. E voi, altissimo signore, sì come più degno per la real dignità, e per senno e per età, prima, se vi piace, comincerete, acciò che gli altri per essemplo di voi debitamente procedano».

 

E qui si tacque.

 

 

[35]

 

Al nuovo e mirabile splendore si voltarono tutti i dimoranti della gran sala, non meno che alla chiara voce di Biancifiore, piena di soavissima melodia; e a lei graziosamente rendero il suo saluto. E il re, il quale allegro era nell'animo però che già vedea per la pensata via appressarsi il disiderato fine, con lieto viso, poi che tutta la sala tacque, le disse:

 

«Certo, Biancifiore, la tua bellezza adorna di virtuosi costumi, e la degnità del santo uccello insieme, meritano degnamente ricchissimi vanti; né a questi alcuno di noi può debitamente disdirsi: ond'io, sì come principale capo del nostro regno, comincerò, poi che la ragione e 'l tuo piacere l'adimanda».

 

E voltato verso l'antica imagine di Giove, nella sua sala riccamente effigiata, disse così:

 

«E io giuro per la deità del sommo Giove, la cui figura dimora davanti da noi, e per qualunque altro iddio insieme con lui possiede i celestiali regni, e per lo mio antico avolo Atalante, sostenitore d'essi regni, e per l'anima del mio padre, che avanti che 'l sole ritocchi un'altra volta quel grado ove egli ora dimorando ci porge lieta luce, se essi mi concedono vita, d'averti donato per marito uno de' maggiori baroni del mio reame: e questo per amore del presente paone ti sia da ora promesso».

 

Assai coperse il re con queste parole il suo malvagio volere, ignorando quello che i fati gli apparecchiavano; e ella sospirando tacitamente al suono di queste parole, notò in se medesima i detti del re pigliandoli in buono agurio, fra sé dicendo: "Dunque avrò io per marito Florio, il quale io solo per marito e per amico disidero, però che nullo barone è maggiore di lui in questo regno"; poi, ringraziato il re onestamente e con sommessa voce, con picciolo passo procedette avanti, fermandosi nel cospetto di Parmenione, il quale incontanente così disse:

 

«Io prometto al paone che, se gl'iddii mi concedono che io vi vegga per matrimoniale patto donare ad alcuno, quel giorno che voi al palagio del novello sposo andrete, io con alquanti compagni, nobilissimi e valorosi giovani, vestiti di nobilissimi drappi e di molto oro rilucenti, adestreremo il vostro cavallo e voi sempre con debita reverenza e onore, infino a tanto che voi ricevuta nella nuova casa scavalcherete».

 

«Adunque - disse Biancifiore - più che Giunone mi potrò io di conducitori gloriare»; e passò avanti ad Ascalion, che in ordine seguiva alla reale mensa, dicendo:

 

«O caro maestro, e voi che vantate al paone?».

 

Rispose Ascalion:

 

«Bella giovine, posto che io sia pieno d'età e che la mia destra mano già tremante possa male balire la spada, sì mi vanto io per amor di voi al paone, che quel giorno che voi novella sposa sarete, la qual cosa gl'iddii anzi la mia morte mi facciano vedere, io con qualunque cavaliere sarà nella vostra corte disideroso di combattere meco, con le taglienti spade sanza paura combatterò, obligandomi di sì saviamente combattere, che sanza offendere io lui o egli me, o voglia egli o no, io gli trarrò la spada di mano e davanti a voi la presenterò».

 

Ciascuno che questo udì si maravigliò molto, dicendo che veramente sarebbe da riputare valoroso chi tal vanto adempiesse. Ma Biancifiore andando avanti venne in presenza di Messaallino, il quale vedendola, quasi della sua bellezza preso, disse:

 

«Giovane graziosa, per amore di voi io vanto al paone che quel giorno che voi prima sederete alla mensa del novello sposo, io vi presenterò dieci piantoni di dattero coperti di frondi e di frutti, non d'una natura con gli altri, però che quelli, de' quali la mia terra è copiosa, a ciascuna radice hanno appiccato un bisante d'oro».

 

Inchinandogli, Biancifiore il ringraziò; e volto i passi suoi verso il duca Ferramonte, che alla sinistra del re sedea, e davanti a lui posato il paone, gli richiese quello che avanti agli altri avea richiesto. A cui il duca rispondendo, disse:

 

«E io imprometto al paone che per la piacevolezza vostra, il giorno che novella sposa sarete, e appresso tanto quanto la vostra festa durerà, di mia mano della coppa vi servirò quanto vi piaccia».

 

«Certo - disse Biancifiore - di tal servidore Giove non che io, si glorierebbe»; e passò avanti a Sara, il quale come davanti se la vide, disse:

 

«Io voto al paone che quel giorno che gl'iddii vi concederanno onore di matrimoniale compagno, io vi donerò una corona ricchissima di molte preziose pietre e di risplendente oro bellissima, e ove che io sia, se io saprò davanti la vostra festa, verrò a presentarlavi con le mie mani».

 

Il quale tacendo, subitamente Menedon soggiunse:

 

«E io prometto al paone che se gl'iddii mi concedono che io maritata vi veggia, tanto quanto la festa delle vostre nozze durerà, io con molti compagni, vestiti ciascuno giorno di novelli vestimenti di seta, sopra i correnti cavalli, con aste in mano e con bandiere bigordando e armeggiando, a mio potere essalterò la vostra festa».

 

Ringraziollo Biancifiore, e tornata indietro, davanti al re posò il paone, e così disse:

 

«Principalmente voi, o caro signore e singulare mio benefattore, e appresso questi altri baroni tutti, quanto io posso, degl'impromessi doni vi ringrazio, e priego gl'immortali iddii che, là dove la mia possa al debito guiderdone mancasse, che essi con la loro benigna mente di ciò vi meritino».

 

E questo detto, onestamente fatta la debita reverenza, si partì, e con lieto viso tornò alla reina, narrandole gl'impromessi doni. A cui la reina disse:

 

«Ben ti puoi omai gloriare, pensando che uno sì fatto prencipe qual è il nostro re, e sei cotali baroni quali sono coloro che con lui sedeano, si sono tutti in tuo onore e piacere obligati».

 

 

[36]

 

Rimase sopra la real mensa il velenoso uccello, il quale il re, come Biancifiore fu partita, comandò che tagliato fosse; per la qual cosa un nobilissimo giovane chiamato Salpadin, al re per consanguinità congiuntissimo, il quale quel giorno davanti li serviva del coltello, prese con presta mano il paone, e, gittata in terra alcuna estremità, incominciò a volere smembrare il paone; ma non prima caddero le gittate membra, che un cane piccioletto, al re molto caro, le prese, e, mangiandole, incontanente gl'incominciò a surgere una tumorosità del ventre, e venirgli alla testa, la quale tanto gliele ingrossò subitamente, che quasi era più la testa fatta grande che essere non solea tutto il corpo; e similemente discorsa per gli altri membri, oltre a' loro termini grossi e enfiati gli fece divenire; e i suoi occhi, infiammati di laida rossezza, parea che della testa schizzare gli dovessero, e con doloroso mormorio, mutandosi di più colori, disteso tal volta in terra e talora in cerchio volgendosi, in piccolo spazio scoppiando quivi morì. La qual cosa da molti veduta, la gran sala fu tutta a romore, e i soavissimi strumenti tacquero, mostrando questo al re, il quale incontanente gridò:

 

«E che può ciò essere?».

 

E voltato a Salpadin, il quale già volea fare la credenza, disse:

 

«Non tagliare; io dubito che noi siamo villanamente traditi: prendasi un altro membro del presente paone e gittisi ad un altro cane, però che questo qui presente morto per veleno mostra che morisse, onde che egli il prendesse, o delle stremità da te gittate in terra, o d'altra parte».

 

Salpadin sanza alcuno dimoro gittò la seconda volta un maggiore membro ad un altro cane, il quale non prima mangiato l'ebbe, che, con simile modo voltandosi che 'l primo, del mortale dolore affannato, cadde e quivi in presenza di tutti morì. Onde il re con furioso atto gridando:

 

«Chi ha la nostra vita con veleno voluta abreviare?», e gittata in terra la tavola che davanti a lui era, si dirizzò, e comandò che subitamente Biancifiore e 'l siniscalco e Salpadin fossero presi, però che di loro dubitava che alcuno d'essi tre avvelenare l'avesse voluto co' suoi compagni. O sommo Giove, or non potevi tu sostenere che quel cibo avesse ingannato lo 'ngannatore, avanti che la innocente giovane tanta persecuzione ingiustamente sostenesse? Or tu sofferesti che i tuoi compagni fossero co' membri umani tentati alla tavola di Tantalo, quando a Pelopo, perduto l'omero, fu rifatto con uno d'avorio; e similemente sostenesti che il misero Tireo fosse sepoltura dell'unico suo figliuolo! Erati così grave per giusta vendetta abbagliare lo iniquo senso del re Felice? Ma tu forse per fare con gli avversi casi conoscere le prosperità, pruovi le forze degli umani animi, poi con maggior merito guiderdonandoli.

 

 

[37]

 

Furono presi i tre sanza niuno dimoro con noiosa furia, e messi in diverse prigioni. Ma poi che Biancifiore fu subitamente presa, niuno fu che mai parlare le potesse, né ella ad altrui. Del siniscalco e di Salpadin furono le scuse diligentemente intese, e per innocenti in brieve lasciati, mostrando il siniscalco davanti a tutta gente con false menzogne Biancifiore e non altri avere tal fallo commesso. Di questo ciascuno si maravigliò, non potendo alcuno pensare né credere che Biancifiore avesse tal malvagità pensata; ma pure il manifesto presentare del paone facea a molti non potere disdire quello che e' medesimi non avrebbero voluto credere. Ma poi che il gran romore fu alquanto racchetato, e il siniscalco e Salpadin per le loro scuse sprigionati, il re fece chiamare a consiglio molta gente, e principalmente coloro che con lui erano quella mattina stati alla tavola, e adunato con molti in una camera, disse così:

 

«Sanza dubbio credo che a voi sia manifesto che io oggi sono stato in vostra presenza voluto avvelenare; e chi questo abbia voluto fare, ancora è apertissimo per molte ragioni che Biancifiore è stata; la qual cosa molto mi pare iniqua a sostenere che sanza debita punizione si trapassi, pensando al grande onore che io nella mia corte l'ho fatto, sì come di recarla da serva a libertate, farla ammaestrare in iscienza e continuamente vestirla di vestimenti reali col mio figliuolo, datala in compagnia alla mia sposa, credendo di lei non nimica ma cara figliuola avere. E sì come avete potuto questa mattina udire, non si finiva questo anno che io intendea di maritarla altamente, però che vedea già la sua età richiedere ciò. E di tutto questo m'è avvenuto come avviene a chi riscalda la serpe nel suo seno, quando i freddi aquiloni soffiano, che egli è il primo morso da lei. Vedete che similmente ella in guiderdone del ricevuto onore m'ha voluto uccidere: e sì avrebbe ella fatto, se 'l vostro avedimento non fosse stato. Laonde io intendo, come detto v'ho, di volerla di ciò gravemente punire, acciò che mai alcuna altra a sì fatto inganno fare non si metta. Ma però che di ciò dubito non mi seguisse più vergogna che onore, se subitamente il facessi, però che parrà a molti impossibile a credere questo per la sua falsa piacevolezza, la quale ha molto presi gli animi, n'ho voluto e voglio primieramente il vostro consiglio, e ciò tutti fidelmente porgere mi dovete, disiderando il mio onore e la mia vita, sì come membri e vero corpo di me, vostro capo.

 

 

[38]

 

Lungamente si tacque ciascuno, poi che il re ebbe parlato; e bene avrebbero volentieri risposto il duca e Ascalion, però che a loro parea manifestamente conoscere chi questo veleno avea mandato e ordinato; ma però che la volontà del re conobbero, ciascuno si tacque, dubitando di non dispiacergli. E similmente fecero tutti quelli che presente lui erano, fuori che Massamuti no, il quale dopo lungo spazio, dimorando tutti gli altri taciti, si levò e disse:

 

«Caro signore, io so che 'l mio consiglio sarà forse tenuto da questi gentili uomini qui presenti sospetto per la presura che di me subita fare faceste sanza colpa, e so che diranno che ciò che io consiglierò, io il faccia a fine di scaricare me e di levare voi di sospezione; ma io non guarderò già a quello che alcuno possa dire o dica, che io non vi dia quello consiglio in ciò che dimandato avete, che a legittimo e vero signore donar si dee, in tutto ciò che per me conosciuto sarà, sempre riservandomi allo ammendamento di voi, dov'io fallissi. E così m'aiutino gl'immortali iddii, com'io se non quello che diritta coscienza mi giudicherà non dirò; e dico così: "Il fallo, il quale Biancifiore ha fatto, è tanto manifesto, che in alcuno atto ricoprire non si puote, né simigliantemente si può occultare il grande onore da voi fatto a lei: per lo quale avendo ella voluto sì fatto fallo fare, merita maggiore pena. E certo, se quello che in effetto s'ingegnò di mettere, avesse solamente pensato, merita di morire". Onde per mio consiglio dico e giudico che misurando giustamente la pena col fallo, che ella muoia: e sì come ella volle che la vostra vita per la focosa forza del veleno si consumasse, così la sua con ardente fuoco consumata sia. E certo tale giudicio pare a me medesimo crudele; e non volentieri il dono per consiglio che si dea, però che per la sua piacevole bellezza assai l'amava; ma nella giustizia, né amore, né pietà, né parentado, né amistà dee alcuno piegare dalla diritta via della verità. Non per tanto, voi siete savio, e appresso di molti più savii uomini che io non sono avete, e sì come signore potete ogni mio detto indietro rivocare e mettere ad essecuzione. Però là ove nel mio consiglio, il quale giusto al mio albitrio v'ho donato, si contenesse fallo, saviamente l'ammendate».

 

E più non disse.

 

 

[39]

 

Non fu alcuno degli altri nobili uomini, che nel consiglio del re sedeano, che si levasse a parlare contro a Biancifiore, ma tacendo tutti, di questa opera stupefatti, dierono segno di consentire al detto del siniscalco, posto che a molti sanza comparazione dispiacesse, sentendo che Biancifiore era in prigione, per maniera che sua ragione scusandosi non potea usare: e volentieri per difender lei avrebbero parlato, ma quasi ciascuno s'era aveduto che al re piaceano queste cose e che con sua volontà eran fatte, onde per non spiacerli ciascuno taceva. Perché vedendo questo il re, che oltre al detto del siniscalco niuno dicea, né a quello era alcuno che apponesse, disse:

 

«Adunque, signori, per mio avviso pare che consigliate che Biancifiore di fuoco deggia morire, e certo in tal parere n'era io medesimo; e però vengano immantanente i giudici, i quali di presente la giudichino, che sanza giudiciale sentenza io non intendo di farla di fatto morire, acciò che alcuno non potesse dire che io i termini della ragione in ciò trapassassi, né similemente voglio a fare la giustizia dare troppo indugio, però che le troppo indugiate giustizie molte volte sono da pietà impedite, né hanno poi loro compimento».

 

Furono di presente i giudici al cospetto del re, il quale loro comandò che sanza dimoro la crudele sentenza dessero contro a Biancifiore. Al quale i giudici risposero:

 

«Signore, le leggi ne vietano di dover dare in dì solenne mortale sentenza contro ad alcuna persona, e oggi è giorno di tanta solennità, quanta voi sapete; ma noi scriveremo il processo ordinatamente, e al nuovo giorno la daremo sanza fallo, e la faremo mettere in essecuzione».

 

A' quali il re disse:

 

«Poi che oggi le leggi il ne vietano, domattina per tempo sanza dimoro si faccia».

 

E questo detto, si partì dallo iniquo consiglio. Ma il duca e Ascalion sanza prendere alcun congedo si partirono, non volendo udire la iniqua sentenza; e avanti che 'l sole le sue luci messe avesse sotto l'onde occidentali, giunsero a Montoro, ove smontarono, faccendo a Florio gran festa, il quale solo e con molti pensieri trovarono.

 

 

[40]

 

Era Biancifiore con la reina ancora recitando i vanti de' gran baroni, quando i furiosi sergenti vennero impetuosamente sanza niuno ordine a prenderla, e lei piangendo, sanza dire per che presa l'avessero, la ne portarono. O misera fortuna, subita rivolgitrice de' mondani onori e beni, poco davanti niuno barone era nella real corte, che a Biancifiore avesse avuto ardire di porre la mano adosso, o di farne sembiante, ma ciascuno s'ingegnava di piacerle, e ora a vilissimi ribaldi sì disprezzare consentisti la sua grandezza, che, sanza narrare il perché, presala oltraggiosamente, la menaron via. Certo con poco senno si regge chi in te ferma alcuna speranza. Di questo mostrò la reina grandissimo dolore, e molto ne pianse, ricoprendo con quelle lagrime il suo tradimento davanti ordinato. E veramente e' ne le pur dolfe, posto che assai tosto di tal doglia prendesse consolazione, imaginando che per la morte di lei, già messa in ordine da non poter fallire al suo parere, l'ardente amore si partirebbe del petto di Florio. Ma i fati non serbavano a sì leale amore, quale era quello intra' due amanti, sì corta fine né sì turpissima, come costoro loro voleano sanza cagione apparecchiare.

 

 

[41]

 

Quel giorno nel quale la gran festa si facea in Marmorina, era Florio rimaso tutto soletto di quella compagnia che più gli piacea, ciò era del duca e di Ascalion, a Montoro; e molto pensoso e carico di malinconia, ricordandosi che in così fatto giorno egli con la sua Biancifiore, vestiti d'una medesima roba, soleano servire alla reale tavola, e avere insieme molta festa e allegrezza di canti e d'altri sollazzi. Ond'egli sospirando, così cominciò a dire:

 

«O anima mia, dolce Biancifiore, che fai tu ora? Deh, ora ricordati tu di me, sì come io fo di te? Io dubito molto che altro piacere non ti pigli per la mia assenza. Oimè, perché non è egli licito solamente di poterti vedere a me, il quale mi ricordo che in sì fatto giorno più volte t'ho già abbracciata, porgendoti puerili e onesti baci? Ove sono ora fuggiti i verdi prati, ne' quali Priapo più volte ci coronò di diversi fiori, cogliendoli noi con le nostre mani? E ove sono le ricche camere, le quali de' nostri dimoramenti si rallegravano? Deh, perché non sono io con teco, così come io soleva, continuamente, o almeno di tanti quanti giorni l'anno volge uno solo? O perché non mi se' tu mandata come tu mi fosti promessa? Io credo che 'l mio padre m'inganna, come tu mi dicesti. E tu ora credo che dimori nella gran sala, e dai col tuo bel viso nuova luce a molti, di tal grazia indegni, e a me misero, che più che altra cosa ti disidero, m'è tolto il vederti. Maladetta sia quella deità che sì m'ha fatto vile, che io per paura di mio padre dubito di venirti a vedere, e ora ch'io possa o vederti o esser veduto. Oimè, quanto m'offende quella piccola quantità di via che ci divide! Deh, maladetto sia quel giorno ch'io da te mi partii, che mai alcuno diletto non sentii, posto che tu alcuna volta dormendo io, essendomi tu con benigno aspetto apparita, m'hai alquanto consolato: la qual consolazione in gravoso tormento s'è voltata, sì tosto com'io mi sveglio dallo ingannevole sonno, pensando che veder non ti possa con gli occhi della fronte. O sola sollecitudine della mia mente, gl'iddii mi concedano che io alcuna volta anzi la mia morte veder ti possa; la qual cosa converrà che sia, se io dovessi muovere aspre battaglie contro al vecchio padre, o furtivamente rapirti delle sue case. E a questo, se egli non mi ti manda o non mi fa dove tu sia tornare, non porrà lungo indugio, però che più sostenere non posso l'esserti lontano».

 

E mentre che Florio queste parole e molte altre sospirando dicea, continuamente al caro anello porgea amorosi baci, sempre riguardandolo per amor di quella che donato glielo avea. E in tal maniera dimorando pensoso, soave sonno gli gravò la testa, e, chiusi gli occhi, s'addormentò; e dormendo, nuova e mirabile visione gli apparve.

 

 

[42]

 

A Florio parve subitamente vedere l'aere piena di turbamento, e i popoli d'Eolo, usciti del cavato sasso, sanza niuno ordine furiosi recare da ogni parte nuvoli, e commuovere con sottili entramenti le lievi arene sopra la faccia della terra, mandandole più alte che la loro ragione, e fare sconci e spaventevoli soffiamenti, ingegnandosi ciascuno di possedere il luogo dell'altro e cacciar quello; e appresso mirabili corruscazioni e diversi suoni per isquarciate nuvole, le quali parea che accendere volessero la tenebrosa terra; e le stelle gli parea che avessero mutata legge e luoghi, e pareali che 'l freddo Arturo si volesse tuffare nelle salate onde, e la corona della abandonata Adriana fosse del suo luogo fuggita, e lo spaventevole Orione avesse gittata la sua spada nelle parti di ponente; e dopo questo gli parve vedere i regni di Giove pieni di sconforto, e gl'iddii piangendo visitare le sedie l'uno dell'altro; e pareali che gli oscuri fiumi di Stige si fossero posti nella figura del sole, però che più non porgea luce; e la luna impalidita avea perduti i suoi raggi, e similmente tutti gli altari di Marmorina gli pareano ripieni d'innocente sangue umano, e tutti i cittadini piangere con altissimi guai sopr'essi. I paurosi animali e feroci insiememente per paura gli parevano fuggir nelle caverne della terra, e gli uccelli ad ora ad ora cader morti, né parea che albero ne potesse uno sostenere. E poi che queste cose a Florio, che di paura piangea, si mostrarono, gli parea veder davanti a sé la santa dea Venus, in abito sanza comparazione dolente e vestita di neri e vilissimi vestimenti, tutta stracciata piangendo, alla quale Florio disse:

 

«O santa dea, qual è la cagione della tua tristizia, la quale movendomi a pietà mi costringe a piagnere, come tu fai? E dimmi, perché è il subito mutamento de' cieli e della terra avvenuto? Intende Giove di fare l'universo tornare in caos come già fu? Nol mi celare, io te ne priego, per la virtù del potente arco del tuo figliuolo».

 

«Oimè misera - rispose Venus, - or etti occulta la cagione del pianto degli uomini, dell'aere e degl'iddii? Levati su, che io la ti mostrerò»; e preso Florio, involtolo seco in una oscura nuvola, sopra Marmorina il portò, e quivi gli fece vedere l'avvelenato paone posto in mano a Biancifiore dal siniscalco, e 'l pensato inganno, e la subita presura, e 'l crudele rinchiudimento, e la malvagia sentenza della morte ordinata di dare contro a Biancifiore: le quali cose mostrategli, riposatolo piangendo di vere lagrime nella sua camera, gli disse:

 

«Ora t'è manifesta la cagione del nostro pianto».

 

«Oimè! - rispose Florio, - quando io ti vidi, santa madre del mio signore, sanza la risplendente luce degli occhi tuoi e sanza gli adorni vestimenti, privata della bella corona delle amate frondi da Febo, incontanente mi corse all'animo la cagione la quale tu hai ora fatta visibile agli occhi miei: ond'io ti priego che mi dichi qual morte più crudele io posso eleggere, poi che Biancifiore muore. Insegnalami, ché io non voglio vivere appresso la sua morte. Io sono disposto a volere seguire la sua anima graziosa ovunque ella andrà, e essere così congiunto a lei nella seconda vita come nella prima sono stato: o tu mi mostra qual via c'è alla dimensione della sua vita, se alcuna ce n'è, però che nullo sì alto né sì grande pericolo fia, al quale io non mi sottometta per amore di lei, e che tutto non mi paia leggerissimo».

 

A cui Citerea così rispose:

 

«Florio, non credere che il pianto mio e degli altri dei sia perché noi crediamo che Biancifiore deggia morire, ché noi abbiamo già la sua morte cacciata con deliberato consiglio, e proveduto al suo scampo, come appresso udirai; ma noi piangiamo però che la natura, vedendosi sopra sì bella creatura, come è Biancifiore, offendere dalla crudeltà del tuo padre, quando a morte ordinò che sentenziata fosse, ci si mostrò, sagliendo a' nostri scanni, sì mesta e dolorosa, che a lagrimare ci mosse tutti, e fececi intenti alla sua diliberazione. E similmente l'aria e la terra e le stelle a mostrar dolore con diversi atti costrinse. E però che tu per lei verrai a maggiori fatti, che tu medesimo non estimi, dopo molte avversità, vogliamo che in questa maniera al suo scampo t'esserciti. Tu, sì tosto come il sole avrà i raggi suoi compiendo l'usato cammino nascosi, occultamente di queste case ti partirai, e andranne a quelle di Ascalion, a te fidelissimo amico e maestro, e fidandoti sicuramente a lui, di tutto il tuo intendimento ti farai armare di fortissime armi e buone, e fara'ti prestare un corrente cavallo e forte; e quando questo fatto avrai, sanza alcuna compagnia fuori che della sua, se egli la ti profferrà, celatamente prendi il cammino verso la Braa, però che in quel luogo sarà la tua Biancifiore menata da coloro che d'ucciderla intendono. La sorella di colui che mena i poderosi cavalli portanti l'etterna luce, la quale, ancora pochi dì sono, vi si mostrò sanza alcuno corno tutta nella figura del celestiale Ganimede, m'ha promesso di porgerti sicuro cammino con la sua fredda luce; quivi con questa spada la quale io ti dono, fatta per le mani del mio marito Vulcano, quando bisognò alla battaglia degl'ingrati figliuoli della terra, a me prestata da Marte, mio carissimo amante, aspetterai chetamente insino a tanto che la tua Biancifiore vedrai menare per esserle data l'ultima ora. E allora, sanza alcuno indugio, cacciata da te ogni paura, con ardito cuore ti trai avanti sanza farti a nullo conoscere, e contradì a tutto il presente popolo che Biancifiore ragionevolemente non è stata condannata a morte, né dee morire, e che ciò tu se' acconcio a provare contro a qualunque cavaliere o altra persona di questo volesse dire altro; e non dubitare d'assalire tutto il piano pieno del marmorino popolazzo, se bisogno ti pare che ti faccia, però che contro a questa spada che io ti dono, niuna arme potrà durare, e il mio Marte m'ha giurato e promesso per li fiumi di Stige di mai non abandonarti. Né v'è alcuno iddio che al tuo aiuto non sia prontissimo e volonteroso, e io mai non ti abandonerò: però sicuramente ti metti al suo scampo, ché la fortuna graziosamente t'apparecchia onorevole vittoria. La quale quando avrai avuta, e levata Biancifiore dal mortal pericolo, prendera'la per mano e rendera'la al tuo padre, raccomandandogliele tutt'ora sanza farti conoscere; e ritornando a Montoro, fa che sopra gli altari di Marte e sopra i miei accenda luminosi fuochi con graziosi sacrificii; e quivi mi vedrai essere venuta del mio antico monte, della mia natività glorioso, con gli usati vestimenti significanti letizia, circundata di mortine e coronata delle liete frondi di Pennea, e stare sopra li miei altari a te manifestamente visibile; e coronerotti della acquistata vittoria; e di queste cose dette, fa che in alcuna non falli per alcuno accidente; né per parole che Ascalion ti dicesse, da questa impresa ti rimanghi».

 

E dette queste parole, lasciata nella destra mano di Florio la sopradetta spada, si partì subitamente tornando al cielo.

 

 

[43]

 

Tanto fu a Florio più il dolore delle vedute cose che l'allegrezza della futura vittoria a lui promessa da Venere, che piangendo elli forte, e veggendo partire la santa dea, rompendosi il debile sonno, si destò, e subitamente si dirizzò in piè, trovandosi il petto e 'l viso tutto d'amare lagrime bagnato, e nella destra mano la celestiale spada: di che quasi tutto stupefatto, conobbe essere vero ciò che veduto avea nella preterita visione. E tornandogli a mente la sua Biancifiore, e della cagione per che da lei avea ricevuto il bello anello, e della virtù d'esso, piangendo il riguardò dicendo:

 

«Questo fia infallibile testimonio alla verità»; e riguardandolo, il vide turbatissimo e sanza alcuna chiarezza. Allora cominciò Florio il più doloroso pianto che mai veduto o udito fosse, mescolato con molte angosciose voci, dicendo:

 

«O dolce speranza mia, per la quale io infino a qui in doglia e in tormenti mi sono contentato di vivere, sperando di rivederti in quella allegrezza e festa che io già molte volte ti vidi, quale avversità ti si volge al presente sopra? Or non bastava alla invidiosa fortuna d'averci dati tanti affannosi sospiri allontanandoci, se ella ancora con mortal sentenza non ci vuole dividere, e porgerci maggiore angoscia? Oimè, or chi è colui che cerca falsamente di volerti levare la vita, e a me insiememente? Chi è quegli che ingiustamente ti fa nocente il mio vecchio padre? Oimè, or crede egli far morire te sanza me? Vano pensiero lo 'nganna. Oimè, è questa la festa ch'io soglio in tal giorno avere con teco? Ahi, dolorosa la vita mia, da quante tribulazioni è circundata! Certo, cara giovane, niuno a mio potere ti torrà la vita: o questa spada la racquisterà a te e a me come promesso m'è stato, tenendola io nella mia mano combattendo, o ella si bagnerà nel mio cuore cacciandovela io, o io diverrò cenere con teco in uno medesimo fuoco, come Campaneo con la sua amante donna divenne a piè di Tebe».

 

E dicendo Florio queste parole piangendo, il duca, che dalla dolente festa tornava, venne; il quale come Florio sentì, celando il nuovo dolore, nel viso allegrezza mostrando, e andatogli incontro lietamente nelle sue braccia il ricevette, faccendosi festa insieme, però che di perfetto amore s'amavano; e come essi insieme furono nella sala montati, Florio domandò il duca della festa, se era stata bella e se egli avea veduta Biancifiore. Il duca rispose che la festa era stata bella e grande, e che niuna cosa v'era fallita, fuori solamente la sua presenza; e tutto per ordine gli narrò ciò che fatto vi s'era, e de' vanti che dati s'aveano al paone che Biancifiore avea portato. Ma ben si guardò di non dire l'ultima cosa che avvenuta v'era, cìoè dell'avvelenato paone, per lo quale Biancifiore dovea morire, per tema che Florio non se ne desse troppa malinconia; e di ciò s'avvide ben Florio, che 'l duca si guardava di dirgli quello che egli non avrebbe voluto che avvenuto fosse: però, sanza più adimandare, disse che ben gli piaceva che la festa era stata bella e grande, e che volentieri vi sarebbe stato se agl'iddii fosse piaciuto.

 

 

[44]

 

Già aveva Febo nascosi i suoi raggi nelle marine onde, quando, preso il cibo, il duca insiememente con Florio cercarono i notturni riposi. Ma Florio porta nell'animo maggiore sollecitudine che di dormire, e sanza adormentarsi aspetta che gli altri s'addormentino della casa; i quali non così tosto come Florio avrebbe voluto s'andarono a letto, ma ridendo e gabbando e con diversi ragionamenti gran parte della notte passarono, la quale Florio tutta divise per ore, con angosciosa cura dubitando non s'appressasse l'ora che andare di necessità gli convenisse, e fosse veduto. Ma poi che ciascuno pose silenzio e la casa fu d'ogni parte ripiena d'oscurità, Florio con cheto passo, aperte le porti del gran palagio con sottile ingegno, sanza farsi sentire passò di fuori, e tutto soletto pervenne all'ostiere di Ascalion, ove più voci chiamò acciò che aperto gli fosse. E 'l primo che alla sua voce svegliato si levò fu Ascalion, il quale sanza niuno indugio corse ad aprirgli, maravigliandosi forte della sua venuta, e del modo e dell'ora non meno. E poi che essi furono dentro alla fidata camera sanza altra compagnia, Ascalion disse:

 

«Dimmi, quale è stata la cagione della tua venuta a sì fatta ora, e perché se' venuto solo?».

 

E mentre che queste parole dicea, dubitava molto non il duca gli avesse detto lo 'nfortunio di Biancifiore. Ma Florio rispose:

 

«La cagione della mia venuta è questa. A me fa mestiere d'essere tutto armato e d'avere un buon cavallo. Onde io non sappiendo ove di tale bisogna fossi più fedelmente né meglio servito che qui, qui a venire mi dirizzai più tosto che in altra parte: priegovi che vi piaccia di questo tacitamente servirmi incontanente».

 

E mentre che diceva queste cose, con gran fatica riteneva le lagrime, le quali dal premuto cuore, ricordandosi perché queste cose volea, si moveano. Disse Ascalion:

 

«Niuna cosa ho né potrei fare che al tuo piacere non sia; ma qual è la cagione di sì subita volontà d'armarti? Perché non aspetti tu il nuovo giorno? Armandosi l'uomo a questa ora, non veggendo alcuna necessità espressa, parrebbe un volere matto e subito, sì come sogliono essere quelli degli uomini poco savi e che hanno il natural senno perduto; ma se tu mi di' perché a questo se' mosso, la cagione potrebbe essere tale che io loderei che la tua impresa si mettesse avanti. Già sai tu bene che di me tu ti puoi interamente fidare, con ciò sia cosa che io lungamente in diverse cose ti sia stato maestro fedelissimo, e amatoti come se caro figliuolo mi fossi stato: dunque non ti guardar da me».

 

Florio rispose:

 

«Caro maestro, veramente se alcuna virtù è in me, dagl'iddii e da voi la riconosco; e sanza dubbio, se io non avessi avuto in voi somma fede, niuno accidente per tal cosa mi ci avrebbe potuto tirare; ma poi che vi piace di sapere il perché a questa ora per l'armi io sia venuto, io il vi dico. A voi non è stato occulto l'ardente amore che io ho a Biancifiore portato e porto, della quale, oggi, dormendo io, mi furon mostrate dalla santa Venus di lei dolorose cose: però che io stando con lei sopra a Marmorina in una oscura nuvola, vidi chiamare la mia semplice giovane, e porle uno avvelenato paone in mano, e vidiglielo portare per comandamento altrui alla reale mensa ove voi sedevate; e dopo questo vidi e udii il gran romore che si fece, aveggendosi la gente dello avvelenato paone, e lei vidi furiosamente mettere in uno cieco carcere; e ancora dopo lungo consiglio vidi scrivere il processo della iniqua sentenza, che dare si dee domattina contra di lei. E queste cose tutte vedeste voi, né me ne dicevate niente. Ma io ne ringrazio gl'iddii che mostrate le m'hanno, e datomi vero aiuto e buono argumento a resistere alla crudel sentenza e ad annullarla, sì com'io credo fare con questa spada in mano, la quale Venere mi donò per la difensione di Biancifiore. E se il potere mi fallisse, intendo di volere anzi con esso lei in un medesimo fuoco morire, che dopo la sua morte dolorosamente vivendo stentare».

 

«Oimè, dolce figliuolo - disse Ascalion, - che è quello che tu vuoi fare? Per cui vuoi tu mettere la tua vita in avventura? Deh, pensa che la tua giovane età ancora è impossibile a queste cose, e massimamente a sostenere l'affanno delle gravanti armi. Deh, riguarda la tua vita in servigio di noi, che per signore t'aspettiamo, e lascia dare i popolareschi uomini a' fati. Tu vuoi combattere per Biancifiore, la quale è femina di piccola condizione, figliuola d'una romana giovane, alla quale essendo stato ucciso il suo marito, per serva fu donata alla tua madre. Ma tu forse guardi al grande onore che tuo padre l'ha fatto per adietro, e quinci credi forse ch'ella sia nobilissima giovane: tu se' ingannato, però che questo non le fu fatto se non perché ella fu tua compagna nel nascimento. Non è convenevole a te amare femina di sì piccola condizione; e però lasciala andare e compiere i doveri della giustizia, e poi che ella ha fatta l'offesa, lasciala punire. Non ti recare nella mente sì fatte cose, né dare speranza a' sogni, i quali per poco o per soperchio mangiare, o per imaginazione avuta davanti d'una cosa, sogliono le più volte avvenire, né mai però se ne vide uno vero; e se pur fai quello che proposto hai, nullo fia che non te ne tenga poco savio, e al tuo padre darai materia di crucciarsi e d'infiammarsi più verso di lei: onde lascia stare questa impresa, io te ne priego».

 

Allora Florio, con turbato viso riguardandolo nella faccia, disse:

 

«Ahi, villano cavaliere, e sconoscente e malvagio, qual cagione licita e ancora verisimile vi muove a biasimare Biancifiore e chiamarla figliuola di serva? Non v'ho io più volte udito raccontare che 'l padre di Biancifiore fu nobilissimo uomo di Roma, e d'altissimo sangue disceso? Certo si ho. E quando questo non fosse mai vero, natura mai non formò sì nobile creatura com'ella è, però che non le ricchezze o il nascere de' possenti e valorosi uomini fanno l'uomo e la femina gentile, ma l'animo virtuoso con le operazioni buone. Essa per la sua virtù si confarebbe a molto maggior prencipe che io non sarò mai; e posto che di quello che io intendo di fare, la vil gente ne parli men che bene, i valorosi me ne loderanno, avvegna che io sì segretamente lo 'ntendo di fare, che alcuno nol saprà già mai. E se si pur sapesse e parlassesene, il robusto cerro cura poco i sottili zeffiri, e il giovane poppio non può resistere a' veloci aquiloni. Faccia l'uomo suo dovere, parli chi vuole. E sanza dubbio del cruccio del mio padre io mi curo poco, ch'è uomo di sì vile animo come io il sento, che s'è posto a volere con falsità vendicare le sue ire sopra una giovane donzella e innocente, sua benivolenza, o amistà si dee poco curare, e in gran grazia mi terrei dagl'iddii che egli mi uscisse davanti a contradire la salute di Biancifiore, acciò che io con quel braccio, col quale ancora, se fosse quell'uomo quale esser dovrebbe, il dovrei aver sostenuto, gli levi la vita mandandolo ai fiumi d'Acheronta, ove la sua crudeltà avrebbe luogo: vecchio iniquissimo ch'egli è, che nell'ultima parte de' suoi giorni, alla quale quando gli altri, che sono stati in giovinezza malvagi pervengono, si sogliono col bene operare riconciliare agl'iddii, incomincia a divenire crudele e a fare opere ingiuste. E di ciò che o piacere o dispiacere ch'io gliene faccia, mai della mia mente non si partirà Biancifiore, né altra donna avrò già mai; né mi parrà grave il peso dell'armi in servigio di lei. E certo Achille non avea molto più tempo ch'io abbia ora, quando egli abandonando i veli insieme con Deidamia, venne armato a sostenere i gravi colpi d'Ettore fortissimo combattitore; né Niso era di tanto tempo quanto io sono, quando sotto l'armi incominciò a seguire gi ammaestramenti d'Euriello. Io sono giovane di buona età, volonteroso alle nuove cose, innamorato e difenditore della ragione, e emmi stata promessa vittoria dagl'iddii, e veggo la fortuna disposta a recarmi a grandi cose, la quale noi preghiamo tutto tempo che in più alto luogo ci ponga della sua rota. Ora poi che ella con benigno viso mi porge i dimandati doni, follia sarebbe a rifiutarli, ché l'uomo non sa quando più a tal punto ritorni. Io m'abandonerò a prendere ora che mi par tempo, e salirò sopra la sua rota; quivi, sanza insuperbire, quanto potrò in alto mantenermi, mi manterrò. E se avviene che alcuna volta scendere mi convenga, con quella pazienza che io potrò, sosterrò l'affanno. Né mi vogliate fare discredere quello che la vera visione m'ha mostrato, dicendo che i sogni sieno fallaci e voti d'ogni verità: poi che voi non me lo voleste dire, tacete del farmelo discredere, però che io n'ho più testimoni a questa verità, ché principalmente il mio anello con la perduta chiarezza mi mostrò l'affanno di Biancifiore: la celestiale spada, ritrovandomela nella destra mano quando mi svegliai, m'affermò la credenza delle vedute cose e la speranza della futura vittoria. Ma forse voi dubitate di farmi il servigio, e però con tante contrarietà v'andate al mio intendimento opponendo. Onde io vi priego, sanza più andarmi con cotali circustanze faccendomi perder tempo, mi rispondiate se fare lo volete o no: ch'io vi prometto che mai io non sarò lieto, né dalla mia impresa mi partirò, infino a tanto che io con la destra mano non avrò liberata Biancifiore dal fuoco, e da qualunque altro pericolo le soprastesse».

 

Quando Ascalion udì così parlare Florio e videlo pur fermo in voler difendere Biancifiore, assai se ne maravigliò del gran cuore che in lui sentiva, e più della nuova visione e della spada a lui donata, la quale non gli parea opera fatta per mano d'uomo, e fra sé disse: "Veramente la fortuna ti vuole recare a grandissime cose, delle quali forse questa fia il principio, e gl'iddii mostra che 'l consentano". E poi rispose a lui:

 

«Florio, sanza ragione mi chiami villano e malvagio, però che quel ch'io ti dicea, io nol ti dicea che io non conoscessi bene ch'io non dicea vero, ma io il dicea acciò che da questa impresa ti ritraessi, se potuto avessi ritrartene. E se io avessi dal principio conosciuto che così fermamente t'avessi posto in cuore di far questo, certo sanza niuna altra parola io t'avrei detto: "andiamo"; ma io volea provare altressì con che animo ci eri disposto. E non dire ch'io dubiti di servirti, ch'io voglio che manifesto ti sia che alcuno disio non è in me tanto quanto quello fervente. Ond'io caramente ti priego, poi che del tutto alla dimensione di Biancifiore se' fermo, che, se ti piace, lasci a me questo peso, perché tu non sai chi avanti ti dee uscire a resistere al tuo intendimento. E nella corte del tuo padre sanza fallo ha molti valorosi cavalieri, e espertissimi e usati in fatto d'arme lungamente, a' quali tu ora, novello in questo mestiero, non sapresti forse così resistere come si converrebbe. E non ti voler rifidare in sola la forza della tua giovanezza, ché non solamente i forti bracci vincono le battaglie, ma i buoni e savi provedimenti danno vittoria le più volte. Posto che io, già vecchio, non ho forse i membri guari più poderosi di te, io pur so meglio di te quel colpo che è da fuggire e quello che è da aspettare, e quando è da ferire e quando è da sostenere, sì come colui che dalla mia puerizia in qua mai altra cosa non feci. E d'altra parte, se io fossi soperchiato, a te non manca il potere allora combattere, e combattendo provarti, e soccorrere me e Biancifiore».

 

A cui Florio rispose brievemente:

 

«Maestro, io ora novellamente porterò arme; io, come detto v'ho, sono giovane, e amore mi sospinge, e la buona speranza: io voglio sanza niuno fallo essere il difenditore di quella cosa che io più amo, ché non m'è avviso che alcuno cavaliere, non tanto fosse valoroso e dotto in opera d'arme, potesse qui adoperare quanto potrò io. E se io consentissi che voi v'andaste voi a combattere, e foste vinto, a me non si converrebbe d'andare a volere racconciare quello che voi aveste guasto, né potrei, né mi sarebbe sofferto. Io voglio incominciare a provare quello affanno che l'armi porgono. Io ho tanto sofferto amore, che ben credo poter sofferire l'armi a una picciola battaglia. E nella giovanezza si deono i grandi affanni sostenere, acciò che famoso vecchio si possa divenire. E se pure avvenisse che la speranza della vittoria mi fallisse, io farò sì che la vita e la battaglia perderò a un'ora, la qual cosa mi fia molto più cara che se io, dopo la morte di Biancifiore, rimanessi in vita; del vostro aiuto so che poi Biancifiore non si curerebbe, sì che più ch'uno non bisognerà che combatta».

 

Disse Ascalion:

 

«Poi ch'elli ti piace che così sia, e io ne son contento, ma veramente io non ti abandonerò mai; e se io vedessi che il peggio della battaglia avessi mai, chiunque ucciderà te, ucciderà me altressì, avanti che io la tua morte vedere voglia. Ma io priego gl'iddii, se mai alcuna cosa appo loro meritai, che ti donino la disiderata vittoria, come promesso t'hanno, acciò che io teco insieme, riprovata la iniquità del tuo padre e scampata Biancifiore, mi possa di sì prospero principio rallegrare».

 

 

[45]

 

Veduta Ascalion la ferma volontà di Florio, sanza più parlare, egli lo 'ncominciò ad armare di bella e buona arme; e poi ch'egli gli ebbe fatto vestire una grossa giubba di zendado vermiglio, gli fece calzare due bellissime calze di maglia, e appresso i pungenti speroni; e sopra le calze gli mise un paio di gambiere lucenti come se fossero di bianco argento, e un paio di cosciali; e similemente fattegli mettere le maniche e cignere le falde, gli mise la gorgiera; e appresso gli vestì un paio di leggierissime piatte, coperte d'un vermiglio sciamito, guarnite di quanto bisognava nobilmente e fini ad ogni pruova. E poi che gli ebbe armate le braccia di be' bracciali e musacchini, gli fece cingere la celestiale spada, dandogli poi un bacinetto a camaglio bello e forte, sopra 'l quale un fortissimo elmo rilucente e leggiero, ornato di ricchissime pietre preziose, sopra 'l quale un'aquila con l'alie aperte di fino oro risplendeva, gli mise, donandoli un paio di guanti quali a tanta e tale armadura si richiedevano; e appresso il sinistro omero gli armò d'un bello scudetto e forte e ben fatto, tutto risplendente di fino oro, nel quale sei rosette vermiglie campeggiavano. E sì come il tenero padre i suoi figliuoli ammonisce e insegna, così Ascalion dicea a Florio:

 

«Caro figliuolo mio, non schifare gli ammaestramenti di me vecchio, ma sì come nell'altre cose gli hai avuti cari e osservatigli, così fa che in questa maggiormente gli abbia, però che è cosa, che, non osservandola, porta più pericolo. Quando tu verrai sopra il campo contra 'l disiderato nimico, quanto più puoi prendi la più alta parte del campo, acciò che andando verso lui, anzi il sopragiudichi che tu sii da lui sopragiudicato; però che gran danno tornò a' greci la poca altezza, ché i troiani aveano vantaggio allo 'ncominciare le battaglie. E guarti non ti opporre a' solari raggi, però che essi dando altrui negli occhi nocciono molto. Annibale in Puglia per tale ingegno ebbe sopra i romani vittoria, volgendo le reni al sole, al quale costrinse i romani di tenervi il viso. Né contro al polveroso vento ti metterai, però che dandoti negli occhi t'occuperebbe la vista. Né moverai il corrente cavallo con veloce corso lontano al tuo nimico, ma il principio del suo movimento sia a picciolo passo, acciò che quando sarai presso al nimico, spronando forte, elli il suo corso impetuosamente cominci: però che le forze del volonteroso cavallo sono molto maggiori nel cominciare dello aringo che nel mezzo, quando col disteso capo corre alla distesa. Né ancora gli darai tutto il freno, però che con meno forza dilungando il collo andrebbe. Allora sono le cose disposte ad andar forte, quand'elle truovano alcun ritegno e trapassanlo. E chi fece Protesilao più volonteroso che 'l dovere, se non l'essere ritenuto contro alla calda volontà? Se Aulide non avesse ritenute le sue navi, egli andava più temperatamente. Né non basserai la lancia nel principio dello aringo, però che il savio nimico prenderebbe riparo al tuo avvisato colpo, e il tuo braccio del peso sarebbe stanco avanti che tu a lui giugnessi; ma ponendo mente prima a lui, t'ingegna, se puoi, di prendere al suo colpo riparo, e appressandoti a lui prestamente con forte braccio abassa la tua lancia, e fa che avanti nella gola che nella sommità dell'elmo ti ponghi: i bassi colpi nuocciono, posto che gli alti sieno belli. E s'egli avviene che con lui urtare ti convenga col petto del tuo cavallo, guarda bene che col petto del suo non si scontri, se non fossi già molto meglio a cavallo di lui, però che il danno potrebbe essere comune, ma faccendo con maestrevole mano un poco di cerchio, fa che il petto del tuo cavallo alla spalla sinistra del suo si dirizzi, e quivi fieri se puoi, ché tal ferire sarà sanza danno di te. Ma poi che le lance più non adoperranno, non esser lento a trar fuori la spada; ma non voglio però che tu meni molti colpi, ma maestrevolemente, quando luogo e tempo ti pare di ferire a scoperto, copertamente fieri, sempre intendendo a coprire bene te, più che al ferire molto l'avversario, infino a tanto che tu vegga lui stanco e fievole, e al di sotto di te, ché allora non si vogliono i colpi risparmiare. E guardera'ti bene che per tutto questo niente di campo ti lasci torre, però che con vergogna sarebbe danno. Né ti lasciare abbracciare, se forte non ti senti sopra le gambe: la qual cosa s'avviene, non volere troppo tosto sforzarti d'abbatterlo in terra, ma tenendoti ben forte lascia affannar lui, il quale quando alquanto affannato vedrai, più leggiermente potrai allora mettere le tue forze e abbattere lui. E sopra tutte cose ti guarda degli occulti inganni: i tuoi occhi e il buono avviso continuamente te ne ammaestrino. Né niuno romore o di lui o del circustante popolo ti sgomenti, ma sanza niuna paura ti mostra vigoroso; incontanente la tua parte fia aiutata dal grido: e il nimico vedendoti ognora più vigoroso, dubiterà della tua vittoria, però che bene ti seggono l'armi indosso e bellissimo e ardito ti mostrano, più che altro cavaliere già è gran tempo vedessi».

 

Florio con disiderio ascoltava queste parole, notandole tutte, e volontieri vorrebbe allora essere stato a' fatti, e molto gli noiava il picciolo spazio di tempo che a volgere era, e in se medesimo molto si gloriava veggendosi armato; e disse ad Ascalion:

 

«Caro maestro, niuna vostra parola è caduta, ma da me debitamente ritenute, le credo, ove il bisogno sarà, mettere in effetto; ma caramente vi priego che v'armiate e vengano i cavalli, e andiamo, però che già mi pare che le stelle, che sopra l'orizonte orientale salivano nel coricare del sole, abbiano passato il cerchio della mezza notte».

 

 

[46]

 

Armossi Ascalion; e mentre che egli s'armava, e Florio andava per l'ostiere ora correndo, ora saltava d'una parte in altra, e tal volta con la celestiale spada faceva diversi assalti. Alcuna volta prendeva la lancia per vedere com'egli la potesse alzare e bassare al bisogno, lanciandola talora; e queste cose così destramente faceva, come se alcuna arme impedito non l'avesse, avvegna che Amore la maggior parte gli dava della sua forza. Di che Ascalion, lodando la sua leggerezza, si maravigliò molto; e essendo già egli medesimo armato, tutto solo se n'andò alla stalla, e messe le selle e' freni a due forti cavalli, li menò nella sua corte; e quivi vestito Florio e sé di due sopraveste verdi, e prese due grosse lance con due pennoncelli ad oro lavorati e seminati di vermiglie rose, ciascuno la sua, montarono i cavalli e sanza più dimorare presero il cammino verso la Braa.

 

 

[47]

 

Già Febea con iscema ritondità tenea mezzo il cielo, quando Florio e Ascalion, lasciata la città, cominciarono a cavalcare per li solinghi campi. Ella porgea loro col freddo raggio grande aiuto, però ch'ella mitigava il caldo che le gravi armi porgeano, e massimamente a Florio, il quale di tal peso non era usato, poi facea loro la via aperta e manifesta: di che Florio molto si rallegrava, però che già gli parea incominciato avere a ricevere lo 'mpromesso aiuto degl'iddii. E più si rallegrava imaginando che egli s'appressava al luogo ove egli vedrebbe la sua Biancifiore in pericolo, e scampata da quello per la sua virtù. Ma non volendosi tanto alle sue forze rifidare, quanto all'aiuto degl'iddii, volto verso la figlia di Latona, così cominciò a dire:

 

«O graziosa dea, i cui beneficii io sento continuamente, lodata sii tu; tu alleviando la mia madre di me, piegandoti a' suoi prieghi, le mi donasti, degna allegrezza dopo il ricevuto affanno. Dunque, poi che per te nel tempestoso mondo venni, aiutami nelle mie avversità, e priegoti per li tuoi casti fuochi, i quali io già ne' miei teneri anni debitamente cultivai, che come tu hai nel mio aiuto incominciato, così perseveri. E ricordati quanto tu, già ferita di quello strale che io ora sono, ardesti, di quel fuoco che io ardo! e priegoti per le oscure potenze de' tuoi regni, ne' quali mezzi i tempi dimori, che tu domane, dopo la mia vittoria, prieghi il tuo fratello che col suo luminoso e fervente raggio mi renda alle abandonate case, onde tu ora col tuo freddo mi togli. Tu m'hai porta speranza del futuro soccorso degl'iddii col tuo principio, onde io con più ardita fronte il dimanderò. E te, o sommo prencipe delle celestiali armi, priego per quella vittoria che tu già sopra i figliuoli della terra avesti, e per tutte l'altre, che tu sii a me favorevole aiutatore, però che io non cerco, sì come tu vedi, di volere per la presente battaglia possedere né acquistare le vostre celestiali case, né intendo di levare a Giove la santa Giunone; né similemente è mio intendimento d'occupare la fama delle tue grandi opere col tuo medesimo aiuto, ma d'accrescerla, e solamente cerco di difendere la vita di Biancifiore ingiustamente condannata a morte. E tu, o santa Venus, nel cui servigio io sono, aiutami. Io vo più ardito per la promessa che con la tua santa bocca mi facesti. Non mi dimenticare: mostrisi qui quanto la tua forza possa adoperare. E similmente tu, o santa Giunone, donandomi il tuo aiuto, consenti che io vincendo faccia manifesto il malvagio inganno, il quale questi iniqui, contra i quali io ora vo, copersero col tuo santo uccello, non servandoti la debita reverenza. E voi, o qualunque deità abitate le celestiali regioni, siate al mio soccorso intente; e massimamente tu, Astrea, la cui giusta spada mio padre intende di sozzare con innocente sangue, aiutami».

 

E così dicendo e tutt'ora cavalcando, pervennero al dolente luogo per lungo spazio avanti dì: e quivi il nuovo giorno aspettarono.

 

 

[48]

 

La misera Biancifiore, non sappiendo perché con tanto furore né sì subitamente presa fosse, quasi tutta stupefatta, sanza alcuna parola sostenne la grave ingiuria, entrando nell'oscurissima e tenebrosa carcere; la quale serrata, acciò che alcuna persona materia non avesse di poterle in alcuno atto parlare, a cui ella scusandosi poi la sua scusa ad altri porgesse, il re prese a sé la chiave. E dimorando là entro Biancifiore, niuno sì picciolo movimento v'era che forte non la spaventasse, e varie imaginazioni, che la fantasia le recava avanti, le porgeano molta paura, e 'l suo viso impalidito e smorto non dava alcuna luce nella cieca prigione; onde ella per greve doglia incominciò a piangere e a dire:

 

«Oimè misera, quale può essere la cagione di tanta ingiuria? In che ho io offeso? Certo in niuna cosa, ch'io sappia. Io mai né con parole né con operazioni non lesi la reale maestà, e la reina mia cara donna sempre onorai, né mai rubando né spogliando i santi templi e gli altari degl'iddii commisi sacrilegio, né mai si tinsero le mie mani né l'altrui per me d'alcun sangue: dunque questo perché m'è fatto? Oimè, iniqua fortuna, maladetta sii tu! Or non ti potevi tu chiamare sazia delle mie avversità, pensando che divisa m'avevi da quella cosa nella quale ogni mia prosperità e allegrezza dimorava, sanza volermi ancora fare ora questa vergogna d'essere messa in prigione sanza averlo meritato? Deh, se tu avevi volontà di nuocermi, perché avanti non mi uccidevi? Credo che conosci che la morte mi sarebbe stata somma felicità, però che i miei sospiri avrebbe terminati. Stiano adunque i miseri sicuri contra i tagli delle spade e contra le punte delle agute lance, infino a tanto che il cielo avrà il loro tempo volto, però che fortunoso caso di vita non li priverebbe. Oimè, or tu mi ti mostrasti poco avanti così lieta, faccendomi più degna che alcuna altra giovane della real casa di portare il santo paone alla mensa, dove il re sedea, accompagnato da quelli baroni, i quali tutti in mio onore e servigio si vantarono! È questa la fine che tu vuoi a' loro vanti porre? Oimè, com'è laida e vituperevole! Tosto hai mutato viso a mio dannaggio! Maladetto sia il giorno del mio nascimento! Io fui cagione di sforzata morte al mio padre e alla mia madre, i quali io già mai non vidi, e ora, non so come, la mi pare avere a me meritata. Oimè, che gl'iddii e 'l mondo m'hanno abandonata, e massimamente tu, o Florio, in cui io solamente portava speranza! Deh, or dove se' tu ora, o che fai tu? Forse pensi che il tuo padre m'acconci per mandare a te, però che dimandata me gli hai, e io sto in prigione piena di varie solleccitudini, e non so per che né a che fine, né se il tuo padre intende di farmi morire! Deh, or non t'è egli la mia avversità palese? Non riguardi tu il caro anello da me ricevuto, il quale apertamente la ti significherebbe? Oimè, che io dubito che tu più nol riguardi, sì come cosa la quale credo che poco cara ti sia! Immantanente io imagino che tu m'abbia dimenticata! E chi sarebbe quel giovane sì costante e tanto innamorato, che vedendo tante belle giovani, quante io ho inteso che costà ha, scalze dintorno alle fredde fontane sopra i verdi prati, coronate di diverse frondi cantare e fare maravigliose feste, non lasciasse il primo obietto pigliandone un secondo? E se tu non m'hai dimenticata, perché non mi soccorri? Chi sa se io dopo questa prigione avrò peggio? E chi sa se io ci sarò di fame lasciata morire entro, o se di me fia fatta altra cosa? Oimè, ora se io morissi, come faresti tu? Io per me mi curerei poco di morire, se io solamente una volta veder ti potessi avanti, e se io non credessi che a te fosse il mio morire gravoso a sostenere. Oimè, che io credo che se tu sapessi che io fossi qui, la mia liberazione sarebbe incontanente. E se io potessi questo in alcun modo farloti sentire, ben lo farei; ma io non posso. Oimè! ora ove sono tanti amici tuoi, a quanti di me solea per amor di te calere, quando tu c'eri? Non ce ne ha egli alcuno il quale tel venisse a dire? Io credo di no, però che gli amici della prosperità insieme con essa sono fuggiti. Ma l'anello ch'io ti donai ha egli perduta la virtù? Io credo di sì, però che alle mie avversità niuna speranza è lasciata. O santa Venus, al cui servigio l'animo mio e tutto disposto, per la tua somma deità non mi abandonare, e per quello amore che tu portasti al tuo dolce Adone, aiutami. Io sono giovane usata nelle reali case, dove io nacqui, con molte compagne continuamente stata: ora non so perché sia sì vilmente rinchiusa. Sola la paura mi confonde: a me pare che quante ombre vanno per la nera città di Dite, tutte mi si parino davanti agli occhi con terribili e spaventevoli atti. Mandami alcuno de' tuoi santi raggi in compagnia; e in bene della mia vita adopera quello che tu meglio di me conosci che bisogna, ché tu vedi bene che io aiutare non mi posso».

 

Non avea Biancifiore ancora compiute di dire queste parole, che nella prigione subitamente apparve una gran luce e maravigliosa, dentro alla quale Venere ignuda, fuor solamente involta in uno porporino velo, coronata d'alloro, con un ramo delle frondi di Pallade in mano dimorava. La quale, quivi giunta, subitamente disse:

 

«Ahi, bella giovane, non ti sconfortare. Noi già mai non ti abandoneremo: confortati. Credi tu che la nostra deità abandoni così di leggiere i suoi suggetti? Le tue voci ci percossero gli orecchi infino nel nostro cielo, al pietoso suono delle quali io subitamente a te sono discesa, e mai non ti lascierò sola. E non dubitare di cosa che stata ti sia infino a qui fatta, che da questa ora avanti niuna cosa ti sarà fatta, per la quale altra offesa che sola un poco di paura te ne seguisca».

 

Quando Biancifiore vide questo lume e la bella donna dentro alla prigione, tutta riconfortata, si gittò ginocchione in terra davanti ad essa, dicendo:

 

«O misericordiosa dea, lodata sia la tua potenza. Niuno conforto era a me misera rimaso, se tu venendo non m'avessi riconfortata. Ahi, quanto ti dobbiamo essere tenuti pensando alla tua benignità, la quale non isdegnò di venire de' gloriosi regni in questa oscurità e solitudine a darmi conforto, non avendo io tanta grazia già mai meritata. Ma dimmi, pietosa dea, poi che con le tue parole m'hai renduto alquanto del perduto conforto, se licito m'è a saperlo, quale è la cagione per che fatta m'è questa ingiuria?».

 

A cui la dea rispose:

 

«Niuna altra cagione ci è, se non per che tu e Florio siete al mio servigio disposti; ma non sotto questa spezie s'ingegna il re di nuocerti, ma il modo trovato da lui, col quale egli si ricuopre, è falso e malvagio: ma egli è ben conosciuto tanto avanti, che alla tua fama non può nuocere, e ancora sarà più manifesto. E d'altra parte, io poco avanti discesa giù dal cielo, ordinai la tua diliberazione, in maniera che, avanti che il sole venga domane al meridiano cerchio, tu sarai renduta al re e tornata in quella grazia che solevi. Più avanti non te ne dirò ora, però che tutto vedrai e saprai domane».

 

Con questi ragionamenti e con molti altri si rimase Biancifiore con la santa dea infino al seguente giorno, quasi rassicurata, sanza prendere alcuno cibo, infino che tratta fu di prigione per menare alla morte.

 

 

[49]

 

Cominciossi per la corte un gran mormorio, poi che il re fu partito dal gran consiglio che tenuto avea del fallo che dovea aver fatto Biancifiore: e tutti i baroni e l'altra gente, chi in una parte e chi in un'altra ne ragionavano; e a tutti parea impossibile il credere che Biancifiore avesse già mai tanta malvagità pensata, con ciò sia cosa che semplice e pura e di diritta fede la sentivano. E altri diceano che veramente mai Biancifiore non avrebbe tal fallo commesso né pensato, ma questo era fattura del re, il quale ordinato avea ciò per farla morire, perciò che Florio più che altra femina l'amava, e 'l re temea che egli non la prendesse per isposa, o a vita di lei non ne volesse prendere alcuna altra. Alcuni diceano ciò non porria essere, ché, se il re l'avesse avuto animo adosso, per altro modo l'avria fatta morire, né mai si sarebbe vantato di maritarla, come la mattina avea fatto, affermando d'attenere il suo vanto con tanti saramenti: aggiungendo a questo che essi credevano che ciò fosse fattura del siniscalco, però che l'avea in odio, perché rifiutato l'avea per marito. E altri ne ragionavano in altra maniera: chi difendea il re e chi Biancifiore, ma a tutti generalmente ne dolea, e niuno potea credere che difetto di Biancifiore fosse mai stato. E molti ve n'avea che, se non fosse stato per tema di dispiacere al re, avrebbero parlato molto avanti in difesa di Biancifiore, e ancora prese l'arme, se bisognato fosse, chi per amor di lei e chi per amor di Florio. E così d'uno ragionamento in altro il giorno passò, e sopravennero le stelle, mostrandosi tutto quel giorno, quanto durò, il re e la reina molto turbati nel viso, avvegna che contenti e allegri fossero nell'animo, sperando che il seguente giorno per la morte di Biancifiore terminerebbero il loro disio.

 

 

[50]

 

Il re dormì poco quella notte, tanto il costringea l'ardente disio che il nuovo giorno venisse; e sollecitando le maladette cure il suo petto, più volte quella notte eccitato, disse:

 

«O notte, come sono lunghe le tue dimoranze più che essere non sogliono! O il sole è contra 'l suo corso ritornato, poi che egli si celò in Capricorno, allora che tu la maggior parte del tempo nel nostro emisperio possiedi, o Biancifiore credo che con le sue orazioni priega gl'iddii che rallungare ti facciano, quasi indovina al suo futuro danno. Ma folle è quello iddio che per lei di niente s'inframette, ché a lui non fia mai per lei acceso fuoco sopra altare né visitato tempio. Di se medesima gli può ben promettere sacrificio, però che quando tu ti partirai del nostro emisperio, io la farò ardere nelle cocenti fiamme, né di ciò alcuno pregato iddio la potrà aiutare, né trarla delle mie mani: adunque partiti, e lasciami tosto vedere l'apparecchiato fine al mio disire. E tu, o dolcissimo Apollo, il quale disideroso suoli sì prestamente tornare nelle braccia della rosseggiante Aurora, che fai? Perché dimori tanto? Vienne, non dubitar di venire sopra l'orizonte, per che io deggia fare per la tua venuta ardere la non colpevole giovane. Questo non è l'acerbissimo peccato del comune figliuolo de' due fratelli mangiato da essi, porto dalla crudel madre, per lo quale tu tirasti i carri dello splendore indietro, e non volesti dare quel giorno luce alla terra, perché sopra sé sì fatta crudeltà avea sostenuta. Tu desti più volte luce a Licaon, operatore di maggior crudeltà che questa non è; e sofferisti che Progne, dopo l'ucciso figliuolo, dandole tu lume, si fuggisse dalla giusta crudeltà di Tireo; né si celò la tua luce nella morte de' due tebani fratelli. Adunque, poi che a Licaon, a Progne e ad Etiocle ne' loro falli il tuo splendore concedesti, è così mirabile cosa se tu a me ne porgi? Questa non è la prima femina che muore ingiustamente, né sarà l'ultima, né a te più che un'altra cara. Dunque vieni! Deh, non dimorare più! Fuggano omai le stelle per la tua luce. Non mi fare più disiderare quello che tu naturalmente suogli a tutti donare».

 

Così parlava il re, ora vegghiando e ora non fermamente dormendo: e in tale maniera passò tutta quella notte. Ma poi che il giorno apparì, subito si levò, e fece chiamare i giudici, e loro comandò che sanza indugio fosse giudicata Biancifiore.

 

 

[51]

 

Quella mattina il sole coperto da oscure nuvole non mostrò il suo viso, e l'aria da noiosa nebbia impedita parea che piangesse, quasi pietosa degli affanni di Biancifiore. Ma poi che i chiamati giudici furono davanti al re e ebbero il comandamento ricevuto, stettero quasi stupefatti davanti al re. E conoscendo quasi il volere degl'iddii, e la ingiusta sentenza che dare doveano temendo, e mossi a pietà, s'ingegnarono d'aiutare Biancifiore, e dissero:

 

«Altissimo signore, niuna persona può da noi essere giudicata, se quella, cui giudicare dobbiamo, prima a' nostri orecchi non confessa con la propia bocca il fallo per lo quale al nostro giudicio è tratta. Noi non abbiamo udito ancora da Biancifiore alcuna cosa, o s'è vero o non vero quello di che voi volete che a morte la sentenziamo. E voi volendo fare quest'opera secondo il giudiciale ordine, come dite, e non di fatto, conviene che ce la facciate udire sé aver commesso questo fallo, però che noi dubitiamo che, sanza fare il debito modo, la sentenza non torni sopra i nostri capi».

 

Assai si turbò il re di queste parole, e temendo forte che Biancifiore ascoltata non fosse, e per quello che il suo inganno si manifestasse, o che per indugiare non pervenisse a orecchie a Florio, rispose:

 

«Questo fallo fatto da costei non ha bisogno di confessagione alcuna, però che è sì manifesto, che, se negare lo volesse, non potrebbe, e però sopra l'anima mia e de' miei figliuoli la giudicate incontanente».

 

Comandarono adunque i giudici che Biancifiore fosse incontanente tratta di prigione e menata davanti da loro, vedendo essi la volontà del re essere disposta pur a volere che sanza alcuno indugio giudicata fosse.

 

 

[52]

 

Fu adunque Biancifiore tratta fuori di prigione quella mattina, e la chiara luce che accompagnata l'avea da lei subito si partì, e questa vestita di neri drappi, i quali la reina mandati le avea, acciò che come nobile femina andasse a morire, venne tacitamente dinanzi a' giudici, quasi perdendo ogni speranza che ricevuta avea dalla santa dea il preterito giorno; e quivi fermata, uno de' giudici levato in piè con empia voce così disse:

 

«Sia a tutti manifesto che la presente iniqua giovane Biancifiore per suo inganno e tradimento volle, il giorno passato, il nostro e suo signore re Felice avvelenare con un paone, sotto spezie d'onorarlo; e perciò, acciò che nullo uomo o altra femina a sì fatto fallo mai s'ausi, noi condanniamo lei, ch'ella sia arsa e fatta divenire cenere trita, e poi al vento gittata».

 

E questo detto, comandò che al fuoco sanza indugio menata fosse.

 

 

[53]

 

Biancifiore avea perduto il naturale colore per la paura e per lo digiuno; e il suo bel viso era tornato palido e smorto come secca terra; ma ancora il nero vestimento le dava alle non guaste bellezze gran vista. E udendo ella il miserabile giudicio contra lei dato sanza ragione, forte incominciò a piangere e a dire fra se medesima: "Oimè misera, or convienmi elli morire? Or che ho io fatto?". E se non fosse che le sue dilicate mani erano con istretto legame congiunte, ella s'avrebbe i biondi capelli dilaniati e guasti, e 'l bel viso sanza niuna pietà lacerato con crudeli unghie, stracciando i nuovi drappi significanti la futura morte, e avrebbe riempiuta l'aere di dolorose e alte voci; ma vedendosi impedita e circundata da innumerabile popolo, costretta da savio proponimento, raffrenò le sue voci, e sanza nullo romore fra sé tacitamente ricominciò a dire: "Ahi, sfortunato giorno e noiosa ora del mio nascimento, maladetti siate voi! Oimè, morte, quanto mi saresti tu stata più graziosa nelle braccia di Florio, com'io credetti già che tu mi venissi! Deh, ora mi fossi tu almeno venuta in quell'ora ch'io chiamata fui a portare il male avventuroso uccello per me, però che io allora sarei morta onestamente e sanza vergogna d'alcuna infamia. Ahi, anime del mio misero padre e de' suoi compagni e della mia dolente madre, i quali per me acerba morte sosteneste, rallegratevi, che io, stata di sì crudel cosa cagione, sono punita degnamente. Niuna altra cosa credo che nuoccia a me misera, se non questa, insieme con l'aver portata troppa lealtà e onore a colui che ora mi fa morire. O crudelissimo re, perché mi rechi a sì vile fine? Che t'ho io fatto? Certo niuna colpa ho commessa, se non che io ho troppo amore portato al tuo figliuolo. Deh, or che mi faresti tu, o più crudele che Fisistrato, se io l'avessi odiato? Quale tormento m'avresti tu trovato maggiore? Io, misera, mai nol ti dimandai, né lui pregai ch'egli di me s'innamorasse. Se gl'iddii concedettero al mio viso tanta di piacevolezza che il suo gentile cuore fosse per quella preso, ho io però meritata la morte? Se io avessi creduto che la mia bellezza mi fosse stata agurio di sì doloroso fine, io con le mie mani l'avrei deturpata, seguendo l'essemplo di Spurima, romano giovane. Ma fuggano omai gli uomini i doni degl'iddii, poi che essi sono cagione di vituperevole fine. Io, misera, avrei già potuto con le mie parole tirare Florio in qualunque parte la volontà più m'avesse giudicato, o congiugnerlo meco per matrimoniale nodo, se io avessi voluto, se non fosse stata la pietà che 'l mio leale cuore ti portava. O vecchio re, per l'onore che io da te ricevea non ti volli mai del tuo unico figliuolo privare, e io del bene operare sono così meritata. A questo fine possano venire i servidori de' crudeli, che io veggio venir me! O sommo Giove, il quale io conosco per mio creatore, aiutami. Tu sai la verità di questo fatto, e conosci che io non fallii mai: non consentire adunque che le pietose opere abbiano tale guiderdone. La mia speranza chiede solo il tuo aiuto, fermandosi nella tua misericordia. Non sostenere che oggi il nome degli effetti del tuo cielo ricuopra la iniquità del re Felice contra di me, ma manifestamente fa nota la verità. E tu, o santa Giunone, nel cui uccello tanta falsità fu nascosa per conducermi a questo fine, vendica la tua onta, fa che questa cosa non rimanga inulta, ma sia letta ancora tra l'altre vendette da te fatte, acciò che la tebana Semelè o la misera Ecco non si possano di te giustamente piangere. E tu, o sacratissima Venere, soccorri tosto col promesso aiuto; non indugiar più, però che, non vedendolo, a me fugge la speranza delle tue parole da tutte parti, però che io al fuoco mi sento condannare. Veggiomi i feroci sergenti dintorno armati, come se io fierissima nimica delle leggi mi dovessi torre loro per forza, e veggo il siniscalco, a me crudelissimo nimico, sollecitare i miei danni con altissime voci e con furiosi andamenti, né più né meno come se egli della mia salute dubitasse. Né veggio che per pietà di me cambi aspetto. Tutte queste cose mi danno paura e tolgonmi speranza. Dunque soccorri tosto, che io dubito che se troppo indugi, io non muoia di contraria morte che quella che apparecchiata m'hanno costoro, però che la molta paura m'ha già sì raffreddato il cuore, che egli gli è poco sentimento rimaso".

 

 

[54]

 

Mentre che Biancifiore, ascoltando la crudele sentenza, sì tacitamente fra sé si ramaricava piangendo, il re insieme con la reina e con molta altra compagnia vennero a vederla, già volendola i sergenti menare via. Ma Biancifiore col viso pieno di lagrime voltata al reale palagio, il quale ella mai rivedere non credea, vide ad un'alta finestra il re e la reina riguardanti lei: allora più la costrinse il dolore, e con più amare lagrime s'incominciò a bagnare il petto. Ma non per tanto così, com'ella poté, si sforzò di parlare, e con debole voce, rotta da molti singhiozzi di pianto, disse:

 

«O carissimo padre, re Felice, da cui io conosco l'onore e 'l bene che io per adietro ho ricevuto in casa tua e quello che ricevette la mia misera madre, essendo noi stranieri, rimani con la grazia degli iddii, tu e la tua compagna, i quali io priego che ti perdonino la ingiusta morte alla quale tu mi mandi sanza ragione. E certo più onore vi tornava a tutti l'essere degnamente stati pietosi, che ingiustamente crudeli verso me, che mai a' vostri onori non ruppi fede; e ancora li priego che essi sieno a voi più prosperevoli che a me non sono stati».

 

E dicendo Biancifiore queste parole, il siniscalco su un alto cavallo, con un bastone in mano, sopravenne, e dando su per le spalle a' sergenti che la menavano, e a lei disse:

 

«Via avanti, non bisognano al presente queste parole: priega per te, non per loro».

 

Onde Biancifiore piangendo bassò la testa, andando oltre sanza più parlare. Il re e la reina, che quelle parole aveano udite, alquanto più che l'usato modo costretti da pietà, cominciarono a lagrimare: e in tanto ne dolfe alla reina, che molto si pentì del malvagio consiglio che al re donato avea, e volentieri avrebbe tutto tornato adietro, se con onore del re e di lei fare l'avesse potuto. I sergenti tiravano forte e vituperosamente Biancifiore verso la Braa, ove il fuoco apparecchiato già era; e ella che del cospetto dello iniquo re s'era piangendo partita, andava col capo basso, pianamente dicendo: "Oimè, Florio, ove se' tu ora? Deh, se tu m'amassi come tu già m'amasti e come io amo te, e sapessi che la mia vituperevole morte mi fosse sì vicina, che faresti tu? Certo io credo che tu porteresti grandissimo dolore: ma tu non m'ami più. Io conosco veramente il tuo amore essere stato fallace e falso; che se perfetto e buono fosse stato, come è stato il mio verso di te, niun legame t'avrebbe potuto tenere a Montoro, che almeno non avessi al mio soccorso cercato alcuno rimedio, volendo sapere la cagione della mia morte da me, se lecita è o no; o solamente saresti venuto a vedermi inanzi ch'io morissi, mostrando che della mia morte portassi gravissimo dolore. Oimè, che tu forse aspetti che io il ti mandi a dire, ma tu non pensi com'io posso, che non che mandare a dirtelo mi fosse lasciato, ma una picciola scusa non è voluta ascoltare da me, né consentito che ascoltata sia; avvegna che tu il sai, né ti potresti scusare che tu nol sapessi, però che, poi che io misera fui tratta di prigione, io ho tacitamene udito ragionare a molti che il duca e Ascalione per non vedere la mia morte se ne sono venuti costà, e so che essi t'hanno contato tutto il mio disaventurato caso, come coloro che 'l sanno interamente. Dunque perché non mi vieni ad aiutare? Chi aspetti tu che si lievi in mio aiuto, se tu non vi ti lievi? Forse tu dubiti d'aiutarmi, dicendo: "Ella muore giustamente: leverommi io a volere difendere la ingiustizia?". Certo tu se' ingannato, che non che gli uomini ma i bruti animali pare che ne parlino che la morte ch'io vo a prendere m'è ingiustamente data, e tu me ne se' principale cagione. E se pur giustamente la ricevessi, pensando al grande amore che io t'ho sempre portato, non mi dovresti tu ragionevolmente aiutare e difendere da sì sozza morte, acciò che la gente non dicesse: "Colei, cui Florio amava cotanto, fu arsa"? E ancora ho udito affermare ad alcuni che per niuna altra cosa si partì Ascalion di qua, se non per venirloti a dire. Ma quando egli mai non te l'avesse detto, il mio anello, il quale io ti donai quando da me ti partisti, non te lo dee aver celato, ma manifestamente col suo turbare ti dee aver mostrato le mie avversità; e credo che egli, del mio aiuto più sollecito di te, già te l'abbia mostrato. Ma io dubito che tu negligente al mio soccorso ti stai costà, forse contento d'abbracciare o di vedere alcun'altra giovane, e, dimenticata me, hai de' miei impedimenti poca cura. Onde io, dolorosa, sanza conforto per te mi morrò, avvegna che uno solo ne porterà l'anima mia agl'infernali iddii, o altrove che ella vada, che io veggio manifestamente ad ogni persona dolere della mia morte, e dire che io muoio per te, e per altra cosa no. Ma se gl'iddii mi volessero tanta grazia concedere, ch'io ti potessi solamente un poco vedere anzi la mia morte, molto mi sarebbe a grado, e il morire meno noioso. Dunque, o dispietato, che fai? Deh, vieni solamente a porgermi questa ultima consolazione, se l'aiutarmi in altro t'è noia". Queste e molte altre parole andava fra sé dicendo Biancifiore, menata continuamente con istudioso passo alla sua fine. Niuno era in Marmorina tanto crudele che di tale accidente non piangesse, e l'aere era ripieno di dolenti voci. Ma ciascuno, non potendola più oltre che 'l piangere mostrare che di lei gli dolesse, dicea:

 

«Gl'iddii ti mandino utile e tostano soccorso, o dopo la tua morte alloghino la tua graziosa anima nella pace de' loro regni».

 

E giunti i sergenti al misero luogo dove era il fuoco acceso e ragunato infinito popolo per vedere, il siniscalco fece fare grandissimo cerchio, acciò che sanza impedimento i sergenti potessero il loro uficio fare. Ma a Biancifiore corse agli occhi molto di lontano i due cavalieri, che già a lei s'avvicinavano per la sua difesa: e sanza sapere più avanti di loro essere che gli altri che quivi erano, imaginò che l'uno di costoro fosse Florio, il quale quivi alla diliberazione di lei fosse venuto. Per la qual cosa, ricordandosi della 'mpromessa della santa dea, alquanto il naturale colore le ritornò nel viso, e cacciando da sé alquanto di paura, s'incominciò a riconfortare e a prendere speranza della sua salute.

 

 

[55]

 

Florio e Ascalion, pervenuti al tristo luogo per grande spazio avanti che il giorno apparisse, affannati per lo perduto sonno, vaghi di riposarsi, Florio perché era giovane e non uso d'alcuna asprezza, e Ascalion per lunga età già tutto bianco, smontati ciascuno del suo cavallo, e legatolo a uno albero, dissero:

 

«Qui alquanto ci riposiamo, infino a tanto che il nuovo giorno appaia».

 

E cavatisi gli elmi e messisi gli scudi sotto il capo, cominciarono soavemente a dormire ciascuno di loro.

 

 

[56]

 

O Florio, or che fai tu? Tu fai contro all'amorose leggi. Niuno sonno si conviene al sollecito amadore. Deh, or non pensi tu che cosa è il sonno, e come egli sottilmente sottentra ne' disiderosi occhi e negli affannati petti? Or ove sono fuggite le sollecite cure, che stringevano il tuo animo poco avanti? Ora elli ti soleva essere impossibile il dormire sopra i dilicati letti: ora come con l'armi indosso sopra la dura terra ti se' addormentato? Credi tu forse Biancifiore aver tratta di pericolo perché tu sii armato? Ella è ancora in quel pericolo che ella si fu avanti che tu t'armassi. Ma forse tu credi il sonno a tua posta cacciare da te: ma pensa che tu dormendo niuna signoria hai: adunque porre non gli puoi termine, ma egli a sua posta si partirà. E se alquanto ti tiene più che a Biancifiore non bisogna, a che sarà ella? Certo alla morte! Forse tu ti fidi che gl'iddii ogni volta ti deggiano con nuovi sogni destare? Forse non ti desteranno; e se ti destano, che grado alla tua sollecitudine, più tosto da dire pigrizia? Venus ha infino a qui fatto il suo dovere: se tu a quello ch'ella t'ha detto sarai pigro, ella si riderà di te, e terratti vile, e scherniratti con dovute beffe. Deh, come tu male, se tu soperchio dormi, avrai adoperata la ricevuta spada! Ora non ti stringe amore? Or non t'è a mente Biancifiore? Ogni sollecitudine è testé da te lontana! Ma la misera Biancifiore, forse già fuori della cieca prigione, ode la non giusta sentenza data contro di lei, o forse è vilmente menata allo acceso fuoco; e ripetendo tutte quelle parole che a lei si convengono verso di te dire, va piangendo. Or s'ella muore, che varrà la tua vita? Ella si potrà più tosto dire ombra di morte. Ora se Biancifiore sapesse che un poco di sonno, sopravenuto ne' tuoi occhi, t'avesse fatto dimenticare li suoi affanni, or non avrebbe ella cagione di non amarti già mai, ma degnamente odiarti? E s'ella morisse, potendola tu aiutare, gran vergogna ti sarebbe, e veramente mai viver lieto non dovresti. Dunque levati su, non vinca il sonno la debita sollecitudine, però che mai nullo pigro guadagnerà i graziosi doni.

 

 

[57]

 

Nel piccolo spazio che Florio quivi adormentato stette, gli fu la fortuna molto graziosa, però che a lui parea, così dormendo, con le sue forze avere liberata Biancifiore da ogni pericolo, e con lei essere in un piacevole giardino, pieno d'erbe e di fiori, e di varii frutti copioso, allato a una chiara fontana coperta e circuita da giovanetti albuscelli, in maniera che appena i chiari raggi del sole vi potevano trapassare. E quivi gli parea con lei sedere con due strumenti in mano sonando: e cantando amorosi versi, insieme si traevano allegra festa, talora recitando i loro fortunosi casi, e tal volta disiderosamente gli pareva abbracciar lei, e ch'ella abbracciasse lui, e dessorsi amorosi baci. E già non lo allegrava tanto la gioiosa festa, quanto il parergli averla tratta di tanto pericolo, in quanto ella medesima gli avea nel sogno narrato ch'era stata. E così Florio, che dormendo disiderava di non dormire, si stava, quando il giorno s'incominciò alquanto a rischiarare. Allora l'altissimo prencipe delle battaglie, sollecitato dalla sua amica, discese del suo cielo, e sopra un rosso cavallo, armato quanto alcun cavaliere fosse mai, sopragiunse a costoro; e ismontato da cavallo prese per lo braccio Florio, che, ancora dormiva, e disse:

 

«Ahi, cavaliere, non dormire, leva su: vedi colui, il cui figliuolo seppe sì mal guidare l'ardente carro della luce, che ancora si pare nelle nostre regioni, che già co' suoi raggi ha cacciate le stelle!».

 

Allora Florio, tutto stupefatto, subitamente si dirizzò in piè guardandosi dintorno, e forte si maravigliò, quando vide il cavaliere, che chiamato l'avea, che della rossa luce di che era coperto tutto parea che ardesse, e disse:

 

«Cavaliere, chi siete voi che queste parole mi dite e che m'avete il dolce sonno rotto?».

 

«Io sono guidatore e maestro delle celestiali armi - rispose Marte - e insieme sono in cielo iddio con gli altri, e sono qui venuto al tuo soccorso, però che novello cavaliere se' entrato sotto la mia guida. Non dubitare, fatti sicuro, e te' questo arco con questa saetta: niuno tuo nimico ti sarà sì lontano, che con questa non l'aggiunghi, solamente che tu il vegga: folle è chi l'aspetta, ardito chi la saetta, e iddio è chi le fabrica; però tieni caro e l'uno e l'altro, acciò che donandoli non te ne avvenisse come alla misera Pocris, la quale molto più lunga vita aspettava, se guardata avesse la saetta che donò a Cefalo. E quella spada, che la mia carissima amica ti recò, non dispregiare, ché niuna arme, fuori che le nostre, è che a' suoi colpi possa resistere. L'ora s'appressa che noi dobbiamo cavalcare; chiama il tuo compagno, e andiamo».

 

 

[58]

 

Di questo cavaliere si maravigliò molto Florio, però che oltre alla misura degli uomini grandissimo il vedea, ferocissimo nel viso, e tutto rosso, con una grandissima barba, e sì lucente, che appena potea sostenere di mirarlo. Ma udite le sue parole, rallegratosi molto di tale aiuto, quale era il suo, bassatosi in terra gli s'inginocchiò davanti, dicendo:

 

«O sommo iddio, sempre sia il tuo valore essaltato, com'è degno; quanto per me si può, tanto più ti ringrazio del caro e buono arco che donato m'hai, e della tua compagnia, la quale a me indegno t'è piaciuto di farmi in questa necessità. Per che io ti priego che tu, come promesso hai, così al mio aiuto sii avvisato in non abandonarmi, acciò che io, tornando a Montoro con l'acquistata vittoria, le mie armi nel tuo santissimo tempio divotamente doni».

 

E questo detto, si dirizzò in piè, e chiamato Ascalion, disse:

 

«Cavalchiamo, che tempo è, e a me pare già vedere empiere il tristo luogo di molta gente, e parmi vedere l'accese fiamme risplendere in mezzo di loro».

 

Ascalion sanza indugio si levò, e vide ch'egli dicea vero. Allora messisi gli elmi e presi gli scudi e le lance, montarono a cavallo seguendo Marte, che avanti loro cavalcava, verso quella parte dove Biancifiore dovea essere menata. Ascalion, che a Florio vedea portare il forte arco, disse:

 

«O Florio, e chi t'ha donato questo arco, poi che noi venimmo qui?».

 

«Certo - rispose Florio - l'alto duca delle battaglie, che qui davanti a noi cavalca, poco fa, dormendo io, mi chiamò, e donommi questo arco e questa saetta, e dissemi che noi cavalcassimo, allora che io ti chiamai».

 

Disse Ascalion:

 

«Dove è quel duca che tu di' che 'l ti donò? Io non veggio davanti a noi se non uno splendore molto vermiglio, del quale io t'ho voluto più volte domandare se tu il vedevi tu».

 

Disse Florio:

 

«Quegli è desso; io veggo lo splendore e lo iddio che dentro vi dimora».

 

Allora disse Ascalion:

 

«Ben ti dico che ora veggo che gl'iddii t'amano, e che tu dei pervenire a grandissimi fatti. Quale vuo' tu della tua futura vittoria più manifesto segnale? Certo quella fiamma che apparve a Lucio Marzio sopra la testa, aringando elli a' disolati cavalieri in Ispagna per la morte di Publio Gneo Scipione, non fu più manifesto segno del futuro triunfo. Né quella ancora che apparve a Tulio, ancora picciolo fanciullo, dormendo, nel cospetto di Tanaquila, fu più manifesto segnale del futuro imperio, che questo sia della diliberazione di Biancifiore. Adunque confortati e prendi vigoroso ardire, seguendo le vestige del forte iddio. E ora ciò che stanotte mi dicesti, sanza dubbio ti credo, ben che infino a qui molto dubitato n'abbia che vere non fossero le tue parole».

 

 

[59]

 

Così parlando e seguendo il celestiale cavaliere, pervennero al luogo dove le calde fiamme erano accese; e passati nel gran cerchio che il siniscalco avea già fatto fare dintorno al fuoco, si fermarono per vedere se alcuno dicesse loro alcuna cosa. Ciascuno che nel piano era, veduta questa rossezza nel piano subitamente venuta, e non sappiendo che si fosse, dubitava, e niuno ardiva d'appressarsi; ma chi nel piano entrava, non sappiendo di che, avea paura. Ma il siniscalco, che con rivolta redina avea ripreso il secondo cerchio maggiore per dare maggiore spazio a' sergenti, veduta la nuova luce, cominciò ad aver paura, molto in sé maravigliandosi e dubitando non questo fosse alcun segnale che gl'iddii avessero mandato in significanza della salute di Biancifiore. Ma pure per non parere meno che ardito e per non isgomentare gli altri, passò avanti con non più sicuro animo che Cassio in Macedonia contra Ottaviano, veduta la figura di Cesare vestita di porpore venire contro a lui, tanto che pervenne ad esso sanza far motto, e a' due cavalieri che appresso gli stavano, i quali Biancifiore molto di lontano avea veduti, e' con rabbiosa voce disse:

 

«Signori, traetevi adietro».

 

Allora Marte, rivolto a Florio, disse:

 

«O giovane coperto delle nuove armi, ecco colui il quale tu dei oggi recare a villana fine; questi fia campione contra la verità: e veramente ha meritato ciò che da te riceverà, però che egli è colui che mise in effetto l'ordinato male da' tuoi parenti: rispondigli, né per lui di questo luogo ti muovere».

 

Allora Florio si trasse avanti con tanta fierezza, quanta se quivi uccidere l'avesse sanza indugio voluto, e disse:

 

«Cavalier traditore, né tu né altri mi farà di qui mutare, più che mi piaccia».

 

Il siniscalco, crucciato e impaurito per la compagnia che con lui vedea, si tirò indietro con intendimento di tornargli adosso con più compagni; ma Florio, alzata la testa, e rimirando il piano, vide Biancifiore assai presso del fuoco, già da alcuno sergente presa per volerlavi gittare; e vedendola Florio vestita di nero, colei che solea essere perfetta luce del suo cuore, e vedendo i begli occhi pieni di lagrime, e i biondi capelli sanza alcuno maestrevole legamento attorti e avviluppati al capo, e le dilicate mani legate con forte legame, e lei in mezzo di vile e disutile gente, incominciò per pietà sotto il lucente elmo il più dirotto pianto del mondo, dicendo:

 

«Oimè, dolcissima Biancifiore, mai non fu mio intendimento che nel mio padre tanta di crudeltà regnasse, che verso di te potesse men che bene adoperare, né mai credetti vederti a tal partito. Ma unque gli iddii non m'aiutino, se tu non se' da me aiutata, o io insieme teco prenderò la morte, o tu e io insieme lietamente viveremo».

 

E queste parole fra sé dette, ferì il cavallo degli sproni fieramente, rompendo la calcata gente, la quale già per la partita del siniscalco aveano riempiuta l'ampiezza del fatto cerchio da lui; e rifatto col poderoso cavallo nuovo e maggiore spazio, comandò a' sergenti, che già Biancifiore voleano gittare nel fuoco, che incontanente sciogliendole le mani la dovessero lasciare, né più avanti toccarla, per quanto il vivere fosse loro a grado. Egli fu ubidito sanza dimoro; e i sergenti per tema tutti indietro si tirarono. Allora Florio rivolto a lei con alta voce disse:

 

«Giovane damigella, fugga da te ogni paura, ché gl'iddii, pietosi di te, vogliono che io ti difenda: dimmi qual sia la cagione per che il re t'ha fatta giudicare a sì crudele morte, come è questa che apparecchiata ti veggio, ché io ti prometto, che ragione o non ragione che il re abbia, infino che i miei compagni e io avremo della vita, per amore di Florio, cui io amo quanto me medesimo, e per amor della tua piacevolezza, ti difenderemo».

 

 

[60]

 

Vedendosi Biancifiore confortare dal cavaliere, lasciata da' sergenti, alzò il viso con gli occhi pieni di lagrime, e dopo uno amaro sospiro così disse:

 

«O cavaliere, chi che tu sii, o mandato dagl'iddii in mio aiuto o no, come può egli essere che occulto ti sia il torto che fatto m'è? Oh, e' pare che le insensibili pietre, non che gli uomini, ne ragionino, per quello che io misera n'ho potuto comprendere venendo qua; ma poi che a voi è occulto, e piacevi di saperlo, io il vi dirò. Ieri si celebrò in Marmorina la gran festa della natività del re Felice, al quale, con alquanti baroni sedendo a una tavola, io fui mandata dal siniscalco con un paone, il quale era avvelenato; e io di ciò non sappiendo niente, fatto quello d'esso che comandato mi fu, io il lasciai davanti al re, e torna'mene alla camera della reina: ove essendo ancora poco dimora ta, io fui presa e messa in prigione con grandissimo furore. E sanza volere essere in alcuno atto ascoltata, fui poco inanzi sentenziata a questa morte. Ma se a' miseri si dee alcuna fede, io vi giuro per la potenza de' sommi iddii che questo peccato io non commisi, e sanza colpa mi conviene patire la pena. Ma io vi priego, se voi siete amico di Florio, per amore del quale io credo che io sono fatta morire, che voi m'aiutiate e difendiate, acciò che io sì vilmente non muoia».

 

Florio, il quale insieme riguardava e ascoltava intentivamente Biancifiore, piangendo continuamente sotto l'elmo, e guardandosi bene che del suo pianto niuno s'avvedesse, molto disiderava di farsi conoscere; poi per l'amaestramento della santa dea ne dubitava; ma finalmente così le rispose:

 

«Bella giovane, confortati, che io ti prometto che tu non morrai, mentre che gl'iddii mi presteranno vita».

 

E alzata la visiera dell'elmo, voltato verso il gran popolo che a vedere era venuto, disse così:

 

 

[61]

 

«Signori, i quali qui adunati siete per vedere il disonesto e ingiusto strazio che di questa giovane alcuni vogliono fare, il quale, se spirito di pietà alcuno fosse in voi rimaso, dovreste fuggire di ciò vedere, a me brievemente pare, per le parole che io ho da lei intese, le quali io credo, e manifestamente appare quelle essere vere, che la sentenza data contro a lei sia, nella presenza degli uomini e degl'iddii, falsa e iniquamente data, però che ella semplicemente portò quello che comandato le fu; ma il siniscalco, il quale gliel comandò, è colui che del male è stato cagione; per la qual cagione sopra lui e non sopra costei, cade questa sentenza. E chi altro che questo ne volesse dire, o il siniscalco o altri per lui, io sono presto e apparecchiato di difendere che quello ch'io ho detto sia la verità, e in ciò arrischierò la persona e la vita, imperciò che la manifesta ragione mi stringe ad essere pietoso della ingiusta ingiuria fatta a costei; e, d'altra parte, io sono distrettissimo e caro amico di Florio, e ella per amore di lui mi priega ch'io l'aiuti e difenda nella ragione: e io così son presto di fare, e in ragione e in torto, contro a chiunque la vuol far morire, però che se altro ne facessi, molto alla cara amistà mi parrebbe fallire, e ogni uomo mi potrebbe di ciò giustamente riprendere».

 

 

[62]

 

Assai nobili uomini erano ivi presenti, e massimamente v'erano la maggior parte di quelli che vantati s'erano al paone, a' quali molto di Biancifiore dolea: i quali queste parole udendo, tutti dissero che il cavaliere dicea bene, e che ragionevole cosa era che 'l siniscalco, o altri per lui, sua ragione, contro a quelli che la contradicea, difendesse. E di ciò mandarono al re sofficienti messaggeri subitamente, contenti tutti sanza fine di tale accidente, favoreggiando Biancifiore in quanto poteano. E alcuno di quelli giudici che sentenziata l'aveano, trovandosi ivi presente, udite le parole di Florio, comandò che più avanti non si procedesse, infino a tanto che 'l cavaliere non avesse suo intendimento provato. Ma il siniscalco, che dentro di rabbiosa ira tutto si rodea, veggendo che Biancifiore aveva aiuto e che di consentimento di tutti all'opera si dava indugio, e che il cavaliere sì vituperose parole aveva dette di lui, incominciò a bestemiare quella deità che avuto avea potere d'indugiare tanto la morte di Biancifiore, e che per inanzi se ne inframettesse in non lasciarla morire; e così bestemiando si trasse avanti, e disse:

 

«Il cavaliere mente per la gola di tutto ciò che ha detto; ché Biancifiore dee ragionevolemente morire, e sì morrà ella in dispetto di lui e di Florio, per cui richiamata s'è, e di qualunque iddio la ne volesse aiutare».

 

E comandò a' sergenti che incontanente la mettessero nel fuoco, e lasciassero dire il cavaliere: che, se difendere la volea, fosse venuto avanti che la sentenza fosse data, ché omai tornare non si può ella indietro per cosa che alcuno dica. Florio si volse subito a' sergenti, dicendo:

 

«Nullo di voi la tocchi per quanto la vita gli è cara: lasciate abbaiare questo cane quanto egli vuole; se egli disidera di farla morire, venga avanti egli a toccarla».

 

Allora Massamutino, enfiato e pieno di mal talento, spronò il cavallo adosso a Florio, e disse:

 

«Villan cavaliere, chi se' tu che sì contrari la nostra potenza con sì oltraggiose parole? Poco che tu parli più avanti, io ti farò prendere e ardere con lei insieme. Via, levati di qui incontanente».

 

Florio, non potendo più sostenere, alzò allora la mano, e diedegli sì gran pugno in su la testa, che quasi cadere lo fece sopra l'arcione della sella tutto stordito; e questo fatto, rizzatosi sopra le strieve, e accostatosi a lui, preso l'avea sotto le braccia per gittarlo dentro all'acceso fuoco; ma molti furono gli aiutatori, quasi più per iscusa di loro che per buona volontà, i quali se stati non fossero, finita era quivi la rabbia del siniscalco. Ma trovandosi egli dilibero da Florio, voltate le redini del corrente destriere, avacciandosi n'andò al real palagio; e venuto nella presenza del re, vi trovò alcuni mandati da' nobili uomini che udite aveano le parole di Florio, i quali da parte loro gli recitavano l'accidente. A costoro ruppe il siniscalco il parlamento, giungendo furioso, e così disse:

 

«Ahi, signor mio, ascolta le mie parole. Là alla Braa è venuto il più villan cavaliere che unque portasse arme, insieme con un compagno, tutti armati, e dice che provare mi vuole per forza d'arme che la sentenza, da' vostri giudici data contro a Biancifiore, sia falsa, e ch'ella non debbia morire intende, e a me, che disarmato a' suoi intendimenti resistea, ha fatto villania e oltraggio; e certo ivi era presente Parmenione, Sara, e al tri uomini a voi suggetti sì com'io, i quali più tosto disaiuto che soccorso mi porsero, svergognando voi e la vostra potenza, favoreggiando Biancifiore. E il cavaliere ha detto ch'è fedelissimo e distretto amico di Florio; onde Biancifiore per parte di lui gli s'è richiamata: per la qual cosa è del tutto fermo di mai sanza battaglia non partirsi, e di scampar lei o di morire egli. Onde io vi priego carissimamente che a me voi concediate questo dono della battaglia, rinnovandomi arme e cavallo, acciò ch'io possa principalmente con la mia spada il vostro onore e intendimento servare, e appresso vendicare la ricevuta onta. Io porto speranza negl'iddii e nelle mie forze che sanza dubbio con vittoria vi menerò preso il villan cavaliere, che tanto ha oggi vostra potenza dispregiata».

 

 

[63]

 

Niente piaceano al re tali novelle, ma con dolente animo l'ascoltava, e fra sé dice: "Deh! or chi ha sì tosto a Florio queste cose rivelate, che egli sì subito soccorso mandato l' ha? E chi potrebbe essere stato amico di Florio tanto stretto, che per lui a tal pericolo si mettesse? Non so. O iddii, maladetta sia la vostra potenza, la quale non ha potuto sostenere ch'io rechi a perfezione un mio intendimento!". E poi che egli ebbe per lungo spazio rivolte per la mente le non piacevoli cose, sospirando rispose:

 

«Non so chi si sia questi che il mio intendimento s'ingegna d'impedire; ma sia chi vuole, che forse egli morrà e Biancifiore non camperà».

 

E poi soggiunse:

 

«Siniscalco, a me pare l'ora molto alta a volere combattere, e te sento oggi molto affannato, e però rimangasi per questo giorno la battaglia. Va, e fa convitare il cavaliere e onorarlo infino al mattino; poi, quando il sole con più tiepido lume ritornerà, combatterete, poi che negare non gli possiamo la battaglia».

 

«Sire - rispose il siniscalco, - in niuna maniera può oggi rimanere la battaglia, però che il cavaliere che là dimora è di sì fiero coraggio e ardimento, che con qualunque persona volesse Biancifiore toccare, converrebbe che con lui combattesse, o lei lasciasse stare; né alcuno v'è a cui della morte di Biancifiore non incresca, né che più tosto in aiuto di lei non mettesse la persona, che in suo danno dicesse una sola parola, fuori solamente io, che da' vostri piaceri e comandamenti mai non mi partii né partirò; e però se voi mi concedete che io oggi combatta, io combatterò, e se non, se io ne vorrò far venire Biancifiore alla prigione, io so che combattere mi converrà. Priegovi che adunque voi la mi concediate ora, poi che io sopra lui sono animoso».

 

 

[64]

 

Rispose allora il re:

 

«Poi ch'egli è come tu mi di', e la battaglia non si può oggi cessare, va e prendi l'arme e qualunque de' nostri cavalli più ti piace, e fa che onore acquisti con vittoria: pensa che nelle tue mani dee stare oggi la perfezione del nostro avviso, e la verità delle nostre bocche si dee con la forza del tuo braccio osservare. Ma acciò che la fortuna con non pensato infortunio il nostro intendimento non recida, se ti parrà di potere fare, comanderai a' tuoi sergenti che mentre la gente attenta dimora a vedere la vostra battaglia, che essi subitamente gittino Biancifiore nell'acceso fuoco; poi, questo fatto, della tua vittoria non ti curare guari».

 

«Questo sarà a mio potere fornito» rispose il siniscalco, e partissi da lui.

 

 

[65]

 

Prese adunque il siniscalco quelle armi e quel cavallo che migliore si credette che fosse per tornare al campo; ma la dolente Biancifiore, né campata né al tutto dannata rimasa, quivi si stava intra' due continuamente piangendo; e poco valeva che Florio, il quale dal suo lato mai non si partiva, la confortasse, posto che se saputo avesse che colui che sì pietosamente la confortava fosse stato Florio, ella avrebbe tosto mutato il doloroso pianto in amoroso riso, non curandosi del pericolo nel quale esser le parea. Ella domandava sovente:

 

«O cavaliere, che è di Florio? Quanto è che voi il vedeste?».

 

E ogni volta al nominar Florio, più forte piangea. E Florio le rispondea:

 

«Giovane donzella, in verità che la passata sera il vidi e con lui dimorai per grande spazio a Montoro, là ove io poi il lasciai faccendo sì grandissimo pianto e duolo di ciò che avvenuto t'è, che niuna persona il potea né può racconsolare. Egli caramente mi pregò che io dovessi qui sanza dimoro venire a liberarti di questo pericolo; e egli sanza fallo ci sarebbe venuto, se non che io nol lasciai, però che io credo fermamente che se egli ti vedesse in tale maniera, forte sarebbe che egli o per grieve doglia non morisse, o per quella il natural senno perdesse. Ma molto ti manda pregando che tu ti conforti per amore di lui e che tu il tenghi a mente, come egli fa te, che mai per bellezza d'alcuna altra giovane non ti pote né crede poter dimenticare».

 

Assai piacevano a Biancifiore queste parole, e molto in sé se ne confortava, e poi fra sé dicea: "Deh, chi è questo sì caro amico di Florio, che qui al mio soccorso è venuto? Or nol conosco io? Io soglio conoscere tutti coloro che amano Florio". E mentre questo fra sé ragionava, sempre guardava l'armato cavaliere nel viso, e quasi alcuna ricordanza le tornava d'averlo altre volte veduto; ma l'angoscia e la paura che per lo petto e per la mente le si volgeano, non lasciavano alla estimativa comprendere niuna vera fazione di Florio: e, d'altra parte, Florio per l'armi e per le lagrime aveva nel turato viso perduto il bel colore, il quale mai, avanti che a Montoro andasse, non s'era nel cospetto di Biancifiore cambiato. E volendolo ella domandare del nome, Massamutino apparve sopra il campo tutto armato con due compagni, ciascuno sopra altissimo destriere a cavallo, l'uno de' quali li portava uno forte scudo avanti, nel quale un leone rampante d'oro in uno azzurro campo risplendea, e l'altro una corta lancia e grossa con un pennoncello a simigliante arme: per la qual cosa la gente tutta cominciò a gridare e a dare luogo, dicendo:

 

«Ora vedremo che fine avrà l'orgoglio del siniscalco»; e questo tolse a Biancifiore con subito tremore il non potere più parlare col cavaliere. Ma Florio sì tosto come questo udì, bassata la visiera dell'elmo, disse:

 

«O giovane, fatti sicura che 'l tempo della tua liberazione è venuto»; e voltato al forte iddio e ad Ascalion, disse:

 

«O somma deità nascosa nella vermiglia luce, e tu, caro compagno, ecco il mio avversario: alla battaglia non può essere più indugio. Io vi priego che questa giovane vi sia raccomandata, sì che, mentre che io combatterò, alcuna ingiuria fatta non le fosse».

 

E dette queste parole, ripresa la sua lancia, si fermò, quivi aspettando Massamutino con sicuro cuore.

 

 

[66]

 

Massamutino non fu prima in sul campo, che egli si fece chiamare alquanti de' sergenti, quelli in cui più si fidava, e così pianamente disse loro:

 

«Sì tosto come voi vedrete che la gente starà tutta attenta a vedermi combattere col cavaliere, che difender vuole questa falsa femina e voi allora prestamente la prenderete e gitteretela nel fuoco, acciò che, se io ho vittoria, noi ce ne siamo più tosto spediti, e se io non avessi vittoria, che per la mia poca forza non perisca la giustizia».

 

I sergenti risposero che ciò sanza alcuno fallo sarà fatto. Allora il siniscalco prese lo scudo e la lancia, e cavalcò avanti tanto che davanti a Florio pervenne, a cui egli disse così:

 

«O villan cavaliere, ecco chi abasserà la tua superbia; e se tu contro alla vera sentenza, data giustamente sopra la persona di questa iniqua e vil femina qui presente, vuoi dire alcuna cosa, io sono venuto per farti con la mia spada riconoscere il tuo errore».

 

A cui Florio rispose:

 

«Iniquo traditore, la mia spada non taglia peggio che la tua, e quella gola per la quale tu menti oggi il proverà, sì come io credo; e a ciò gl'iddii m'aiutino, sì come campione e difenditore della verità, e però tra'ti adietro, e, quanto vuoi, del campo prendi, ché poi che armato se', l'offenderti non mi si disdirà».

 

 

[67]

 

Sanza più parole ciascuno si trasse adietro quanto a lui piacque, acconciandosi ciascuno per offendere l'altro. Ma certo la paura del misero Icaro, volante più alto che il mezzo termine posto dal maestro padre, non fu tale quando sentì la scaldata cera lasciare le commesse penne, quale fu quella di Biancifiore, quando il grande grido si levò:

 

«Ecco il siniscalco!».

 

Ella non morì, e non rimase viva: se alcuno colore l'era nel viso ritornato, o rimaso, tutto si fuggì, e quasi ogni sentimento del corpo abandonò le sue parti, e l'anima si ristrinse nell'ultime parti del cuore, e quasi la volle abandonare; ma poi che la vita tornò igualmente per tutti i membri, ella, inginocchiata in terra, incominciò a dire, alzato il viso verso il cielo:

 

«O sommo Giove, il quale con le tue mani formasti i cieli insieme con tutte l'altre creature, e in cui ogni potenza è fermamente, se tu ad alcuni prieghi ti pieghi, riguarda in me misera, e se io alcuna pietà merito, porgimi il tuo aiuto, sì come facesti al vecchio Anchise, quando sano sanza alcuno impedimento de' crudeli fuochi dell'antica Troia il traesti. Deh, non volgere i tuoi pietosi occhi in altra parte, riguarda a me: io sono tua creatura, e nella tua misericordia spero. A te niuna cosa è nascosa: tu sai se io ho avuta colpa in ciò che costoro ingiustamente m'appongono. O signor mio, aiutami e aiuta chi per me s'affanna; non si tinga oggi la spada d'Astrea nello innocente sangue. Dà vigore al mio cavaliere, il quale forse più per lei, che per amore di me o d'altrui, s'ingegna di avere vittoria; e non abandonare me misera posta in tanta tribulazione».

 

 

[68]

 

Quando i due cavalieri si furono allungati ciascuno l'uno dall'altro quanto a loro parve, e voltate le teste de' cavalli con presta mano l'uno verso l'altro, allora s'accostò Marte a Florio, e disse:

 

«Giovane cavaliere, qui si parrà quanto sia il valore del tuo ardito cuore: fa che tu seguiti nelle tue battaglie gli amaestramenti del tuo compagno».

 

E questo detto, con la sua mano gli alzò la visiera dell'elmo, e alitogli nel viso, e poi gliele richiuse, e acconciandogli in mano la forte lancia, disse:

 

«Muovi, che già il tuo nemico è mosso».

 

Florio sospirando riguardò verso quella parte dove Biancifiore dimorava, e appresso ferì il corrente destriere con i pungenti sproni, dirizzandosi verso Massamutino, che inver di lui correndo veniva con la lancia bassata. Ma già non parve alla circustante gente che un cavaliere si movesse, ma una celestiale folgore. Egli nella sua mossa fece tutto il campo risonare e fremire, e giugnendo sopra il siniscalco, sì forte con la sua lancia il ferì nella gola, che quella ruppe, e lui miseramente abbatté nel campo sopra la nuova erbetta, passando avanti. E appena avea ancora il colpo fornito, quando i sergenti, veggendo la gente attenta più a riguardar loro che Biancifiore, s'accostarono per voler prendere lei e farne come il siniscalco avea comandato. Ma Marte, che di ciò si accorse, sfavillando corse in quella parte, e lei nella sua luce nascose, faccendo loro impauriti tutti di quindi fuggire. Il romore fu sì grande nel campo per la caduta del siniscalco, che lui stordito fece risentire: il quale ritrovandosi in terra ancora con la sua lancia in mano sanza avere ferito, e riguardandosi intorno, e vedendo il nimico suo a cavallo tornare verso di lui, tutto isbigottì, dicendo:

 

«Oimè, or con cui combatto io? Quelli non mi pare uomo: voglio io provare le forze mie con gl'iddii? Già mi manifestò il cuore stamane, incontanente che io vidi la vermiglia luce, che quello era segno di soccorso divino a Biancifiore. Io veggio costui che d'iniquità o d'altro arde tutto nel primo aringo: or che farà egli quando più sarà riscaldato nella battaglia? S'egli è iddio, io non gli potrò resistere; s'egli è uomo, molto mi sarà duro alla sua fierezza contrastare. Volontieri vorrei di tale impresa esser digiuno, ma più non posso».

 

E così dicendo, prestamente si dirizzò, e volentieri si saria partito se potuto avesse; e, traendo fuori la spada, disse:

 

«Faccino di me gl'iddii che loro piace: io pur proverò s'egli è così fiero con la spada in mano come con la pungente lancia, avanti che io, sanza aver bagnata la terra del mio sangue, mi voglia vituperosamente chiamare vinto».

 

In questo Florio s'appressò verso di lui e disse:

 

«Cavaliere, certo mala pruova ci fa il tuo orgoglio, e già del primo assalto stai male».

 

Disse il siniscalco:

 

«Niente sto peggio di te, se io fossi a cavallo; ma già questo vantaggio non avrai tu da me».

 

E questo dicendo, subitamente alzò la spada per ferire Florio sopra la testa, ma il colpo fu corto e discese sopra il collo del buon cavallo, al quale niuna resistenza valse che non partisse la testa dal busto, e cadde morto. Florio, vedendo il colpo, saltò tantosto a terra del cavallo, e acceso d'ira, tratta fuori la celestiale spada, andò verso di lui, e sì forte col petto l'urtò, che fatto il credette avere cadere; ma egli forte si ritenne pettoreggiando lui, non lasciandoselo da quella volta inanzi più accostare, ma ferendolo continuamente di gravi e spessi colpi. Florio ricevea sopra il rilucente scudo le molte percosse, quasi lui poco o niente ferendo; ma, stando sempre a riguardo, intendea di volere tutti i suoi colpi in uno recare, acciò che per molto ferire la celestiale spada non fosse avvilita. E quando luogo e tempo gli parve, avvisandolo in quella parte nella gola là ove la lancia avea le armi guastate, alzato il braccio, sì forte il ferì, che alcuna arme non gli giovò che egli non gli ficcasse la spada assai nelle nude carni: e se il colpo fosse stato traverso, come fu diritto, oppinione fu di tutti che tagliata gli avrebbe la testa. Per questo colpo cadde il siniscalco, e tutti fermamente credettero che egli fosse morto: per la qual cosa il romore si levò grande:

 

«Morto è il siniscalco, e liberata è Biancifiore»; e di ciò tutti rendeano grazie agl'iddii e faceano festa. Mentre il gran romore si facea, il siniscalco, che per quel colpo morto no, ma istordito era, si dirizzò tacitamente, e salito sopra un cavallo, il quale apparecchiato gli fu, incominciò a fuggire. Ma Florio, che verso Biancifiore se n'era andato, voltato per lo romore che la gente gli facea dietro, vedendolo fuggire, quasi niente gli parve avere fatto, però che morto il credeva avere lasciato: allora mise mano al suo arco, un poco in se medesimo turbato, e postavi la saetta, l'aperse, saettandogli appresso, e disse:

 

«Sanza nostro affanno questa ti giugnerà più tosto che tu non credi».

 

E lui fuggente ferì di dietro nelle reni: niuna arme fece alcuna resistenza a quel colpo, ma passando dentro, mortalmente il piagò. Onde il siniscalco, sentendo il duolo, quivi si fermò, dove Florio tutto a piè venuto il prese per la irsuta barba e tirandolo villanamente a terra del cavallo, infino all'acceso fuoco, nel cospetto di Biancifiore, cui Marte avea già della sua luce tratta, lo strascinò, insanguinando il piano con le sue piaghe; al quale, quivi giunto, disse:

 

«Malvagio e iniquo traditore, se tu vuoi a noi di te porgere alcuna pietà, narra davanti a tutto questo popolo in che maniera il veleno, del quale questa innocente giovane fu accagionata, fu mandato davanti al re».

 

A cui il siniscalco così rispose:

 

«Poi che gl'iddii v'hanno questa vittoria conceduta, e piace loro che la verità sia manifesta, io, la cui vita è nelle vostre mani, avvegna che poca rimasa me ne sia, il vi dirò come io potrò. Fatemi dirizzare in piè e sostenere ad alcuni, acciò che io stando alquanto alto possa da tutti essere udito e veduto».

 

Fecelo Florio sostenere a' suoi sergenti medesimi, e egli così incominciò a dire:

 

 

[69]

 

«Egli è vero, o signori, che ancora non ha gran tempo, io amai sopra tutte le cose del mondo Biancifiore, e amandola molto, pregai il re, mio naturale signore, che gli piacesse di congiungerla meco per matrimonial legge, il quale liberamente mi promise di farlo; ma poi dicendo ad essa che me per marito donare le volea, ella rispose che sì vile uomo com'io era mai a suo potere non l'avrebbe, e che da ciò la dilungassero gl'iddii; e poi piangendo, gittandoglisi a' piedi il pregò che gli piacesse che egli non la mi desse: onde egli mosso a pietà di lei, che come figliuola l'amava, disse: "Non piangere, che io nol ti donerò". Io, risappiendo queste cose, molto mi turbai, e quello amore ch'io le portava si convertì in odio, e sempre pensai come io vituperosamente la potessi o far morire o far che cacciata fosse; onde iermattina celebrandosi la gran festa della natività del re, io feci cuocere e segretamente avvelenare quel paone, il quale io poi a lei feci portare alla real mensa; e questo feci acciò che ella venisse a questa morte, dalla quale questo cavaliere vincendo l'ha scampata».

 

 

[70]

 

Guardossi assai il siniscalco di non dire alcuna cosa del re, però che campare credea, ché non volea rimanere nella disgrazia sua; e di ciò fu ben contento Florio, che la nequizia del suo padre non fosse sì manifestamente saputa. Ma sì tosto come Massamutino tacque, ogni gente cominciò a gridare:

 

«Muoia, muoia!».

 

E Marte, che udite avea queste cose, con alta voce, non essendo da alcuno veduto se non da Florio, disse:

 

«Sia questa l'ultima ora della sua vita: gittalo in quel fuoco ove egli fatta avea giudicare Biancifiore, acciò che la giustizia per noi non patisca difetto. Di così fatti uomini niuna pietà si vuole avere».

 

Florio, udita questa voce, ripresolo per la barba, il gittò nel presente fuoco. Quivi con grandissime grida e con grieve doglia finì il siniscalco miseramente la sua vita ardendo.

 

 

[71]

 

Fu da molti la novella portata con lieto viso al re Felice della morte del siniscalco e della liberazione di Biancifiore: e chi la vi portò credendolo rallegrare, e chi per lo contrario. E narrandogli molti per ordine ciò che stato era nel campo tra' due cavalieri, e ancora il miracolo della vermiglia luce, e ciò che confessato avea il siniscalco avanti la sua morte, il re in atto fece vista di maravigliarsene molto, ma gravosa e sanza comparazione noiosa gli era all'animo tal novella; ma per non scoprire ciò che infino a quell'ora avea con fermo viso tenuto celato, con atto lieto si mostrò contento di ciò che avvenuto era, e così disse:

 

«In verità che a me molto è a grado che Biancifiore sia da tal pericolo scampata, poi che colpabile non era, però che io l'amo quanto cara figliuola, avvegna che assai mi duole della morte del mio siniscalco, il quale io infino a qui per leale uomo e valoroso avea tenuto. Ma poi che tanta malvagità occultamente in lui regnava, alquanto mi contento che a tal fine sia pervenuto. E se io voglio ben considerare tutto ciò che da voi m'è stato detto, io veggo manifestamente me essere molto tenuto agl'iddii nostri; e similemente conosco me da loro molto essere amato, veggendo che essi inver di me tanta benivolenza dimostrano, che essi non sofferano che nella mia corte alcuna iniqua cosa sanza punizione si faccia, per la quale la mia etterna fama potesse da alcuno ragionevolmente essere contaminata».

 

 

[72]

 

Avendo Florio gittato il siniscalco nelle ardenti fiamme, egli fece Biancifiore montare sopra un bel palafreno. E accompagnando il grande iddio e egli e Ascalion con molti altri compagni verso il reale palagio, ella ancora quasi paurosa, che appena potea credere essere fuori del tristo pericolo, si voltò tutta tremante a Florio, e disse:

 

«O signor mio, or dove mi menate voi? Voi m'avete tratta d'un pericolo, e riportatemi in luogo che è pieno di molti. Deh, perché volete voi avere perduta la vostra fatica? Io non sarò prima là, che, come voi vi sarete partito, io mi sarò a quel pericolo che io m'era quando io molto di lontano vi vidi, avvisando che in mio aiuto foste venuto. Deh, se voi siete così amico di Florio come voi dite, e come l'operazioni dimostrano, perché non me ne menate voi a lui a Montoro? Io non dubiterò di venir con voi ovunque voi mi menerete, solo ch'io creda trovar lui. Egli sarà più contento che voi mi rendiate a lui, che se voi mi rendete al suo padre».

 

A cui Florio rispose:

 

«Piacevole donzella, non dubitare: gl'iddii e Florio vogliono che tu sii renduta ora al re Felice, acciò che del suo fallo egli si riconosca; ma renditi sicura che più da lui tu non avrai altro che onore. E io, quando tornerò a Montoro, farò sì che Florio verrà tosto a vederti, o egli manderà per te».

 

E mentre che così ragionando andavano, pervennero al reale palagio in Marmorina. Quivi smontati nella gran corte, Florio prese Biancifiore per mano, e così la menò nella sala davanti allo iniquissimo re, che ancora parlava con coloro che raportate gli aveano le novelle della morte del siniscalco. Il quale, vedendogli venire, si fece loro incontro, a cui Florio disse:

 

«Sire, io vi raccomando questa giovane, la quale io, con la forza dell'iddii e con la mia, della iniqua sentenza ho liberata; e per parte di Florio, per amore di cui io a questo pericolo, aiutando la ragione, mi sono messo, ve la raccomando e vi priego che più sopra di lei non troviate cagioni che faccino ingiustamente la morte parere giusta, come ora faceste, però che la verità pur si conosce infine, e degna infamia ve ne cresce: e appresso, quando la morte di colei, la quale innocente e giusta da tutti è conosciuta, e da voi più che da alcuno altro, cercate, insieme quella di Florio domandate: però tenetela omai più cara che infino a qui fatto non avete»; e datagliele in sua mano si tirò adietro.

 

 

[73]

 

Con lieto viso la prese il re, e abbracciatala come cara figliuola la baciò in fronte, e ella, savissima, incontanente piangendo si gittò in terra, e baciogli i piedi, e poi in ginocchie levata disse:

 

«Padre e signore mio, io ti priego che se mai in alcuna cosa ti offesi, che tu mi perdoni, ché semplicità e non malizia m'ha fatto in ciò peccare; e priegoti che del tutto dell'animo ti fugga che io in questo fallo, per lo quale condannata fui, avessi colpa: e avanti che mai tal pensiero mi venisse, mi mandino gl'iddii subitana morte. Chi fu quelli che in ciò fallì, a tutto il tuo popolo è manifesto, e però, caro padre e signore, rivestimi della tua grazia, della quale ingiustamente fui spogliata».

 

Il re la prese per la mano e fecela dirizzare in piè, e la seconda volta con segno di molto amore l'abbracciò, dicendo:

 

«Mai a me non fosti graziosa e cara quanto ora se', e però ti conforta».

 

E rivolto a Florio, disse:

 

«Cavaliere ignoto m'è chi tu sia, ma però che di' che amico se' di Florio, nostro figliuolo, e ciò per le tue opere è ben manifesto, e per amore, ché n'hai con la tua spada illuminato e fattaci conoscere la verità, la quale a' nostri occhi sanza dubbio era occulta, e hai per questa chiarezza levata da tanto e tale pericolo costei, la quale quanto figliuola amo, tu mi se' molto caro, e sanza fine disidererei di conoscerti, quando noia non ti fosse; e dicoti che a me tu hai troppo piaciuto, avendo chi il peccato avea commesso così debitamente punito, dando acerba pena allo iniquo fallo, per la qual cosa sempre tenuto ti sarò; e promettoti per quella fede che io debbo agl'iddii, che per amore di Florio e di te la giovane sempre mi fia raccomandata. E non voglio che nell'animo ti cappia che io della giudicata morte non fossi molto dolente; e certo a tutti costoro poté essere manifesto il mio viso e 'l petto pieno di lagrime, quando sentenziare la udii; e se la pietà si dovesse antiporre alla giustizia, certo ella non sarebbe mai di qua entro per sì fatta cagione uscita».

 

 

[74]

 

«A me - rispose Florio - non è al presente licito di dirvi chi io sia, e però perdonatemi; e quando vostro piacere fosse, io volentieri mi partirei co' miei compagni».

 

«Poi che sapere non posso chi tu se', va, che gl'iddii ognora in meglio ti prosperino».

 

Allora Florio piangendo guardò Biancifiore, che ancora piangea, e disse:

 

«Bella giovane, io ti priego per amor di Florio che tu ti conforti, e rimanti con la grazia degl'iddii».

 

E detto questo, e preso commiato dal re, smontò le scale, e risaliti sopra i loro cavalli, egli e Marte e Ascalion, de' quali nullo era stato conosciuto, si misero al camino. E pervenuti che furono a quel luogo dove Marte destato avea Florio, e Marte, voltato verso di lui, si fermò e disse:

 

«Omai tu hai fatto quello per che io discesi ad aiutarti; però io intendo di tornare ond'io discesi, e tu col tuo compagno ve n'andrete a Montoro».

 

Florio e Ascalion, udite queste parole, incontanente smontati da cavallo gli si gittarono a' piedi, ringraziandolo quanto a tanto servigio si convenia; e porgendogli divote orazioni, egli subitamente loro sparve davanti. Rimontarono adunque costoro a cavallo, e porgendo loro il sole chiara luce, in brieve ritornarono a Montoro.

 

 

[75]

 

Poi che pervenuti furono a Montoro, i due cavalieri, sanza alcuno romore o pompa, quanto più poterono celatamente al tempio di Marte smontarono, e passati dentro a quello fecero accendere fuochi sopra i suoi altari, ne' quali divotamente misero graziosi incensi: e fattisi disarmare, le loro armi offersero a' santi altari in riverenza e perpetuo onore del valoroso iddio. E appresso rivestiti di bianchissimi vestimenti se n'andarono al tempio di Venere, ivi molto vicino, tutti soletti; e quello fatto aprire, uccise con la sua mano un giovane vitello, le cui interiora con divota mano ad onor di Venere mise negli accesi fuochi. Le quali cose faccendo Florio, per tutto il tempio si sentì un tacito mormorio, dopo il quale fu sopra i santi altari veduta la santa dea coronata d'alloro, e tanto lieta nel suo aspetto, quanto mai per alcuno accidente fosse veduta, e con sommessa voce così cominciò a dire:

 

«O tu, giovane sollecito difenditore delle nostre ragioni, agl'iddii è piaciuto che io ti debbia porgere la corona del tuo triunfo, acciò che tu per inanzi ne' nostri servigii e nelle virtuose opere prenda migliore speranza, e più ferma fede nelle nostre parole»; e detto questo, con le propie mani presa la corona del suo capo, ne coronò Florio. Allora Florio, in sé di tanta grazia molto allegro, cominciò così a dire:

 

«O santa dea, per la cui pietà tutti coloro che a' loro cuori sentono i dardi del tuo figliuolo, come io fo, sono mitigati, quanto il mio potere si stende, tanto ti ringrazio di questo onore, il quale tu con la divina mano porto m'hai. Ma però che più la tua potenza che 'l mio valore adoperò nella odierna battaglia, io di questa corona al tuo onore ornerò i tuoi altari».

 

E questo detto, trattasi la corona della testa, sopra i santi altari con grandissima reverenza la pose, e dirizzossi; e uscito del santo tempio, niuno altro in Montoro ne rimase che da lui visitato non fosse, e onorato con degni sacrificii. La qual cosa fatta, egli e Ascalion, tornati al palagio del duca così freschi come se mai arme portate non avessero, montarono nella sala, ove trovarono il duca con molti altri, i quali tutti si maravigliavano e ragionavano quello che di Florio potesse essere, che veduto non l'aveano quel giorno. Il quale quando il duca il vide, lietamente andandogli incontro l'accolse, dicendo:

 

«Dolce amico, e dove è oggi vostra dimora stata, che veduto non v'abbiamo? Certo noi eravamo tutti in pensiero di voi».

 

A cui Florio faccendo grandissima festa disse:

 

«In verità io sono stato, e Ascalion con meco, in un bellissimo giardino con donne e con piacevoli damigelle in amorosa festa tutto questo giorno».

 

«Ciò mi piace - disse il duca, - e questa è la vita che i valorosi giovani in namorati deono menare, e non darsi in su gli accidiosi pensieri, consumandosi e perdendo il tempo sanza utilità alcuna».

 

 

[76]

 

Il re Felice, che con altro cuore avea Biancifiore da Florio ricevuta che il viso non mostrava, la menò alla reina, e disse:

 

«Donna, te', ecco la tua Biancifiore, la cui morte agl'iddii non è piaciuta. Guardala e siati cara, poi che i fati l'aiutano: forse che essi serbano costei a maggior fatti che noi non veggiamo».

 

La reina con lieto viso e animo la prese, contenta molto che diliberata era da quella morte; e fattole grandissimo onore e festa, e rivestitala di reali vestimenti, con lei insieme visitò tutti i templi di Marmorina, rendendo debite grazie e faccendo divoti sacrificii a ciascuno iddio o dea che da tal pericolo campata l'aveano. E così, avanti che al real palagio tornassero, niuno iddio sanza sacrificii rimase, se non Diana, la quale ignorantemente dimenticata aveano. Ma ritornati a' palagi, Biancifiore in quella benivolenza e grazia ritornò del re e della reina, e di tutti, che mai era stata, ognora in meglio accrescendo, con loro non mostrando che di ciò che ricevuto avea ingiustamente si curasse o ne portasse animo ad alcuno, ma ancora, sanza farne alcuna menzione o ricordanza, pianamente e benignamente si passava con tutti.

 

 

 

LIBRO TERZO

 

 

[1]

 

Ritornato Florio a Montoro, lieto per la campata Biancifiore non meno che per l'avuta vittoria, avendo ancora gli occhi alquanto della lunga sete sbramati, prendendo riposo del ricevuto affanno, incominciò a menar lieta vita, contentandosi dell'aiuto degl'iddii, il quale si vedea congiunto. E già gli parea che i fati benivoli gli fossero rivolti, ond'egli sperava tosto i suoi disiri adempiere. Adunque la sua festa era sanza comparazione in Montoro: e i cavalli che lungamente per lo suo amoroso dolore aveano negligente riposo avuto, ora inforcati da lui, e le redini tenute con maestrevole mano, correndo a diversi officii, rimettono le trapassate ore. E egli, vestito di drappi di Siria, tessuti dalle turchie mani, rilucenti dell'indiano oro, dimostra la sua bellezza coronato di frondi. Altre volte co' cani e col forte arco nelle oscure selve caccia i paurosi cervi, e nelle aperte pianure i volanti uccelli gli fanno vedere dilettevoli cacce; e spesse fiate le fresche fontane di Montoro sono da lui con diversi diletti ricercate. Niuna allegrezza gli mancava fuori solamente la sua Biancifiore, la quale gli era troppo più lontana che la speranza non gli porgea.

 

 

[2]

 

Menando Florio, per la futura speranza che lo 'ngannava, lieta vita, la non pacificata fortuna, invidiosa del fallace bene, non poté sostenere di tenergli alquanto celato il nebuloso viso, ma affrettandosi d'abreviare il lieto tempo, con questi pensieri un giorno subitamente l'assalì. Era entrato lo innamorato giovane nell'ora che il sole cerca l'occaso in un piacevole giardino, d'erbe e di fiori e frutti copioso, per lo quale andando con lento passo assai lontano a suoi compagni, vide tra molti pruni un bianchissimo fiore e bello, il quale infra le folte spine sua bellezza serbava. Al quale rimirare Florio ristette, e pareagli che il fiore in niuna maniera potesse più crescere in su, sanza essere dalle circunstanti spine pertugiato e guasto, né similemente dilatarsi, o divenir maggiore. Ond'egli incominciò a pensare e a ragionare fra se medesimo così tacitamente:

 

«Oimè, chi o qual cosa mi potrebbe più apertamente manifestare la vita e lo stato della mia Biancifiore che fa questo bianco fiore? Io veggio ciascuna punta delle circunstanti spine rivolta al fresco fiore, e quasi ognuna è presta a guastare la sua bellezza. Queste punte sono le insidie poste dal mio padre e dalla mia madre alla innocente vita della mia Biancifiore, le quali lei alquanto muovere non lasciano sanza amara puntura. Deh, misera la vita mia! Or di che mi sono io nel passato tempo, sperando, rallegrato tanto, che le infinite avversità apparecchiate a Biancifiore per me mi sieno di mente uscite? Oimè, perché dopo la disiderata diliberazione ti lasciai io al mio padre?».

 

Con queste e con altre parole malinconico molto si ritornò alla sua camera, nella quale tutto solo si rinchiuse. E quivi gittatosi sopra il suo letto, cominciò a piangere con queste voci:

 

«O bellissima giovane, sono ancora cessate le malvage insidie poste alla tua vita da' miei parenti? Morto è lo iniquo siniscalco, a te crudelissimo nimico: certo cessate dovriano essere. Ma io non credo che per la morte di colui la malizia del re sia menomata, e la mia fortuna rea credo che ti faccia spesso noia: ond'io credo che più che mai alla tua vita ne sieno poste. Oimè misero, dove ti lasciai io? Io lasciai la paurosa pecorella intra li rapaci lupi. Deh, dove lasciai io la mia Biancifiore? Tra coloro che sono affamati della sua vita, e disiderano con inestinguibile sete di bere il suo innocente sangue. Certo il comandamento della santa dea ne fu cagione, il quale volesse il sommo Giove che io non avessi osservato. Oimè, Biancifiore, in che mala ora fummo nati! Tu per me se' con continua sollecitudine cercata d'offendere perché io t'amo, e io sono costretto di stare lontano da te acciò che io ti dimentichi; ma, certo questo è impossibile, ché amore non ci legò con legame da potere sciogliere. Niuna cosa, altro che morte, non ci potrà partire, però che né noi il consentiamo, né amore vuole: anzi con più forze continuamente mi cresce nello sventurato petto, tanto che d'ogni cosa mi fa dubitare; e è cresciuto a tanta quantità, che quasi dubito che tu non m'ami, o che tu per altro non mi abandoni. O forse ancora per li conforti della mia madre, e per campare la vita, la quale con le propie braccia campai, lasci di non amarmi? Oimè, che amaro dolore mi sarebbe questo! O graziosa giovane, non dimenticar colui che mai non dimentica te: gl'iddii concedano che com'io ti porto nell'animo, tu porti me».

 

In simili ragionamenti e pensieri e pianti consumò lo innamorato giovane quel giorno e la maggior parte della notte, né potea nel suo petto entrar sonno per la continua battaglia de' pensieri e degli abondanti sospiri, i quali a' suoi sonni contrastavano. Ma dopo lungo andare, la gravata testa prese temoroso sonno; e infino alla mattina, forse con non minori battaglie nel suo dormire che essendo desto, si riposò. Oimè, quanto è acerba vita quella dello amante, il quale dubitando vive geloso! Infino a tanto che Pocris non dubitò di Celato, fu la sua vita sanza noia, ma poi che ella udì al male raportante servidore ricordare Aurora, cui ella non conoscea, fu ella piena d'angosciose sollecitudini, infino che alla non pensata morte pervenne.

 

 

[3]

 

Venne il chiaro giorno, levossi Florio; il quale per lo lieve sonno non avea dimenticati gli angosciosi pensieri, e levato, non uscì della trista camera, come era l'altre mattine usato; ma in quella stando, si tornò sopra i pensieri del dì preterito; e in quelli dimorando, il duca, che per grande spazio atteso l'avea, entrò nella camera dicendo:

 

«Florio, leva su, non vedi tu il cielo che ride? Andiamo a pigliare gli usati diletti».

 

E quasi ancora di parlare non era ristato, che, rimirandolo nel viso, il vide palido e nell'aspetto malinconico e pieno di pensieri, e i suoi occhi, tornati per le lagrime rossi, erano d'un purpureo colore intorniati: di che egli si maravigliò molto, e mutata la sua voce in altro suono, così disse:

 

«O Florio, e quale subita mutazione è questa? Quali pensieri t'occupano? Quale accidente t'ha potuto sì costringere che tu mostri ne' sembianti malinconia?».

 

Florio vergognandosi bassò il viso e non gli rispose; ma crescendogli la pietà di se medesimo, perché da persona che di lui avea pietà era veduto, cominciò a piangere e a bagnar la terra d'amare lagrime. La qual cosa come il duca vide, tutto stupefatto, ricominciò a parlare e a dire:

 

«O Florio, perché queste lagrime? Ove è fuggita l'allegrezza de' passati giorni? Qual cosa nuova ti conduce a questo? Certo se i fati m'avessero conceduta sì graziosa coronazione, quale fu quella della notabile vittoria che tu avesti, a me da altrui che da te palesata, io non credo che mai niuno accidente mi potesse turbare. Dunque lascia il piangere, il quale è atto feminile e di pusillanimo cuore, e alza il viso verso il cielo, e dimmi qual cagione ti fa dolere. Tu sai che io sono a te congiuntissimo parente, e quando questo non fosse, sì sai tu che io di perfettissima amistà ti sono congiunto: e chi soverrà gli uomini negli affanni e nelle avversità di consiglio e d'aiuto, se i parenti e i cari amici non gli sovengono? E a cui similmente si fiderà nullo, se all'amico non si fida? Di' sicuramente a me quale sia la cagione della tua doglia, acciò che io prima ti possa porgere debito conforto, e poi operando aiuto. Pensa che infino a tanto che la piaga si nasconde al medico, diviene ella putrida e guasta il corpo, ma, palesata, le più volte lievemente si sana. E però non celare a me quella cosa la quale questo dolore ti porge, però che io disidero donarviti secondo il mio potere intero conforto, e liberartene».

 

 

[4]

 

Dopo alquanto spazio Florio alzò il lagrimoso viso, e così allo aspettante duca rispose:

 

«Il dolce adimandar che voi mi fate e 'l dovere mi costringono a rispondervi e a manifestare quello ch'io credea che manifesto vi fosse. E però ch'io spero che non sanza conforto sarà il mio manifestarmivi, dal principio comincerò a dirvi la cagione de' passati dolori e de' presenti, posto che alquanto le lagrime, le quali io non posso ritenere, mi impediscano. Ne' teneri anni della mia puerizia, sì come voi potete sapere, ebbi io continua usanza con la piacevole Biancifiore, nata nella paternale casa meco in un medesimo giorno, la cui bellezza, i nobili costumi e l'adorno parlare generarono un piacere, il quale sì forte comprese il mio giovinetto cuore, che io niuna cosa vedea che tanto mi piacesse. E di questo piacere era multiplicatore e ritenitore nella mia mente un chiarissimo raggio, il quale, come strale, da arco mosso, corre con aguta punta all'opposito segno, così da' suoi begli occhi movendo termina nel mio cuore, entrando per gli occhi miei: e questo fu il principale posseditore in luogo di lei. E con ciò sia cosa che questi ogni giorno più la fiamma di tal disio aumentasse, in tanto la crebbe, che convenne che di fuor paresse, e scopersemisi allora lei non meno di me che io d'essa essere innamorata. Né questo fu lungamente occulto per li nostri sospiri, di ciò dimostratori al nostro maestro, il quale più volte con gravi riprensioni s'ingegnò ritrarre indietro quello che agl'iddii saria impossibile frastornare; ma fattolo alla notizia del mio padre venire, egli imaginò che, lontanandomi da lei, della mia memoria la caccerebbe: la quale, se per la mia bocca tutto Letè entrasse, non la poria di quella spegnere. Ma non per tanto egli faccendomi lontanare da lei, non fu sanza gran dolore dell'anima mia e di quella di Biancifiore. E in questo luogo mi rilegò in essilio, sotto colore di volere ch'io studiassi. Ma qui dimorando, e trovandomi lontano a quella bellezza in cui tutti i miei disiderii si terminano e termineranno, incominciai a dolermi, né mi lasciava il doloroso cuore mostrare allegro viso: e di questo vi poteste voi molte fiate avedere. Ora, come la mia doglia fosse manifesta al re m'è ignoto, ma egli, o per questa cagione o per altra iniquità compresa ingiustamente sopra la innocente Biancifiore, cercò d'uccider lei e nella sua morte l'anima mia: e voi foste presente al nascoso tradimento, né non vi fu occulto lei essere a vilissima morte condannata, né di ciò niente mi palesaste. Ma li pietosi iddii e il presente anello non soffersero che questo fosse; ma questi mostrandomi con turbato colore lo stato di lei, e gl'iddii ne' miei sonni manifestandolmi, mi fecero pronto alla salute d'essa, e porgendomi le loro forze, con vittoria la vita di colei e mia insiememente scampai, e poi ricevetti debita coronazione di tale battaglia, avendo già rimessa la semplicetta colomba intra gli usati artigli de' dispietati nibbi: di che io ora ricordandomi, parendomi aver mal fatto, mi doglio. E più doglie mi recano le vere imaginazioni che per lo capo mi vanno, che mi par vedere un'altra volta avvelenare il prezioso uccello, e condannare la mia Biancifiore a torto, e essere il fuoco maggiore che mai acceso. E quasi mi pare intorno al cuore avere uno amarissimo fiume delle sue lagrime, le quali tutte mi gridano mercé. Io non so che mi fare: io amo, e amore di varie sollecitudini riempie il mio petto, le quali continuamente ogni riposo, ogni diletto e ogni festa mi levano, e leveranno sempre infino a quell'ora che io nelle mie braccia riceverò Biancifiore per mia, in modo che mai della sua vita io non possa dubitare. Io non vi posso con intera favella esprimere più del mio dolore, il quale credo che più vi si manifesti nel mio viso, che nel mio parlare non è fatto. Gl'iddii mi concedano tosto quel conforto che io disidero, però che se troppo penasse a venire, così sento la mia vita consumarsi nell'amorosa fiamma come quella di Meleagro nel fatato stizzo si consumò».

 

E questo detto, perdendo ogni potere, sopra il ricco letto ricadde supino, tornato nel viso quale è la secca terra o la scolorita cenere.

 

 

[5]

 

Non poté il duca, che con dolente animo ascoltava quello che non gli era mica occulto, vedendo Florio supino ricadere sopra il suo letto, ritenere le lagrime con fortezza d'animo; ma pietosamente piangendo, si recò lo 'nnamorato giovane, a cui in vista niuno sentimento era rimaso, nelle sue braccia; e rivocati con preziosi liquori gli smarriti spiriti ne' loro luoghi, così gl'incominciò a dire:

 

«Valoroso giovane, assai compassione porto alla tua miserabile vita, tanta che più non posso, e forte mi pare a credere che vero sia che tu da amore così compreso sii come tu narri, con ciò sia cosa che amore sia sì nobile accidente, che sì vile vita non consentiria menare a chi lui tiene per signore, come tu meni; e io l'ho già provato: e massimamente avendo tu vera cagione di doverti rallegrare, come tu hai, se io ho bene le tue parole ascoltate. Tu, secondo il tuo dire, ami più ch'altra cosa Biancifiore, e similemente di' che più che altra cosa ella te ama. Adunque se tu ben riguarderai a quel che io intendo di dirti, niuno uomo maggiore festa fare dee di te, né essere, secondo la mia oppinione, più allegro, però che quello che più amando si disidera si è d'essere amato; però che, se tutte l'altre cose, che ad amore s'appartengono, sanza questa s'avessono, niuno intero bene né diletto porgere porieno, però che gli animi sarieno disiguali. Dunque questo più che gli altri amorosi beni è da tener caro. A questo acquistare suole essere agli amanti molto affanno e noia, il quale se procacciando l'acquistano, tutta la loro fatica pare loro essere terminata, o la maggior parte: e di questo è l'antica età tutta piena d'essempli. Già hai tu inteso quello che Mimaleone sostenne da Ileo per acquistare la benivolenza d'Atalanta: quante volte portò egli sopra i suoi omeri le pesanti reti, e l'altre necessarie cose alle cacce, per acquistare quella, in servigio della cruda giovane, e quanto contentamento giunse nell'animo d'Aconzio, sentendosi con inganno avere acquistato l'amore di Cidipe? Questo amore tu l'hai dirittamente. Per questo niuno affanno ti conviene durare. Niuna turbazione né malinconia dovresti avere nell'animo. E avendo questo, come tu hai, gelosia e ogni spiacevole sollecitudine dovria essere lontana da te: e là ove tu ti contristi, ti dovresti dell'acquistato bene rallegrare. Ancora ho compreso nel tuo parlare te avere gl'iddii e la virtù del tuo anello in aiuto. Or qual cosa pensi tu che contraria ti possa essere, se sì fatto aiuto hai con teco, come è quello degl'iddii, alla cui potenza niuna cosa può resistere? Lascia piangere a' miseri, alle cui sollecitudini solo il loro ingegno è rimaso aiutatore. Tu dei pensare che avendo gl'iddii cura de' tuoi bisogni, se essi non concedono che tu al presente sii con la tua Biancifiore, non è sanza gran cagione. L'uomo non sa delle future cose la verità: a loro niuna cosa si nasconde. Tu dei credere ch'essi pensano alla tua salute, e io credo sanza dubbio che questa dimora non sia sanza gran bene di te. Il loro piacere si dee pazientemente sostenere. Se elli volessero, tu saresti ora con lei; e il volere contra 'l piacer loro andare fece alla molta gente di Pompeo perdere il campo di Tesaglia, assaliti dal picciolo popolo di Cesare. Mostra ancora che molto ti dolga l'essere stata Biancifiore voluta dal tuo padre fare morire, la cagione della qual morte dubiti non sia stata il re avere saputo te dolorosa vita menare per lei, e temi forse non a simile caso ritorni: la qual cosa se ritornasse non saria maraviglia, ma ragione, con ciò sia cosa che tu conosca il tuo padre muoversi ad ira contra Biancifiore per te, che tristo per lei vivi; e tu, non come disideroso della vita di Biancifiore, ti rallegri per che ella viva, ma in pianti e in dolori consumi la tua vita per abreviare la sua. Certo non è questo atto d'amarla, ma di mortale odio è sembiante. E posto che mai nulla novità seguire le dovesse dal tuo padre per lo tuo attristarti, sì dei tu volere il bene e il conforto e l'allegrezza di lei, se così l'ami, e se ella così t'ama come tu di': le quali cose tu cerchi di torle, menando la vita che tu fai, però che tu dei credere che se questo le sarà raportato di te, ella di dolore si consumerà sentendo che tu ti dolghi. Adunque niuna cagione né ragione vuole che tu questa vita meni. Tu ami e se' amato, de' quali il numero è molto piccolo a cui questo avvegna, tu se' con l'aiuto degl'iddii, i quali hanno sempre sollecitudine della tua salute, e questo hai tu per opera veduto. Dunque confortati; e se per te non ti vuoi confortare, confortati per amor di lei e di noi, acciò che ella e noi abbiamo ragione di rallegrarci. Ben se' lontano a lei, che credo che sanza comparazione ti sia noioso; ma non si può sì dolce frutto, come è quello d'amore, gustare sanza alcuna amaritudine; e le cose disiderate lungamente giungono poi più graziose. A Penolope parea dolce appressarsi alla morte, sperando che ogni domane dovesse tornare Ulisse prima da Troia, e poi non sappiendo da che luogo. Pensa che tu non sarai tutto tempo qui, né sanza lei. Se io fossi in tuo luogo, io userei per più sano consiglio il simulare. Io mostrerei, faccendo festa, che più di Biancifiore né mi calesse né me ne ricordassi, e ristrignerei l'amorose fiamme dentro con potente freno. Forse, così faccendo, il tuo padre si crederebbe che dimenticata l'avessi, e concederebbeti più tosto il tornare a rivederla. Quello che detto t'ho tu hai udito, e io te l'ho detto sì come colui che in simil caso il vorrei da altrui udire; ma non per tanto se altro consiglio più savio vedessi arditamente lo scuopri a me, ché io non intendo di contradirti né partirmi mai dal tuo piacere. Priegoti quanto più posso, come congiunto parente e vero amico, che da te ogni paura e pensiero cacci, perciò che delle tue dubitazioni di lieve accertare ci possiamo. E i pensieri, come di sopra t'ho detto, non dei avere: e però levati su, e vinca il tuo valore i non dovuti pensieri i quali t'occupano per lo solingo ozio. Piglia alcuni diletti, come per adietro abbiamo già fatto, acciò che in quello né i pensieri t'assaliscano, né la tua vita sì vilmente si consumi. In questo mezzo spero che gl'iddii per la loro benignità provederanno graziosamente a porre debito fine a' tuoi disiderii, forse ora da te né da alcuno già mai pensato».

 

 

[6]

 

Piacque a Florio assai il fedele consiglio del duca, e così, levata la testa, sospirando rispose:

 

«Carissimo parente, questa gentil passione d'amore non può essere che alcuna volta i più savi, non che me, quando le sono suggetti come io sono, non faccia tenere simile vita: e però di me non vi maravigliate, ma crediate che io sia tanto innamorato quanto mai giovane niuno fosse o potesse essere. E ciò che voi m'avete narrato, conosco apertamente esser vero; e però, disposto a seguire il vostro consiglio in quanto io potrò, mi dirizzo: andiamo, e facciamo ciò che voi credete che vostra e mia consolazione sia».

 

E detto questo, dirizzati amenduni uscirono della camera; e saliti sopra i portanti cavalli, andarono con gran compagnia ad una ordinata caccia, ove quel giorno assai festa ebbero e allegrezza.

 

 

[7]

 

Dico che molti giorni in sì fatta maniera faccendo festa, Florio ricoperse il suo dolore, avvegna che sovente a suo potere s'ingegnava di star solo, acciò che egli potesse sanza impedimento pensare alla sua Biancifiore. E quando avveniva che egli solo fosse in alcuna parte, incontanente incominciava ad imaginare d'essere col corpo colà ov'egli con l'animo continuamente dimorava. Egli imaginava alcuna volta avere Biancifiore nelle sue braccia, e porgerle amorosi baci, e altretanti riceverne da lei, e parlare con essa amorose parole, e essere con lei come altre volte era stato ne' puerili anni. E mentre che in questo pensiero stava, sentiva gioia sanza fine; ma come egli di questo usciva, e ritornava in sé e trovavasi lontano ad essa, allora si mutava la falsa gioia in vero dolore, e piangea per lungo spazio ramaricandosi de' suoi infortunii. Poi ritornando al pensiero, tal fiata si ricordava del tristo pianto che veduto l'avea fare nella bruna vesta temendo l'acceso fuoco, quando egli sconosciuto si mise in avventura per campare lei, e poi si dolea d'averla renduta al padre e di non aversi almeno fatto conoscere a lei, acciò che egli l'avesse alquanto consolata e fattala più certa dell'amore che egli le portava. E molte fiate fra sé si chiamava misero e di vil cuore, dicendo:

 

«Come è la mia vita da biasimare, pensando che io amo questa giovane sopra tutte le cose del mondo, e per questo amore vivo in tanta tribulazione lontano da lei, e non sono tanto ardito che io abbia cuore d'andarla a vedere, e lascio per paura d'un uomo, il quale più tosto a sé che a me offenderebbe. Perché non vo io, e entro nelle mie case, e rapiscola, e menonela qua su meco? E avendola, ogni dolore, ogni gelosia, ogni sospetto fuggirà da me. Chi sarà colui che ardito sia di biasimare la mia impresa o di contrariarla? nullo: anzi ne sarò tenuto più coraggioso, là dove io debbo ora esser vilissimo riputato. Sono io più vile di Paris, il quale non a casa del padre, ma de' suoi nimici andò per la disiderata donna, e non dubitò d'aspettare a mano a mano Menelao, sollicito richieditore di quella? Io non debbo aver paura che questa da alcuno radomandata mi sia, né con ferro né con altra maniera. Il peggio, che di questo mi possa seguire, sarà che al mio padre ne dorrà: e se ne gli duole, e' ne gli dolga! Io amo meglio che egli si dolga, che io di dolore muoia. E pur quand'egli vedrà che io abbia fatto quello di che egli si guarda, la doglia gli passerà, se passare gli vorrà, se non, sì l'ucciderà: che già l'avesse ella ucciso! e poi non ne sarà più. Io il voglio fare: cosa fatta capo ha. E posto che egli per questo si volesse opporre alla vita di Biancifiore, egli s'opporrà ancora alla mia: niuna cosa opererà verso di lei, che io come lei nol senta. Se egli per forza la mi vorrà torre, e io con forza la difenderò. Io non sarò meno debole d'amici e di potenza di lui: e quando egli pur fosse più forte di me, puommi egli più che cacciare del suo regno? Se egli me ne caccia, io starò in un altro. Il mondo è grande assai: l'andare pellegrinando mi fia cagione d'essercizio. Elli fu a Cadmo cagione d'etterna fama l'andar cercando Europa e non trovarla; a Dardano e a Siculo similemente il convenirli partire del loro regno fu cagione di grandissime cose. Io il pur voglio fare. Peggio ch'io m'abbia non me ne può seguire».

 

E poi ritornava al piangere: e in questi pensieri teneva la maggior parte della sua vita. E eravisi già tanto disposto che con opera il volea mettere in effetto, e avria messo, se il raffrenamento del duca e d'Ascalion non fosse stato, li quali il confortavano con migliore speranza, e il suo volere gli biasimavano.

 

 

[8]

 

Per questi pensieri, e per molti altri, era tanto l'animo di Florio tribolato, che in niuna maniera potea il suo dolore coprire, né per alcun diletto rallegrarsi: e già gli era sì la malinconia abituata adosso, che appena avrebbe potuto mostrare sembiante lieto se voluto avesse. Egli avea sì per questo i suoi spiriti impediti, che quasi poco o niente era il cibo che egli poteva pigliare, e nel suo petto non poteva entrar sonno: per le quali cose il viso era tornato palido e sfatto, e' suoi membri erano per magrezza assottigliati, e egli era divenuto debole e stracco. E la maggior parte del giorno si giaceva, e stava come coloro i quali, da una lunga infermità gravati, vanno nuove cose cercando, e niuna ne piace, e s'egli piace, non ne possono prendere. Della qual cosa al duca molto dolea e ad Ascalion similemente, né sapeano che via tenere sopra questa cosa. Essi dubitavano di farlo sentire al re, temendo non egli facesse novità per questo a Biancifiore, e di questo a Florio ne seguisse peggio. E similemente dubitavano di tenerlo in quella maniera sanza farglielo sentire, dicendo:

 

«Se egli per altrui il sente, noi n'avremo mal grado, e cruccerassi verso di noi, e avrà ragione».

 

E in questa maniera, sanza pigliar partito, stettero più giorni, pur confortando Florio e dandogli buona speranza. A' quali Florio rispondea sé non avere questo per amore, ma che il caldo, che allora facea, il consumava. Ma questa scusa non aveva luogo a coloro che i suoi sospiri conoscevano; ma essi, quasi a ciò costretti, la sosteneano.

 

 

[9]

 

Standosi un giorno il duca e Ascalion insieme ragionando molto efficacemente de' fatti di Florio, disiderosi della sua salute, Ascalion cominciò così a dire:

 

«Sanza dubbio niuna cosa è tanto da Florio amata quanto Biancifiore; e questo il re, col farlo stare lontano ad essa, e noi con parole più volte ci siamo ingegnati di tirarlo indietro, né mai abbiamo potuto: fermamente credo che piacer degl'iddii sia, al quale volersi opporre è mattezza. Ma non per tanto a tentare alcuna altra via forse non sarebbe reo, e per avventura ci verrebbe forse il nostro intendimento compiuto».

 

«E che via vi parrebbe da tenere?», disse il duca. Ascalion rispose:

 

«Io il vi dirò. I giovani, come voi sapete, sono vaghi molto de' carnali congiungimenti, però che la pronta natura gl'induce a quello e per questi sogliono ogni altra cosa dimenticare. Florio mai con Biancifiore carnale diletto non ebbe; e se noi potessimo fare che con alcuna altra bella giovane l'avesse, leggiere saria dimenticare quello ch'egli non ha per quello che possedesse; e posto che in tutto non la dimenticasse, almeno tanto in lei non penserebbe; e in questo mezzo il re o gl'iddii provederebbono sopra questo, in modo che noi sanza vergogna o danno ne riusciremo; e se questa via non ci è utile, niuna altra utile ne conosco».

 

Gran pezza pensò il duca sopra questo, e poi disse:

 

«Ascalion, io mi maraviglio molto di voi. Ecco che quello che divisate venisse interamente fatto, che avremmo noi operato? Niente: che scioglierlo d'un luogo e legarlo in un altro, non so che si rilevi. Ma tanto potrebbe avvenire, che di leggiere peggioreremmo nostra condizione: e il trargli Biancifiore di cuore non è sì leggier cosa che per questo io creda che fatto dovesse venire, ben che leggieri ci sia a provarlo, se buono vi pare». Ascalion disse:

 

«Certo io l'avea per buono, però che, se egli avvenisse che per alcuna altra egli dimenticasse Biancifiore, più lieve sarebbe a trargli di cuore poi quell'altra che a volergli levare ora Biancifiore sanza alcun mezzo: con ciò sia cosa che le nuove piaghe con meno pericolo e meglio che l'antiche si curino e più tosto». «Certo - disse il duca - questo è vero; e poi che vi pare, il provarlo niente ci costa; e però sopra questo pensiamo e veggiamo se niuna cosa ci giova, e se giovare la veggiamo, procederemo avanti con l'aiuto de, gl'iddii».

 

 

[10]

 

Accordatisi costoro a questo, segretamente si misero a cercare di trovare alcuna giovane, la quale, il più che trovare si potesse, simigliasse Biancifiore, imaginando che quella più graziosa che alcuna altra gli sarebbe, e più tosto il potrebbe recare al disiderato fine. E cercando questo, da alcuno, il quale sempre in compagnia di Florio soleva andare, fu loro mostrate due giovanette di maravigliosa bellezza e di leggiadro parlare ornate, e discese di nobili parenti, le quali, secondo il detto di colui che le mostrò, assai delle bellezze di Florio si dilettavano, non come innamorate, però che non si sentiano eguali a lui, onde con la ragione raffrenavano la volontà. Le quali come costoro conobbero, assai si contentarono, dicendo:

 

«Prendiamle amendune, poi che Florio piace loro: elle s'ingegneranno bene di recarlo al loro piacere, e là dove l'una fallisse l'altra supplirà».

 

E questo diliberato, sotto spezie d'invitarle ad una festa, le si fecero chiamare all'ostiere. Le quali venute davanti al duca e ad Ascalion, il duca così disse loro:

 

«Giovani donzelle, nostro intendimento è di voler Florio di bella mogliere accompagnare; e cercando in questa città di donna che degnamente a lui si confacesse, nulla n'abbiamo trovata di tanta bellezza, né di sì belli e laudevoli costumi, come voi due ci siete state laudate: e però per voi abbiamo mandato, acciò che voi proviate se lui da uno intendimento che egli ha possiate ritrarlo e recarlo al vostro piacere, per donargli poi per mogliere quale di voi due più gli piacerà».

 

A cui l'una di queste, chiamata Edea, così rispose:

 

«Signor nostro, noi ci maravigliamo non poco delle vostre parole, con ciò sia cosa che noi manifestamente conosciamo noi non essere giovani di tanta nobiltà dotate, quanta alla grandezza di Florio si richiede: e, d'altra parte, l'altissime ricchezze ci mancano, le quali leggiermente i difetti della gentilezza ricuoprono. E però caramente vi preghiamo che di noi voi non facciate scherno, e ancora vi ricordiamo che, sì come voi dovete del nostro onore essere guardatore, sì come buono e legittimo signore, che voi non vogliate esser cagione di cotal vergogna, però che pensar dovete che se a voi e a' vostri noi siamo picciole, noi siamo a' nostri grandissime e care».

 

Allorà il duca rispose:

 

«Giovani donzelle, non crediate che io mi recassi a tanta viltà, quanta questa sarebbe, se questo fosse che voi dite, per farvi perdere il vostro onore; ma io vi giuro per l'anima del mio padre e per li nostri iddii che io quello che detto v'ho, lealmente v'atterrò, se alcuna di voi gli piacerà».

 

Disse Edea:

 

«Poi che con giuramento l'affermate, noi faremo il vostro piacere. Ditene come elli vi piace che noi facciamo, e così sarà fatto: poi gl'iddii concedano questa grazia a chi più n'è degna di noi due».

 

Rispose il duca:

 

«Il modo è questo. Voi sì v'adornerete in quella maniera che voi più crediate piacere, e andretevene sanza alcuna compagnia nel nostro giardino, nel quale egli è costumato di venire ogni giorno, sì tosto come i raggi del sole incominciano a essere manco caldi; usciretegli incontro, faccendogli quella festa e mettendolo in quel ragionamento che più crederete che piacevole gli sia: poi quale egli eleggerà di voi due, quella dico che sarà sua».

 

 

[11]

 

Era quel giardino bellissimo, copioso d'arbori e di frutti e di fresche erbette, le quali da più fontane per diversi rivi erano bagnate. Nel quale, come il sole ebbe il meridiano cerchio, le due giovani, vestite di sottilissimi vestimenti sopra le tenere carni, e acconci i capelli con maestrevole mano, con isperanza di più piacere ad acquistare cotal marito, se ne entrarono solette, e quivi cercarono le fresche ombre, le quali allato ad una chiara fontana trovate, a seder si posero attendendo Florio. Venuta l'ora che già il caldo mancava, Florio malinconico, uscito della sua camera e con lento passo, di queste cose niente sappiendo, vestito d'una ricca giubba di zendado, soletto se n'entrò nel giardino, sì come egli era per adietro usato, e verso quella parte dove già avea il bianco fiore altra volta tra le spine veduto, dirizzò i suoi passi; e quivi venuto si fermò dimorando per lungo spazio pensoso. Le due giovinette s'avean ciascuna fatta una ghirlanda delle frondi di Bacco, e aspettando Florio si stavano alla fontana insieme di lui parlando; e non avendolo veduto entrare nel giardino, per più leggermente passare il rincrescimento dell'attendere, incominciarono a cantare una amorosa canzonetta con voce tanto dolce e chiara, che più tosto d'angioli che d'umane creature pareva: e di queste voci pareva che tutto il bel giardino risonasse allegro. Le quali udendo, Florio si maravigliò molto, dicendo:

 

«Che novità è questa? Chi canta qua entro ora sì dolcemente?».

 

E con gli orecchi intenti al suono, incominciò ad andare in quella parte ove il sentiva; e giunto presso alla fontana, vide le due giovinette. Elle erano nel viso bianchissime, la qual bianchezza quanto si convenia di rosso colore era mescolata. I loro occhi pareano matutine stelle; e le piccole bocche di colore di vermiglia rosa, più piacevoli diveniano nel muovere alle note della loro canzone. E i loro capelli come fila d'oro erano biondissimi, i quali alquanto crespi s'avolgeano infra le verdi frondi delle loro ghirlande. Vestite per lo gran caldo, come è detto sopra, le tenere e dilicate carni di sottilissimi vestimenti, i quali dalla cintura in su strettissimi mostravano la forma delle belle menne, le quali come due ritondi pomi pingevano in fuori il resistente vestimento, e ancora in più luoghi per leggiadre apriture si manifestavano le candide carni. La loro statura era di convenevole grandezza, e in ciascun membro bene proporzionate. Florio, vedendo questo, tutto smarrito fermò il passo, e esse, come videro lui, posero silenzio alla dolce canzone, e liete verso lui si levarono, e con vergognoso atto umilmente il salutarono. «Gl'iddii vi concedino il vostro disio», rispose Florio. A cui esse risposero:

 

«Gl'iddii ne l'hanno conceduto, se tu nel vorrai concedere».

 

«Deh! - disse Florio - perché avete voi per la mia venuta il vostro diletto lasciato?».

 

«Niuno diletto possiamo avere maggiore che essere teco e parlarti», risposero quelle.

 

«Certo e' mi piace bene»,disse Florio. E postosi a sedere con loro sopra la chiara onda della fontana, incominciò a riguardare queste, ora l'una e ora l'altra, e a rallegrarsi nel viso, e a disiderare di potere loro piacere. E dopo alquanto le dimandò:

 

«Giovani donzelle, ditemi, che attendevate voi qui così solette?».

 

«Certo - rispose Edea - noi fummo qui maggior compagnia, ma l'altre disiose d'andar vedendo altre cose, noi qui, quasi stanche, solette lasciarono, e debbono per noi tornare avanti che 'l sole si celi: e noi ancora volentieri rimanemmo, pensando che per avventura potremmo vedere voi, sì come la fortuna ci ha conceduto».

 

Assai era graziosa a Florio la compagnia di costoro, e molto gli dilettava di mirarle, notando nell'animo ciascuna loro bellezza, fra sé tal volta dicendo:

 

«Beato colui a cui gl'iddii tanta bellezza daranno a possedere!». Egli le metteva in diversi ragionamenti d'amore, e esse lui. Egli aveva la testa dell'una in grembo, e dell'altra il dilicato braccio sopra il candido collo; e sovente con sottile sguardo metteva l'occhio tra 'l bianco vestimento e le colorite carni, per vedere più apertamente quello che i sottili drappi non perfettamente copriano. Egli toccava loro alcuna volta la candida gola con la debole mano, e altra volta s'ingegnava di mettere le dita tra la scollatura del vestimento e le mammelle; e ciascuna parte del corpo con festevole atto andava tentando, né niuna gliene era negata, di che egli spesse fiate in se medesimo di tanta dimestichezza e di tale avvenimento si maravigliava. Ma non per tanto egli era in se stesso tanto contento che di niente gli pareva star male, e la misera Biancifiore del tutto gli era della memoria uscita. E in questa maniera stando non piccolo spazio, questi loro e esse lui s'erano a tanto recato, che altro che vergogna non li ritenea di pervenire a quello effetto dal quale più inanzi di femina non si può disiderare. Ma il leale amore, il quale queste cose tutte sentia, sentendosi offendere, non sofferse che Biancifiore ricevesse questa ingiuria, la quale mai verso Florio non l'avea simigliante pensata; ma tosto con le sue agute saette soccorse al cuore, che per oblio già in altra parte stoltamente si piegava. E dico che stando Florio con queste così intimamente ristretto, e già quasi aveano le due giovani il loro intendimento presso che a fine recato sanza troppo affanno di parole, l'altra delle due donzelle chiamata Calmena, levata alta la bionda testa, e rimirandolo nel viso, gli disse:

 

«Deh! Florio, dimmi, qual è la cagione della tua palidezza? Tu ne pari da poco tempo in qua tutto cambiato. Hai tu sentito alcuna cosa noiosa?».

 

Allora Florio, volendo rispondere a costei, si ricordò della sua Biancifiore, la quale della dimandata palidezza era cagione, e sanza rispondere a quella, gittò un grandissimo sospiro, dicendo:

 

«Oimè, che ho io fatto?».

 

E quasi ripentuto di ciò che fatto avea, alquanto da queste si tirò indietro cominciando forte a pensare con gli occhi in terra a quello che fatto avea, e a dire fra se medesimo:

 

«Ahi! villano uomo, non nato di reale progenie, ma di vilissima, che tradimento è quello che tu hai pensato infino a ora? Come avevi tu potuto per costoro o per alcuna altra donna mettere in oblio Biancifiore, tanto che tu disiderassi quello che tu disideravi di costoro, o che tu potessi mostrare amore ad alcuna, come tu a costoro, toccandole, già mostravi? Ahi! perfidissimo, ogni dolore t'è bene investito, ma certo cara l'accatterai la tua nequizia. Ora come ti dichinavi tu ad amare queste, la cui beltà è piccolissima parte di quella di Biancifiore? E quando ella fosse pur molta più, come potresti tu mai trovare chi perfettamente t'amasse come ella t'ama? Deh! se questo le fosse manifesto, non avrebbe ella ragionevole cagione di non volerti mai vedere? Certo sì ».

 

Con molte altre parole si dolfe Florio per lunga stagione; e così dolendosi tacitamente, Calmena, che la cagione ignorava, gli si rappressò, domandando perché a lei non rispondeva, dicendogli:

 

«Deh, anima mia, rispondimi; dimmi perché ora sospirasti così amaramente, e dimmi la cagione della tua nuova turbazione, né ti dilungare da colei che più che sé t'ama».

 

Allora Florio con dolente voce disse:

 

«Donne, io vi priego per Dio che elli non vi sia grave il lasciarmi stare, però che altro pensiero che di voi m'occupa la dolorosa mente».

 

E detto questo, levato si sarebbe di quel luogo, se non fosse che egli non le volea fare vergognare. Disse allora Edea:

 

«E qual cosa t'ha sì subitamente occupato? Tu ora inanzi eri così con noi dimestico, e parlando ne dimandavi e rispondevi cianciando, e ora malinconico non ci riguardi, né ci vuoi parlare: certo tu ci fai sanza fine maravigliare».

 

A niuna cosa rispondea Florio, anzi a suo potere, col viso in altra parte voltato, si scostava da loro, le quali quanto più Florio da loro si scostava, tanto più a lui amorosamente s'accostavano. E in tal maniera stando, Calmena, che già s'era dell'amore di Florio accesa oltre al convenevole, più pronta che Edea, s'appressò a Florio, e quasi appena si ritenne che ella nol baciò, ma pur così gli disse:

 

«O grazioso giovane, perché non ne di' tu la cagione della tua subita malinconia? Perché, dilungandoti da noi, mostri di rifiutarci, che ora inanzi eravamo da te sì benignamente accompagnate? Non è la nostra bellezza graziosa agli occhi tuoi? Certo gl'iddii si terrebbono appagati di noi, né non crediamo che Io, tanto perseguitata da Giunone, fosse più bella di noi quando ella piacque a Giove, né ancora Europa che sì lungamente caricò le spalle del grande iddio, né alcune altre giovani crediamo essere state più belle di noi: e sì ne veggiamo il cielo adorno di molte! Adunque tu, perché ne rifiuti?».

 

E con queste parole e molte altre, con atti diversi e inonesti sospirando guardavano di ritornare Florio al partito nel quale poco davanti era stato. Alle quali Florio disse così:

 

«Ditemi, giovani, se gl'iddii ogni vostro piacere v'adempiano, foste voi mai innamorate?».

 

A cui esse subitamente risposero:

 

«Sì, di voi solamente; né mai per alcuna altra persona sospirammo, né tale ardore sentimmo se non per voi».

 

«Certo - disse Florio - di me non siete voi già innamorate; e che voi non siate state né siate d'altrui si pare manifestamente, però che amore mai ne' primi conoscimenti degli amanti non sofferse tanta disonestà, quanta voi verso me, con cui mai voi non parlaste, avete dimostrata: anzi fa gli animi temorosi e adorni di casta vergogna, infino che la lunga consuetudine fa gli animi essere eguali conoscere. E che questo sia vero assai si manifestò nella scelerata Pasife, la quale bestialmente innamorata, con dubitosa mano ingegnandosi di piacere, e temendo di non spiacere, porgeva le tenere erbe al giovane toro. Ora quanto più avria costei temuto d'un uomo, in cui ragionevole conoscimento fosse stato, poi che d'un bruto animale dubitava? Certo molto più, però che era innamorata. E chi volesse ancora nelle antiche cose cercare, infiniti essempli troverebbe d'uomini e di don ne; a cui le forze sono tutte fuggite ne' primi avvenimenti de' loro amanti. E però che di me innamorate siate non mi vogliate far credere, che io conosco i vostri animi disposti più ad ingannare che ad amare. E appresso, che voi non siate d'altrui innamorate, come voi dite, m'è manifesto, però che non m'è avviso che verso me, dimenticando il principale amadore, potreste dimostrare quello che dimostrate, ché il leale amore non lo consentirebbe. Onde io vi priego, belle giovani, che mi lasciate stare, però che voi con le vostre parole credete i miei sospiri menomare, e voi in grandissima quantità gli accrescete: e di me in ogni atto, fuori che d'amore, fate quello che d'amico o di servidore fareste».

 

Udendo questo, Edea, la quale le infinite lagrime non avea guari lontane, bagnando il candido viso, con lagrimevole voce, messesi le mani nel sottile vestimento, tutta davanti si squarciò, dicendo:

 

«Oimè misera, maladetta sia l'ora ch'io nacqui! E in cui avrò io oramai speranza, poi che voi, in cui io ora sperava e per cui io credeva sentir pace, mi rifiutate, né credete che 'l mio cuore per lo vostro amore si consumi, però che forse troppo pronta a volere adempiere i miei disiderii vi sono paruta? Crediate che niuna cosa a questo m'ha mossa altro che soperchio amore, il quale del mio petto ha la debita vergogna cacciata, e me quasi furiosa ha fatto nella vostra presenza tornare. Ahimè misera, sarà omai disperata la mia vita! O misera bellezza, partiti del mio viso, poi che colui per cui io cara ti tenea, e ti guardava diligentemente ti rifiuta. Deh, Florio, poi che a grado non v'è consentirmi quello che lunga speranza m'ha promesso, piacciavi che io nelle vostre braccia l'ultimo giorno segni. Io sento al misero cuore mancare le naturali potenze per le vostre parole. Oimè, uccidetemi con le propie mani, acciò che io più miseramente non viva. Mandatene la trista anima alle dolenti ombre di Stige, là dove ella minor doglia aspetta che quella che ora sostiene. Ahimè, quanto degnamente da biasimare sarete, quando si saprà la dolente Edea essere per la vostra crudeltà partita di questa vita!».

 

Florio, che le lagrime di costei non potea sostenere, per pietà la confortava, dicendo:

 

«O bella giovane, non guastare con l'amaritudine del tuo pianto la tua bellezza; spera che più grazioso giovane ti concederà quello ch'io non ti posso donare. Ritruova le tue compagne, e con loro l'usata festa ti prendi, né non impedire i miei sospiri con la pietà del tuo pianto: ché io ti giuro per li miei iddii, che se io fossi mio e potessimi a mia posta donare, niuna m'avrebbe se l'una di voi due non m'avesse. Ma lo non posso quello che non è mio sanza congedo, donare».

 

Cominciò allora Calmena a dire:

 

«O crudelissimo più che alcuna fiera, e come puoi tu consentire di negare a noi quel che ti domandiamo? Certo se tu hai il tuo amore ad altra donato, niuno amore è tanto leale, che a' nostri prieghi non dovesse essere rotto. E pensi tu che s'egli avviene che per la tua crudeltà alcuna di noi sofferisca noiosa morte, che quella giovane di cui tu se', se tu se' per avventura d'alcuna, te ne ami più? Certo no, anzi biasimerà la tua crudeltà! E i nostri prieghi son tanti, che certo il casto Ipolito già si saria piegato. Or come ci puoi tu almeno negare alcuno bacio, de' quali poco avanti ci saresti stato cortese, se sì ardite, come tu ci fai, fossimo state? Certo se alcuno ce ne porgessi con quel volere che noi il riceveremmo, egli sarebbe non poco refrigerio de' nostri affanni. Deh, adunque, concedicene alcuno, acciò che gl'iddii più benivoli s'inchinino a concedere a te quello che tu disii, se alcuna cosa da te in questo atto è disiata».

 

A cui Florio rispose:

 

«Giovani donzelle, ponete fine a questi ragionamenti, però che quella parte che di me dimandate, più cara che altra è tenuta da me, con ciò sia cosa che niun'altra ancora ne sia stata conceduta a quella di cui io sono interamente; e più avanti non mi dimandate, ché da me altro che dolore avere non potreste. E priegovi che me, che più di sospirare che di parlare con voi ora mi diletto, qui solo lasciate, e andatevene, però che ciò che mi dite è tutto perduto».

 

Questo udendo le due giovani, col viso dipinto di vergogna, della sua presenza si levarono sanza più parlare; e però che già il sole cercava l'occaso, tornate nel gran palagio si rivestirono, dicendo l'una all'altra:

 

«Ahi, come giusta cosa sarebbe se mai d'alcuno giovane la grazia non avessimo, pensando al nostro ardire, le quali avemo tentato di volere questo giovane levare alla sua donna sanza ragione, avegna che gl'iddii e egli ce n'hanno ben fatto quello onore che di ciò meritavamo!».

 

E rivestite, raccontarono al duca la bisogna come era, con non poca vergogna; e da lui, con grandissimi doni, sconsolate si partirono, tornando alle loro case.

 

 

[12]

 

Aveano il duca e Ascalion veduto apertamente ciò che Edea e Calmena aveano operato, e ora fu che essi credettero che il loro avviso riuscisse al pensato fine; ma poi che videro quello esser fallito, dolenti della amara vita di Florio, si partirono del luogo dove stavano e se ne vennero al giardino, dove Florio con dolore, pieno di pensieri soletto era rimaso, e lui trovarono pensando avere la bionda testa posata sopra la sinistra mano. I quali poi che pietosamente alquanto riguardato l'ebbero, così cominciarono a dire:

 

«Florio, Amore tosto nella disiata pace ti ponga».

 

Era Florio tanto nello imaginare la sua Biancifiore, che per la venuta di costoro, né per lo loro saluto né si mutò né cambiò aspetto, ma così stette come colui che né veduti né uditi ancora gli avea. Allora Ascalion, distesa la mano, il prese per lo braccio, e lui tirando, disse:

 

«O innamorato giovane, ove se' tu ora? Dormi tu, o se', pensando, fuori di te uscito, che tu al nostro saluto niente rispondi?».

 

Riscossesi allora tutto Florio, e quasi stordito, sanza niente rispondere, si mirava dintorno. Ma dopo molti sospiri, alquanto da' pensieri sviluppato, alzata la testa, disse:

 

«Oimè, or chi vi mena a vedere la miseria della mia vita, alla quale voi forse credete levar pena con confortevoli parole, e voi più ne giungete? Se può essere, caramente vi priego che me qui solo lasciate, acciò che io possa quel pensiero ritrovare, nel quale io fui, quando scotendomi me ne cacciaste».

 

A cui Ascalion così rispose:

 

«Amore e maraviglia ci fanno qui venire, né già da te intendiamo di partirci, se prima a' nostri prieghi non ne dirai quale nuova cagione ti fa tanto pensoso».

 

Disse Florio:

 

«Niuna nuova cagione ci è del mio dolore: Amore solamente in questa vita mi tiene».

 

«E come? - disse allora il duca, - io mi credea che tu t'ingegnassi di seguire il mio consiglio, il quale io l'altrieri, quando così pensoso ti trovai, t'avea donato, e già mi parea che, quello piacendoti, cominciato avessi: e tu pure sopra l'usato modo se' ritornato! Questa tua vita in niuno atto d'innamorato mi pare, onde forte dubitare mi fai che tu forse non sii del senno uscito, però che gli altri innamorati con varii diletti cercano di mitigare i loro sospiri, ma tu con pene mi pare che vadi cercando d'accrescergli. Se volessi dire che come alcuni altri non li potessi usare, sai che non diresti vero, però che niuna resistenza ci è: dunque perché pure in sul dolore ti dai? Deh, com'io altra volta ti pregai, ancora ti priego che alcuni ne prenda, i quali usando valicherai il tempo con meno tristizia, e gl'iddii in questo mezzo provederanno a' tuoi disii».

 

 

[13]

 

Udite queste cose, Florio sospirando disse:

 

«Amici, ben conosco voi prontissimi alla mia salute, e veggo apertamente che la mia vita vi duole, né similemente occulti mi sono i diletti che prendere potrei, a' quali con tanta efficacia v'ingegnate di trarmi, pensando che io forse del senno sia uscito, perché pure in dolore pensando dimoro: ora, acciò che voi conosciate come io sia a quelli prendere disposto, e ancora come voi del mio dolore non vi dovete maravigliare, io vi voglio dire qual sia la mia vita, Dico che diverse imaginazioni e pensieri m'occupano continuamente, delle quali alcuna ve ne dirò. Primieramente io sopra tutte le cose disidero di vedere Biancifiore, sì come quella che più che niuna altra cosa è da me amata. E dicovi che tante volte, quante ella nella memoria mi viene, tanto questo disio più focoso in me s'accende e togliemi sì da ogni altro intendimento, che se allora io la vedessi, crederei più che alcuno iddio essere beato; e sentendomi questo essere levato, solamente perché io l'amo, e non per altro accidente, niuno dolore è al mio simigliante. Appresso questo, io vivo in continua sollecitudine della sua vita, temendo non ella, la quale so che m'ama come io lei, sostenga simili dolori a quelli che io sostengo, li quali, però che di più debole natura è che io non sono, dubito non la offendano o di gravosa infermità o di morte. E troppo più mi fa della sua vita dubitare l'acerbità del mio padre e della mia madre, li quali io sento prontissimi, e vederli mi pare, insidiatori della vita di lei. E niuna cagione falsa è che a lei inducere possa morte, che non me la paia vedere andare cercando al mio padre per fornire il suo falso volere, il quale altra volta gli venne fallito: e non pensa il misero che quella ora ch'ella morrà io non viverò più avanti. E in gravosissimo affanno mi tiene gelosia, e la cagione è questa: le giovani donzelle sono di poca stabilità e per la loro bellezza da molti amanti sogliono essere stimolate: e gl'iddii, non che le femine, si muovono per li pietosi prieghi a far la volontà de' pregatori. Io sono lontano da lei, né vedere la posso, né ella me; molti giovani credo che la stimolano per la sua bellezza, la quale ogni altra passa: or che so io, se ella non potendo aver me, se ne prenderà alcuno altro, posto ch'ella non possa migliorare? Elli si suol dire che le femine generalmente hanno questa natura, ch'elle pigliano sempre il peggio. Con questi pensieri n'ho molti altri, li quali troppo penerei a volerli particolarmente spiegare; ma di loro vi dico che essi impediscono tanto la mia vita, che essi me l'hanno recata a noia; e per minor pena disidererei la morte, la quale ancora non pena riputerei, se gl'iddii donare la mi volessero, ma graziosa gioia. Veder potete come io mi posso a prendere alcuno diletto trarre: solo mio bene e sola mia gioia è il pensare a Bianciflore, e questo è quello che la poca vita che rimasa m'è, mi tiene nel corpo. Onde io vi priego che se la mia vita amate, non mi vogliate torre il poter pensare».

 

 

[14]

 

Cominciò allora il duca così a parlare:

 

«Ben ci è manifesto te essere da tanti e tali pensieri stimolato, quanti ne conti, e da molti più. Ma tu non dei però volere con morte dar luogo al pensare più tosto che con diletto prolungare la tua vita, acciò che più tempo pensar possi. Onde, se nullo priego dee valere, noi ti preghiamo che tu prenda conforto, e da cotesti pensieri con continui diletti ti levi; e se t'è forse occulto, come tu nel tuo parlar dimostri, la cagione per che dei pigliar diletto, noi non ce ne maravigliamo, però che in così fatti affanni le più volte il vero conoscimento si suole smarrire. Ma noi, che di fuori da tale tempesta dimoriamo, conosciamo quali sieno le vie da uscire di quella: e però non ti siano gravi alquante parole, le quali se, ascoltate, metterai in effetto, ti vedrai sanza periglio venire a grazioso porto. Tu ti duoli del focoso disio che ti stimola dì vedere Biancifiore, però che vedere non la puoi. Certo ben credo che ti dolga; ma credi tu per questo dolore, che tu te ne dai, più tosto vederla? Certo no. Dunque sperando confortare ti dei, e dare alquanto sosta al presente disio, conoscendo, come tu fai, che al presente fornire non lo puoi con tuo onore. Pensa che la fortuna non terrà sempre ferma la rota: così come ella volvendo dal cospetto di Biancifiore ti tolse, così in quello ancora lieto ti riporrà. Similemente ti dico del pensiero che porti, non Biancifiore, per l'amore che ti porta, sostenga o gravosa infermità o morte, ciò è vano pensamento: e per niente il tieni, però che amore mai non porse morte ove le parti fossero in un volere. "Che ella infermasse io il disidererei, solo che per amore fosse, pensando che per quella infermità potrei conoscere me da lei tanto amato, che sì fatto accidente ne le seguisse per lo non potermi avere": oimè, quanto più è da pensare della sanità, la quale i sonni interi e le malinconie lontane essere dimostra: e però questo del tutto dei lasciare andare. Se dubiti non il tuo padre forse, come già fece, la voglia offendere, ciò non è da maravigliare, ché noi di niuna cosa abbiamo tanta ammirazione, quanto che egli ha tanto sofferta la sua vita, sappiendo come sia fatta quella che tu per lei meni. Onde ti dico che tenendo la maniera che fai, ragione hai di dubitare; ma volendo prendere conforto e seguire la via che io altra volta ti mostrai, niuna dubitazione te ne bisogna avere, ché io ti giuro per l'anima del mio padre che il re ama Biancifiore quanto figlia, e niuna cosa ad ira il potrebbe muovere contro ad essa, se non la tua sconcia vita. Se vuoi dire che gelosia ti stimoli, questo è contro a quello che davanti dicesti, cioè che Biancifiore più che sé t'ami, però che gelosia non suol capere se non in luoghi sospetti, e tu prima affermi niuna sospezione esserci, e appresso di' te esser geloso. Ma certo, come che tu parli, a me pare che niuna cosa sia tanto amata da Biancifiore quanto tu se': onde per questo niuno pensiero di lei avere ti conviene. Appresso, chi sarebbe quella sì folle, che avendo l'amore d'un così fatto giovane come tu se', bello, gentile, ricco e figliuolo di re, lasciasse quello per niuno altro? Se vuoi dire: "le femine pigliano sempre il peggio", questo non s'intende per tutte, ma solamente per le poco savie, la qual cosa ancora negli uomini si truova. E veramente Biancifiore è savissima, e ciò nel suo portamento e nelle sue operazioni è manifesto. Or dunque, pensando bene queste cose, chi dovrebbe più confortarsi di te? Tu bello, tu ricco, tu gentile, tu amato da colei che tu ami, per amore della quale dovresti sempre pensare di vivere in modo che grazioso e sano le ti potessi presentare. Se simile caso fosse in me, io mi terrei oltre misura caro per più piacerle, né per niuna cosa disidererei tanto la vita lunga, quanto per lungamente poterla servire. E tu, più vinto da ira e da malinconia che consigliato dalla ragione, cerchi la morte per conforto, e sempre in pensieri e in dolore dimori, e vai imaginando quelle cose le quali né vedesti né vedrai già mai, se agl'iddii piace. Folle è colui che per li futuri danni sanza certezza spande lagrime, e in quelle più d'impigrire si diletta, che argomentarsi di resistere a' danni. Deh, se tu se' uomo come sono gli altri, giovino tanti conforti, quanti noi ti diamo: vaglia il mostrarti la verità, come noi mostriamo! E non indurare pure sopra il tuo non vero parere: rallegrati che tanto manca il senno, quanto il conforto ne' savi».

 

 

[15]

 

Florio, il quale sentiva in sé graziose parole all'animo innamorato, che di quelle avea bisogno, con men dolente viso così rispose:

 

«Amici, a' subiti accidenti male si puote argomentare. Ma che che 'l mio padre si deggia fare, io pur m'ingegnerò di prendere il vostro consiglio, cacciando da me il dolore delle non presenti cose».

 

E questo detto, si dirizzarono tutti; e uscendo del giardino, per le stelle che già il cielo aveano de' loro lumi dipinto, tornarono quasi contenti alle loro camere.

 

 

[16]

 

Mentre li fati trattavano così Florio, Biancifiore lasciata da lui al perfido padre tornò nell'usata grazia, dimorando ne' reali palagi con non minore quantità di sospiri che Florio, avvegna che più saviamente quelli guardasse nell'ardente petto. Ma le trascorrenti avversità che il loro corso verso Florio aveano volto, con non usato stimolo ancora lui miserabilmente assalirono in questa maniera.

 

Era nella corte del re Felice in questi tempi un giovane cavaliere chiamato Fileno, gentile e bello, e di virtuosi costumi ornato, a cui l'ardente amore di Florio e di Biancifiore era occulto, però che di lontane parti era, pochi giorni poi la crudel sentenza di Biancifiore, venuto. Il quale, sì tosto come la chiara bellezza vide del suo viso, incontanente s'accese del piacere di lei, e sanza misura la incominciò ad amare, e in diversi atti s'ingegnava di piacerle, avvegna che Biancifiore di ciò niente si curava, ma, saviamente portandosi, mostrava che di queste cose ella non conoscesse quanto facea.

 

L'amore che Fileno portava a Biancifiore non era al re né alla reina occulto; i quali, acciò che il cuore di Biancifiore di nuovo piacere s'accendesse e Florio fosse da lei dimenticato, contenti di tale innamoramento, più volte nella loro presenza chiamavano Fileno, a cui faceano venire davanti Biancifiore e con lei tal volta sollazzevoli parole parlare; ma ciò era niente, ché Biancifiore di lui si curava poco, anzi sospirando vergognosa bassava la testa come davanti le venia, sanza già mai alzarla per mirare lui, se ciò non fosse stato alcuna fiata in piacere del re o della reina, li quali ella conoscea essere di tale amore allegri, avvegna che Fileno pensasse che que' sospiri, i quali dal cuore di Biancifiore moveano, uscissero fuori essendone egli cagione. Mostrando Biancifiore per conforto della reina d'amare il giovane cavaliere, avvenne che dovendosi ne' presenti giorni celebrare una grandissima solennità ad onore di Marte, iddio delle battaglie, e nella detta solennità si costumasse un giuoco nel quale la forza e lo 'ngegno de' giovani cavalieri del paese tutta si conoscea, Fileno propose di volere in quel giuoco per amore di Biancifiore mostrare la sua virtù; ma ciò, se alcuna gioia da Biancifiore non avesse la quale in quel luogo per soprasegnale portasse, non volea fare. Onde egli un giorno si mosse, vedendo Biancifiore stare con la reina, e con dubbioso viso, davanti alla reina così a Biancifiore cominciò a parlare:

 

«O graziosa giovane, la cui bellezza Giove credo nel suo seno formasse, e a cui io per volere di quel signore, alla forza del cui arco non poterono resistere gl'iddii, sono umilissimo e fedel servidore, se i miei prieghi meritano essere dalla tua benignità uditi, con quello effetto che più graziosamente gli ti presenti gli mando fuori, e priegoti che, con ciò sia cosa che la festa del nostro iddio Marte, le cui vestige io sì come giovane cavaliere seguito, si deggia di qui a pochi giorni celebrare, e in quella il giuoco de' potenti giovani, sì come tu sai, si deggia fare, e io intendo in quello per amore di te mostrare le mie forze, che tu alcuna delle tue gioie mi doni, la quale portando in quello per sopransegna, mi doni tanto più ardire, che io non ho, ch'io possa acquistare vittoria».

 

Biancifiore, udendo queste parole, di vergognosa rossezza dipinse il candido viso, sì tosto come il cavaliere si tacque, e non sappiendo che si fare, si voltò verso la reina riguardandola nel viso con dubitosa luce. A cui la reina disse:

 

«Giovane damigella, alza la testa: e perché hai tu presa vergogna? Dubiti tu che ciò che ha detto il cavaliere non sia vero? Certo nella nostra gran città niuna donna dimora, la cui bellezza si possa adequare al tuo viso; e perché egli ti domandi grazia, sì come quelli che per amore disidera di servirti, ciò non gli dee da te esser negata, ma benignamente alcuna delle tue cose, quella che tu credi che più gli aggradi, gli dona: ché usanza è degli amanti insieme donarsi tal fiata delle loro gioie».

 

Disse Biancifiore allora:

 

«Altissima reina, e che donerò io al cavaliere che 'l mio onore e la dovuta fede non si contamini?».

 

La reina rispose:

 

«Biancifiore, non dubitare di questo, ché a quelle giovani a cui i fati ancora non hanno marito conceduto, possono liberamente donare ciò che loro piace, sanza vergogna. E che sai tu se essi ancora costui ti serbano per marito? E però donagli: e acciò che più grazioso gli sia, prendi il velo col quale tu ora la tua testa cuopri. Egli è tal cosa, che se pur te ne vergognasse, potresti negare d'avergliele donato, affermando che da altra l'avesse avuto, però che molti se ne trovano simiglianti».

 

Biancifiore, costretta dal parlare della reina, con la dilicata mano si sviluppò il velo della bionda testa, e sospirando il porse a Fileno, il quale in tanta grazia l'ebbe che mai maggiore ricevere non la credeva. E rendute del dono debite grazie, con esso da loro allegro si partì. E venuto il tempo del giuoco, legatosi questo velo alla testa, niuno fu nel giuoco che la sua forza passasse: per la qual cosa sopra quello, in presenza di Biancifiore, meritò essere coronato d'alloro.

 

 

[17]

 

La fortuna, non contenta delle tribulazioni di Florio, condusse Fileno a Montoro pochi giorni poi la ricevuta vittoria. Il quale là onorevolemente ricevuto da molti, nella gran sala del duca, incominciò a narrare a' giovani cavalieri suoi amici quanto fosse stato l'acquistato onore, disegnando con parole e con atti quanta forza e ingegno adoperasse per ricevere in sé tutta la vittoria, come fece. Poi, entrati in altri diversi ragionamenti, venuti a parlare d'amore, similemente sé propose esser assai più che altro innamorato, e di più bella donna, e come da lei niuna grazia era che conceduta non gli fosse se domandata l'avesse; e dopo molte parole disavedutamente gli venne ricordata Biancifiore. E Florio, che non era troppo lontano, e avea udite tutte queste cose, e piagneasi in se medesimo d'amore, che lui peggio che alcuno altro innamorato trattava, come udì ricordare Biancifiore, e per le precedenti parole conobbe lei essere quella donna di cui Fileno tanto si lodava, incontanente cambiato nel viso si partì da' compagni tacitamente, e stato per picciolo spazio, ritornò nella sala con l'usato viso, e amichevolemente verso Fileno se n'andò. Il quale come Fileno il vide, levatosi in piè con quella reverenza che si convenia, incontro gli si fece. Allora Florio, per più accertarsi di ciò che sapere non avria voluto, mostrando di volere d'altre cose parlare con lui, presolo per lo braccio, sanza altra compagnia nella sua camera il menò. E quivi amenduni postisi a sedere sopra il suo letto, Florio con infinto viso de' suoi accidenti e delle maniere de' lontani paesi dov'egli era stato, lo incominciò a domandare; e poi quando tempo gli parve, gli disse:

 

«Se il colore del vostro viso non m'inganna, voi mi parete innamorato».

 

A cui Fileno rispose:

 

«Signor mio, sopra tutti gli altri giovani io amo».

 

«Ciò mi piace assai - rispose Florio, - però che nulla cosa m'è tanto a grado, quanto avere compagni ne' miei sospiri; ma ditemi, se vi piace, da quella donna, cui voi amate, siete voi amato?».

 

Disse Fileno:

 

«Niuna cosa m'accende tanto amore nel cuore, quanto il sentire me essere amato da quella cui io più che me amo».

 

«Certo voi state bene - disse Florio; - ma ditemi, come conoscete voi che voi siate da quella, che voi tanto amate, amato?».

 

«Dirollovi», rispose Fileno «che io sia amato da quella cui io amo, tre cose me ne fanno certo. La prima si è il timido sguardare con focosi sospiri, nelle quali cose io apertamente conosco intero amore; appresso, me ne accertano le ricevute gioie, le quali sanza amore da gentile donna mai donate non sarieno. La terza cosa che questo mi mostra si è l'allegrezza della quale io veggo il bel viso ripieno d'ogni felice caso che m'avvenga».

 

«Ben sogliono essere le predette cose veri testimonii d'amore; ma ditemi, se vi piace, che gioia riceveste voi già mai dalla vostra donna: però che alcune sogliono donare gioie, le quali non sarieno degne di mettere in conto».

 

«Certo - disse Fileno - non è di quelle la mia, ma è da tenere carissima; e acciò che voi sappiate quanto io ne deggio tenere cara una che io n'ho qui meco, io vi dirò come io la ricevetti».

 

«Ciò mi piace» rispose Florio. Allora Fileno cominciò così a dire:

 

«Dovendo noi giucare nel giuoco che si fa nella solennità di Marte, pochi giorni ha passati celebrata, giucare, io nella sua presenza me n'andai, e umilmente la pregai che le piacesse a me, suo fedelissimo servidore, donare una delle sue gioie, la quale io per lo suo amore portassi nel giuoco. Essa, al mio priego mossa, benignamente in mia presenza con le dilicate mani questo velo si levò d'in su la sua bionda testa»; e traendo fuori il velo, il mostrò a Florio; e poi seguendo il suo parlare, disse:

 

«E appresso aggiunse che io per amore di lei mi dovessi portar bene. Onde se questo è assai manifesto segnale di vero amore, voi, come me, il potete conoscere».

 

«Ma è più che manifesto - rispose Florio, - e certo ogni altra cosa maggiore è da esserne da voi sperata».

 

Disse allora Fileno:

 

«Sicuramente che io molto più avanti ne spero, né credo con l'aiuto de' nostri iddii la mia speranza vegna fallita».

 

Florio, ancora di tutto questo non contento, gli disse:

 

«Fileno, se gl'iddii ve ne facciano tosto venire a quel che disiderate, ditemi, se licito v'è, se questa vostra donna è bella, e chi ella è».

 

Rispose Fileno:

 

«Signor mio, mai ella non mi comandò ch'io do vessi il suo nome celare, né la sua bellezza richiede d'essere tenuta, a chi disidera di saperla, occulta, né a voi niuna cosa sarebbe da nascondere; e appresso mi fido tanto nel buono amore che io conosco ch'ella mi porta, che posto che alcuni il sapessero e volesserlami, amandola, torre, non poriano. Onde, poi che vi piace di saperlo, io vi dirò il nome, il quale udendo conoscerete quanta sia la bellezza. La donna di cui io tutto sono, e per cui io amorosamente sospiro, si chiama Biancifiore, e dimora ne' reali palagi del vostro padre in compagnia della reina. Voi la conoscete meglio che io non fo, e sapete bene quanta sia la sua bellezza, e quinci potete vedere se per graziosa donna io sono da amore costretto». Riguardollo Florio allora nel viso sanza mutare aspetto, e disse:

 

«Veramente vi tiene amore per bella donna, e ora mi piace più ciò che detto m'avete, che prima non facea. Ma una cosa vi priego che facciate, che saviamente amiate e guardatevi di non lasciarvi tanto prendere ad Amore, che a vostra posta partire non vi possiate da lui, però che io, il quale vivo pieno di sospiri, per niuna altra cosa mi dolgo, se non per che io vorrei da lui partirmi, e non posso; e la cagione è però che io amai già una donna, e ancora più che me l'amo, e per quello che vedere me ne parve, ella amò me sopra tutte le cose, e in luogo di vero amore ella mi donò questo anello, il quale io porto in dito e porterò sempre per amore di lei; e poco tempo appresso lasciò me e donossi ad un altro di molto minor condizione che io non sono: per la qual cosa io ora mi vorrei partire da amare e non posso, e lei ho quasi del tutto perduta. Se a voi il simigliante avvenisse, certo elli sarebbe da dolerne a ciascuna persona che v'amasse».

 

Disse allora Fileno:

 

«Florio, buono è il consiglio che mi donate, e se io credessi che mi bisognasse, io il prenderei; ma sanza dubbio io la conosco tanto costante giovane, che mai del suo proposito, cioè d'amare me, non credo ch'ella si muti».

 

«Dunque avete voi vantaggio da tutti gli altri - disse Florio, - e se così sarà, piu che nullo iddio vi potrete chiamare beato».

 

L'ora del mangiare gli levò da questo ragionamento, il quale non dilettava tanto all'una delle parti, quanto all'altra era gravissimo e noioso; e usciti della camera, lavate le mani, alle apparecchiate tavole s'asettarono.

 

 

[18]

 

Stette Florio alla tavola sanza prendere alcun cibo, rivolgendo in sé l'udite parole da Fileno, sostenendo con forte animo la noiosa pena che lo sbigottito cuore sentiva per quelle. Ma poi che le tavole furono levate, e a ciascuno fu licito d'andare ove gli piacea, Florio soletto se n'entrò nella sua camera, e serratosi in quella, sopra il suo letto si gittò disteso, e sopra quello incominciò il più dirotto pianto che mai a giovane innamorato si vedesse fare; e nel suo pianto incominciò a chiamare la sua Biancifiore e a dire così:

 

«O dolce Biancifiore, speranza della misera anima, quanto è stato l'amore ch'io t'ho portato e porto da quell'ora in qua che prima ne' nostri giovani anni c'innamorammo! Certo mai alcuno donna sì perfettamente non amò, come io ho te amata: tu sola se' stata sempre donna del misero cuore. Niuna cosa fu che per amore di te io non avessi fatto, niuna gravezza è che lieve non mi fosse paruta. E certo, quando il noioso caso della misera morte, alla quale condannata fosti, fu, niuno dolore fu simile al mio, infino a tanto che con la mia destra mano liberata non t'ebbi. Deh, misera la vita mia, quanti sono stati i miei sospiri, poi che licito non mi fu di poterti vedere! Quante lagrime hanno bagnato il dolente petto, nel quale io continuamente effigiata ti porto così bella, come tu se'! Né mai niuno conforto poté entrare in me sanza il tuo nome. Niuno ragionamento m'era caro sanza esservi ricordata tu, di cui ora la speranza così spogliato mi lascia, pensando che me per Fileno abbi abandonato, e la cagione per che vedere non posso. Certo tu non puoi dire che io mai altra donna che te amassi: da assai sono stato tentato, mai niuna poté vantarsi che alquanto al loro piacere io mi voltassi. Né in altra cosa conosco me averti già mai fallito: dunque perché Fileno più di me t'è piaciuto? Deh, or non sono io figliuolo del re Felice, nipote dell'antico Atalante sostenitore de' cieli? Certo sì sono: e Fileno è un semplice cavaliere. Luce il viso suo di più bellezza che 'l mio? Mai no! È la sua virtù più che la mia? Or fosse essa pur tanta! Se forse valoroso giovane ti pare sotto l'armi, quanto il mio valore sia non ti dee essere occulto, a tal punto in tuo servigio s'adoperò. Doni so bene che a questo non t'hanno tratta; ma io dubito che l'animo tuo, il quale solea essere grandissimo, sia impicciolito, e dubiti d'amare persona che maggior titolo porti di te, dubitando d'essere da me sdegnata. Certo questa dubitazione non dovea in te capere, però ch'io so te essere degli altissimi imperadori romani discesa; la qual cosa se ancora vera non fosse, non potrebbe tra te e me capere sdegno. Dunque, perché m'hai lasciato? Ahimè, misera la vita mia! Quando troverai tu un altro Florio, che sì lealmente t'ami com'io t'ho amata? Tu nol troverai già mai! Tu m'hai data materia di sempre piagnere, però che mai del mio cuore tu non uscirai, né potresti uscire; e sempre ch'io mi ricorderò me essere del tuo cuore uscito, tante fiate sosterrò pene sanza comparazione. E quello che più in questo mi tormenta, si è che io conosco te non poter negare l'essere di Fileno innamorata, però che egli m'ha mostrato quel velo col quale tu coprivi la bionda testa, quando con pietose parole ti domandò una delle tue gioie, e tu gli donasti quello. Oimè misero, ove si vogliono oramai voltare i miei sospiri a domandare conforto, poi che tu m'hai lasciato, ch'eri sola mia speranza? Oimè dolente, erati così noioso l'attendere di potermi vedere, che per così poco di tempo me per un altro, cui più sovente veder puoi, hai dimenticato? Io non so che mi fare: io disidero di morire e non posso».

 

E lagrimando per lungo spazio, ricominciava a dire:

 

«O Amore, valoroso figliuolo di Citerea, aiutami. Tu fosti del mio male cominciatore: non mi abandonare in sì gran pericolo! Tu sai che io ho sempre i tuoi piaceri seguiti. Vagliami la vera fede che io ho portata alla tua signoria, la quale me a sé sottomettere non dovea sanza intendimento d'aiutarmi infino alla fine de' miei disii. Volessero gl'iddii che mai la tua saetta non si fosse distesa verso il mio cuore, né che mai veduta fosse stata da me la luce de' begli occhi di Biancifiore, da' quali ora per la tua potenza medesima tradito e ingannato mi trovo! Oimè misero, quante fiate già per la tua potenza mi giurò ella che mai me per altrui non lascerebbe, e io a lei simile promissione feci! Io l'ho osservata, ma ella m'ha abandonato. Ove è fuggita la promessa fede? E tu dove se', o Amore, il cui potere è stato schernito da questa giovane? Come non ti vendichi, e me similmente? Se tu così notabile fallo lasci impunito, chi avrà in te già mai fidanza? Tu perseguitasti il misero Ipolito infino alla morte perché egli sdegnava tua signoria: come costei, che l'ha ingannata, non punisci? Io non ne cerco però grave punizione, ma solamente che tu la ritorni nel pristino stato; e se questo conceder non mi vuoi, consenti di chiudere con le tue mani i miei occhi, acciò che più la mia vita in sì fatta maniera non si dolga. Deh, ascolta i prieghi del misero, o caro signore; rivolgiti verso lui con pietoso viso, acciò ch'egli possa avere alcuna consolazione anzi la morte, la quale tosto, in dispiacere del mio padre, prendere mi possa, il quale di questo male è cagione, però che se egli non fosse, io non sarei stato lontano, e essendo stato presente, la mia Biancifiore non avrebbe me per Fileno dimenticato: avvegna che ancora io credo che per paura di lui ella si sia ingegnata d'avere altro amadore. Oimè, che nulla cagione è che a me non sia contraria! A me avviene sì come alla nave, alla quale, già mezza inghiottita dalle tempestose onde, ogni vento è contrario. O misera fortuna, i tuoi ingegni s'aguzzano a nuocere a me, apparecchiato di ruinare! Oimè, perché questo sia io non so. Tu fosti già a me benignissima madre, e ora mi se' acerba matrigna. Io mi ricordo già sedere nella sommità della tua rota, e veder te con lieto viso onorarmi: e questo era quando il lieto viso di Biancifiore m'era presente, mostrandomi quello amore che parimente insieme ci portavamo; ma tu, credo, invidiosa di sì graziosa gioia com'io sentiva, non sostenesti tener ferma la tua volubile rota, ma voltando non sanza mio gran dolore, allontanandomi dal bel viso, mi pingesti a Montoro. Qui con grandissimi tormenti stando, imaginava me essere nella più infima parte della tua rota, né credea più potere discendere; ma tosto con maggiore infortunio mi facesti conoscere quella avere più basso luogo: e questo fu quando non bastandoti me avere allontanato da lei, t'ingegnasti d'opporre alle forze degl'iddii, volendola far morire, alla cui salute, non tua mercé, io fui arditissimo difenditore. E in tale stato, con più sospiri, che per lo passato tempo avuti non avea, mi tenesti grande stagione, sperando io di dovere risalire, se si voltasse: però che tanto m'era paruto scendere, che 'l centro dell'universo mi parea toccare. Ma tutto ciò non bastandoti, ancora volesti che niuno luogo fosse nella tua rota, che da me non fosse cercato; e ha'mi ora in sì basso luogo tirato, che con la tua potenza, ancora che benigna mi ritornassi come già fosti, trarre non me ne potresti. Io sono nel profondo de' dolori e delle miserie, pensando che la mia Biancifiore abbia me per altrui abandonato. O dolore sanza comparazione! O miseria mai non sentita da alcuno amante che è la mia! Avvegna che io non sia il primo abandonato, io son solo colui che sanza legittima cagione sono lasciato. La misera Isifile fu da Giansone abandonata per giovane non meno bella e gentile di lei, e per la salute propia della sua vita, la quale sanza Medea avere non potea. Medea poi per la sua crudeltà fu giustamente da lui lasciata, trovando egli Creusa più pietosa di lei. Oenone fu abandonata da Paris per la più bella donna del mondo. E chi sarebbe colui che avanti non volesse una reina discesa del sangue degl'immortali iddii, che una rozza femina usata ne' boschi? Oh quanti essempli a questi simili si troverebbero! Ma al mio dolore niuno simile se ne troverebbe, che un figliuolo d'un re per un semplice cavaliere sia lasciato, dove la virtù avanza nell'abandonato. Deh, misera fortuna, se io avessi ad inganno avuto l'amore di Biancifiore, come Aconzio ebbe quello di Cidipe, certo alquanto parrebbe giusto che io fossi per più piacevole giovane dimenticato; ma io non con inganno, non con forza, non con lusinghe ricevetti il grazioso amore, anzi benignamente e con propia volontà di lei, cercando co' propii occhi se io era disposto a prenderlo, e trovando di sì, mel donò: il qual ricevuto, a lei del mio feci subitamente dono. Adunque perché questa noia? Perché consentire me per altro essere dimenticato? Oimè, che le mie voci non vengono alle tue orecchi. Or volessero gl'iddii che mai lieta non mi ti fossi mostrata! Certo io credo che 'l mio dolore sarebbe minore, però che io reputo felicissimo colui che non è uso d'avere alcuna prosperità, però che da quella sola, perdendola, procede il dolore. E di che si può dolere chi dimora sempre con quello ch'egli ebbe? Tu ora m'hai posto sì abasso, che più non credo potere scendere: nel quale luogo, sì come più doloroso che alcuno altro, mai sanza lagrime non dimorerò. Piaccia agl'iddii che sopravegnente morte tosto me ne cavi».

 

E poi che queste cose piangendo avea dette, rimirava all'anello che in dito portava, e diceva:

 

«O bellissimo anello, fine delle mie prosperità e principio delle miserie, gl'iddii facciano più contenta colei che mi ti donò, che essi non fanno me. Deh, come non muti tu ora il chiaro colore, poi che ha la tua donna mutato il cuore? Oimè, che perduta è la reverenza che io ho a te e all'altre cose da lei ricevute portata! Ogni mio affanno in picciola ora è perduto: ma poi che ella mi s'è tolta, tu non ti partirai da me. Tu sarai etterno testimonio del preterito amore, e così come io sempre nel cuore la porterò, tu così sempre nella usata mano starai».

 

E poi bagnandolo di lagrime, infinite volte il baciava chiamando la morte che da tale affanno col suo colpo il levasse, e più forte piangendo diceva:

 

«Oimè, perché più si prolunga la mia vita? Maladetta sia l'ora ch'io nacqui e che io prima Biancifiore amai. Or fosse ancora quel giorno a venire, né già mai venisse. Ora fossi io in quell'ora stato morto, acciò che io essemplo di tanta miseria non fossi nel mondo rimaso. Ma certo la mia vita non si prolungherà più!».

 

E postasi mano allato, tirò fuori un coltello, il quale da Biancifiore ricevuto avea, dicendo:

 

«Oggi verrà quello che la dolorosa mente s'imaginò quando donato mi fosti, cioè che tu dovevi essere quello che la mia vita terminerebbe: tu ti bagnerai nel misero sangue, tenuto vile dalla tua donna, la quale, sappiendolo, forse avrà più caro avermiti donato, per quello che avvenuto ne sarà, che per altro».

 

Mentre che Florio piangendo dolorosamente queste parole diceva, disteso sopra 'l suo letto, Venere, che il suo pianto avea udito, avendo di lui pietà, discese del suo cielo nella trista camera, e in Florio mise un soavissimo sonno, nel quale una mirabile visione gli fu manifesta.

 

 

[19]

 

Poi che Florio, da dolce sonno preso, ebbe lasciato il lagrimare, nuova visione gli apparve. A lui parea vedere in un bellissimo piano un gran signore coronato di corona d'oro, ricca per molte preziose pietre, le quali in essa risplendeano maravigliosamente, e i suoi vestimenti erano reali. E parevagli che questi tenesse nella sinistra mano uno arco bellissimo e forte, e nella destra due saette, l'una d'oro, e quella era agutissima e pungente, l'altra gli parea di piombo, sanza alcuna punta. E questo signore, il quale di mezza età, né giovane né vecchio, giudicava, gli parea che sedesse sopra due grandissime aquile, e i piedi tenesse sopra due leoni, e nell'aspetto di grandissima autorità. E quanto Florio più costui guardava, più mirabile gli parea, ventilando due grandissime ali d'oro, le quali dietro alle spalle avea. Ma poi che a Florio parve per lungo spazio avere lui riguardato, elli gli parve vedere dalla destra mano del signore una bellissima donna, la quale ginocchioni davanti al signore umilemente pregava; ma egli non poteva intendere di che, se non che, fiso riguardando la donna, gli parve che fosse la sua Biancifiore. Poi alla sinistra mano del signore rimirando, vide un tempestoso mare, nel quale una nave con l'albero rotto, e con le vele le quali piene d'occhi gli pareano tutte spezzate, e con li timoni perduti e sanza niuno governo. E in quella nave gli parea essere, a lui, tutto ignudo, con una fascia davanti agli occhi, e non sapere che si fare; e dopo lungo affannare in questa nave, gli parea vedere uscire di mare uno spirito nero e terribile a riguardare, il quale prendeva la proda di questa nave, e tanto forte la tirava in giuso che già mezza l'aveva nelle tempestose onde tuffata. Allora Florio, forte spaventato sì per lo fiero aspetto dello spirito sì che si vedea la morte vicina per la tempestante nave, con grandissimo pianto verso la poppa gli parea fuggire e gridare verso quel signore "Aiuto". Ma egli non parea che alle sue parole né a' suoi prieghi colui si movesse; onde Florio più temea, sentendo ciascuna ora più la nave affondare. Poi dopo alquanto spazio gli parea che questo signore gli dicesse: "Io sono colui cui tu hai già tanto chiamato ne' tuoi sospiri: non credere che io ti lasci perire". Ma per tutto questo niente si muove. Ma poi che a Florio piangendo con grandissima paura parve avere un grandissimo pezzo aspettato, a lui parve che la fascia, che davanti agli occhi avea, alquanto s'aprisse, e fossegli conceduto di vedere dove stava: e com'egli aperse gli occhi a riguardare, vide essere già quella nave tanto tirata sotto l'onde, che poco o niente se ne parla. Allora, forte piangendo, gli parea domandare mercé e aiuto, e alzando gli occhi al cielo per invocare quello di Giove, parendogli che quello di quel signore li fallisse, e egli vide una bellissima giovane tutta nuda, fuori che in uno sottile velo involta, e dicevagli: "O luce degli occhi miei, confortati". A cui Florio rispondea: "E che conforto poss'io prendere, che già mi veggo tutto sotto l'onde?". La giovane gli rispondea: "Caccia dalla tua nave quello iniquo spirito, il quale con la sua forza s'ingegna d'affondarla". A cui Florio parea che rispondesse: "E con che il caccerò io, che niuna arma m'è rimasa?". Allora parea a Florio che costei traesse del bianco velo una spada, che parea che tutta ardesse, e dessegliela; la quale Florio poi che presa l'avea, gli pareva rimirare costei e dire: "O graziosa giovane, che ne' miei affanni tanto aiuto vi insegnate di porgermi, se vi piace, siami manifesto chi voi siete, però che a me conoscere mi vi pare, ma la lunga fatica m'ha sì stordito, che il vero conoscimento non è con meco". Questa parea che così gli rispondesse: "Io sono la tua Biancifiore, di cui tu oggi, ignorante la verità, ti se' tanto sanza ragione doluto"; e questo detto, parea a Florio che essa gli porgesse un ramo di verde uliva e disparisse. Poi parea a Florio con l'ardente spada leggerissimo andare sopra l'onde e ferire lo iniquo spirito più volte, ma dopo molti colpi gli parea che lo spirito lasciasse il legno, tornandosi per quella via onde era venuto. E partito lui, a Florio parea che il mare ritornasse alquanto più tranquillo, e il legno nel suo stato, di che in se medesimo si rallegrava molto. E volendo intendere a racconciare i guasti arnesi della sua nave, il lieve sonno subitamente si ruppe. E Florio dirizzato in piè, sospirando e quasi stordito per la veduta visione, si trovò in mano un verde ramo d'uliva: per la qual cosa vie più d'ammirazione prese, e incominciò a pensare sopra le vedute cose e sopra il verde ramo. E poi che egli ebbe lungamente pensato, e egli incominciò così fra se medesimo a dire: "Veramente avrà Amore le mie preghiere udite, e forse in soccorso della mia vita, vorrà tornare Biancifiore in quello amore verso di me che ella fu mai, però che la voce di lei mi riconfortò nella affannosa tempesta ove io mi vidi, e diemmi argomento da campare da quella, e in segno di futura pace mi donò questo ramo delle frondi di Pallade: onde poi che così è, io voglio avanti piangendo alquanto aspettare che Biancifiore mi mostrerà di voler fare, che subitamente, sanza farle sentire ciò che Fileno m'ha detto, uccidermi con le propie mani". E questo detto, riprese il coltello che sopra il letto ignudo stava, e quello rimise nel suo luogo; e sanza più indugio, come propose, così fece una pistola, la quale egli mandò a Biancifiore, in questo tenore:

 

 

[20]

 

«Se gli avversarii fati, o graziosa giovane, t'hanno a me con l'altre prosperità levata, come io credo, non con isperanza di poterti con i miei prieghi muovere dal novello amore, ma pensando che lieve mi fia perdere queste parole con teco insieme, ti scrivo. La qual cosa se non è com'io estimo, se parte alcuna di salute m'è rimasa, io la ti mando per la presente lettera, della quale volessero gl'iddii che io fossi avanti aportatore; e per quello amore che tu già mi portasti, ti priego che questa sanza gravezza infino alla fine legghi. E però che pare che sia alcuno sfogamento di dolore a' miseri ricordare con lamentevoli voci le preterite prosperità, a me misero Florio, da te abandonato, con teco, sì come con persona di tutte consapevole, piace di raccontarle; e forse udendole tu, che pare che messe l'abbi in oblio, conoscerai te non dovere mai me per alcuno altro lasciare. Adunque, sì come tu sai, o giovane donzella, tu, in un giorno nata ne' reali palagi con meco di pellegrino ventre, compagna a' miei onori divenisti, che sono unico figliuolo del vecchio re: ne' quali onori tu e io parimente dimorando, Amore l'uno così come l'altro, ne' nostri puerili anni, con la cara saetta ferì. Né più fu in sì tenera età perfetto l'amore d'Ifis e di lante che fu il nostro. E quello studio che a noi, costretti da aspro maestro, ne' libri si richiedeva, cessante Racheio, in rimirarci mettevamo, mostrando lo inestimabile diletto che ciascuno di ciò avea. Oimè, che ancora niuno ricordo era nella nostra corte di Fileno, il quale di lontana parte dovea venire a donarti simile gioia. Ma poi la fortuna, mala sostenitrice delle altrui prosperità, invidiosa de' nostri diletti, i quali con dolci sguardi e semplici baci solamente si contentavano per la età che semplice era, verso di noi innocenti volle la sua potenza mostrare, e, abassando con la sinistra mano la non riposante rota, il nostro occulto amore a sospette persone fece manifesto. Il quale dal mio padre, dopo gravi riprensioni maestrali, saputo, fui costretto di partirmi da te: nella quale partita, tu mia e io sempre tuo, per la somma potenza di Citerea, giurammo di stare, mentre Lachesis, fatale dea, la vita ne nutricasse. E nel mio partire mi vedesti piangere, e tu piangesti; e ciascuno di noi egualmente dolente, mescolammo le nostre lagrime. E sì come l'abbracciante ellera avviticchia il robusto olmo, così le tue braccia il mio collo avvinsero, e le mie il tuo simigliantemente; e appena ci era licito ad alcuno di lasciare l'uno l'altro, infino a tanto che tu per troppo dolore costretta nelle mie braccia semiviva cadesti, riprendendo poi vita quando io cercava teco morire, te riputando morta. Ora fosse agl'iddii piaciuto che allora il termine della mia vita fosse compiuto! Ma tu poi levata, e donatomi quello anello il quale ancora te mi tiene legata nel cuore e terrà sempre, mi pregasti che mai io non ti dovessi dimenticare per alcuna altra. Alle quali parole s'aggiunsero sì tosto le lagrime che appena ne fu possibile dire addio. E dopo la mia partita mi ricorda avere udito che tu con gli occhi pieni di lagrime mi seguitasti infino a tanto che possibile ti fu vedermi, sì come io similemente stetti sempre con gli occhi all'alta torre, ove te imaginava essere salita per vedere me. Tu rimanesti nelle nostre case visitando i luoghi dove più fiate stati eravamo insieme, e in quelli con sì fatta ricordanza prendevi alcuno diletto imaginando. Ma io misero, poi che i tristi fati da te m'ebbero allontanato, come gl'iddii sanno, niuno diletto si poté al mio animo accostare sanza ricordarmi di te; e ciascun giorno i miei sospiri cresceano trovandomi lontano alla tua presenza; e quelle fiamme le quali il mio padre credeva, lontanandomi da te, spegnere, con più potenza sempre si sono raccese e divenute maggiori. Oimè, ora quante fiate ho io già pianto amaramente per troppo disio di veder te, e quante fiate già nel tenebroso tempo, quando amenduni i figliuoli di Latona nascosi ci celano la loro luce, venni io alle tue porti dubitando di non essere sentito da' miei minori servidori, e non temendo la morte che nelle mani degli insidianti uomini ne' notturni tempi dimora, né de' fieri leoni, né de' rapaci lupi per lo cammino usanti in sì fatte ore! E quante volte già giovani donne per rattiepidare i miei tormenti, le cui bellezze sarieno agl'iddii bene investite, m'hanno del loro amore tentato, né mai alcuna poté vincere il forte cuore, a te tutto disposto di servire! E poi, oltre a tutte l'altre tribulazioni, gl'iddii sanno quanto grave mi fosse ciò che di te intesi, quando ingiustamente condannata fosti alla crudele morte: alla quale io con tutte le mie forze, mercé degl'iddii che m'aiutarono, conoscendo la ingiustizia a te fatta, m'opposi in maniera che me con teco trassi da tale pericolo. E poscia ognora in maggiore tribulazione crescendo, dubitando della tua vita, mai non divenni vile a sostenere tormenti per te, né mai per tutte le contate cose una fiata mi pentii d'averti amata, né proposi di non volerti amare, ma ciascuna ora più t'amai e amo, avvegna che te io aggia tutto il contrario trovata, però che tu non hai potuto la minor parte delle mie miserie sostenere in mio servigio. Tu, mobile giovane, ti se' piegata come fanno le frondi al vento, quando l'autunno l'ha d'umore private. Tu agl'ingannevoli sguardi di Fileno, il quale non lunga stagione t'ha tentata, se' dal mio al suo amore voltata. Oimè, or che hai tu fatto? E se questo forse negare volessi tu, non puoi, con ciò sia cosa che la sua bocca a me abbia tutte queste cose manifestate. E oltre a ciò, volendomi mostrare quanto il tuo amore sia fervente verso di lui, mi mostrò il velo che tu della tua testa levasti e donastilo a lui: il quale quand'io il vidi, un subito freddo mi corse per le dolenti ossa, e quasi smarrito rimasi nella sua presenza. Oimè, come io volontieri gli avrei con le pronte mani levato il caro velo, e lui, che s'ingegnava di te levarmi, tutto squarciato, cacciandolo da me con grandissima vergogna; ma per non scoprire quello che nel mio cuore dimorava e per udire più cose, sostenni con forte viso di riguardare quello per amore di te, imaginando che per adietro la tua testa, a me graziosissima a ricordare, avea coperta. Oimè, ora è questa la costanza che io ho avuta verso di te? Deh, or non sai tu quante e quali donne m'hanno per maritale legge al mio padre adimandato, e quante e quali egli me ne ha già volute dare per volermi levare a te? Or non consideri tu quanti e quali dolori io ho già per te sostenuti per l'esserti lontano, e sostengo continuamente? Queste cose non si dovrieno mai del tuo animo partire, le quali mostra che assai da esso lontane sieno, veggendomi io essere per Fileno abandonato. Deh, ora qual cagione t'ha potuto a questo muovere? Certo io non so. Forse mi rifiuti per basso lignaggio, sentendo te essere degli altissimi prencipi romani discesa, le cui opere hanno tanta di chiarezza, che ogni reale stirpe obumbrano, e me del re di Spagna figliuolo, onde riputando te più gentile di me, m'hai per altro dimenticato? Ma tu, stoltissima giovane, non hai riguardato per cui, però che se bene avessi cercato, tu avresti trovato Fileno non essere di reale progenie, né di romano prencipe disceso, ma essere un semplice cavaliere. E se forse più bellezza in lui che in me ti muove, certo questo è vano movimento, con ciò sia cosa che egli non sia bellissimo né io sì laido, che per quello dovessi essere lasciato da te. Se forse in lui più virtù che in me senti, questo non so io, ma certo da alcuno amico m'è stato raportato segretamente me essere nel nostro regno tra gli altri giovani virtuoso assai. Oimè, che io non so perché in queste cose menome io scrivendo dimoro, con ciò sia cosa che il piacere faccia parere il laido bellissimo, e colui ch'è sanza virtù copioso di tutte, e il villano gentilissimo riputare. Io mi piango con più doloroso stile pensando che quando tutte le ragioni di sopra dette aiutassero Fileno, come elle debitamente me difendono, perché dovrei io essere da te lasciato già mai? Ove credi tu mai trovare un altro Florio il quale t'ami com'io fo? Quando credi tu avere recato Fileno a tal partito ch'egli per te si disponga alla morte com'io feci? Oimè, ove è ora la fede promessa a me? Deh, se io fossi molto allontanato da te con questa speranza con la quale io t'era vicino, alcuna scusa ci avrebbe: o dire: "Io mai più vedere non ti credea", o porre scusa di rapportata morte: delle quali qui niuna porre ne puoi, però che di me continue novelle sentivi e ognora potevi udire me essere a te subietto che mai. Oimè, ch'io non so quale iddio abbia la sua deità qui adoperata in fare che tu non sii mia come tu suoli, né so qual peccato a questo mi nuoccia. Fallito verso te non ho, salvo io non avessi peccato in troppo amarti dirittamente: al quale fallo male si confà la dolente pena che m'apparecchi, cioè d'amare altrui e me per altro abandonare. Ma tanto infino ad ora ti manifesto che, con ciò sia cosa che mai io non possa sanza te stare né giorno né notte che tu sempre ne' miei sospiri non sia, se questo esser vero sentirò, con altra certezza che quella che io ti scrivo, per gli etterni iddii la mia vita in più lungo spazio on si distenderà, ma contento che nella mia sepoltura si possa scrivere: "Qui giace Florio morto per amore di Biancifiore", mi ucciderò, sempre poi perseguendo la tua anima, se alla mia non sarà mutata altra legge che quella alla quale ora è costretta. Io avea ancora a scriverti molte cose, ma le dolenti lagrime, le quali, ognora che queste cose che scritte t'ho mi tornano nella mente, avvegna che dire potrei che mai non escono, mi costringono tanto, che più avanti scrivere non posso. E quasi quello che io ho scritto non ho potuto interamente dalle loro macchie guardare; e la tremante mano, che similemente sente l'angoscia del cuore che mi richiama all'usato sospirare, non sostiene di potere più avanti muovere la volonterosa penna: onde io nella fine di questa mia lettera, se più merito d'essere da te udito come già fui, ti priego che alle prescritte cose provegghi con intero animo. Nelle quali se forse alcuna cosa scritta fosse la quale a te non piacesse, non malizia, ma fervente amore m'ha a quella scrivere mosso, e però mi perdona. E se quello che il tristo cuore pensa è vero, caramente ti priego che, se possibile è, indietro si torni. E se forse l'amore che tu m'avesti già né i miei prieghi a questo non ti strignesse, stringati la pietà del mio vecchio padre e della misera madre, a' quali tu sarai cagione d'avermi perduto. E se così non è, non tardi una tua lettera a certificarmene, però che infino a tanto che questo dubbio sarà in me, infino a quell'ora il tuo coltello non si partirà della mia mano, presto ad uccidere e a perdonare secondo ch'io ti sentirò disposta. Avanti non ti scrivo, se non che tuo son vivuto e tuo morrò: gl'iddii ti concedano quello che onore e grandezza tua sia, e me per la loro pietà non dimentichino».

 

 

[21]

 

Fatta la pistola, Florio piangendo la chiuse e suggellò; e chiamato a sé un suo fedelissimo servidore, il quale era consapevole del suo angoscioso amore, così gli disse:

 

«O a me carissimo sopra tutti gli altri servidori, te' la presente lettera, la quale è segretissima guardia delle mie doglie, e con studioso passo celatamente a Biancifiore la presenta, e priegala che alla risposta niuno indugio ponga, però che per te l'attendo. Se avviene che la ti doni, niuna cagione ti ritenga, ma sollecitamente a me quanto più cheto puoi, fa che la presenti, acciò che degnamente possi nella mia grazia dimorare. Va, che 'l molto disio mi cuoce d'udire quello che a questa si risponderà; e guarda che niuno altro che quella propia cui io ti mando la vedesse».

 

Prese il servo la suggellata pistola, e quella, con istudioso passo, pervenuto in Marmorina nelle reali case, presentò a Biancifiore occultamente. La quale come Biancifiore la vide, primieramente con dolci parole domandò come il suo Florio stesse. A cui il servo rispose:

 

«Graziosa giovane, niuno sospiro è sanza lui. Egli si consuma in isconvenevole amaritudine, la cagione della quale è a me nascosa».

 

Udito questo, Biancifiore cominciò a sospirare, dicendo:

 

«Oimè, e per quale cagione potrebbe questo essere?».

 

«Per niuna credo - rispose il servo, - se per amore di voi non è. Egli vi manda caramente pregando che sanza alcuno indugio alla presente pistola rispondiate; e io, se vi piacerà, attenderò la risposta».

 

Allora Biancifiore la presa pistola si pose sopra la testa, e, avanti che l'aprisse, la baciò forse mille fiate, e, partita dal messaggiere, gli disse che di presente la risposta gli recherebbe, e sola nella sua camera se n'entrò, dubitando che dir dovesse la presente lettera. E, rotto il tenero legame, aprì quella, né più tosto la prima parte ne lesse, che i begli occhi s'incominciarono a bagnare d'amare lagrime; e così, ognora più forte piangendo come più avanti leggeva, la finì di leggere. Ma poi che con pianti e con sospiri più fiate l'ebbe reiterata leggendo, angosciosa molto nella mente della falsa imaginazione, di Florio, la quale avea di verità viso per lo mal donato velo, sopra 'l suo letto si pose, e a quella così al suo Florio rispose:

 

 

[22]

 

«Non furono sanza molte lagrime gli occhi miei, quando primieramente videro la tua pistola, o nobilissimo giovane, sola speranza della dolente anima, la quale con gravissima angoscia molte fiate rilessi. E certo ella non fu dal tuo pianto macchiata quasi in alcuna parte, a rispetto che le mie lagrime la macchiarono. E più volte leggendo quella, fra me pensai aver difetto d'intendimento, alcuna volta dicendo fra me medesima: "Io non la intendo bene, però che non potrebbe essere che intendimento di Florio fosse di scrivermi le parole che semplicemente guardando pare che questa pistola porga". Altra volta dicea: "Forse Florio mi tenta, e vuole vedere se io mi muto per asprezza di parole". Ma poi che ogni intendimento si cessò da me, e lasciommisi credere che tu credevi quello che scrivevi, appena credetti potere a tanto sforzare la deboletta mano che la penna in quella sostenere si potesse per volerti rispondere; ma poi che pure sforzandomi gl'iddii mi concedono potere a te rispondere, per questa, quella salute che per me disidero, ti mando. E se alcuna fede merita il leale amore ch'io ti porto, ti giuro per gl'immortali iddii che e' non t'era bisogno distenderti in tanto scrivere per mostrarmi quanto sia stato o sia l'amore che mi porti, però che molto maggiore credo che sia che la tua lettera non mostra, né tu per parole potresti mostrare. E similmente i lunghi affanni e i gran meriti, a' quali io mai aggiunger non potrei a remunerare il più picciolo, per quella conobbi. Ma il sentirti piagnere della intera fede la quale mai né ti ruppi, né disiderai di romperti, m'ha mossa a lagrimare e istrinta a scriverti, disiderosa di farti certo te mai da me non essere dimenticato, né potere possibile mai divenire che io ti dimentichi. Io, o grazioso giovane, non credo me essere nata de' ferocissimi leoni barbarici, né delle robuste querce d'Ida, né delle fredde marmore di Persia, dalle quali cose risomigliando passi di rigidezza i libiani serpenti; ma di pietoso padre e di benigna madre, sì come più fiate m'è stato detto, discesi, e per quella legge che sono gli umani corpi dalla natura tratti, e io similemente, ma non dalla fortuna. Né appresi mai, né so essere, né disidero di saperlo, crudele e sanza umano conoscimento come tu imagini. Tu mi scrivi che Amore me, come te, ne' nostri puerili anni, insiememente ferì: della qual cosa io non meno di te mi ricordo. E certo egli mi trovò atta e disposta ad amare come te similemente, né più durezza credo che trovasse nel mio che nel tuo cuore, o abbia mai trovata. Per la qual cosa, se tu con affanni infiniti se' lontano a me dimorato, io non dimorai mai né dimoro con diletto a te lontana, anzi mi sento da diverse punture molestare per simile cagione che senti tu, né mai infinta lagrima né falsa parola per più accenderti udisti da me: ma volessero gl'iddii che possibile fosse te aver potuto vedere e udire le vere, le quali se vedute avessi, forse più temperatamente avresti scritto, quando dicesti me non essere costante a sostenere per te uno affanno, né in amarti. Ma però che tutto questo spero con l'aiuto degl'iddii ancora doversi mani festare a te con apertissimo segno, più non mi stendo a scrivertene, essendo non meno da più grave dolore costretta, sentendo te credere essere da me per Fileno abandonato, sì come la tua lettera mostra, la quale quando vidi, assalita da non picciola doglia, per poco non morii. Oimè, quanto m'è la fortuna avversa! Tu vai cercando di mostrarmi cagioni per le quali io debbia aver te per Fileno lasciato, e quelle tu medesimo l'annulli: e veramente da annullare sono! E se di te quel senno non è partito che aver suoli, dovresti pensare che io non sono del senno uscita, che io non conosca manifestamente te di nobiltà avanzare Fileno, semplice cavaliere della tua corte, e me picciolissima serva di te e del tuo padre, a cui tu rimproveri, faccendoti beffe di me, me esser discesa degli antichi imperadori romani, i quali gl'iddii guardino che sì poco torni la loro potenza, che ad essere servi, com'io sono, torni la loro sementa. Né ancora mi si occulta la tua virtù, né la tua bellezza piena di graziosa piacevolezza, a me cagione d'intollerabile tormento: per le quali cose saresti più degno amante dell'alta Citerea che di me. E certo, ben che io ti conosca nobilissimo, virtuoso e pieno di bellezza più che alcuno altro, e me sanza alcuna di queste cose, non sono io però invilita ch'io non abbia ardire di perfettamente amarti, come che mi si convenga o no. Ora dunque, se tutte queste cose sono da me conosciute, come è credibile che io per Fileno te potessi dimenticare? E non ti ritenesti di dire che io, femina di fragilissima natura, niuna avversità per amor di te sostenere non avea potuto, volendo quasi dire che per alleggiare i sospiri, che per te, a me lontano, sento insieme con molte pene, cercai di volere prossimano amadore, il quale più spesso veggendo, mi rallegrassi. Oimè, che falsa oppinione porti, se questo credi! Ma certo più per tentarmi, che per altro il fai, però che io so che tu conosci che io mai dal mio nascimento, risomigliando da' miei parenti, sanza avversità non fui, per la qual cosa a forza m'è convenuto divenire maestra di sostenere quelle: e se io l'ho sostenute grandissime tu il sai, che gran parte con meco insieme n'hai sentite. Pensa certamente che alcuni sospiri mai non furono cocenti come sono quelli i quali io per troppo disio di te mando fuori della mia bocca, né lagrime mai con tanta copia bagnarono petto, quanto hanno le mie il mio bagnato, solo per lo tuo essere lontano. Ma veramente non molto tempo passerà che tu potrai dire che io sia fragile a sostenere l'avversità nelle quali io sono circuita, però ch'io sento la mia vita fuggire da me con istudioso passo, e l'anima, che il dolore del dolente cuore non puote sostenere, l'ha già più volte voluto abandonare, e solo alcuno conforto, che io allora ho preso sperando di rivederti, l'ha ritenuta. Ma se così fatti dolori aggiugni a quelli che io ho infino a qui sentiti, come fatto hai al presente per la tua pistola, io non aspetterò che l'anima cerchi congedo, anzi gliele darò costringendola del partire, se ella forse volesse dimorare. Io sono entrata in nuova dubitazione, la quale m'è a pensare molto grave, e appena mi si lascia credere. Ma Amore, che ammollisce i duri cuori, mel fa tal volta credere e alcuna altra discredere, che tu, o signor mio, scritto non m'abbia che io abbia te per Fileno dimenticato, acciò che io ragionevolemente di te piangere non mi possa, se per alcuna altra me hai costà dimenticata; ma tutta fiata non sono di tanta falsa oppinione che io il possa credere, anzi dico, qualora quel pensiero m'assale, niuna ragione farà mai che Biancifiore sia se non di Florio, o Florio se non di Biancifiore. Ma sanza fine mi s'attrista il cuore, qualora in quella parte della tua pistola leggo, ove scrivi me dovere avere donato a Fileno in segno di perfetto amore il velo della mia testa, il quale di' che quando il ti mostrò, volentieri avresti levatogliene, squarciando lui tutto. La qual cosa volessero gl'iddii che tu fatto avessi, però che a me sarebbe stata non picciola consolazione nell'animo, e la cagione è questa: io non niego che quel velo, vilissima cosa, non fosse a lui donato dalle mie mani, ma certo il cuore nol consentì mai, ma così costretta dalla tua madre mi convenne fare. Per lo quale egli, forse pigliando intera speranza di pervenire al suo intendimento per tale segnale, più volte con gli occhi e con parole mi tentò di trarmi ad amarlo, la qual cosa credo impossibile sarebbe agl'iddii; né mai da me più avanti poté avere. Né è però da credere che in un velo o in altro gioiello si richiuda perfetto amore: solamente il cuore serva quello, e io, che più che altra giovane il sento per te, posso con vere parole parlarne. E che io niuna persona amai, se non solamente te, ne chiamo testimonii gl'iddii, a' quali niuna cosa si nasconde: e però io ti priego che il velo, non volonterosamente donato, non ti porga nel cuore quella credenza che da prendere non è. Niuna persona è nel mondo amata da me se non Florio. Lascia ogni malinconia presa per questo, se la mia vita t'è cara, e spera che ancora fermamente conoscerai ciò che io ora ti prometto, e la tua vita con la mia insieme caramente riguarda: a luogo e a tempo gl'iddii rimuteranno consiglio, forse concedendoci migliore vita che noi da noi non eleggeremmo. Rifiuta i non dovuti ozii e seguita i leali diletti; e se tu mi porterai tanto nell'animo quanto io fo te, tu conoscerai me non essere meno affannata da' pensieri che tu sii. E caramente ti priego che con sì fatte lettere tu non solleciti più l'anima mia, disposta a cercare nuovo secolo: che posto che tu con forte animo il mio coltello tenghi nella mano, a me corto laccio non farebbe sostenere di leggiere la seconda, solo che in quella così come in questa mi parlassi. Biancifiore non fu mai se non tua, e tua sarà sempre. Adoperino i fati secondo che ella ama, e sanza fallo contento viverai».

 

 

[23]

 

Biancifiore piegò la scritta pistola, piena di non poco dolore, e posta in sul legame la distesa cera, avendo la bocca per troppi sospiri asciutta, con le amare lagrime bagnò la cara gemma, e, suggellata quella, con turbato aspetto uscì della camera, a sé chiamando il servo, che già per troppa lunga dimoranza che fare gli parea s'incominciava a turbare. Al quale ella disse:

 

«Porterai questa al tuo signore, a cui gl'iddii concedano miglior conforto che egli non s'ingegna di donare a me».

 

E detto questo, piangendo baciò la lettera, e posela in mano al fedele servo, il quale sanza niuno indugio volto li passi verso Montoro, e là in picciolo spazio pervenuto, trovò Florio nella sua camera, ove lasciato l'avea, con grandissima copia di lagrime e di sospiri, a cui egli porse la portata pistola, dicendogli ciò che da Biancifiore compreso avea e le sue parole. E partito da lui, Florio aperse la ricevuta lettera, e quella infinite volte rilesse pensando alle parole di Biancifiore, sopra le quali faccendo diverse imaginazioni, sopra il suo letto con essa lungamente dimorò.

 

 

[24]

 

Diana, alla quale niuno sacrificio era stato porto come agli altri iddii fu, quando Biancifiore dal grandissimo pericolo fu campata, avea infino a questa ora la concreata ira tenuta nel santo petto celata, la quale non potendosi più avanti tenere, discesa degli alti regni, cercò le case della fredda Gelosia, le quali nascose in una delle altissime rocce d'Appennino, entro a una oscurissima grotta, trovò intorniate tutte di neve; né v'era presso albero o pianta viva fuori che o pruni o ortiche o simili erbe; né vi si sentia voce alcuna di gaio uccello: il cuculo e 'l gufo aveano nidi sopra la dolente casa. Alla quale venuta la santa dea, quella trovò serrata con fortissima porta, né alcuna finestra vi vide aperta. Fu dalla immortale mano con soave toccamento toccata l'antica porta, la quale non prima fu tocca, che dentro cominciarono a latrare due grandissimi cani, secondo che le voci li facea manifesti; dopo il quale latrare una vecchia con superbissima voce, ponendo l'occhio a uno picciolo spiraglio, mirò di fuori, dicendo:

 

«Chi tocca le nostre porti?».

 

A cui la santa dea disse:

 

«Apri a me sicuramente: io sono colei sanza il cui aiuto ogni tua fatica si perderebbe».

 

Conobbe l'antica vecchia la voce della divina donna, e a quella con tento passo andando, con non poca fatica per gli inruginiti serramenti aperse la porta, la quale nel suo aprire fece un sì grandissimo strido, che di leggiero poria essere stato sentito infino all'ultime pendici del monte. E fatta la dea passar dentro, con non minore romore riserrò quelle, difendendo appena i bianchi vestimenti della dea dalle agute sanne de' bramosi cani, a' quali per magrezza ogni osso si saria potuto contare: caccia quelli con roca voce e con un gran bastone col quale sostenea i vecchi membri. Era quella casa vecchissima e affumicata, né era in quella alcuna parte ove Aragne non avesse copiosamente le sue tele composte; e in essa s'udiva una ruina tempestosa, come se i vicini monti, urtandosi insieme, giugnessero le loro sommità, le quali per l'urtare pestilenzioso diroccati cadessero giuso al piano. Niuna cosa atta ad alcuno diletto vi si vedea: le mura erano grommose di fastidiosa muffa, e quasi parea che sudando lagrimassero; né in quella casa mai altro che verno non si sentiva, sanza alcuna fiamma da riconfortare il forte tempo: ben v'era in uno de' canti un poco di cenere, nella quale riluceano due stizzi già spenti, de' quali la maggior parte una gattuccia magra covando quella occupava. E la vecchia abitatrice di cotal luogo era magrissima e vizza, nel viso scolorita; i suoi occhi erano biechi e rossi, continuamente lagrimando; di molti drappi vestita, e tutti neri, ne' quali raviluppata, in terra sedea, vicina al tristo fuoco, tutta tremando, e al suo lato avea una spada, la quale rade volte, se non per ispaventare, la traeva fuori. Il suo petto batteva sì forte, che sopra i molti panni apertamente si discernea, nel quale quasi mai non si crede che entrasse sonno; e il luogo acconcio per lo suo riposo era il limitare della porta, in mezzo de' due cani. La quale la dea veggendo, molto si maravigliò, e così disse:

 

«O antica madre, sollecitissima fugatrice degli scelerati assalti di Cupido, e guardìa de' miei fuochi, a te conviene mettere nel petto d'un giovane a me carissimo le tue sollecitudini, il quale per troppa liberalità si lascia a feminile ingegno ingannare, amando oltra dovere una mia nimica: e però niuno indugio ci sia, muoviti! Egli è assai vicino di qui, e è figliuolo dell'altissimo re di Spagna, chiamato Florio, e sanza fine ama Biancifiore, né mai sentì quel che tu suoli agli amanti far sentire. Va e privalo della pura fede, la quale egli tiene indegnamente, e, aprendogli gli occhi, gli fa conoscere com'egli è ingannato, amaestrandolo come gl'inganni si debbono fuggire».

 

La vecchia che in terra sedea, con la mano alla vizza gota, alzò il capo mirando con torto occhio la dea, e con picciola voce tremando rispose:

 

«Partiti, dea, da' tristi luoghi, che niuno indugio darò al tuo comandamento».

 

Partita la dea, la vecchia si vestì di nuova forma, abandonando i molti vestimenti, aggiunse alle sue spalle ali, e lasciando le serrate case, sanza alcuno dimoro pervenne ove ella trovò Florio stante ancora sopra il suo letto leggendo la ricevuta lettera da Biancifiore. A cui ella occultamente con la tremante mano toccò il sollecito petto, e ritornossi alle triste case, onde s'era per comandamento di Diana partita.

 

 

[25]

 

Avea Florio più fiate riletta la ricevuta pistola, e già quasi nell'animo le parole di Biancifiore accettava, credendo fermamente da lei niuna cosa essere amata se non egli, sì come essa gli scriveva. Ma non prima gli fu dalla misera vecchia tocco il petto, che egli incominciò a cambiare i pensieri e a dire fra sé: "Fermamente ella m'inganna, e quello ch'ella mi scrive non per amore, ma per paura lo scrive. Briseida lusingava il grande imperadore de' Greci, e disiderava Achille. Chi è colui che dalle false lagrime e dalle infinte parole delle femine si sa guardare? Se Agamenone l' avesse conosciute, la sua vita sarebbe stata più lunga, né Egisto avrebbe avuto il non dovuto piacere. Sanza dubbio Fileno piace più a Biancifiore che io non faccio: e chi sarà quella che si levi un velo di testa, e donilo ad un suo amante, che possa far poi credere quelli non essere amato da lei? Certo niuna il potrebbe far credere, se non fosse già semplicissimo l'ascoltatore. E in verità e' non è da maravigliare se ella ama Fileno: egli continuamente le è davanti, e ingegnasi di piacerle, e io le sono lontano, né la pote', già è lungo tempo, vedere. Il fuoco s'avviva e vive per li soavi venti, e amore si nutrica con li dolci riguardamenti: e sì come le fiamme perdono forza non essendo da' venti aiutate, così amore diviene tiepidissimo come gli sguardi cessano. Ma costei, se ella non mi ama, perché con lusinghe accendermi il cuore?". Poi ad altro ragionamento si volgea, e dicea: "Fermamente Biancifiore m'ama sopra tutte le cose, e questo, se io voglio il vero riguardare, non mi si può celare; ma se ella non mi amasse, Fileno me ne saria cagione, del quale io prenderò sanza dubbio vendetta".

 

 

[26]

 

In cotali pensieri stando, Florio fra sé ripeteva tutti i preteriti atti e fatti stati tra lui e Biancifiore, poi che Fileno tornò de' lontani paesi nella sua corte, e quelli una volta pensava essere stati da Biancifiore fatti maliziosamente, e altra volta fra sé gli difendeva. Egli stette più giorni sanza alcuno riposo, pieno di sollecite cure. Egli alcuna volta imaginava: "Ora è Fileno davanti alla mia Biancifiore e lusingala: ma perché la lusingherebbe egli, ch'ella l'ama oltra misura?". Poi fra sé altrimenti imaginava. Egli andava vedendo con l'animo tutte quelle vie le quali possibili sono ad uomo di fare per pervenire a un suo intendimento, e niuna credea che non ne fosse stata fatta da Fileno, se bisogno gli fu. Egli pensava che niuna persona mai parlasse a Biancifiore che da parte di Fileno non le parlasse, e da' suoi servidori medesimi dubita d'essere stato ingannato: e così dimora in istimolosa sollecitudine, e non sa che si fare; e pensa che Fileno ordini di portarla via e che ella il consenta. Egli pensa che Fileno la domandi al re, e siagli donata per isposa. Egli pensa che i messaggi da Fileno a Biancifiore e da Biancifiore a Fileno siano spessissimi. Ma poi che egli ha diverse cose in sé rivolte, così cominciò a dire: "Non è del tutto da credere ciò che io imagino, ché forte mi pare che, se stato fosse, io non avessi alcuna cosa sentita: e però la scusa delle passate cose fatta da Biancifiore è da ricevere. Ma chi sa di quelle che deono avvenire? Da un'ora a un'altra si volgono gli animi, da diversi intendimenti essendo tentati! Niuno rimedio è qui se non levare ogni cagione per la quale Biancifiore dal mio amore si potesse mutare, acciò che niuno effetto segua. Io tornerò, a dispetto del mio padre, in Marmorina, e solliciterò con i miei propii occhi il cuore di Biancifiore, e quindi la fuggirò in parte ov'io sanza paura d'alcuno potrò dimorare con lei. Se il mio padre della mia tornata si mostrasse dolente, e a Fileno farò levare la vita, o egli abandonerà i nostri paesi. Niuna cosa ci lascerò a fare, acciò che colei sia sola mia, di cui io solo sono e sarò sempre". E con questi pensieri, lasciati gli amorosi, il più del tempo dimorava, cercando, con amara sollecitudine, parte di quelli fuggire e parte metterne in effetto sanza alcuno indugio.

 

 

[27]

 

O amore, dolcissima passione a chi felicemente i tuoi beni possiede, cosa paurosa e piena di sollecitudine, chi potrebbe o credere o pensare che la tua dolce radice producesse sì amaro frutto come è gelosia? Certo niuno, se egli nol provasse. Ma essa ferocissima, così come l'ellera gli olmi cinge, così ogni tua potenza ha circundata, e intorno a quella è sì radicata che impossibile sarebbe oramai a sentire te sanza lei. O nobilissimo signore, questa è a' tuoi atti tutta contraria. Tu le tue fiamme mostri nell'altissimo e chiaro monte Citerea, costei sopra i freddi colli d'Appennino impigrisce nelle oscure grotte. Tu levi gli animi alle altissime cose, e costei gli declina e affonda alle più vili. Tu i cuori che prendi tieni in continua festa e gioia, costei di quelli ogni allegrezza caccia e con subito furore vi mette malinconia. Essa fa cercare i solinghi luoghi, e con aguto intelletto mai non sa che si sia altro che pensare. Ad essa pare che le spedite vie dell'aere sieno piene d'agguati per prendere ciò che essa disidera di ben guardare. Niuno atto è che ella non dubiti che con falso intendimento sia fatto; niuna fede è in lei, niuna credenza: sempre crede essere tentata. E sì come tu di pace se' veracissimo ordinatore, così questa con armata mano sempre apparecchia inimicizie e guerre. Ella, magrissima, scolorita nel viso, d'oscuri vestimenti vestita, igualmente ogni persona con bieco occhio riguarda: e tu, piacevolissimo nell'aspetto, con lieto viso visiti i tuoi suggetti. Ella non sente mai né primavera, né state, né autunno: tutto l'anno igualmente dimora per lei il sole in Capricorno, e quanto più di scaldarsi cerca più ne' sembianti trema. Ora, quanto è contraria la vostra natura! Ella si diletta d'essere sanza alcuna luce, e tu ne' luminosi luoghi adoperi i santi dardi. Ella con teco quasi d'un principio nata, di tutti i tuoi beni è guastatrice. E le più fiate avviene che di quella infermità onde ella ha maggior paura, di quella è più spesso assalita e oppressa infino alla morte. Oltre a' miseri miserissimo si può dire colui che seco l'accoglie in compagnia.

 

 

[28]

 

Florio s'apparecchia con diliberato animo di nuocere a Fileno: la qual cosa la santa dea conosce degli alti regni. E mossa a compassione di Fileno, così nel segreto petto cominciò a dire: "Che colpa ha Fileno commessa per la quale egli meriti morte o oltraggio da Florio? Niuna: non merita morte alcuno, perché egli ami quello che piace agli occhi suoi. Cessi questo, che per cagione di noi il giovane cavaliere sia offeso". E detto questo, la seconda volta discese del cielo e cercò le case del Sonno riposatore, nascose sotto gli oscuri nuvoli, le quali in lontanissime parti stanno rimote, in una spelonca d'un cavato monte, nella quale Febo con i suoi raggi in niuna maniera può passare. Quel luogo non conosce quand'egli sopra l'orizonte venendo ne reca chiaro giorno, né quand'egli, avendo mezzo il suo corso fatto, ci riguarda con più diritto occhio, né similemente quand'egli cerca l'occaso: quivi solamente la notte puote, e il terreno da sé vi produce nebbie piene d'oscurità o di dubbiosa luce. E davanti alle porti della casa fioriscono gli umidi papaveri copiosamente, e erbe sanza numero, i sughi delle quali aiutano la potenza del signore di quel luogo. Dintorno alle oscure case corre un picciolo fiumicello chiamato Letè, il quale esce d'una dura pietra, che col suo corso faccendo commuovere le picciole pietre, fa un dolce mormorio, il quale invita i sonni. In quel luogo non s'odono i dolci canti della dolente Filomena, i quali forse potessero mettere ne' petti acconci al riposo alcuna sollecitudine con la sua dolcezza. Quivi non fiere, non pecore, né altri animali. Quivi Eolo nulla potenza ha: ogni fronda si riposa. Mutola quiete possiede il luogo, al quale niuna porta si truova, non forse serrando e disserrando potesse fare alcuno romore. Alcuno guardiano non v'è posto, né cane alcuno v'è, il quale latrando potesse turbare i quieti riposi. Quivi non è alcun gallo il quale cantando annunzi l'aurora; né alcuna oca vi si truova che i cheti andamenti possa con alta voce far manifesti. E nel mezzo della gran casa dimora un bellissimo letto di piuma, tutto coperto di neri drappi, sopra 'l quale si riposa il grazioso re co' dissoluti membri oppressi dalla soavità del sonno. Appresso del quale un poco, giacciono i vani sogni di tante maniere e sì diversi, quante sono l'arene del mare o le stelle di che il nido di Leda s'adorna. Nella qual casa la dea entrò, continuo le mani menandosi davanti al viso e cacciando i sonni da' santi occhi: e il candido vestimento della vergine diede luce nella santa casa. Nella venuta della quale, appena il re levò i pesanti occhi, e più volte la grave testa inchinando col mento si percosse il petto, e, rivolto più volte sopra il ricco letto, con ramarichevoli mormorii alquanto si pur destò. E appena levatosi sopra il gomito, domandò quello che la dea cercava. A cui ella così disse:

 

«O Sonno, piacevolissimo riposo di tutte le cose, pace dell'animo, fuggitore di sollecitudine, mitigatore delle fatiche e sovenitore degli affanni, igualissimo donatore de' tuoi beni, se a te è caro che Cinzia si possa con gli altri dei, a te e a me igualmente consorti, di te laudare, comanda che Fileno, innocente giovane, ne' suoi sonni conosca l'apparecchiate insidie contro di lui, acciò che, conosciutole, da quelle guardare si possa».

 

E questo detto, per quella via onde era venuta, appena da sé potendo il sonno cacciare, se ne tornò.

 

 

[29]

 

Svegliò l'antico iddio gl'infiniti figliuoli, de' quali alcuni in uomini, altri in fiere, e quali in serpenti, e chi in terra, e tali in acqua, e alcuni in trave e in sassi, e in tutte quelle forme le quali negli umani animi possono vaneggiare, v'avea di quelli che si trasformavano: tra' quali poi che egli ebbe eletti quelli che a tali bisogni gli pareano sofficienti, appena destati, gli ammaestrò che essi dovessero i comandamenti della santa dea adempiere sanza alcuno indugio. A' quali essi disposti, sanza più stare, del luogo si partirono per adempierlo.

 

 

[30]

 

Mentre che i fati le cose sinistre così per Fileno trattavano, Fileno di tutte ignorante si stava pensando alla bellezza di Biancifiore, con sommo disio disiderando quella, quando subito sonno l'assalì, e, gli occhi gravati, sopra il suo letto riposandosi s'adormentò. Al quale sanza alcuno dimoro furono presenti i ministri del pregato iddio adoperando ciascuno i suoi ufici: e parvegli nel sonno subitamente essere in un bellissimo prato tutto soletto, e rimirare il cielo, lodando le sue bellezze, e adequando quelle di Biancifiore alla chiarità delle stelle che in quello vedea. E così stando, subitamente uno di quelli uficiali in forma d'un caro suo amico gli parve che gli apparisse piangendo e correndo verso lui, e dicessegli:

 

«O Fileno, che fai tu qui? Fuggiti, ch'io ti so dire che l'amore che tu hai portato a Biancifiore t'ha acquistata morte. Tu non potrai essere fuori di questo prato, che Florio armato con molti compagni ci saranno suso, cercando di levarti la vita. Fuggi di qui, o caro amico, sanza niuno indugio. Non volere che io di tal compagno, quale io ti tengo, rimanga orbato».

 

E ancora non parea che questi avesse compiuto di parlare, che già dall'una delle parti del prato si sentiva il romore delle sonanti armi degli armati, i quali a Fileno pareva, come detto gli era stato, che venissero. Allora pareva a Fileno levarsi tutto smarrito, e non sapere qual via per la sua salute si dovesse tenere; anzi gli pareva che le gambe gli fossero fallite, né di quel luogo potesse partire. Dove stando, in picciolo spazio gli pareva vedersi dintorno Florio con molti altri armati, e con grandissimo romore gridare:

 

«Muoia il traditore!», dirizzando verso lui gli aguti ferri sanza alcuna pietà ingegnandosi di ferirlo. A' quali elli dicea:

 

«O giovani, se niuna pietà è in voi rimasa, piacciavi che Fileno possa fuggendo la vita campare. Voi sapete che per amore io non meritai morte».

 

Non erano le sue parole udite, ma più aspramente e con maggiore romore gli parea ognora essere assalito, e parevagli essere in tante parti del corpo forato che potere campare non gli parea. Ma quelli ancora di ciò non contenti, uscendo uno di loro gli parea che la testa gli volesse levare dal busto e presentarla a Florio. Allora sì gran dolore e paura gli strinse il cuore, che per forza convenne che il sonno si rompesse, e quasi tutto spaventato si rizzò in piè, rimirando dov'egli era, e con le mani cercando de' colpi che gli parea avere ricevuti; e rimirando il suo letto, il quale imaginava dovere essere tutto tinto del suo sangue, e quello vide bagnato di vere lagrime. Ma poi ch'egli si vide essere stato ingannato dal sonno, partita la paura, pieno di maraviglia rimase, non sappiendo che ciò si volesse dire, e dubitando forte si mise a cercare del caro amico che nel sonno avea veduto. Il quale trovato, a lui brievemente ciò che dormendo avea veduto, gli narrò; di che l'amico maravigliandosi così gli disse:

 

 

[31]

 

«Caro amico e compagno, ora non dubito io che gl'iddii con molta sollecitudine intendano a' beni della umana gente. Certo tu mi fai sanza fine maravigliare di ciò che tu mi racconti, però che poco avanti io tornai da Montoro, e ivi da cara persona e degna di fede udii essere da Florio la tua morte disiderata e ordinata in qualunque maniera più brievemente potesse. E domandando io della cagione, mi rispose che ciò avviene per lo velo il quale da Biancifiore ricevesti, la quale Biancifiore egli più che alcuna cosa del mondo ama; e per questo è di te in tanta gelosia entrato, che se egli vedesse che Biancifiore con le propie mani ti traesse il cuore, forte gli sarebbe a credere che ella ti potesse se non amare. E adunque, acciò che questo amore cessi, egli cerca d'ucciderti: però per lo mio consiglio tu al presente lascerai il paese, e pellegrinando per le strane parti, te della tua salute farai guardiano. Tu puoi manifestamente conoscere te non essere possente a resistere al suo furore: dunque anzi tempo non volere perire, ma la tua giovane età ti conforti di poter pervenire a miglior fine che il principio non ti mostra. La fortuna ha subiti mutamenti, e avviene alcuna volta che quando l'uomo crede bene essere nella profondità delle miserie, allora subito si ritrova nelle maggiori prosperità».

 

A cui Fileno piangendo così rispose:

 

«Oimè, or che farà Florio ad uno che l'abbia in odio, se a me che l'amo ha pensata la morte?». A cui quelli rispose:

 

«Amerallo! Le leggi d'amore sono variate da quelle della natura in molte cose: in tale atto niuno volentieri vuole compagno. Né per te fa di cercare gli altrui pensieri, ma pensare del tuo bene. Posto che Florio similmente volesse uccidere uno che odiasse Biancifiore, se' tu però fuori del pericolo? Certo no: dunque pensa alla tua salute».

 

«Oimè! - disse Fileno - dunque lascerò io Marmorina e la vista di Biancifiore?». «Sì - gli rispose quelli, - per lo tuo migliore».

 

Disse Fileno:

 

«Certo io non conosco che vantaggio qui eleggere si possa se solo una volta si muore. Buono è il vivere, ma meglio è tosto morire che vivendo languire, e cercare la morte, e non poterla avere».

 

«Non è - disse l'amico - a chi vive sperando nella potenza degl'iddii, come avanti ti dissi, però che le future cose ci sono occulte. E in qualunque modo si vive è migliore che il morire. Ogni cosa perduta, volendo l'uomo valorosamente operare, si può ricuperare, ma la vita no: però ciascuno dee essere di quella buono guardiano».

 

«Certo - disse Fileno - a chi può prendere speranza, e sperando aspettare, non dubito che di guardare la sua vita egli non faccia il migliore, che volere per un subito dolore morire. Ma come posso io così fare, che non tanto partendomi, ma solamente pensando ch'io mi deggia partire dalla vista del bel viso di Biancifiore, mi sento ogni spirito combattere nel cuore e domandare la morte, e l'anima, che sente questa doglia e questa tempesta, si vuol partire?».

 

A cui colui rispose:

 

«Non sono cotesti i pensieri necessarii a te, però che a coloro che in simile caso sono che se' tu, conviene che facciano della necessità diletto. Tu vedi che tu se' costretto di partire: non imaginare di prendere etterno essilio, ma imagina che per comandamento di Biancifiore, per cui non ti sarebbe grave il morire, se avvenisse ch'ella tel comandasse, tu sii mandato in parte onde tu tosto tornerai. Questa imaginazione t'aiuterà e faratti più possente a sostenere gli affanni della partita, infino a tanto che tu poi, ausato, li sappia sostenere sanza tanta noia».

 

A cui Fileno disse:

 

«Questo che tu mi di' m'è impossibile, però che il sollecito amore non mi lascia durare tale pensiero nel cuore, ma qualora più mi vi dispongo, allora più con i suoi m'assalisce: e chi è colui che possa la sua coscienza ingannare?».

 

Disse quelli:

 

«I pensieri d'amore non ti assaliranno, quando alcuna volta resistendo cacciati gli avrai da te, e la coscienza, posto che interamente ingannare non si possa, almeno l'uomo la può fare agevole sostenitrice di quello ch'e' vuole, con un lungo e continuo perseverare sopra un pensiero».

 

«Certo questo vorrei io bene», disse Fileno.

 

«Dunque potrai tu», gli fu risposto. Allora disse Fileno:

 

«Ecco ch'io mi dispongo al pellegrinare per lo tuo consiglio».

 

«Sì - disse quelli, - e io in tua compagnia, se a te piace».

 

A cui Fileno disse:

 

«No, io amo meglio dolermi solo, che menare te sanza consolazione».

 

A cui quelli rispose:

 

«Caro amico, ove che tu vadi, le tue lagrime mi bagneranno sempre il cuore, il quale mai sanza compassione di te non sarà: però lasciami avanti venire, acciò che tu, avendo la mia compagnia, abbi cagione di meno dolerti».

 

Disse Fileno:

 

«Amico, a me piace che tu rimanghi, acciò che almeno, veggendoti, Biancifiore si ricordi di me e dello essilio ch'io ho per lei. E se accidente avvenisse per lo quale mi fosse licito il tornare, voglio che tu sollecito rimanghi a mandare per me, dove che i fortunosi casi m'abbiano mandato».

 

A cui quelli disse:

 

«Così, come a te piace, sarà fatto».

 

Fileno allora si partì da lui, e, ritornato alla sua casa, così cominciò piangendo a dolersi fra se medesimo:

 

 

[32]

 

"O misero Fileno, piangi, però che la fortuna t'è più avversa che ad alcuno. Sogliono gli altri, per odiare o per male operare, lasciare li loro paesi, o tal volta morire; ma a te per amore conviene che tu vada in essilio. Or che vita sarà la tua? Sarà dolente; ma certo io non la voglio lieta. Io conosco Biancifiore turbata, e scoprirmi il falso amore, mostrando nel viso d'avermi per adietro ingannato. Io mi fuggirò del suo cospetto, e fuggendomi piacerò a Florio e a lei, l'amore de' quali m'era occulto quando m'innamorai. Il velo da lei ricevuto sarà sola mia consolazione e della mia miseria". E, questo in se medesimo diliberato, volontario essilio, seguendo il consiglio del suo amico, prese occultamente.

 

 

[33]

 

Quando Apollo ebbe i suoi raggi nascosi, e l'ottava spera fu d'infiniti lumi ripiena, Fileno con sollecito passo piglia la sconsolata fuga. Egli nella dubbiosa mente, uscito di Marmorina, non sa essaminare qual cammino sia più sicuro alla sua salute; ma del tutto abandonato a' fati, piangendo pone le redine sopra il portante cavallo, e piangendo abandona le mura di Marmorina, con gli occhi rimirando quelle infino che licito gli è. Ma poi che l'andante cavallo lui carico di pensieri ebbe tanto avanti trasportato, che più non gli fu licito di vedere la sua città, egli con più lagrime incominciò ad intendere al suo cammino. E primieramente veduto l'uno e l'altro lito di Bacchiglione, pervenne alle mura costrutte per adietro dall'antico Antenore, e in quelle vide il luogo ove il vecchio corpo con giusto epitafio si riposava. Ma di quindi passando avanti, in poche ore pervenne alle sedie del già detto Antenore, poste nelle salate onde, nell'ultimo seno del mare Adriano: e in quel luogo non sicuro, salito in picciolo legno ricercò la terra. E pervenuto all'antichissima città di Ravenna, su per lo Po con le dorate arene se ne venne alla città posta per adietro da Manto ne' solinghi paduli. Ma quivi sentendosi più vicino a quello che egli più fuggiva, dimorò poco, e salito su per li colli del monte Appennino, e di quelli declinando, scese al piano, pigliando il cammino verso le montagne, fra le quali il Mugnone rubesto discende. E quivi pervenuto, vide l'antico monte onde Dardano e Siculo primieramente da Italo, loro fratello, si dipartirono pellegrinando; e poco avanti da sé vide le ceneri rimase d'Attila flagello dopo lo scelerato scempio fatto de' pochi nobili cittadini della città edificata sopra le reliquie del valoroso consolo Fiorino, quivi dagli agguati di Catellino miserabilmente ucciso. Alle quali avuta compassione, si partì, e sanza tenere diritto cammino errando pervenne a Chiusi, ove già Porsenna, secondo che gli fu detto, avea il suo regno con forze costretto ad ubidirsi. Né troppo lungamente andò avanti ch'egli vide il cavato monte d'Aventino, nel quale Cacco nascose le 'mbolate vacche ad Ercule, strascinate nelle cave di quello per la coda. Ma dopo lungo affanno pervenne nella eccellentissima città di Roma, ove egli d'ammirazione più volte ripieno fu, veggendo le magnifiche cose, inestimabili ad ogni alto intelletto sanza vederle: e in quella vide il Tevero, a cui gl'iddii concederono innumerabili grazie. Egli vide l'antiche mura d'Alba, e ciò che era notabile nel paese. Ma quivi non fermandosi, volgendo i suoi passi al mezzo giorno, si lasciò dietro le grandissime Alpi e i monti i quali aspettavano l'oscurissima distruzione del nobile sangue d'Aquilone, e pervenne a Gaieta, etterna memoria della cara balia di Enea. E di quella pervenne per le salate onde a Pozzuolo, avendo prima vedute l'antiche Baie e le sue tiepide onde, quivi per sovenimento degli umani corpi poste dagl'iddii. E in quel luogo vedute l'abitazioni della cumana Sibilla, se ne venne in Partenope; né quivi ancora fermato, cercò i campi de' Sanniti, e vide la loro città. Donde partitosi, volgendo i passi suoi, vide l'antica terra Capo di Campagna posta da Capis, e, quindi partendosi, pervenne fra li salvatichi e freddi monti d'Abruzzi, fra' quali trovò Sulmona, riposta patria del nobilissimo poeta Ovidio. Nella quale entrando, così cominciò a dire:

 

«O città graziosa a ciascuna nazione per lo tuo cittadino, come poté in te nascere o nutricarsi uomo, in cui tanta amorosa fiamma vivesse quanta visse in Ovidio, con ciò sia cosa che tu freddissima e circundata da fredde montagne sii?»; e questo detto, reverente per lo mezzo di quella trapassò. E continuando i lamentevoli passi, si trovò a Perugia, dalla quale partitosi, de' cammini ignorante, pervenne alle vene ad Onci, onde le chiarissime onde dell'Elsa vide uscire e cominciare nuovo fiume. Dopo le quali discendendo, venne infino a quel luogo ove l'Agliene, nata nelle grotte di Semifonti, in quella mescola le sue acque e perde nome. Quindi mirandosi dintorno, vide un bellissimo piano, per lo quale volto a man destra, faccendo dell'onde dell'Agliene sua guida, non molto lontano al fiume andò, ch'egli vide un picciolo monticello levato sopra il piano, nel quale uno altissimo e vecchio cerreto era. E in quello mai alcuna scure non era stata adoperata, né da' circustanti per alcun tempo cercato, fuori che da' loro antichi nell'antico errore delli non conosciuti iddii, i quali in sì fatti luoghi soleano adorare. In quello entrò Fileno, e non trovandovi via né sentiero, ma tutto da vecchie radici o da grandissimi roghi occupato, con grandissimo affanno infino alla sommità del picciolo monticello salì. Quivi trovò un tempio antichissimo, nel quale selvatiche piante erano cresciute, e le mura tutte rivestite di verde ellera. Né già per antichità erano guaste le imagini de' bugiardi iddii, rimase in quello quando il figliuolo di Giove recò di cielo in terra le novelle armi, con le quali il vivere etterno s'acquista. E era davanti a quello un picciolo prato di giovanetta erba coperto, assai piacevole a rispetto dell'altro luogo. Quivi fermato Fileno stette per lungo spazio; e rimiratosi dintorno e pensato lungamente, s'imaginò di volere quivi finire la sua fuga, e in quello luogo sanza tema d'essere udito piangere i suoi infortunii; e se altro accidente non gli avvenisse, quivi propose di volere l'ultimo dì segnare. E dopo lunga essaminazione, vedendo il luogo molto solitario, si pose a sedere davanti al tempio, e quivi nutricandosi di radici d'erbe, e bevendo de' liquori di quelle, stette tanto che agl'iddii prese pietà della sua miseria, sempre piangendo, e ne' suoi pianti con lamentosa voce le più volte così dicendo:

 

 

[34]

 

«O impiissima acerbità dell'umane menti, che commisi io ch'io etterno essilio meritassi della piacevole Marmorina? Niuno fallo commisi: amai e amo. Se questo merita essilio o morte, torca il cielo il suo corso in contrario moto, acciò che gli odii meritino guiderdone. Se io forse amando ad alcuno dispiacea, non con morte mi dovea seguitare, ma con riprensione ammaestrare. Ora che riceverà da Florio chi odierà Biancifiore? Non so ch'elli gli si possa fare, se a quello che a me ha fatto vorrà con iguale animo pensare. Ahi, Fisistrato, degno d'etterna memoria per la tua benignità, il quale, udendo con pianti narrare la tua figliuola essere baciata, e di ciò dimandarti vendetta, non dubitasti rispondere: "Che farem noi a' nostri nimici, se colui che ci ama è per noi tormentato?": tu il picciolo fallo con grandissima temperanza mitigasti, conoscendo il movimento del fallitore. Dimorar possi tu con pietosa fama sempre ne' cuori umani! Ma certo egli non è men giusta cosa che io pianga i miei amori, che fosse il pianto del crudele artefice, che a Falaris presentò il bue di rame, al quale prima convenne mostrare del suo artificio esperienza. Io medesimo accesi il fuoco in che io ardo. Io, misero, fui il tenditore de' lacci ne' quali io son caduto. Chi mi costringea di narrare a Florio i miei accidenti, e di mostrargli il caro velo? Niuna persona. Ignoranza mi fece fallire: e però niuno savio piagne, perché il senno leva le cagioni. Ma posto che io pur per ignoranza fallissi, eragli così gravoso a vietarmi che io più avanti non amassi? Certo io non mi sarei però potuto poi tenere di non amare, ma nondimeno per la disubidienza a lui, cui io singulare signore tenea, avrei meritato essilio o greve tormento; ma egli mai non mi comandò che io non amassi, anzi là ov'io non mi guardava cercava la mia morte. O ragionevole giustizia partita delli umani animi, perché del ciclo non provedi tu alle iniquità? Deh, misero a me!, non ho io per la sfrenata crudeltà di Florio perduta la debita pietà del vecchio padre e della benigna madre? Certo sì ho. Io gli ho lasciati per lo mio essilio pieni d'etterne lagrime. Non ho io perduta la graziosa fama del mio valore? Sì ho. Quanti uomini, ignoranti qual sia la cagione del mio essilio, penseranno me dovere avere commesso alcuna cosa iniqua, e, per paura di non ricevere merito di ciò, mi sia partito? I nimici creano le sconce novelle dove elle non sono, e le male lingue non le sanno tacere. La iniquità da se medesima si spande più che la gramigna per li grassi prati. Non sono io per lo mio tristo essilio divenuto povero pellegrino? Non ho io perduta gioia e festa? Non è per quello la mia cavalleria perduta? Certo sì. Oimè, quante altre cose sinistre con queste insieme mi sono avvenute per lo mio sbandeggiamento! Ma certo, per tutto questo, alcuna cosa del vero amore che io porto a Biancifiore, non è mancato. Più che mai l'amo: niuna pena, niuno affanno, né alcuno accidente me la potrà mai trarre del cuore. E certo se egli mi fosse conceduto di poterla solamente vedere, come io vidi già, tutte queste cose mi parrebbero leggieri a sostenere. Il non poterla vedere m'è sola gravezza, questo mi fa sopra ogni altra cosa tormentare. Ella co' suoi begli occhi, avvegna che falsi siano, mi potrebbe rendere la perduta consolazione. Io vo fuggendo per lei. Se l'amore di lei avessi, non che il fuggire ma il morire mi sarebbe soave! Ma poi che l'amore non puoi di lei avere, e il poterla vedere t'è tolto, piangi, misero Fileno, e dà pena agli occhi tuoi, i quali stoltamente nella forza di tanto amore, quanto tu senti, ti legarono. Oimè misero, io non so da che parte io mi cominci più a dolere, tante e tali cose m'offendono! Ma tra l'altre, tu, o crudelissimo signore, non figliuolo di Citerea, ma più tosto nimico, mi dai infinite cagioni di dolermi di te e di biasimarti. Tu, giovanissimo fanciullo, con piacevole dolcezza pigli gli stolti animi degli ignoranti, e in quelli poi con solingo ozio rechi disiderati pensieri, fabrichi le tue catene, con le quali gli animi de' miseri, che tua signoria seguitano, sono legati. Ahi, quanto è cieca la mente di coloro che ti credono e che del loro folle disio ti fanno e chiamano iddio, con ciò sia cosa che niuna tua operazione si vegga con discrezione fatta! Tu gli altissimi animi de' valorosi signori declini a sottomettersi alla volontà d'una picciola feminella. Tu la bellezza d'un giovane, maestrevole ornamento della natura, con fallace disiderio leghi al volere d'un turpissimo viso, con diverse macule adornato oltre al dovere, d'una meretrice. E, brievemente, niuna tua operazione è con iguale animo fatta, anzi sogliono i miseri, ne' tuoi lacci aviluppati, prendere per te questa scusa: che la tua natura è tale che né i doni di Pallade, né quelli di Giunone, né gentilezza d'animo riguarda, ma solamente il libidinoso piacere; e in questo credono alle tue opere aggiungere grandissime laude, ma con degno vituperio te e sé vituperano. Ma che giova tanto parlare? Tu se' d'età giovane: come possono le tue operazioni essere mature? Tu, ignudo, non dei poter porgere speranza di rivestire. Le tue ali mostrano la tua mobilità, né m'è della memoria uscito averti in alcune parti veduto privato della vista: dunque, come di dietro alla guida d'un cieco si può fare diritto cammino? Ahi, tristi coloro che in te sperano! Tu levi loro il pensiero de' necessarii beni, e empili di sollecitudine di vana speranza. Tu gli fai divenire cagione delle schernevoli risa del popolo che li vede, e essi, miseri e di questo ignoranti, assai volte di se stessi con gli altri insieme fanno beffe, né sanno quello che fanno. Tardi conosco i tuoi effetti, ma certo, mentre ignorante di quelli fui, niuno suggetto avesti che più fede di me ti portasse, né che più la tua potenza essaltasse: e ancora in quella semplicità ritornerei, se benigno mi volessi essere, come già fosti a molti. Oimè misero, che io non so che io mai contra te adoperassi, per la qual cosa così incrudelire in me dovessi, come fai! Io mai non ti rimproverai la tua giovanezza, né biasimai la forza del tuo arco, come fece Febo, né alla tua madre levai il caro Adone, né scopersi i suoi diletti i quali con Marte prendea, come tutto il cielo vide. Io mai non adoperai contro a te, perché tu mi dovessi nuocere; ma tu di mobile natura, e nescio di quel che fai, mi tormenti oltre al dovere. Solo in uno atto si conosce te avere alcun sentimento, in quanto mai non cerchi d'essere se non in luogo a te simigliante, avvegna che questa discrezione più tosto alla natura che a te si dovrebbe attribuire. Il tuo diletto è di dimorare ne' vani occhi delle scimunite femine, le quali a te costrigni con meno dolore che i miseri che in tale laccio incappano; e poi con esse di quelli ti diletti di ridere, consentendo loro il potersi far beffe de' tristi sanza niuno affanno d'esse: delle quali, schiera di perfidissima iniquità piene, non posso tenermi ch'io non ne dica ciò che dentro ne sento.

 

 

[35]

 

Voi, o sfrenata moltitudine di femine, siete dell'umana generazione naturale fatica, e dell'uomo inespugnabile sollecitudine e molestia. Niuna cosa vi può contentare, destatrici de' pericoli, commettitrici de' mali. In voi niuna fermezza si truova: e, brievemente, voi e 'l diavolo credo che siate una cosa! E che ciò sia vero, davanti a noi infiniti essempli a fortificare il mio parlare se ne truovano. E volendo dalla origine del mondo incominciare, si troverà la prima madre per lo suo ardito gusto essere stata cagione a sé e a' discendenti d'etterno essilio de' superiori reami. E questo malvagio principio in tanto male crebbe, che la prima età nello allagato mondo tutta perì, fuori che Deucalion e Pirra, a cui rimase la fatica di restaurare le perdute creature. Ma posto che la quantità delle femine mancasse, la vostra malvagità nella poca quantità non mancò. E non era ancora reintegrato il numero degli annegati, quando colei che l'antica Bambilonia cinse di fortissime e alte mura, presa da libidinosa volontà, col figliuolo si giacque, faccendo poi per ammenda del suo fallo la scelerata legge che il bene placito fosse licito a ciascuno. O cuore di ferro che fu quello di costei! Quale altra creatura, fuori che femina, avrebbe potuta sì scelerata cosa ordinare, che, conoscendo il suo male, non s'ingegnasse di pentere, ma s'argomentasse d'inducervi i suggetti? Ma ancora che questo fosse grandissimo fallo, quanto fu più vituperevole quello che Pasife commise, la quale il vittorioso marito, re di cento città, non sostenne d'aspettare, ma con furiosa libidine essere da un toro ingravidata sostenne? Fu ciascuno de' detti falli sceleratissimo, ma nullo fu sì crudelmente fatto quanto quello che Clitemestra miseramente commise: la quale, non guardando alla debita pietà del marito, il quale in terra era stato vincitore di Marte, per mare di Nettunno, ma presa del piacere d'un sacerdote, rimaso ozioso ne' suoi paesi, consentì che, porto ad Agamenone il non perfetto vestimento, e in quello vedendolo avviluppato, Egisto miserabilemente l'uccidesse, acciò che poi sanza alcuna molestia i loro piaceri potessero mettere in effetto. Quanta fu ancora la lascivia di Elena, la quale, abandonando il propio marito, e conoscendo ciò che dovea della sua fuga seguire, anzi volle che il mondo perisse sotto l'armi che ella non fosse nelle braccia di Paris, contenta che per lei si possa etternalmente dire Troia essere strutta e i Greci morti crudelmente! Quanta acerbità e quanta ira si puote ancora discernere essere stata in Progne, ucciditrice del propio figliuolo per far dispetto al marito! E Medea simigliantemente! E in cui si trovò mai tanto tracutato amore quanto in Mirra, la quale con sottili ingegni adoperò tanto che col propio padre più fiate si giacque? E la dolente Biblis non si vergognò di richiedere il fratello a tanto fallo, e la lussuriosa Cleopatra d'adoperarlo. E ancora la madre d'Almeon per picciolo dono non consentì il mortale pericolo d'Anfirao suo marito? E qual diabolico spirito avrebbe potuto pensare quello che fece Fedra, la quale non potendo avere recato Ipolito suo figliastro a giacere con lei, con altissima voce gridando e stracciandosi i vestimenti e' capelli e 'l viso, disse sé essere voluta isforzare da lui e, lui preso, consentì che dal propio padre fosse fatto squartare? Quanto ardire e quanta crudeltà fu quella delle femine di Lenno, che, essendo degnamente suggette degli uomini, per divenire donne, quelli nella tacita notte con armata mano tutti diedero alla morte? E simile crudeltà nelle figliuole di Belo si trovò, le quali tutte i novelli sposi la prima notte uccisero fuori che Ipermestra. Oimè, ch'io non sono possente a dire ciò che io sento di voi! Ma sanza dire più avanti, quanti e quali essempli son questi della vostra malvagità? O femine, innumerabile popolo di pessime creature, in voi non virtù, in voi ogni vizio: voi principio e mezzo e fine d'ogni male. Mirabil cosa si vede di voi, fra tanta moltitudine una sola buona non trovarsene. Niuna fede, niuna verità è in voi. Le vostre parole sono piene di false lusinghe. Voi ornate i vostri visi con diversi atti ad inretire i miseri, acciò che poi, liete d'avere ingannato, cioè fatto quello a che la vostra natura è pronta, ve ne ridiate. Voi siete armadura dello etterno nimico dell'umana generazione: là ov'egli non può vincere co' suoi assalti, e egli inconta nente a' pensati mali pone una di voi, acciò che 'l suo intendimento non gli venga fallito. Guai etterni puote dire colui, che nelle vostre mani incappa, non gli fallino. Misera la vita mia, che incappato ci sono! Niuna consolazione sarà mai a me di tal fallo, pensando che una giovane, la quale io più tosto angelica figura che umana creatura riputava, con falso riguardamento m'abbia legato il cuore con indissolubile catena, e ora di me si ride, contenta de' miei mali. Ma certo la miserabile fortuna che abassato per li vostri inganni mi vede, assai mi nuoce, e niuno aiuto mi porge, anzi s'ingegna con continua sollecitudine di mandarmi più giù che la più infima parte della sua rota, se far lo potesse, e quivi col calcio sopra la gola mi tiene; né possibile m'è lasciare il doloroso luogo».

 

 

[36]

 

Era il pianto e la voce di Fileno sì grande, però che in luogo molto rimoto gli parea essere da non dovere potere essere udito, che un giovane il quale a piè del salvatico monticello passava, sentì quello, e avendovi grandissima compassione, per grande spazio stette ad ascoltare, notando le vere parole di Fileno; ma poi volonteroso di vedere chi sì dolorosamente piangesse, seguendo la dolente voce, si mise per lo inviluppato bosco, e con grandissimo affanno pervenne al luogo ove Fileno piangendo dimorava. Il quale egli nel primo avvento rimirando, appena credette uomo, ma poi che egli l'ebbe raffigurato, il vide nel viso divenuto bruno, e gli occhi, rientrati in dentro, appena si vedeano. Ciascuno osso pingeva in fuori la ragrinzata pelle, e i capelli con disordinato rabuffamento occupavano parte del dolente viso, e similmente la barba grande era divenuta rigida e attorta, i vestimenti suoi sordidi e brutti: egli era divenuto quale divenne il misero Erisitone, quando sé, per sé nutricare, cominciò a mangiare. Nullo che veduto l'avesse ne' tempi della sua prosperità, l'avrebbe per Fileno riconosciuto. Ma poi che il giovane l'ebbe assai riguardato, così gli disse:

 

«O dolente uomo, gl'iddii ti rendano il perduto conforto. Certo il tuo abito e le tue lagrime con le tue voci m'hanno mosso ad avere compassione di te; ma se gl'iddii i tuoi disiderii adempiano, dimmi la cagione del tuo dolore: forse non sanza tuo bene la mi dirai; e ancora mi dì, se ti piace, perché sì solingo luogo hai per poterti dolere eletto».

 

Maravigliossi Fileno del giovane quando parlare l'udì, e voltatosi verso lui, non dimenticata la preterita cortesia, così gli rispose:

 

«Io non spero già che gl'iddii mi rendano quello che essi m'hanno tolto, perché io i tuoi prieghi adempia: ma però che la dolcezza delle tue parole mi spronano, mi moverò a contentarti del tuo disio. E primieramente ti sia manifesto che per amore io sono concio come tu vedi»; e, appresso questo, tutto ciò che avvenuto gli era particularmente gli narrò. Dopo le quali parole, ancora gli disse:

 

«La cagione per che in sì fatto luogo io sono venuto, è che io voglio sanza impedimento potere piangere. E, appresso, io non voglio essere a' viventi essemplo d'infinito dolore, ma voglio che infra questi alberi la mia doglia meco si rimanga».

 

Udito questo, il giovane non poté ritenere le lagrime, ma con lui incominciò dirottamente a piangere, e disse:

 

«Certo la tua effigie e le tue voci mostrano bene che così ti dolga, come tu parli; ma, al mio parere, questa doglia non dovria essere sanza conforto, con ciò sia cosa che persone, che molto l'hanno avuto maggiore che tu non hai, si sono confortate e confortansi».

 

Disse allora Fileno:

 

«Questo non potrebbe essere: chi è colui che maggior dolore abbia sentito di me?».

 

«Certo - disse il giovane, - io sono».

 

«E come?», disse Fileno. A cui il giovane disse:

 

«Io il ti dirò. Non molto lontano di qui, avvegna che vicina sia più assai quella parte alla città di colui i cui ammaestramenti io seguii, e dove tu non molto tempo ci fosti sì come tu di', era una gentil donna, la quale io sopra tutte le cose del mondo amai e amo: e di lei mi concedette Amore, per lo mio buon servire, ciò che l'amoroso disio cercava. E in questo diletto stetti non lungo tempo, ché la fortuna mi volse in veleno la passata dolcezza, che quando io mi credea più avere la sua benivolenza, e avere acquistato con diverse maniere il suo amore, e io con li miei occhi vidi questa me per un altro avere abandonato, e conobbi manifestamente che ella lungamente con false parole m'avea ingannato, faccendomi vedere che io era solo colui che il suo amore avea. La qual cosa come mi si manifestò, niuno credo che mai simile doglia sentisse com'io sentii: e veramente per quella credetti morire; ma l'utile consiglio della ragione mi rendé alcun conforto, per lo quale io ancora vivo in quello essere che tu mi vedi, ricoprendo il mio dolore con infinta allegrezza. Le cose sono da amare ciascuna secondo la sua natura: quale sarà colui sì poco savio che ami la velenosa cicuta per trarne dolce sugo? Molto meno fia savio colui che una femina amerà con isperanza d'essere solo amato da lei lunga stagione: la loro natura è mobile. Qual uomo sarà che possa ammendare ciò che gl'iddii o li superiori corpi hanno fatto? E però sì come cosa mobile sono da amare, acciò che de' loro movimenti gli amanti, sì come esse, si possano ridere: e se elle mutano uno per un altro, quelli possa un'altra in luogo di quella mutare. Niuno si dorrà seguendo questo consiglio. Tu, non avendolo seguito, ora per niente piangi: con ciò sia cosa che tu niente abbia perduto, di che ti duoli tu? Sì come tu di', niente possedesti: e chi non possiede non può perdere; e chi non perde, di che si lamenta? Credesti alcuna volta, per alcuno sguardo fatto a te da quella giovane cui tu ami, che ella t'amasse: hai conosciuto che quello era bugiardo, e che ella non t'ama. Certo di questo ti dovresti tu rallegrare e rendere infinite grazie agl'iddii, che t'hanno aperti gli occhi avanti che tu in maggiore inganno cadessi. Se forse dello essilio che hai piangi, non fai il migliore: ché, pensando al vero, niuno essilio si può avere, con ciò sia cosa che il mondo sia una sola città a tutti. Ove che la fortuna ponga altrui, ella nol può cacciare di quello. In ciascun luogo giunge altrui la morte con finale morso. A' virtuosi ogni paese è il loro. Lascia questi pianti e leva su, vienne con meco, e virtuosamente pensa di vivere, e metti in oblio la malvagità di quella giovane che a questo partito t'ha condotto: che de' cieli possa fuoco discendere che ígualmente tutte le levi di terra!».

 

A cui Fileno disse:

 

«Giovane, ben credo che il tuo dolore fu grande, e similmente il tuo animo, poi che con pazienza il poté sostenere; ma io mi sento troppo minore l'animo che la doglia, e però invano ci si balestrano confortevoli parole. Io sono disposto a piangere mentre io vivrò: gl'iddii per me del tuo buon volere ti meritino. Io ti priego per quello amore che tu già più fervente portasti alla tua donna, che non ti sia noia il partirti e 'l lasciarmi con continue lagrime sfogare il mio dolore».

 

«Gl'iddii te ne traggano tosto di cotale vita» disse il giovane. E partitosi da lui, se ne tornò per quella via onde venuto era.

 

 

[37]

 

Partito il giovane, Fileno ricominciò il doloroso pianto; e increscendogli della sua vita, con dolenti voci incominciò a chiamare la morte così:

 

«O ultimo termine de' dolori, infallibile avvenimento di ciascuna creatura, tristizia de' felici e disiderio de' miseri, angosciosa morte, vieni a me! Vieni a colui a cui il vivere è più noioso che il tuo colpo, vieni a colui che graziosa ti riputerà! Deh, vieni, ché il tristo cuore ti chiede! Oimè, ch'io non posso con la debole voce esprimere quanto io ti disidero. Poi che un solo colpo dei tuoi debbo ricevere, piacciati di concederlo sanza più indugio. Non sia l'arco tuo più cortese a me che al valoroso Ettore o ad Achille. Io tengo in villania il lungo perdono che da lui ho ricevuto. I doni disiderati, tosto donati, doppiamente sono graditi: concedi questo a me che tanto disiderata t'ho, e che con così dolente voce ti chiamo. Oimè, come sono radi coloro che con volonteroso animo ti ricevono, come ti riceverò io! Dunque, perché non vieni? Non consentire che disiderandoti, come io fo, io languisca più. Io non ricuserò in niuna maniera la tua venuta. Vieni come tu vuoi, solo ch'io muoia. Io non fuggirei ora gli aguti ferri, né le taglienti spade com'io feci già; l'agute sanne de' fieri leoni non mi dorrebbeno, né di qualunque altra fiera dilacerante il mio corpo: dunque vieni. O rapaci lupi, o ferocissimi orsi, se alcuni nel dolente bosco, bramosi di preda, dimorate, venite a me, facciasi il mio corpo vostro pasto: adempiete quel disio che altri adempiere non mi vuole. Oimè, perisca il tristo corpo, poi che perita è la speranza, cerchi la dolente anima i regni atti al suo dolore e vada con la sua pena alle misere ombre di Dite, ove forte sarà che maggior pena che ella al presente sostiene, vi truovi. O iddii abitatori de' celestiali regni, se alcuno mai in questo luogo ricevette onore di sacrificio, dolgavi di me, O driade, abitatrice di questi luoghi, fate che la misera vita mi fugga. O infernali iddii, rapite del mio misero corpo la vostra anima. Cessi che io più me e voi stimoli con le mie voci».

 

E così piangendo e gridando, tutto delle propie lagrime si bagnava, baciando sovente il candido velo, sopra il quale per debolezza sovente cader si lasciava. Ma Florio, rimaso a Montoro, presto a mettere in essecuzione le triste insidie sopra Fifeno, udito che il misero per paura di quelle avea preso volontario essilio, lasciò stare le cominciate cose, e incominciassi alquanto a riconfortare, imaginando che poi che questo era cessato di che egli più dubitava, niuna altra cosa, fuori che prolungamente di tempo, al suo disio gli poteva noiare.

 

 

[38]

 

La santa dea, che due volte era discesa de' suoi regni per impedire il ferventissimo amore tra Florio e Biancifiore cresciuto per lungo tempo, sentendo Florio rallegrarsi e il misero Fileno avere per le operazioni di lei preso dolente essilio, parendole niente aver fatto, propose del tutto di volere la sua imaginazione compiere. E discesa del cielo la terza volta, sopra un'alta montagna in forma di cacciatrice si pose ad aspettare il re Felice, che quivi cacciando su per quella doveva quel giorno venire. Ella avea i biondi capelli ravolti alla sua testa con leggiadro svolgimento, e il turcasso cinto con molte saette, e nella sinistra il forte arco portava. E quivi per picciolo spazio dimorando, di lontano vide il re Felice soletto correre dietro ad un grandissimo cervio, il quale verso quella parte ov'ella era fuggiva: al quale ella si parò davanti e con soavissima voce salutatolo, abandonato il cervio, il ritenne a parlar seco. A cui il re, non conoscendola, disse:

 

«Giovane donna, come in questo luogo sì sola dimorate?».

 

«Di qui non sono guari lontane le compagne - rispose Diana; - ma tu come a questi diletti itendi, con ciò sia cosa che il tuo figliuolo, per amor di colei cui tu tieni in casa, guadagnata ne' sanguinosi campi, si muore? Io conosco il sopravegnente pericolo, e dicoti che se tosto rimedio a questa cosa non prendi, ella il ti torrà».

 

E questo detto, subitamente sparve. Rimase il re tutto stupefatto e pieno di pensieri, quando, volendo consiglio domandare, vide la dea sparita, e così tra sé, voltando i suoi passi, disse:

 

«Veramente divina voce m'ha i miei danni annunziati».

 

E di grieve dolore oppresso, lasciata la caccia, si tornò in Marmorina.

 

 

[39]

 

Ritornato il re in Marmorina dentro al suo palagio, in una camera, soletto, con bassa fronte, si pose pensando a sedere ripetendo in sé l'udite parole dalla santa dea, e in sé rivolgendo che rimedio alle cose udite potesse pigliare. E in tali pensieri dimorando, la reina sopravenne; e vedendo il re turbato, si maravigliò, e timidamente così gli disse:

 

«O caro signore, se licito è ch'io possa sapere la cagione della vostra turbazione, io vi priego che ella non mi si celi».

 

A cui il re rispose:

 

«Ella non ti si può né dee celare, e però io la ti dirò: oggi nel più forte cacciare che io facea, correndo dietro a un cervio, non so che si fosse, o dea o altra creatura, ma in abito d'una cacciatrice, m'apparve una bella donna, la quale, dopo alquante parole, mi disse che se con subito provedimento noi non soccorressimo, che Florio per Biancifiore perderemmo: e questo detto, sparve subitamente, né più la potei vedere. Onde io da quella ora in qua con grieve doglia sono dimorato e dimoro. Io conosco manifestamente che la fortuna, dei nostri beni invidiosa, si oppone a quelli, e vuolcene in miserabile modo privare. Io non so che consiglio pigliare. Io mi consumo pensando che per una serva io debba perdere il caro figliuolo acquistato con tanti prieghi. O maladetto giorno, o perfidissima ora della sua natività, perché mai venisti? Egli non per nostra consolazione, ma per dolorosa distruzione di noi nacque: ma certo la cagione di tanta e di tale tristizia converrà che prima di me perisca. Questi mali e queste angosciose fatiche solo per la vilissima serva procedono. Io le leverò con le propie mani la vita: la mia spada trapasserà il suo sollecito petto: e di questo segua che puote! E certo se i fati altre volte la trassero delle cocenti fiamme, essi non la trarranno ora del mio colpo. Oimè, che mi parea incredibile per adietro, quand'io udiva che sola Biancifiore era ancora da lui dimandata, e diceva: "Se ciò fosse vero, già il duca e Ascalion me l'avrebbero fatto sentire!". Ma io credo fermamente che la puttana l'abbia con virtuose erbe, o con parole, o con alcuna magica arte costretto, però che mai non si udì che femina con tanto amore durasse in memoria d'uomo, quanto costei è durata a lui. Ma certo a mio potere l'erbe e le incantazioni le varranno altressì poco: come a Medea valessero!».

 

 

[40]

 

Poi che il re, narrate queste cose, si tacque, la reina, dopo alcuno sospiro, così disse:

 

«Oimè, ora ha egli ancora nella memoria Biancifiore? Certo, se questo è, negare non possiamo che in contrario non ci si volga la prosperevole fortuna passata. Io imaginava che egli più non se ne ricordasse; ma poi che ancora gli è a mente soccorriamo con pronto argomento».

 

«Niuno rimedio è sì presto come ucciderla - disse il re, - e acciò che infallibile sia il colpo, io l'ucciderò con la propia mano». A cui la reina disse:

 

«Cessino questo gl'iddii, che un re si possa dire che colpevole nella morte d'una semplice giovinetta sia, o che le mani vostre di sì vile sangue siano contaminate. Se noi la sua morte disideriamo, noi abbiamo mille servi presti a maggiori cose, non che a questa; ma noi, sanza esser nocenti contro lo innocente sangue di lei, possiamo in buona maniera riparare: e ciò v'aveva io già più volte voluto dire, ma ora, venuto il caso, vel dirò. Io intesi, pochi dì sono passati, che venuta era ne' nostri porti, là dove il Po le sue dolci acque mescola con le salse, una ricchissima nave, di che parte si venga non so, la quale, secondo che m'è stato porto, spacciato il loro carico, si vogliono partire: mandate per li padroni, e a loro sia Biancifiore venduta. Essi la porteranno in alcuna parte strana o molto lontana di qui, e di essa mai niuna novella si saprà: e a Florio date ad intendere che morta sia, faccendole fare nobilissima sepoltura e bella, acciò che più la nostra bugia somigli il vero. E egli, credendo questo, poi s'auserà a disamarla».

 

 

[41]

 

Niente rispose il re a' detti della reina, ma in se medesimo alquanto rattemperato pensò di volere tal consiglio seguire, e seguendolo imaginò che sanza fallo gli verrebbe il suo avviso fornito. E uscito della sua camera, a sé chiamò Asmenio e Proteo, giovani cavalieri e valorosi, e disse così loro:

 

«Sanza alcuno indugio cercate i nostri porti là dove il Po s'insala: quivi n'è detto che una ricchissima nave è venuta; fate che voi la veggiate, e conosciate di quella i signori, e sappiate di qual paese viene, e di che è carica, e quando si dee partire, e ordinatamente tutto mi raccontate nella vostra tornata, la quale sanza niuno indugio fate che sia».

 

 

[42]

 

Mossersi i due giovani con quella compagnia che piacque loro, e, pervenuti a' dimandati porti, montarono sopra la bella nave, ove essi onorevolemente ricevuti furono da Antonio e da Menone, signori e padroni di quella. E poi che Asmenio dimorato con loro alquanto fu, egli disse:

 

«Belli signori, noi siamo cavalieri e messaggi dell'alto re di Spagna, ne' cui porti voi dimorate; e siamo qui venuti a voi per essere di vostra condizione certi, e per sapere qual sia il vostro carico, e da quali liti vi siate con esso partiti, e che intendiate di fare. Piacciavi che di tutte queste cose noi al nostro signore possiamo rendere vera risposta».

 

A cui Antonio, per età e per senno più da onorare, così rispose:

 

«Amici, voi siate i ben venuti. Noi, brievemente, siamo ad ogni vostro piacere disposti, e però alla vostra dimanda così vi rispondiamo, e così a chi vi manda risponderete: il presente legno è di questo mio compagno e mio, i quali, egli Menone e io Antonio siamo chiamati, e nascemmo quasi nelle ultime parti dell'ausonico corno, vicini alla gran Pompeia, vera testimonia delle vittorie ricevute da Ercule ne' vostri paesi, e da lui edificata; e vegnamo dalli lontani liti d'Alessandria in questi luoghi, non volonterosi venuti, ma da fortunale tempo portati, nel quale gl'iddii, la mercé loro, ci hanno tanta di grazia fatta, che quasi tutto il carico della nostra nave avemo spacciato, il quale fu in maggior parte spezieria, perle e oro, e drappi dalle indiane mani tessuti; e intendiamo, ove piacere de' nostri iddii sia, di cercare le sedie d'Antenore, poste nell'ultimo seno di questo mare, quando avremo tempo; e quivi di quelle cose che per noi saranno, intendiamo di ricaricare la nostra nave e di tornare agli abandonati liti. Se per noi si può far cosa che al vostro signore e a voi piaccia, come umilissimi servidori a' vostri piaceri ci disponiamo».

 

Assai gli ringraziarono i due cavalieri e ultimamente gli pregarono che non fosse loro noia alquanti giorni attendergli, però che con loro credevano dovere avere a fare. A cui essi risposero che uno anno, se tanto loro piacesse, gli attenderebbono.

 

 

[43]

 

Tornarono i due cavalieri al re, e chiaramente ogni cosa udita da' padroni gli narrarono. A' quali il re disse:

 

«Tornate ad essi e domandateli se essi volessero una bellissima giovane comperare, la quale innumerabile tesoro ho cara, e con la risposta tacitamente tornate».

 

Ripresero i cavalieri il cammino, e, ricevuti con amorosi accoglimenti, a' mercatanti la loro ambasciata contarono, aggiungendo che dalla bella giovane inverso la reale maestà grandissimo fallo era stato commesso, per lo quale morte meritava «ma il signore, pietoso della sua bellezza, non ha voluto privarla di vita: ma, acciò che il fallo non rimanga impunito, la vuole vendere, come contato v'abbiamo».

 

A cui i mercatanti risposero ciò molto piacere loro: e se bella era quanto contavano, nullo migliore comperatore d'essi se ne troverebbe. «Adunque - disse Asmenio - arrecate i vostri tesori e venite con noi, acciò che voi veggiate che quello che vi diciamo è vero».

 

 

[44]

 

Caricati i mercatanti i loro tesori, e presi molti loro cari gioielli, con li due cavalieri se ne vennero a Marmorina, ove dal re onorevolmente ricevuti furono. E quando tempo parve al re di volere che essi vedessero Biancifiore, egli disse alla reina:

 

«Va e fa venire la giovane». Al cui comandamento la reina andata in una camera ove Biancifiore era, disse:

 

«O bella giovane, rallegrati, che picciolo spazio di tempo è a passare che il tuo Florio sarà qui; e pero adornati, acciò che tu gli possi andare davanti e fargli festa, e che egli non gli paia che le tue bellezze sieno mancate».

 

Corse al cuore di Biancifiore una subita letizia, udendo le false parole, e per poco non il cuore, abandonato dalle interiori forze, corse di fuori a mostrare festa, per debolezza perì. Ma poi, quelle tornate ciascuna nel suo luogo furono, Biancifiore s'andò ad ornare. Ella i dorati capelli con sottile artificio mise nel dovuto stile, e, sé di nobilissimi vestimenti vestita, sopra la testa si puose una bella e leggiadra coronetta, e con lieti sembianti cominciò ad attendere, disiderosa d'udire dire: "Ecco Florio!".

 

 

[45]

 

Il re fece chiamare i due mercatanti, e con loro sanza altra compagnia, se ne entrò in una camera, e disse loro:

 

«Voi vedrete di presente venire una creatura di paradiso in questo luogo, la quale sarà al vostro piacere, se assai tesori avete recati».

 

E detto questo, comandò che Biancifiore venisse. Allora la reina disse a Biancifiore:

 

«Andiamo nella gran sala, non dimoriamo qui, acciò che di lontano possiamo vedere il caro figliuolo».

 

Mossesi Biancifiore soletta di dietro alla reina e venne nel luogo ove i due mercatanti dimoravano. E come l'aria, di nuvoli piena, porge alla terra alcuna oscurità, la quale poi, partendosi i nuvoli, da' solari raggi con lieta luce è cacciata, così parea che dove Biancifiore giungeva, nuovo splendore vi crescesse. Videro i mercatanti la bella giovane, e, ripieni d'ammirazione, appena credettero che cosa mondana fosse, dicendo fra loro che mai sì mirabile cosa non era stata veduta. Elli comandarono che di presente i loro tesori fossero tutti aportati davanti al re; i quali venuti in grandissima quantità, così dissero:

 

«Signore, sanza altro mercatare, de' nostri tesori prendete quella quantità che a voi piace, ché noi non sapremmo a così nobile e preziosa cosa porre pregio alcuno».

 

«Assai mi piace», rispose il re. E di quelli prese quella quantità che a lui parve e l'altra rendé loro. E essi, contenti di ciò che fatto avea il re, sopra tutto ciò che preso avea, gli donarono una ricchissima coppa d'oro, nel gambo e nel piè della quale con sottilissimo artificio tutta la troiana ruina era smaltata, cara per maesterio e per bellezza molto. Dopo i ricevuti tesori, il re con sommessa voce così parlò a' mercatanti:

 

«A voi conviene, poi che comperata avete costei, sanza niuno indugio dare le vele a' venti, né più in questi paesi dimorare, non forse nuovo accidente avvenisse per lo quale il vostro e mio intendimento si sturbasse».

 

Dissero i mercatanti:

 

«Signore, co mandate alla giovane, poi che nostra è, che con noi ne venga, che noi non l'avremo prima sopra la nostra nave, che essendo il tempo ben disposto, come elli ci pare che sia, che noi prenderemo nostro cammino e sgombreremo i vostri porti, però che per noi non fa il dimorare».

 

 

[46]

 

Voltossi allora il re a Biancifiore, e disse:

 

«Bella giovane, a me ricorda che quando davanti mi recasti nella festa della mia natività il velenato paone, io giurai per lo sommo Iddio e per l'anima del mio padre, e promisi al paone che in brieve tempo io ti mariterei a uno de' grandi baroni del mio regno: però, volendo osservare il mio voto, t'ho maritata, e il tuo marito si chiama Sardano, signore dell'antica Cartagine, a noi carissimo amico e parente. Egli con grandissima festa t'aspetta, sì come i presenti gentili uomini da sua parte a noi per te venuti ne dicono. Però rallegrati: e poi che piacere è di lui, a cui oramai sarai cara sposa, con costoro n'andrai, e noi sempre per padre terrai, là ove bisogno ti fosse tale paternità».

 

Le cui parole come Biancifiore udì, tutta si cambiò nel viso e disse:

 

«Oimè, dolce signore, e come m'avete voi maritata, che io nel gran pericolo che fui, quando ingiustamente al fuoco fui condannata, per paura della morte, a Diana votai etterna virginità, se dallo ingiusto pericolo mi campasse?».

 

«Come - disse il re - richiede la tua bellezza etterna virginità, la quale a' venerei atti è tutta disposta? Giunone, dea de' santi matrimonii, ti rimetterà questo voto, poi che il suo numero accresci».

 

«Oimè! - disse Biancifiore - io dubito che la vendicatrice dea giustamente meco non si crucci».

 

«Non farà - disse il re, - e posto che ciò avvenisse, questo è fatto omai, non può indietro tornare. Tu dovevi dirloci avanti se così avevi promesso. Imineo lieto e inghirlandato tenga nella vostra camera le sante facelline».

 

E questo detto, comandò che Glorizia sua maestra le fosse per servigiale donata, sì come della misera Giulia era stata, e che ella fosse da' mercatanti tacitamente menata via, e i tesori riposti.

 

 

[47]

 

Biancifiore, che i segreti ragionamenti e l'abito de' mercatanti e i ricevuti tesori tutti avea veduti, e il tacito stile che il re nella sua partenza teneva, e similmente l'unica servitrice a lei donata, e le ingannevoli parole della reina che detto l'avea: "Vieni, che il tuo Florio viene" nella mente notava, fra sé dolendosi incominciò a dire:

 

«Oimè, che è questo? In sì fatta maniera non sogliono le giovani andare a' loro sposi, anzi si sogliono fare grandissime feste, e io con taciturnità sono cercata di menar via. Né ancora si sogliono per le mie pari da' mariti mandare tesori, anzi ne sogliono ricevere. Né ancora costoro paiono uomini atti a portare ambascerie di sì fatte bisogne, ma mi sembrano mercatanti; e i segreti mormorii mi danno cagione di dubitare. E ove s'usa ancora una giovane andare a sì fatto sposo, quale egli dice che m'ha donato, con una sola servitrice? Oimè, che tutte queste cose mi manifestano che io sono ingannata! Io misera, nata per aver male, non maritata ma venduta credo ch'io sono, come schiava da pirrata in corso presa. Oimè, che farò? Come che io mi sia o venduta o maritata, come potrà io abandonare il bel paese ove il mio Florio dimora?».

 

E questo dicendo, incominciò sì forte a piangere, che a forza mise pietà ne' crudeli cuori del re e della reina. Ma il re ciò non sofferse di stare a vedere, anzi si partì per paura di non pentersi, e la seconda volta comandò che portata ne fosse.

 

 

[48]

 

Già lasciava Febo vedere la sua cornuta sorella disiosa di tornare alquanto con la sua madre, quando i mercatanti, apparecchiati i cavalli, levarono Biancifiore di braccio alla reina semiviva, e con Glorizia insieme, di quindi partendosi, la ne portarono. E pervenuti alla loro nave, contenti di tale mercatantia, lei sopra quella posero, apparecchiando la più onorevole parte d'essa, e pregando gl'iddii che prospero viaggio loro concedessero. E date le vele a' venti, si partirono con Biancifiore da' vietati porti, comandando che ricercati fossero i lasciati liti di Soria.

 

 

[49]

 

Zeffiro ancora non era stato da Eolo richiuso nella cavata pietra, anzi soffiando correa sopra le salate onde con le sue forze, per la qual cosa i mercatanti prosperamente con la loro nave andavano a' disiderati liti. Ma Biancifiore, che ora conosceva manifestamente il tradimento dello iniquo re, quivi venuta con continuo pianto, con più grave doglia veggendosi dalli occidentali liti allontanare, incomincio a piangere, e a dire così:

 

«Oimè, dolorosa la vita mia, ove sono io portata? Chi mi toglie da' dolci paesi ov'io lascio l'anima mia? O Amore, solo signore della dolorosa mente, quanti e quali sono i mali che io, per essere fedelissima suggetta alla tua signoria, sostegno! Ma tra gli altri notabili, come tu sai, io per te ebbi a morire di vituperevole morte, avvegna che per te simigliantemente da quella campassi, e ora, come vilissima serva venduta, per te, non so ove io mi sia portata. Se queste cose fossero manifeste, chi s'arrischierebbe mai a seguire tua signoria? Deh, perché non mi uccidevi tu avanti, quando ne' begli occhi di Florio m'apparisti, che ferirmi, acciò che io per la tua ferita tanto male dovessi sostenere? Oimè, ch'io non so quali liti saranno da me cercati, né alle cui mani io misera debbo venire. Ma a niune verrò che iguale tristizia non sia la mia, poi ch'io lascio il mio Florio. Dove, o misera fortuna, ricorrerò per conforto, con ciò sia cosa che ogni speranza fuggita mi sia di potere mai lui rivedere? Io sono portata lontana da lui, e egli nol sa, né sa dove: dunque dove sarò io da lui ricercata? E io come potrò lui ricercare, ché la mia libertà è stata venduta a costoro infiniti tesori? Ahi misera vita, maladetta sii tu, che sì lungamente in tante tribulazioni mi se' durata! O dolcissimo Florio, cagione del mio dolore, gl'iddii volessero che io mai veduto non ti avessi, poi che per amarti tante tribulazioni e tante avversità sostenere mi conviene. Ma certo se io mai rivederti credessi, ancora mi sarebbe lieve il sostenerle. Oimè, or che colpa ho io se tu m'ami? Io mi riputai già grandissimo dono dagl'iddii l'avere avuto da te soccorso, quando per te credetti morire nelle cocenti fiamme: ma certo io ora avrei molto più caro l'essere stata morta. Io non so che mi fare. Io disidero di morire e intanto mi conosco miserissima, in quanto io veggio alla morte rifiutarmi. Ora faccino di me gl'iddii ciò che piace loro: niuno uomo fu mai amato da me se non Florio, e Florio amo e lui amerò sempre. Nulla cosa mi duole tanto, quanto il perduto tempo, nel quale già potemmo i disiderati diletti prendere e non li prendemmo, ma quello ozioso lasciammo trascorrere, pensando che mai fallire non ci dovesse: ora conosco che chi tempo ha e quello attende, quello si perde. O misero Fileno, in qualunque parte tu vagabundo dimori, rallegrati che io, cagione del tuo essilio, ti sono fatta compagna con più misera sorte. A te è licito di tornare, ma a me è negato. Tu ancora la tua libertà possiedi, ma la mia è venduta. Gl'iddii e la fortuna ora mi puniscono de' mali che tu per me sostieni: ma certo a torto ricevo per quelli ingiuria, ché, come essi sanno, mai io non ti mostrai lieto sembiante se non costretta dalla iniquissima madre di colui di cui io sono. Oimè, quanto m'è la fortuna contraria! Ma certo ciò non è maraviglia, con ciò sia cosa che i figliuoli debbano succedere a' parenti nelli loro atti: chi più infortunato fu che il mio padre e la mia misera madre, avvegna che di tutto io fossi cagione? E se io di ciò fui cagione, dunque maggiormente conviene che io infortunata sia, anzi posso dire che io sia esso infortunio. Rallegrinsi le loro anime ove che esse sieno: io porto pena del commesso male. O iddii, provedete alla mia miseria, poneteci fine. O Nettunno, inghiottisci la presente nave, acciò che la misera perisca. Racchiudi sotto le tue onde in un corpo tutte le miserie, acciò che il mondo riposi: elle sono tutte adunate in me; se tu me nelle tue acque raccogli, tutte l'avrai in tua balia, e potrai poi di quelle dare a chi ti piacerà. E tu, o Eolo, leva co' tuoi venti le tese vele, che al mio disio mi fanno lontana. Ove è ora la rabbia de' tuoi suggetti, che a' troiani levò gli alberi e' timoni, e parte de' loro uomini e delle navi? Risurga, acciò che io più non sia portata avanti. Io disidero di morire ne' vicini mari al mio Florio, acciò che il misero corpo, portato dalle salate acque sopra i nostri liti, muova a pietà colui di cui egli è, e da capo con le propie lagrime il bagni. O almeno abassa la potenza del fresco vento che ci pinge alla disiderata parte da costoro. Apri la via agli orientali e agli austri, acciò che negli abandonati porti un'altra volta sieno gittate le tegnenti ancore, e quivi forse da Florio, che già dee la mia partita aver sentita, sarò radomandata con maggior quantità di tesori a costoro. Niuna altra speranza m'è rimasa, in niuna altra maniera mai rivedere non credo colui che è solo mio bene. Oimè, i miei prieghi non sono uditi! E chi ascoltò mai priego di misero? Io m'allungo ciascuna ora più da te, o Florio, in cui l'anima mia rimane. E però rimanti con la grazia degl'iddii, i quali io priego che da sì fatta doglia come io sento, ti levino. Pensa d'un'altra Biancifiore, e me abbi per perduta: li fati e gl'iddii mi ti tolgono. Io non credo mai più rivederti, però che veggendomiti ciascuna ora più far lontana, disperata mi dispongo alla morte, la quale gl'iddii non lascino impunita in coloro che colpa me n'hanno».

 

E piangendo, con travolti occhi e con le pugna chiuse, palida come busso, risupina cadde in grembo a Glorizia, che con lei miseramente piangeva.

 

 

[50]

 

Li due mercatanti vedendo questo, dolenti oltre misura, lasciando ogni altro affare, corsero in quella parte, e di grembo a Glorizia la levarono, e lei non come comperata serva, ma come cara sorella si recarono nelle braccia, e con preziose acque rivocarono gli spaventati spiriti a' loro luoghi, e così cominciarono a parlare a Biancifiore:

 

«O bellissima giovane, perché sì ti sconforti? Perché piangendo e con ismisurato dolore vuoi te e noi insieme consumare? Deh, qual cagione ti conduce a questo? Piangi tu l'avere abandonato il vecchio re, il quale, pieno d'iniquità e di mal talento, più la tua morte che la tua vita disiderava? Tu di questo ti dovresti rallegrare. E forse che ti pare che la fortuna miseramente ti tratti, però che tu a noi costi la maggior parte de' nostri tesori, parendoti dovere avere preso nome di comperata serva, sotto la qual voce non pare che lieta vita si deggia poter menare; ma certo da tale pensiero ti puoi levare, però che noi non guarderemo mai a' donati tesori per te, ma, conoscendo la tua magnificenza, in ogni atto come donna ti onoreremo. E se forse ti duole il dover cercare nuovi liti, imaginando quelli dovere essere strani e voti di' varii diletti, de' quali forse ti pareva la tua Marmorina piena, certo tu se' ingannata, però che colà ove noi ti portiamo è luogo abondevole di graziosi beni, pieno di valorosa gente, nel quale forse la fortuna ti concederà più tosto il tuo disio che fatto non ti avrebbe onde ti parti: però che noi spesso veggiamo che quelli luoghi che paiono più atti a uno intendimento d'un uomo o d'una donna, quelli sono quelli ne' quali mai tale intendimento fornire non si può; e così ne' non pensati luoghi avviene che l'uomo ha quello che ne' pensati disiderava. I futuri avvenimenti ci sono nascosi. Il primo aspetto delle cose doni speranza di quello che dee seguire: tu ricca, tu graziosa, tu bellissima! Le quali cose pensando, manifestamente si dee credere che gl'iddii a grandissime cose t'apparecchiano e che in te non dee potere lunga miseria durare. Piangano coloro a' quali niuna speranza è rimasa. Noi ti preghiamo che tu ti conforti, con ciò sia cosa che noi manifestamente conosciamo che con aperte braccia felicità non pensata t'aspetta, alla quale gl'iddii tosto te e noi con prosperevole tempo, come cominciato hanno, ci portino».

 

 

[51]

 

Con pietose lagrime ascoltava Biancifiore le parole de' confortanti, e avvegna che niuno conforto di quelle prendesse, nondimento con rotte voci prometteva di confortarsi. Ma poi che i due mercatanti, parendola loro quasi avere riconfortata, la lasciarono con Glorizia, essa soletta in una camera della nave, donata a lei da' signori, si rinchiuse, e in quella con tacite lagrime sopra il suo letto così cominciò a dire:

 

«O graziosissima Citerea, ove è la tua pietà fuggita? Oimè, come tante lagrime di me, tua fedelissima suggetta, non ti muovono ad aiutarmi? Chi spererà in te, se io, che più fede t'ho portata, per te perisco? E quando verrà il tuo soccorso, se nelle miserie non viene? Io non posso peggio stare che io sto. O misera a me, che feci io che io meritassi d'essere venduta? Or m'avesse avanti il re uccisa con le propie mani: almeno il termine de' miei dolori sarebbe finito! Deh, pietosa dea, quand'io altra volta temetti di morire, tu da quel pericolo mi campasti: perché ora più grave t'è in questo bisogno aiutarmi? Io mi diparto dal mio Florio, né so quali paesi fieno cercati da me: e se io credessi propiamente i tuoi regni venire ad abitare, e' mi sarebbero noiosi sanza Florio. Dunque comanda che come la saetta del tuo figliuolo con dolcezza mi passò il cuore per la piacevolezza di Florio, a me tornata in grave amaritudine, che ella mi si converta in mortal piaga, e tosto. Non consentire che io più viva languendo. Muovanti tante lagrime, quante io mando nel tuo cospetto, a questa sola grazia concedermi: e se a te forse la mia morte non piace, riconfortimi la seconda volta il tuo santo raggio, il quale nella oscura prigione, ov'io per adietro a torto fui messa, mi consolò faccendomi sicura compagnia. Io vo sanza alcuna speranza, se da te, non m'è porta. Deh, non mi lasciare in tanta avversità disperata, ma sì come il tuo pietoso Enea negli africani liti, a' quali io, più ch'io non disidero, già m'appresso, riconfortasti con trasformata imagine, così di me ti dolga, e fammi degna del tuo soccorso. A te niuna cosa s'occulta, il mio bisogno tu il sai: provedivi sanza indugio, acciò che il numero delle mie miserie non multiplichi. E tu, o vendicatrice Diana, nel cui coro io per difetto di virginità non avrei minor luogo, aiutami: io sono ancora del tuo numero, e disidero d'essere infino a quel tempo che l'inghirlandato Imineo mi penerà a concedere liete nozze. Concedi che io possa i tuoi beneficii interi servare al mio Florio, al quale se i fati non concedono che essi pervengano, prima la morte m'uccida, che quelli tolti mi sieno».

 

E mentre che Biancifiore queste parole fra sé tacita pregando dicea, soave sonno sopravenutole, le parole e le lagrime insieme finio.

 

 

[52]

 

Diana, che delli alti regni conoscea la miseria in che Biancifiore era venuta per le operazioni di lei, in se medesima si riputò essere vendica del non ricevuto sacrificio, e temperò le sue ire con giusto freno, e i santi orecchi piegò a' divoti prieghi di Biancifiore; e li suoi scanni lasciati, a quelli di Venere se n'andò, e così le disse:

 

«O dea, sono alle tue orecchie pervenuti i pietosi prieghi della tua Biancifiore, come alle mie?».

 

«Certo sì - rispose Citerea, - e già di qui mi volea muovere per andare a porgerle il dimandato conforto; ma tu, che niuna tua ira vuoi sanza vendetta da te cacciare, lascia omai le soperchievoli offese e perdona il disaveduto fallo alla innocente giovane, acciò che io non abbia cagione di contaminare i tuoi cori con più asprezza. Tu non meno di me se' tenuta d'aiutare costei, però che ben che essa aggia me col core servita e serve, nondimeno ha ella te sempre con le operazioni servita, e ora a te, come a me, soccorso nella presente avversità domanda».

 

«Adunque - disse Diana - andiamo: le mie ire sono passate, e vera compassione de' suoi mali porto nel petto; porgiamole il dimandato conforto».

 

A cui Venere disse:

 

«Io la veggo sopra le salate onde vinta da angosciosi pianti soavemente dormire, e esserne portata verso il mio monte, al quale luogo io spero che 'l suo disio ancora farò con letizia terminare, avvegna che sanza indugio essere non può per quello che per adietro hai operato».

 

 

[53]

 

Sanza più parlare si partì il divino consiglio, e amendue le dee, lasciati i luoghi, con lieto aspetto nel sonno si mostrarono alla dormente giovane. E Diana, che in quello abito propio che portare solea alle cacce, inghirlandata delle frondi di Pallade, l'apparve, e così le disse:

 

«O sconsolata giovane, l'avermi ne' sacrificii, renduti agli altri iddii per lo tuo scampo, dimenticata, giustamente verso di te mi fece turbare: per la quale turbazione, essendone io stata cagione, hai sostenute gravose avversità. Ma ora i tuoi prieghi hanno addolcita la mia ira, e divenuta sono verso di te pietosa: per la qual cosa ti prometto che la dimandata grazia infino alla disiderata ora ti sarà da me conceduta, né niuno sarà ardito di levarti ciò che tu nel cuore hai proposto di guardare».

 

Ma Venere, che tutta nel cospetto di Biancifiore di focosa luce sfavillava, involte le nude carni in uno sottilissimo drappo porporino, e coronata dell'amate frondi di Febo, così le disse:

 

«Giovane, a me divota e fedelissima suggetta, lascia il lagrimare, e nelle presenti avversità e nelle future con iguale animo ti conforta. Tu hai co' tuoi prieghi mosse a pietà le nostre menti, e spera che tu sarai da Florio ricercata: e in quella parte nella quale più ti parrà impossibile di doverlo potere avere o vedere, tel troverai nelle tue braccia ignudo».

 

E queste cose dette, sparvero, e Biancifiore si svegliò: e lungamente pensando alle vedute cose, molto conforto riprese, e con lieto viso a Glorizia queste cose tutte raccontò; di che insieme prendendo buona speranza di futura salute, fecero maravigliosa festa.

 

 

[54]

 

Nettunno tenea i suoi regni in pace e Eolo prosperosamente pingeva l'ausonica nave a' disiati liti, sì che avanti che Febea, nel loro partimento cornuta, avesse i suoi corni rifatti eguali, essi pervennero all'isola che preme l'orgogliosa testa di Tifeo. E quivi, di rinfrescarsi bisognosi, là ove Anchise la lunga età finì, presero porto, e, onorevolemente ricevuti in casa d'una nobilissima donna chiamata Sisife, a' mercatanti di stretto parentado congiunta, più giorni quivi si riposarono. Con la quale Sisife dimorando Biancifiore, e nella mente tornandole alcuna volta Florio e la dolente vita, la quale egli dovea sentire poi che saputo avesse la partita di lei, pietosamente piangea, e con tutto che la sua speranza fosse buona e ferma, non cessava però di dubitare, né per quella potea in alcun modo porre freno alle sue lagrime. La qual cosa Sisife vedendo un giorno così le disse:

 

«Dimmi, Biancifiore, se gl'iddii ogni tuo disio t'adempiano, qual è la cagione del tuo pianto? Io ti priego, s'elli è licito ch'io la sappia, che tu non la mi celi, però che grandissima pietà, che di te sento nel cuore, mi muove a questo voler sapere: la qual cosa, se tu mi dirai, tale potrà essere che o conforto o utile consiglio vi ti porgerò». A cui Biancifiore disse:

 

«Nobile donna, niuna cosa vi celerei che domandata mi fosse da voi, solo ch'io la sapessi: e però ciò che dimandato avete, volentieri la vostra volontà ne sodisfarò, avvegna che invano consiglio o conforto mi porgerete. Io, dal mio nascimento isfortunata, non saprei da qual capo incominciare a narrare i miei infortunii, tanti sono e tali. Ma posto che sieno stati e sieno al presente molti, solamente amore mi fa ora lagrimare, con ciò sia cosa che io, più che alcuna giovane fosse mai, mi truovo nella sua potenza costretta per la bellezza d'un valoroso giovane chiamato Florio, figliuolo dell'alto re di Spagna, il quale è rimaso là onde io misera mi partii con questi signori della nave, i quali me comperata schiava portano, e non so dove. E ben che l'essere io di costoro mi sia grave, leggerissima riputerei questa e ogni altra maggiore avversità, se meco fosse il signore dell'anima mia, o in parte che io solamente alcuna volta il giorno vedere lo potessi. Ma non che alcuna di queste cose m'abbia la fortuna voluto concedere, ma ella solamente non sofferse che io vedere il potessi nella mia partita, o udire di lui alcuna cosa: anzi ingannata e semiviva, e tutta delle mie lagrime bagnata, fui di Marmorina tratta, ove io l'anima e ogni intendimento ho lasciata con colui di cui io sono tutta. E sanza fine mi maraviglio come dopo la mia partenza, considerando allo intollerabile dolore ch'io ho sostenuto, m'è tanto la vita durata: ma la morte perdona a' miseri le più volte!».

 

E qui lagrimando, bassò la testa e tacquesi. E Sisife così le cominciò a parlare:

 

«Bella giovane, non ti sconfortare: sanza dubbio conosco il tuo infortunio essere grande e il dolore non minore che quello; ma per tutto questo, posto ch'è perduto il luogo ove meno dolore che qui sentivi, non dee però essere da te la speranza fuggita. E, appresso, nella presente vita si conviene le impossibili cose rifiutare, e l'avverse con forte animo sostenere. Niuno mai fu in tanta miseria che possibile non gli fosse l'essere in brieve più che altro felice. I movimenti della fortuna sono varii, e disusati i modi ne' quali ella i miseri rileva a maggiori cose. Se a te pare impossibile di dover mai ritornare là ove Florio di' che lasciasti, né mai speri di rivederlo, fa che tu ti sforzi d'imaginare di mai non averlo veduto, e ogni pensiero di lui caccia da te. E quando tu riposata sarai là ove costoro ti portano, tu ne vedrai molti de' quali non potrà essere che alcuno non te ne piaccia, e niuno sarà a cui tu non piaccia: colui che ti piacerà, colui sia il tuo Florio. Or conviensi che la tua bellezza perisca per amore d'un giovane, il quale avere non si può oramai?». Quando Biancifiore ebbe per lungo spazio ascoltato ciò che Sisife le parlava, ella alzò la testa e disse:

 

«Oimè, quanto male conoscete le leggi d'amore! Certo elle non sono così dissolubili come voi nel parlare le mostrate. Chi è colui che possa sciogliersi e legarsi a sua volontà in sì fatto atto? Certo chi è colui che 'l fa, e far lo può, non ama, ma imponsi a se medesimo falso nome d'amante, però che chi bene ama, mai non può obliare. E come per niuno altro potrò io dimenticare il mio Florio, il quale di bellezza, di virtù e di gentilezza ciascuno altro giovane avanza? E quando alcuna di queste cose in sé non avesse, sì n'è in lui una sola, per la quale mai per alcuno altro cambiare nol dovrei: che esso ama me sopra tutte le cose del mondo».

 

«Fermamente conosco - disse Sisife - che tu ami e che le tue lagrime da giusta pietà procedono; ma piacciati confortarti, ché impossibile mi pare che sì leale amore gl'iddii rechino ad altro fine, che a quello che tu e esso disiderate».

 

 

[55]

 

Poi che i mercatanti furono alcuni giorni riposati, e il tempo parve al loro cammino salutevole, risaliti con Biancifiore sopra l'usato legno, a' venti renderono le vele, e con tranquillo mare infino all'isola di Rodi se n'andarono. Quivi il tempo mostrando di turbarsi, scesero in terra, e con Bellisano, nobilissimo uomo del luogo, per più giorni dimorarono. E Biancifiore, ricevuta dalle paesane non come serva, ma come nobilissima donna, da tutte fu onorata, e, mentre quivi dimorarono, da tutte confortata fu, dandole speranza di futuro bene. Ma ritornato la terza volta il tempo da' padroni dimandato, in su la nave risalirono. E già la nuova luna cornuta di sé gran parte mostrava, quando essi allegri pervennero a' dimandati porti, ove il cammino e la fatica insieme finirono.

 

 

[56]

 

Quivi pervenuti, dico che al vento tolsero le vele e dierono gli aguti ferri a' tegnenti scogli, e con fido legame fermarono la loro nave. E di quella con grandissima festa discesi, ringraziando i loro iddii, cercarono la città, e in quella con la bella giovane entrati, da Dario alessandrino furono graziosamente non sanza molto onore ricevuti, e massimamente Biancifiore. E in questo luogo per alquanti giorni dimorati, vi venne un signore nobilissimo e grande, il quale era amiraglio del possente re di Bambillonia, e per lui quel paese tutto sotto pacifico stato possedea. Il quale, come la bella nave vide, fece a sé di quella venire i padroni, e li dimandò qual fosse la loro mercantantia, e onde venissero. A cui i mercatanti risposero:

 

«Signore, noi lasciammo i liti quasi all'ultimo Occidente vicini, e quindi abbiamo, sanza altra cosa più, recata una nobilissima giovane, in cui più di bellezza che mai in alcuna si vedesse, si vede, la quale un grandissimo re, in quelle parti signoreggiante, ci donò per una grandissima quantità de' nostri tesori che noi a lui donammo».

 

Disse allora l'amiraglio:

 

«Venga adunque la giovane, la cui bellezza voi fate cotanta, e se bella è come la vantate, e di nobili parenti discesa, e ancora casta virginità tiene, de' nostri tesori quelli che vorrete prenderete e donereteci lei».

 

Piacque a' mercatanti, e per lei incontanente mandarono, la quale, di nobilissimi vestimenti vestita e ornata, insieme con Glorizia davanti all'amiraglio si presentò. Il quale graziosamente, la ricevette, e non sì tosto la vide, come a lui parve la più mirabile bellezza vedere che mai per alcuno veduta fosse, e comandò che a' mercatanti fosse donato a loro piacere dei suoi tesori. E poi ch'egli ebbe di lei da loro ogni condizione udita, pietoso de' suoi affanni così disse:

 

«Io giuro per i miei iddii che omai più la fortuna non le potrà essere avversa: alle sue tribulazioni io con grandissima felicità mi voglio opporre, e voglio provare se la fortuna la potrà fare più misera che io felice. E' non passerà lungo tempo che il mio signore dee qui venire, al quale io intendo, in luogo di riconoscenza di ciò ch'io tengo da lui, donare questa bellissima cosa, né conosco che gioia più cara donare gli potessi. E sì prometto per l'anima del mio padre che tra le sue moglieri io farò che questa sarà la principale, e sì farò la sua testa ornare della corona di Semiramis; e infino a quel tempo che questo sarà, tra molte altre giovani, le quali a simil fine si tengono, la farò sì come donna di tutte onorare, e sotto diligente guardia servare, con tutti quelli diletti e beni che niuna giovane dee potere disiderare».

 

E questo detto, comandò che onorevolemente alla gran Torre dello Arabo insieme con Glorizia fosse menata Biancifiore, e quivi con l'altre giovani donzelle dimorasse faccendo festa. Di questo furono assai contenti i mercatanti, sì per lo loro avere, il quale aveano forse nel doppio multiplicato, e sì per la giovane a cui prosperevole stato vedeano promesso da signore che bene lo poteva attenere. E a lei rivolti, con pietose parole la confortarono, e da essa piangendo si partirono, e pensarono d'altro viaggio fare con la loro nave. E quella, posta con l'altre pulcelle molte nella gran torre, non sanza molto dolore, infino a quel tempo che agl'iddii piacque la 'mpromessa di Venere fornire, dimorò.

 

 

[57]

 

Già allo iniquo re di Spagna, partita Biancifiore, pareva avere il suo disio fornito; ma ancora pensando che necessità gli era la sua malvagità con falso colore coprire, imaginò di far credere che Biancifiore fosse morta, acciò che Florio, sentendo quella morta essere, dopo alcuna lagrima la dimenticasse. E preso questo consiglio, per molti maestri mandò segretamente, a' quali sanza niuno indugio comandò che fosse fatta una bellissima sepoltura d'intagliati marmi, allato a quella di Giulia. La quale compiuta, preso un corpo morto d'una giovane quella notte sepellita, la mattina co' vestimenti di Biancifiore e con molte lagrime la fece sepellire, dicendo che Biancifiore era: e questo con tanto ingegno fece, che niuno era nella città che fermamente non credesse che Biancifiore fosse morta, da coloro in fuori a cui di tale inganno il re fidato s'era. E questo fatto, mandò a Montoro a Florio un messaggiere, il quale così gli disse:

 

«Giovane, il tuo padre ti manda che se a te piace di vedere Biancifiore avanti ch'ella di questa vita passi, che tu sii incontanente a Marmorina, però che subitamente una asprissima infirmità l'ha presa, per la qual cosa appena credo che ora viva sia».

 

Non udì sì tosto Florio questo, com'egli tutto si cambiò nel viso, e sanza rispondere parola, ristretto tutto in sé, quivi semivivo cadde, e dimorò tanto spazio di tempo in tale stato, che alcuno non era che morto nol riputasse. Il vermiglio colore s'era fuggito del bel viso, e la vita appena in alcun polso si ritrovava; ma poi che egli pure fu per alcuni in vita essere ancora conosciuto, con preziosi unguenti e acque, dopo molto spazio, con molta sollecitudine furono i suoi spiriti rivocati: e tornato in sé aperse gli occhi, e intorno a sé vide il duca e Ascalion piangendo, i quali con pietose parole il riconfortavano, e altri molti con loro. A' quali egli dopo un gran sospiro disse:

 

«Oimè, perché m'avete voi, credendo piacere, disservito? L'anima mia già contenta andava per li non conosciuti secoli vagando sanza alcuna pena, ma voi a dolersi ora l'avete richiamata. Oimè, ora sento che la lunga paura, che io ho avuta della vita di Biancifiore, m'è nell'avvisato modo con pericoloso accidente venuta adosso. Quale infermità potrebbe sì subita sopravenire a una fresca giovane, che a morte in un momento la inducesse? Fermamente che a forza è da' miei parenti stata la mia Biancifiore recata a questa morte, se morta è, o se ora morrà».

 

E levatosi, comandò che i cavalli venissero, e preso il cammino con molta compagnia, cercando già il sole l'occaso, sempre piangendo se n'andò verso Marmorina, così nel suo pianto dicendo:

 

 

[58]

 

«O gloriosi iddii, della cui pietà l'universo è ripieno, porgete i santi orecchi alquanto a' miei prieghi, e non mi sia da voi negata l'usata benignità tornando crudeli; discenda de' cieli il vostro aiuto in questo espressissimo bisogno. Venga la vostra grazia, d'ogni noioso accidente cacciatrice, sopra la innocente Biancifiore, la quale ora per noiosa infermità pare che si disponga a rendervi la graziosa anima. Sostengasi per vostra pietà la sua vita, e siale renduta la perduta sanità, e la giovane età, nella quale essa dimora, prima di lei si consumi. Non muoiano in una morte due amanti. O buono Apollo, o luminoso Febo per cui ogni cosa ha vita, ascolta i miei prieghi! Non consentire che tanta bellezza alla tua simigliante per mortal colpo al presente perisca. O Citerea, o Diana, aiutate la vostra giovane. O qualunque iddio dimora nel celestiale coro, sturbate la costei morte, acciò che io, a voi fedelissimo servidore, viva. O Lachesis, tieni ferma l'ordita conocchia, composta da Cloto, tua fatale sorella, non lasciare ancora il dilettevole uficio, dove sì corto affanno hai infino a qui sostenuto. E tu, o morte, generale e infallibile fine di tutte le cose, in cui la maggior parte della mia speranza dimora, quasi imaginando che in te stia quella salute la quale io cerco, non mi consumare ferendo la mia Biancifiore: dilungati da lei per li miei prieghi. In te sta il donarlami e il torlami. Deh, non essere tuttavia crudele! Vincasi questa volta per prieghi la tua fierezza, e pietosa ti volgi a riguardare con quanta umiltà i miei prieghi ti sono porti, e riguarda quanta sia la noia che ricevo, se verso la bella giovane incrudelisci. Oimè, che io nol posso dire, ma il mio aspetto tel dee manifestare. Oimè, perdona, risparmiando un solo colpo, allo infinito valore che dal mondo si partirebbe morendo questa. Perdona a tanta bellezza quanta ella possiede: non si fugga per te tanta leggiadria quanta in costei si vede, né si diparta per lo tuo operare il fedele amore che insieme lungamente ci ha tenuti legati con pura fede, il quale a mano a mano se la ferissi, per lo tuo medesimo colpo si ricongiugnerebbe. Ahimè, raffrena per Dio il tuo volere: leva la pungente saetta che già in sul tuo arco mi pare vedere posta, per uccidere colei in cui gl'iddii più di grazia che in alcuna altra posero. Sostieni che nel mondo si vegga costei per mirabile essemplo delle celestiali bellezze. Se alcuni prieghi ti deono fare pietosa, faccianti i miei, e questo sia sanza alcuno indugio: io non temo niuna cosa se non te. Riguarda le mie lagrime e il palido aspetto già dipinto della tua sembianza: sola questa grazia mi concedi, la quale se dura t'è a concederlami, concedi che quella saetta che il tuo arco dee nel dilicato petto di lei gittare, prima il mio trapassi, acciò che dopo il trapassare della mia Biancifiore io non rimanga per doverti biasimare, e più la tua crudeltà far manifesta nella poca vita che mi lascerai».

 

 

[59]

 

Mostravasi già il cielo d'infiniti lumi acceso, quando così piangendo e parlando Florio entrò in Marmorina: per la quale tacito e sanza niuna festa, maravigliandosi e dubitando, passò infino che alle reali case pervenne. Nelle quali entrato con la sua compagnia, e da cavallo smontati, e salendo su per le scale, la perfida madre gli si fé incontro con dolente aspetto. A cui Florio, come la vide, dimandò che di Biancifiore fosse, se migliorata era o come stava, ché egli avanti venire non la si vedea. Alla cui domanda la madre niente rispose, ma abbracciatolo, cominciò a lagrimare, e lui menò davanti al padre che nella gran sala sedea, vestito di vestimenti significanti tristizia, tenendo crucciato aspetto, con molta compagnia.

 

 

[60]

 

Levossi lo iniquo re alla venuta del figliuolo, e fattoglisi incontro, lui teneramente abbracciò e baciò, dicendo:

 

«Caro figliuolo, assai mi sarebbe stato caro che ad altra festa la tua tornata fosse stata, o almeno più sollicita, acciò che licito ti fosse stato di avere veduta la vita in colei, la cui morte ora con pazienza ti conviene sostenere; e però sì come savio, con forte animo ascolta le mie parole. E siati manifesto che la bellissima Biancifiore è stata chiamata al glorioso regno, là ove le sante opere sono guiderdonate. E in quello Giove e gli altri beati della sua andata si rallegrano, i quali, invidiosi forse di tanto bene quanto noi per la sua presenza sentivamo, l'hanno a loro fatta salire. E ben che ella lietamente viva ne' nuovi secoli, a noi gravissima noia ne' cuori di tale partita è rimasa, però che infinito amore le portavamo, sì per la virtù e per la piacevolezza di lei, e sì per l'amore che sentivamo che tu le portavi. Ma però che nuova cosa né inusitata è stata la sua partita, ma cosa la quale ogni giorno avvenire veggiamo, e a noi similmente con forte animo aspettare la conviene sanza speranza di poterla fuggire, ci conviene con pazienza tale accidente sostenere, e prendere conforto: però che sapere dobbiamo che per greve doglia da noi sostenuta non sarebbe a noi renduta la cara giovane. Adunque, caro figliuolo, confortati, ché se gl'iddii ci hanno costei tolta, elli non ci hanno levato il poterne una più bella cercare e averla. Noi te ne troveremo una la quale più bella e di reale prosapia discesa sarà, e a te in luogo di Biancifiore per cara sposa la congiungeremo. Certo ella nella sua vita, affannata da mortale infermità e già presso al suo passare, ebbe tanta memoria di te, che, chiamati me e la tua madre, con lagrime sopra le nostre anime puose che noi con ogni sollecitudine ti dovessimo del suo trapassare rendere conforto, e pregarti che per quello amore che tra te e lei era nella presente vita stato, che tu ti dovessi confortare, e niente ti dolessi, però che ella si vedea grazioso luogo apparecchiato ne' beati regni, ne' quali essendo, se le tue lagrime sentisse, molto la sua beatitudine mancheresti. E questo detto, con pietoso viso, e col tuo nome in bocca, rendé l'anima agl'immortali iddii: e però noi così te ne preghiamo, e per parte di lei e per la nostra. Ella ha lasciati i mondani affanni; non le volere porgere nuova pena, ché doppiamente offende chi contra coloro opera, che dopo la loro morte sono beatificati. Confortati, e della sua morte inanzi gioia che tristizia prendi, imaginando che ella in cielo, ove ora dimora, di te e dell'amore, che mentre fu di qua ti portò, si ricorderà, per merito del quale ragionando con gl'iddii delle tue virtù, li farà verso te benivoli: la qual cosa sanza grandissimo bene di te non potrà essere».

 

 

[61]

 

Con grandissima pena sostenne Florio le parole dello iniquo re, ma poi ch'egli si tacque, Florio, gittata una grandissima voce, disse:

 

«Ahi, malvagio re, di me non padre ma perfidissimo ucciditore, tu m'hai ingannato e tradito!». E messesi le mani nel petto, dal capo al piè tutta si squarciò la bella roba, e cadde in terra con le pugna serrate, e con gli occhi torti nel viso sanza alcun colore rimaso, risomigliando più uomo morto che vivo. Ma dopo picciolo spazio ritornato in sé, e alzata la testa di grembo alla madre, incominciò a dire:

 

«O iniquo re, perché l'hai uccisa? Che aveva la giovane commesso ch'ella meritasse morte? Tu se' stato cagione della morte di lei, e ora credi con lusinghevoli parole sanare la piaga che il tuo coltello m'ha fatta, la quale altro che morte mai non sanerà. Ora se' contento, iniquo re! Omai hai quello che lungamente hai disiderato: ma io ti farò tosto di tal festa tornare dolente!».

 

E poi ricadde in grembo alla madre tramortito. E così piangendo e battendosi, sanza volere udire alcun conforto da nullo che vi fosse, tutta la notte stette, faccendo piangere chiunque il vedea, tanto era pietoso il suo parlare, che col doloroso pianto mescolato faceva.

 

 

[62]

 

Era la misera madre insieme con Florio piangendo, quando il nuovo giorno apparve, e con alcune parole lui confortare non potea. A cui egli disse:

 

«Siami mostrato il luogo ove la mia Biancifiore giace sanza anima».

 

A cui la madre rispose:

 

«Come vuoi tu andare in tale maniera a visitare la sepoltura di Biancifiore? Vuoi tu far fare beffe di te? Rattempera il tuo dolore in prima, poi temperato quello, v'andremo, ché certo niuna persona è che ora ti vedesse, che non credesse che tu fossi del senno uscito: e io similemente sanza fine di te mi maraviglio, non sappiendo onde questo si muova. Oimè misera, ora hai tu perduto ogni sentimento a Montoro, che tu vuogli per una giovane di sì picciola condizione come fu Biancifiore, consumarti e privarmi di te, così nobile figliuolo? Hai paura che un'altra giovane non si truovi più bella di Biancifiore? Si farà! A' nostri regni non è guari lontano il nobilissimo re di Granata, il quale si può gloriare della più bella figliuola che mai niuno uomo del mondo avesse: ella sarà tua sposa, se tu ti vuoi confortare».

 

A cui Florio disse:

 

«Reina, non volere porgere ora con lusinghevoli parole conforto colà dove con inganno hai messa tristizia: folle è colui che per medico prende il nimico da cui davanti è stato ferito a morte. Fammi mostrare dove giace colei cui uccisa avete, e a cui l'anima mia si dee oggi accompagnare».

 

Piangendo allora la reina, con lui, al quale niuno colore era nel viso rimaso, e i cui occhi aveano per lo molto piangere intorno a sé un purpureo giro, e essi rossi erano rientrati nella testa, e molti altri si mossero con loro, lui menando al tempio. Al quale andando Florio, ovunque egli giungeva vedea genti piene di dolore, e nuovo pianto facea cominciare, tanta era la pietà che 'l suo aspetto porgeva a chi 'l vedeva. E dopo alquanto pervennero al tempio dove Giulia sepulta stava, e dove le non vere scritte lettere significavano che quivi Biancifiore morta giacesse.

 

 

[63]

 

Nel qual tempio entrati, la reina mostrò a Florio la sepoltura nuova, e disse:

 

«Qui giace la tua Biancifiore». La quale come Florio la vide, e le non vere lettere ebbe lette, incontanente perduto ogni sentimento, quivi tra le braccia della madre cadde, e in quelle semivivo per lungo spazio dimorò. Quivi corsa quasi tutta la città, di doppio dolore compunti, faceano sì gran pianto e sì gran romore, che se Giove allora gli spaventatori de' Giganti avesse mandati, non si sariano uditi. Ciascuno era tutto stracciato e di lugubri veste vestito, e gli uomini e le donne, e alcuni, ma quasi tutti, credeano Florio morto giacere nelle braccia della reina: per la qual cosa il piangere Biancifiore aveano lasciato, e tutti Florio miseramente piangeano. Ma poi che Florio fu per lungo spazio così dimorato, il cuore rallargò le sue forze, e ritornate tutte per gli smarriti membri, Florio si dirizzò in piè, e cominciò a piagnere fortissimamente, e a gridare e a dire:

 

«Oimè, anima trista, ove se' tu tornata? Tu ti cominciavi già a rallegrare, parendoti essere da me disciolta e cercare nuovi regni. Oimè, perché hai tu tornato il diletto che tu sentivi, parendoti che io fossi morto, in grieve noia, rendendomi la vita? Ora di nuovo sento i dolori che la trista memoria aveva messi in oblio, mentre che tu in forse fuori di me dimorasti».

 

E appresso questo gittatosi sopra la nuova sepoltura, incominciò a dire:

 

«O bellissima Biancifiore, ove se' tu? Quali parti cerca ora la tua bella anima? Deh, tu solevi già con lo splendore del tuo bel viso tutto il nostro palagio di dilettevole luce fare chiaro: come ora in picciolo luogo, tra freddi marmi, se' costretta di patire noiosa oscurità! Misera la mia vita, che tanto sanza te dura! O dilicati marmi, cui mi celate voi? Perché colei che più che altro piacque agli occhi miei mi nascondete? Voi forse insieme col mio nimico padre, invidiosi de' miei beni, mi celate quello che io più mi dilettai di vedere, servando la natura d'Agliauro, con voi insieme d'una qualità tornata. Ma se gl'iddii ancora vi concedano d'esser lieti ornamenti de' loro altari, apritevi, e concedete che io vegga quel viso che già assai fiate, vedendolo, mi consolò; il quale io vedutolo, possa contento prendere spontanea morte. Sostenete che gli occhi miei nel picciolo termine della vita loro serbata abbiano questa sola consolazione, poi che licito non fu loro, anzi ch'ella mutasse vita, rivederla. O inanimato corpo, come non t'è egli possibile una sola volta richiamare la partita anima, e levarti a rivedermi? Io l'ho dalla passata sera in qua richiamata in me tante volte: richiamala tu una sola, e solamente la tieni tanto che tu mi possi morendo vedere seguirti. Oimè, Biancifiore, quale doloroso caso mi t'ha tolta? Deh, rispondimi, non ti odi tu nominare al tuo Florio? Deh, qual nuova durezza è ora in te, che 'l mìo nome che ti solea cotanto piacere non è da te ascoltato, né alle mie voci risposto? Come ha potuto la morte tanto adoperare che il vero e lungo amore tra noi stato si sia in poco di tempo partito? Oimè, giorno maledetto sii tu! Tu perderai insieme due amanti. O Biancifiore, io, misero, fui della tua morte cagione! Io, o misera Biancifiore, t'ho uccisa per la mia non dovuta partenza! Per ubidire al mio nemico ho io perduta te, dolcissima amica! Oimè, che troppo amore t'è stato cagione di morte! Io ti lasciai paurosa pecora intra li rapaci lupi. Ma, certo, amore mi conducerà a simigliante effetto, e come io ti sono stato cagione di morte, così mi credo ti sarò compagno. Io solo ti potea dare salute, la quale omai da te avere non posso. Gl'iddii e la fortuna e 'l mio padre e la morte hanno avuta invidia a' nostri amori. Io, o morte perfidissima, s'io credessi che mi giovasse, il tuo aiuto dimanderei con benigna voce. Certo tu se' stata in parte che essere dovresti pietosa e ascoltare i miseri; ma però che i miseri e quelli che più ti chiamano sono più da te rifiutati, io con aspra mano ti costrignerò di farti venire a me».

 

E posta la destra mano sopra l'aguto coltello, incominciò a dire:

 

«O Biancifiore, leva su, guatami: apri gli occhi avanti ch'io muoia, e prendi di me quella consolazione che io di te avere non potei. Io ti farò fida compagnia. Io per seguirti userò l'uficio della dolente Tisbe, avvegna che ella più felicemente l'usasse ch'io non farò, in quanto ella fu dal suo amante veduta. Ma io non farò così. Io vengo: riceva la tua anima la mia graziosamente, e quello amore che tra noi nel mortale mondo è stato, sia nell'etterno».

 

Questo detto, si levò di sopra la sepoltura, la quale delle sue lagrime tutta era bagnata, e tratto fuori l'aguto ferro, dicendo:

 

«Il misero titolo della tua sepoltura, o Biancifiore, sarà accompagnato di quello del tuo Florio», si volle ferire con esso nello angoscioso petto. Ma la dolente madre con fortissimo grido, preso il giovane braccio, disse:

 

«Non fare Florio, non fare, tempera la tua ira, né non voler morire per colei che ancora vive».

 

Il romore si levò grandissimo nel tempio, e 'l pianto e le grida non lasciavano udire niuna cosa. Ma poi che Florio da molti fu preso, e trattogli della crudele mano l'aguto coltello, egli piangendo disse:

 

«Perché non mi lasciate morire, poi che la cagione m'avete porta? Questa morte potrà indugiarsi alquanto ma non fallire. Consentite innanzi ch'io muoia ora, ch'io viva con più dolore infino a quel termine che, sanza essere tenuto, mi fia licito d'uccidermi».

 

«O caro figliuolo, perché il tuo padre e me e tutto il nostro regno tanto vuoi far miseri? Confortati, che la tua Biancifiore vive».

 

A cui Florio rivolto disse:

 

«Le vostre parole non mi inganneranno più; con niuna falsità più potrete la mia vita prolungare».

 

«Certo - disse la reina - ciò che della sua morte abbiamo parlato, sanza dubbio è stato falsamente detto: ma al presente noi non ti mentiamo».

 

«E come poss'io credere - disse Florio - che voi ora diciate il vero, se per adietro siete usati di mentire?».

 

Disse la reina:

 

«Di ciò veramente ci puoi al presente credere; e se ciò forse credere non volessi, i tuoi occhi te ne possono rendere testimonianza, che questa che qui giace è un'altra giovane, e non Biancifiore».

 

«E come può questo - essere disse Florio - che tutta Marmorina piange la morte sua, e ciascheduno rende testimonio d'averla veduta mettere in questo luogo?».

 

«Di ciò non mi maraviglio io - disse la reina - che certo quelli che qui la misero credono che ella sia. Ma noi per darti questo a credere, acciò che tu la dimenticassi, demmo la voce che morta era Biancifiore, e una giovane morta in quell'ora che tal voce demmo, tratta della sua sepoltura occultamente, ornata de' vestimenti di Biancifiore, qui a sepellire la mandammo: e che questa sia un'altra, com'io ti dico, tu il puoi vedere».

 

E fatta aprire la sepoltura, a tutti si manifestò che questa non era Biancifiore, ma un'altra giovane. «Adunque - disse Florio - Biancifiore dove è?».

 

«Ella non è qui al presente - disse la reina; - ov'ella sia, andianne al nostro palagio: io tel dirò».

 

«Certo, io dubito ancora de' vostri inganni - disse Florio; - voi avete in alcuno altro luogo sotterrata la giovane, e ora col darmi ad intendere che viva sia, e che in altra parte mandata l'avete, volete la mia vita prolungare: ma ciò niente è a pensare».

 

«Fermamente - disse la reina - Biancifiore è viva. Partiamci di qui, che tutto ti dirà nel nostro palagio come la cosa è andata sanza parola mentirti».

 

 

[64]

 

Allora si levò in piè Florio con la reina e altra compagnia assai, e tornarono nel loro palagio, dove il re doloroso a morte di queste cose, le quali tutte avea sapute, trovarono. E quivi pervenuti, e trattisi tacitamente in una camera, la reina così cominciò a dire a Florio:

 

«Noi, il tuo padre e io, sentendo che in niuna maniera Biancifiore di cuore ti potea uscire, ben che lontano le dimorassi, proponemmo di pur volere che ella di mente t'uscisse, e fra noi dicemmo: "Già mai questa giovane del cuore non uscirà a Florio mentre viverà, ma se ella morisse, a forza dimenticare gliele converrà, vedendo che impossibile sia ad averla". E quasi deliberammo d'ucciderla: poi per non volere essere nocenti sopra il giusto sangue di lei, mutammo consiglio, e a ricchissimi mercatanti, venuti ne' nostri mari per fortuna, fattigli qua venire, infinito tesoro la vendemmo loro, e essi ci promisero di portarla in parte sì di qui lontana, che mai alcuna novella per noi se ne sentirebbe. E come essi l'ebbero portata via, noi comandammo che la nuova sepoltura fosse fatta, nella quale dando voce che Biancifiore era morta, con occulto ingegno quella giovane che dentro vi vedesti vi facemmo mettere, credendo fermamente che dopo alquante lagrime il tuo dolore insieme con lei dimenticassi. E però a te, come a savio, sanza fare queste pazzie, le quali hai da questa sera in qua fatte, ti conviene confortare, e fare ragione che mai veduta non l'avessi, e lasciarla andare. Noi ti doneremo la più bella giovane del mondo e la più gentile per compagna: quella t'imagina che sia la tua Biancifiore».

 

 

[65]

 

Quando Florio ebbe queste cose dalla madre udite, teneramente cominciò a piagnere, e così alla madre disse:

 

«O dispietata madre, ove è fuggito quello amore che a me, tuo unico figliuolo, portar solevi? Quali tigre, quali leoni, quale altro animale inrazionale ebbe mai tanta di crudeltà, che più benigno verso li suoi nati non fosse che tu non se' verso di me? Come, poi che tu conoscevi l'amore che io portava a Biancifiore, potesti mai tu consentire o pensare che sì vile cosa di lei si facesse come fu venderla? Deh, ora ella t'era come figliuola, e tu come figliuola la solevi trattare quando io c'era: or che ti fece ella che tu sì subitamente incrudelire verso di lei dovessi? L'altre madri sogliono francare le serve amate da' figliuoli, ma tu la libera hai fatta serva perché io l'amo. Oimè, che il tuo cuore con quello del mio padre è tornato di ferro! Di voi ogni pietà è fuggita. In voi niuna umanità si trova. A voi che facea se io amava Biancifiore, o se ella amava me? Perché ne dovevate voi entrare in tanta sollecitudine? Io credo che in te è entrato lo spirito di Progne o di Medea. Ma la fortuna mi farà ancora vedere che il crudele vecchio e tu, vinti da focosa ira di voi medesimi, con dolente laccio caricherete le triste travi del nostro palagio, con peggiore agurio che Aragne non fece quelle del suo. E io ne farò mio potere, rallegrandomi se la fortuna mi concede di vederlo e dirò allora che mai gl'iddii niuna ingiusta cosa lasciano sanza vendetta trapassare. Voi prima con ardente fuoco la morte della innocente giovane cercaste, la quale io con l'aiuto degli iddii col mio braccio campai, punendo degnamente colui che di tale torto, in servigio di mio padre, si facca difenditore: così avessi io con la mia spada voi due puniti, quando in questo palagio lei paurosa vi rendei! Ma certo, se allora ella fosse morta, io con lei moria. Ora l'avete venduta e mandata in lontane parti, acciò che io pellegrinando vada per lo mondo. Ma volessero i fati che ella fosse ora qui, che io giuro, per quelli iddii che mi sostengono, che io più miseramente di qui partire vi farei che Saturno, da Giove cacciato, non si partì di Creti! E allo ra provereste qual fosse l'andare tapini per lo mondo, come a me converrà provare, infino a tanto ch'io ritruovi colei la quale con tanti ingegni vi siete di tormi ingegnati. E certo se non fosse che io non ho il cuore di pietra, come voi avete, io non vi lascerei di dietro a me con la vita; ma non voglio che di tale infamia, pellegrinando, la coscienza mi rimorda. Voi avete disiderata la mia morte, della quale poi che gl'iddii non ve n'hanno voluti fare lieti, né io altressì ve ne credo rallegrare, ma inanzi voglio lontano a voi vivere che presenzialmente della morte rallegrarvi».

 

 

[66]

 

Faceva la reina grandissimo pianto, mentre Florio diceva queste parole, dicendo:

 

«Oimè, caro figliuolo, che parole son queste che tu di'? Cessino gi'iddii che tu possi vedere di noi ciò che tu di' che ne disideri di vedere, avvegna che niuna maraviglia sia del tuo parlare, imperciò che, sì come adirato, parli sanza consiglio. Niuna creatura t'amò mai, o potrebbeti amare, quanto tuo padre e io t'abbiamo amato e amiamo: e ciò che noi abbiamo fatto, solamente perché la tua vita più gloriosa si consumi, che oramai non farà, l'abbiamo adoperato. Perché dunque ci chiami crudeli e disideri la nostra morte? Maladetta sia l'ora che il tuo padre assalì gl'innocenti pellegrini. Ora avesse egli almeno tra tanta gente uccisa colei che nel suo ventre la nostra distruzione in casa ci recò! Oh, ella niuna cosa disiderava tanto quanto la morte, e intra mille lance stette, e niuna l'offese. I suoi iddii, più giusti che i nostri, non vollero che tale ingiuria rimanesse impunita. Ora mi veggo venire adosso quello che detto mi venne ignorantemente, quando la maladetta giovane per noi nacque, la quale recandolami in braccio, dissi lei dovere essere sempre compagna e parente di te. Ora il veggo venire ad essecuzione».

 

 

[67]

 

Il re in un'altra camera dimorava dolente, in sé tutti i casi ripetendo dall'ora che il misero Lelio avea ucciso infino a questa ora, maladicendo sé e la sua fortuna; e ricordandosi di ciò che di Marmorina gli era stato contato, e del morto cavaliere nel suo cospetto, le cui parole ritrovò mendaci, si pensò tutto questo essere piacere degl'iddii, al volere de' quali niuno è possente a resistere. E però in sé propose di volere per inanzi con più fero mezza d'animo lasciare a' fati muovere queste cose, che per adietro non avea fatto. Ma Florio, cambiato viso e mostrandolo meno dolente, lasciò la madre piangendo nella camera, e, rivestito d'altre robe, venne nella gran sala, là ove egli molti di tale accidente trovò che parlavano. Egli si fece quivi chiamare il vecchio Ascalion e Parmenione e Menedon e Messaallino, a' quali elli disse così:

 

«Cari amici e compagni, quanta forza sia quella d'amore a niuno di voi credo occulta sia, però che ciascuno, sì com'io penso, le sue forze ha provate. E là dove questo non fosse, manifestare vi si puote, se mai di Elena, o della dolente Dido, o dello sventurato Leandro e d'altri molti avete udito parlare: i quali chi l'etterno onore con vituperevole infamia non curava d'occupare, chi di perdere la propia vita si metteva in avventura per ervenire a' disiati effetti, e chi una cosa e chi un'altra facea per venire al disiato fine. E ultimamente, ove a tutti i detti essempli di sopra mancasse per lungo trapassamento di tempo degna fede, in me misero si puote la sua inestimabile potenza conoscere, il quale dagli anni della mia puerizia in qua ho tanto amato e amo Biancifiore, che ogni essemplo ci sarebbe scarso. E certo in alcuno amore i fati non furono mai tanto traversi quanto nel mio sono stati, però che sanza alcuno diletto infinite avversità me ne sono seguite, e ora in quelle più che mai sono. E che l'amore di Biancifiore abbia sopra me grandissima forza e muovami a grandi cose, potrete appresso per le mie parole comprendere. Come io v'ho detto, dalla mia puerizia fu Biancifiore amata da me: del quale amore non prima il mio padre s'avvide, che sotto scusa di mandarmi a studiare, mandandomi a Montoro, da lei mi dilungò, pensando che per lontanarmi ella si partisse del cuore, dove con catena da non potere mai sciogliere la legò amore in quell'ora ch'ella prima mi piacque. E questo non bastandogli, acciò che più intero il suo iniquo volere fornisse, lei a morte falsamente fece condannare: ma gl'iddii che le mal fatte cose non sostengono, prestandomi il loro aiuto, fecero sì che io di tal pericolo la liberai. Della qual cosa il mio padre dolente, dopo lungo indugio vedete quello che egli ha fatto: che egli lei, sì come vilissima serva, ha a' mercatanti venduta, e mandatala non so in che parti. E perché questo non pervenisse a' miei orecchi, falsamente mostrò che Biancifiore di subita infermità morta fosse, un'altra giovane morta in forma di lei sotterrando: della qual cosa io sono sanza fine turbato. E certo, se licito fosse di mostrare la mia ira contro al mio padre e alla mia madre, io non credo che mai di tale accidente tale vendetta fosse presa quale io prenderei! Ma non m'è licito, e dubito che gl'iddii ver me non se ne crucciassero. Ora è mio intendimento di già mai non riposare, infino a tanto che colei cui io più che altra cosa amo, ritrovata avrò. Ciascun clima sarà da me cercato, e niuna nazione rimarrà sotto le stelle la quale io non cerchi. Io sono certo che in quale che parte ella sia, se non vi perverremo, la fama della sua gran bellezza cel manifesterà, né ci si potrà occultare. Quivi, o per amore o per ingegno o per denari o per forza intendo di rivoleria. E perciò ho io fatti chiamare voi, sì come a me più cari, per caramente pregarvi che della vostra compagnia mi sovegnate, e meco insieme volontario essilio prendiate: e massimamente te, o Ascalion, le cui tempie già per molti anni bianchissime, più riposo che affanno domandano, acciò che sì come padre e duca e maestro ci sii, però che tutti siamo giovani, e niuno mai fuori de' nostri paesi uscì, e il cercare i non conosciuti luoghi sanza guida ci saria duro. Né ti spiaccia la nostra giovane compagnia, però che come figliuolo i tuoi passi divotamente seguirò. E in verità questo, di che io e te e gli altri priego, il mio partire di qui, credo che degl'iddii sia piacere, acciò che i miei giovani anni non si perdano in accidiose dimoranze: con ciò sia cosa che noi non ci nascessimo per vivere come bruti, ma per seguire virtù, la quale ha potenza di fare con volante fama le memorie degli uomini etterne, così come le nostre anime sono. Adunque voi ancora come me giovani, non vi sia grave, ma al mio priego vi piegate, e qualunque di voi in ciò come fedele amico mi vuole servire liberamente di sì risponda, sanza volermi mostrare che la mia impresa sia meno che ben fatta: ché quello ch'io fo, io il conosco, e invano ci balestrerebbe parole chi s'ingegnasse di farmene rimanere».

 

 

[68]

 

Tacque Florio, e Ascalion così gli rispose:

 

«O caro a me più che figliuolo, tu mostri nel fine delle tue parole di me avere poca fidanza, e simile nel pregare che fai; di che io mi maraviglio. Certo non che a' tuoi prieghi ma a' tuoi comandamenti, se la mia vecchiezza fosse tanta che il bastone per terzo piede mi bisognasse, mai dalla tua signorevole compagnia né da' tuoi piaceri mi partirei infino alla morte. Ben conosco come amore stringe: e però muovati qual cagione vuole, che me per duca e per vassallo mi t'offero a seguirti infino alle dorate arene dello indiano Ganges e infino alle ruvide acque di Tanai, e per li bianchi regni del possente Borrea, e nelle velenose regioni di Libia, e, se necessario fia, ancora nell'altro emisperio verrò con teco. Le quali parti tutte cercate, dietro a te negli oscuri regni di Dite discenderò, e se via ci sarà ad andare alle case de' celestiali iddii, insieme con teco le cercherò, né mai da me sarai lasciato mentre lo spirito starà con meco».

 

Così appresso ciascuno degli altri giovani rispose, e si profersero lieti sempre al suo servigio, dicendo di mai da lui non partirsi per alcuno accidente, e che più piaceva loro per l'universo con lui affannare, che nel suo regno, sanza lui, in riposo vivere. Allora li ringraziò Florio tutti, e pregolli che sanza indugio ciascuno s'apprestasse di ciò che a fare avesse, ch'egli intendea con loro insieme di partirsi al nuovo giorno vegnente appresso quello.

 

 

[69]

 

E queste cose dette, se n'andò davanti al re, che dolente dimorava pensoso, e così gli disse:

 

«Poi che voi avete avuti gl'infiniti tesori, presi dalla venduta Biancifiore, più cari che la mia vita o che la mia presenza, assai mi spiace, però che da voi partire mi conviene, e andare pellegrinando infino a tanto che io truovi colei cui voi con inganno m'avete levata, né mai nella vostra presenza spero di ritornare se lei non ritruovo, la quale ritrovata, forse a voi con essa ritornerò: priegovi che vi piaccia ch'io vada con la vostra volontà».

 

Udendo il re queste cose, il suo dolore radoppiò, e non potendo le lagrime ritenere, alzò il viso verso il cielo, dicendo:

 

«O iddii, levimi per la vostra pietà la morte da tante tribulazioni! Non si distendano più i giorni miei: troppo son vivuto! Chi avrebbe creduto ch'io fossi venuto nell'ultima età ad affannare?».

 

Poi rivolto a Florio così gli disse:

 

«O caro figliuolo, che mi domandi tu? Tu sai che io non ho, né mai ebbi altro figliuolo che te, e in te ogni mia speranza è fermata. Tu dei il mio grande regno possedere, e la tua testa si dee coronare della mia corona. Tu vedi che la mia vita è poca oramai, e i miei vecchi membri ciascuno cerca di riposarsi sopra la madre terra: la quale vita se forse troppo ti pare che duri, prendi al presente la corona. Oimè, or che cerchi tu, poi che a tanto onore se' apparecchiato? Dove ne vuo' tu ire? Che vuo' tu cercare? E chi sarà colui, mentre che tu vivi, che nell'ultimo mio dì degnamente mi chiuda gli occhi? Oimè, caro figliuolo, dalla natività del quale in qua io ho sempre per te tribulazioni intollerabili sostenute, concedi questa sola grazia a me vecchio. Fammi questa sola consolazione, che io sopra la mia morte ti possa vedere. Statti meco quelli pochi giorni che rimasi mi sono della presente vita. A te non si conviene d'andare cercando quello che cercare vuoi: e se pur cercare vuoi colei, falla cercare ad altri, o indugiati dopo la mia morte a ricercarla, però che male sarebbe se io in quel termine che tu fuori del reame stessi, passassi ad altra vita, e convenisse che tu fossi cercato».

 

 

[70]

 

Florio allora così rispose:

 

«Padre, impossibile è che io rimanga, e veramente io non rimarrò: io in persona sarà colui che la cercherò; se voi mi concedete ch'io vada, io andrò, e se voi noi mi concedete, ancora andrò. Dunque piacciavi ch'io vada con la vostra licenza, acciò che io, della vostra grazia avendo buona speranza, se mai avviene che io colei cui io vo cercando ritruovi, io possa con più sollecitudine e con maggiore sicurtà tornare a voi. Né crediate che niuna grande impromessa che mi facciate qui ritenere mi potesse, ché certo tutti i reami del mondo alla mia volontà sommessi mi sarebbero nulla sanza Biancifiore. Se forse la mia partita quanto dite vi grava, ciò, inanzi che voi la vendeste, dovavate pensare, acciò che, vendendola, cagione non mi donaste di pellegrinare: però che conoscere potevate me tanto amarla, che ove che voi la mandaste, io la seguirei. Gli avvenimenti di dietro poco vagliono o niente».

 

 

[71]

 

Vedendo il re Florio disposto pure ad andare, né potendolo con parole rivolgere da tale intendimento, così gli disse:

 

«Caro figliuolo, assai mi duole il non poterti da questa andata levare, e però ella ti sarà conceduta, e con la mia grazia andrai; ma concedi a me e alla tua madre, co' quali tu già è cotanto tempo non se' stato, che alquanti giorni della tua dimoranza ci possiamo consolare, e poi con l'aiuto degl'iddii prendi il cammino».

 

A cui Florio rispose a ciò non essere disposto, però che troppo gli parea aver perduto tempo, e però sanza indugio avea proposto di partirsi. A cui il re disse:

 

«Figliuolo, adunque oramai a te stia il partire; fermato ho nell'animo d'abandonarti a' fati e di sostenere questo accidente, e ogni altro che di te per inanzi m'avvenisse, con forte animo, però che quanto io per adietro a quelli ho voluto con diversi modi resistere, tanto mi sono trovato più adietro del mio intendimento, e vedute ho le cose pur di male in peggio seguire. Ma poi che disposto se' all'andare, fa prendere tutti i tesori che della tua Biancifiore ricevemmo, e degli altri nostri assai, e quelli porta con teco, e in ogni parte ove la fortuna ti conduce fa che cortesemente e con virtù la tua magnificenza dimostri: e appresso prendi de' cavalieri della nostra corte quelli che a te piacciono, sì che bene sii accompagnato. E poi che rimanere non vuoi, va in quell'ora che li nostri iddii in bene prosperino i passi tuoi, a' quali acciò che più brieve affanno s'apparecchi, primieramente cercherai le calde regioni d'Alessandria, però che a quelli liti i mercatanti che Biancifiore ne portarono, quivi mi dissero di dovere andare. La quale se mai avviene che tu ritruovi e che il tuo disio di lei s'adempia, o caro figliuolo, sanza rimanere in alcuna parte ti priego che tosto a me ritorni, però che mai lieto non sarò se te non riveggo. E se prima che tu torni si dividerà l'anima mia dal vecchio corpo, dolente se n'andrà agl'infernali fiumi: la qual cosa gl'iddii priego che nol consentano».

 

 

[72]

 

Fece allora Florio prendere i molti tesori e fare l'apprestamento grande per montare sopra una nave, posta nel corrente Adice, vicino alle sue case. Le quali cose vedendo la reina uscì della sua camera, e bagnata tutta di lagrime venne a Florio nella sala dove con li compagni dimorava, e disse:

 

«O caro figliuolo, che è quello ch'io veggo? Hai tu proposto d'abandonarci così tosto? Ove ne vuoi tu ire? Che vuoi tu andare cercando? Oimè, come così subitamente ti parti tu da me? Non pensi tu quanto tempo egli è passato che io non ti vidi, se non ora? E ora con tanta tristizia t'ho veduto, che se veduto non t'avessi, mi sarebbe più caro! Deh, per amor di me, non ti partire al presente. Non vedi tu le stelle Pliade, le quali pur ora cominciano a signoreggiare? Aspetta il dolce tempo nel quale Aldebaran col gran pianeto insieme surge sopra l'orizonte: allora Zeffiro levandosi fresco aiuterà il tuo cammino, e il mare, lasciato il suo orgoglio, pacifico si lascerà navicare. Deh, non vedi tu tempo ch'egli è? Tu puoi vedere ad ora ad ora il cielo chiudersi con oscuro nuvolato, e, levandoci la vi sta de' luminosi raggi di Febo, di mezzo giorno ne minaccia notte: e poi di quelli puoi udire solversi terribilissimi tuoni e spaventevoli corruscazioni e infinite acque. E tu ora vuoi i non conosciuti regni cercare, ne' quali se tu fossi, non saria tempo di partirtene per tornare qui? Deh, or non ti muove a rimanere la pietà del tuo vecchio padre, il quale vedi che del dolore che sente di questa partita si consuma tutto? Non ti muove la pietà di me, tua misera madre, la quale ho de' miei occhi per te fatte due fontane d'amare lagrime? Oimè, caro figliuolo, rimani. Ove vuoi tu ire? Tu vuoi cercare quello che tu non hai, per lasciare quello che tu possiedi, né forse avrai già mai! Tu vuoi cercare Biancifiore, la quale non sai ove si sia: e se pure avvenisse che tu la trovassi, chi credi tu che sia colui che a te forestiero e strano la rendesse? Non credi tu che le belle cose piacciano altrui come a te? Chiunque l'avrà, la terrà forse non meno cara che faresti tu. Lasciala andare, e diventa pietoso a stanza de' miei prieghi. E se tu non vuoi di noi aver pietà, increscati di te medesimo e de' tuoi compagni, e non vogliate in questo tempo abandonarvi alle marine onde, le quali niuna fede servano, avvegna che esse con li loro bianchi rompimenti mostrano le tempeste ch'elle nascondono; e i venti similemente sanza niuno ordine trascorrono, ora l'uno ora l'altro, e fanno strani e pericolosi ravolgimenti di loro in mare, e sogliono in questi tempi con tanta furia assalire i legni opposti alle loro vie, che essi rapiscono loro le vele e gli alberi con dannoso rompimento, e talora loro o li percuotono a' duri scogli, o li tuffano sotto le pericolose onde. Temperati e rimanti di questa andata al presente: la qual cosa se tu non farai, più tosto delle dure pietre e delle selvatiche querce sarai da dire figliuolo, che di noi. E se a te e a' tuoi compagni, i quali paurosi ti seguitano conoscendo questi pericoli, farai questo servigio di rimanere, io m'auserò a sostenere la futura noia, pensando continuamente che da me ti debbi partire, né mi sarà poi la tua andata sì noiosa come al presente sarà, se subitamente m'abandoni. A cui Florio rispose:

 

«Cara madre, per niente prieghi, e dell'audacia che hai di pregarmi mi maraviglio. Fermamente, se io già col capo in quelli pericoli che tu m'annunzi mi vedessi, io più tosto consentirei d'andare giuso e di morire in quelli, che di tornare suso per dovere con voi rimanere, però che sì fattamente avete l'anima mia offesa, che mai perdonato da me non vi sarà, infino a tanto che colei cui tolta m'avete, io non riavrò. E però voi rimarrete, e io co' miei compagni, come la rosseggiante aurora mostrerà domattina le sue vermiglie guance, ci partiremo sopra la nostra nave, la quale forse ancora qui carica tornerà del mio disio».

 

 

[73]

 

Piangendo allora la reina, che pur Florio fermo a tale andata vedea, così disse:

 

«Figliuolo, poi che né priego né pietà ti può ritenere, prendi questo anello, e teco il porta, e ognora che 'l vedi della tua misera madre ti ricordi. Egli fu dello antichissimo Giarba re de' Getuli, mio antico avolo: e acciò che tu più caro il tenghi, siati manifesto ch'egli ha in sé mirabili virtù. Egli ha potenza di fare grazioso a tutte genti colui che seco il porta, e le cocenti fiamme di Vulcano fuggono e non cuocono nella sua presenza, né è ricevuto negli ondosi regni di Nettunno chi seco il porta. Il mio padre, pacificato col tuo, quando a lui per isposa mi congiunse, il mi donò acciò che graziosa fossi nel suo cospetto. Egli ti potrà forse assai valere se 'l guardi bene. Priegoti che, se vai, il tornare sia tosto: e priego quelli iddii, i quali, vinti da' molti prieghi, graziosamente ti ci donarono, che essi ti guardino e conservino sempre, e a noi tosto con alle grezza ti rendino».

 

Prese Florio l'anello, e quello per caro dono ritenne; e lei lasciata, a' suoi compagni si ritornò.

 

 

[74]

 

Sentì Ferramonte, duca di Montoro, di presente lo 'nganno fatto a Florio, e la partenza che fare dovea de' suoi regni; onde egli chiamato Fineo, valoroso giovane e suo nipote, la signoria di Montoro infino alla sua tornata gli assegnò, e sanza niuno dimoro a Marmorina se ne venne a Florio. Il quale, lui e' compagni trovati, narrata la cagione della sua venuta, pregò Florio che in compagnia gli piacesse di riceverlo in tale affare. Il quale Florio ringraziò assai, e lui per compagno benignamente ricolse, pregandolo ch'egli s'apprestasse per venire il seguente giorno.

 

 

[75]

 

Acconci i molti arnesi e' gran tesori nella bella nave, e Florio e' suoi compagni e' servidori tutti di violate veste vestiti, e i corredi della ricca nave e i marinari similemente, la notte sopravenne. E i sei compagni per riposarsi in una camera insieme se n'andarono, nella quale del loro futuro cammino entrati in diversi ragionamenti, Florio così comincio a parlare:

 

«Cari amici, quanto la potenza del mio padre sia grande è a tutto il mondo manifesto, e similemente che io gli sia figliuolo, e il grande amore che io ho portato e porto a Biancifiore è da molti saputo: per la qual cosa nuovo dubbio m'è nell'animo nuovamente nato. Noi non sappiamo certamente in che parte Biancifiore sia stata portata, né alle cui mani ella sia venuta, onde io dico così: s'egli avvenisse che noi forse portati dalla fortuna pervenissimo là ove Biancifiore fosse, tale persona la potrebbe avere, che sentendo il mio nome, di noi dubiterebbe e lei occultamente terrebbe infino che nel luogo dimorassimo, e massimamente i mercatanti, che di qui la portarono. E se forse lei possente persona tenesse, sentendomi nel suo paese, ragionevolemente m'avrebbe sospetto, e di quello o mi caccerebbe, o in quello forse occultamente m'offenderebbe, o lei guardando da' nostri agguati, con maggiore guardia servirebbe: per la quale cosa, acciò che 'l mio nome non possa porgere ad alcuni temenza, o insidie a noi, mi pare che piu non si deggia ricordare, ma che in altra maniera mi deggiate chiamare; e il nome il quale io ho a me eletto è questo: Filocolo. E certo tal nome assai meglio che alcuno altro mi si confà, e la ragione per che, io la vi dirò. Filocolo è da due greci nomi composto, da "philos" e da "colon"; e "philos" in greco tanto viene a dire in nostra lingua quanto "amore" e "colon" in greco similemente tanto in nostra lingua risulta quanto "fatica": onde congiunti insieme, si può dire, trasponendo le parti, fatica d'amore. E in cui più fatiche d'amore sieno state o sieno al presente non so: voi l'avete potuto e potete conoscere quante e quali esse siano state. Sì che, chiamandomi questo nome, l'effetto suo s'adempierà bene nella cosa chiamata, e la fama del mio nome così s'occulterà, né alcuno per quello spaventeremo: e se necessario forse in alcuna parte ci fia, il nominare dirittamente non ci è però tolto».

 

Piacque a tutti l'avviso di Florio e il mutato nome, e così dissero da quell'ora in avanti chiamarlo, infino a tanto che la loro fatica terminata fosse con grazioso adempimento del loro disio.

 

 

[76]

 

Mentre la notte con le sue tenebre occupò la terra, i giovani si riposarono, e la mattina levati, accesero sopra gli altari di Marmorina accettevoli sacrificii al sommo Giove, a Venere, a Giunone, a Nettunno e ad Eolo e a ciascuno altro iddio, pregandoli divotamente che per la loro pietà porgessero ad essi grazioso aiuto nel futuro cammino. E fatti con divozione i detti sacrificii, s'apparecchiarono per montare sopra l'adorno legno con la loro compagnia nobile e grande. Ma venuti alla riva del fiume, videro quello con torbide onde più corrente che la passata sera non era: per la qual cosa mutato consiglio, comandarono a' marinari che la nave menassero nel porto d'Alfea, e quivi li attendessero. E essi, fatti venire i cavalli, e montati, con molte lagrime dal re e dalla reina, e dagli amici, e da' parenti, dando le destre mani, dicendo addio, si partirono; e lasciata Marmorina, al loro viaggio presero il meno dubbioso cammino.

 

 

 

LIBRO QUARTO

 

 

[1]

 

Il volonteroso giovane, abandonate le sue case con poco dolore, sollecita i passi de' compagni, seguendo quelli d'Ascalion, ammaestratissimo duca del loro cammino: ma i fati da non poter fuggire volsero in arco la diritta via. E primieramente venuti alla guazzosa terra ove Manto crudissima giovane lasciò le sue ossa con etterno nome, passarono oltre per lo piacevole piano. Ma, poi che dietro alle spalle s'ebbero le chiare onde di Secchia lasciate, e saliti sopra i fronzuti omeri d'Appennino, e discesi di quelli, essi si trovarono nel piacevole piano del fratello dello imperiale Tevero, vicini al monte donde gli antichi edificatori del superbo Ilion si dipartirono. Quivi s'apersero gli occhi d'Ascalion, e forte si maravigliò della travolta via, ignorando ove i fortunosi casi li portassero; ma sanza parlarne a' compagni, passando allato alle disabitate mura di Iulio Cesare e da' compagni costrutte negli antichi anni, per uno antico ponte passarono l'acqua. Né però verso Alfea diritto cammino presero, avvegna che picciolo spazio la loro via forse per più sicurtà elessero più lunga, o che gl'iddii, a cui niuna cosa si cela, volonterosi a tal cammino li dirizzassero; e pervennero nella solinga pianura, vicina al robusto cerreto nel quale fuggito s'era il misero Fileno. E quivi trovandosi, l'acque venute per subita piova dalle vicine montagne, ruvinosa avanzò i termini del picciolo fiume che a piè dell'alto cerreto correa, e di quelli abondevolmente uscì allagando il piano: onde costretti furono a tirarsi sopra il cerruto colle, forse di maggiore pericolo dubitando. E quivi tirandosi, di lontano videro tra gli spogliati rami antichissime mura, alle quali, forse imaginando che abitazione fosse, s'accostarono, e entrarono in quelle; né più tosto vi furono, che il luogo essere stato tempio degli antichi iddii conobbero. Quivi piacque a Filocolo di fare sacrificii a' non conosciuti e strani iddii, poi che i fati nel tempio recati li aveano: e fatte levare l'erbe e le fronde e' pruni, cresciute per lungo abuso sopra il vecchio altare, e similemente le figure degl'iddii con pietosa mano ripulire e adornare di nuovi ornamenti, domandò che un toro gli fosse menato. E vestito di vestimenti convenevole a tale uficio, fece sopra l'umido altare accendere odorosi fuochi; e con le propie mani ucciso il toro, le interiora di quello per sacrificio nell'acceso fuoco divotamente offerse; e poi inginocchiato davanti all'altare, con divoto animo incominciò queste parole:

 

«O sommi iddii, se in questo luogo diserto n'abita alcuno, ascoltate i prieghi miei, e non ischifi la vostra deità il modo del mio sacrificare, il quale non forse con quella solennità che altre volte ricevere solavate, è stato fatto; ma, riguardando alla mia purità e alla buona fede, il ricevete, e a' miei prieghi porgete le sante orecchi. Io giovane d'anni e di senno, oltre al dovere innamorato, pellegrinando cerco d'adempiere il mio disio, al quale sanza il vostro aiuto conosco impossibile di pervenire, onde meriti la divozione avuta nel vecchio tempio, e l'adornato altare, e gli accesi fuochi con gli offerti doni, che io da voi consiglio riceva del mio futuro cammino, e, con quello, aiuto alla mia fatica».

 

Egli non aveva ancora la sua orazione finita, ch'egli sentì un mormorio grandissimo per lo tempio, soave come pietre mosse da corrente rivo, il quale dopo picciolo spazio si risolveo in soave voce, né vide onde venisse, e così disse:

 

«Non è per lo insalvatichito luogo mancata la deità di noi padre di Citerea abitatore di questo tempio, a cui tu divotamente servi, e dalla quale costretti siamo di darti risponso; e però che con divoto fuoco hai i nostri altari riscaldati, lungamente dimorati freddi, molto maggiormente meriti d'avere a' tuoi divoti prieghi vera risponsione de' futuri tempi, e però ascolta. Tu, partito domane di questo luogo, perverrai ad Alfea: quivi la mandata nave t'aspetta, nella quale dopo gravi impedimenti perverrai nell'isola del fuoco, e quivi novelle troverai di quello che vai cercando. Poi, quindi partitoti, perverrai dopo molti accidenti nel luogo ove colei cui tu cerchi dimora, e là non sanza gran paura di pericolo, ma sanza alcun danno, la disiderata cosa possederai. Onora questo luogo, però che quinci ancora si partirà colui che i tuoi accidenti con memorevoli versi farà manifesti agli ignoranti, e 'l suo nome sarà pieno di grazia».

 

Tacque la santa voce; e Filocolo, d'ammirazione e di letizia pieno, tornò a' compagni, e loro il consiglio degl'iddii ordinatamente recitò; e di questo contenti tutti a prendere il cibo nel salvatico luogo si disposero.

 

 

[2]

 

Era nel non conosciuto luogo davanti al vecchio tempio un pratello vestito di palida erba per la fredda stagione, nel quale una fontana bellissima si vedea, alle cui onde la piovuta acqua niente aveva offeso, ma chiarissime dimoravano, e nel mezzo di quella a modo di due bollori si vedea l'acqua rilevare. Alla quale Filocolo, uscito del tempio, e appressandosili, gli piacque, così chiara vedendola, e divenne disideroso di bere di quella, e fecesi un nappo d'argento apportare; e con quello dall'una delle parti si bassò sopra la fontana per prenderne, e, bassato, col nappo alquanto le chiare onde dibatté. E questo faccendo, vide quelle gonfiare, e fra esse sentì non so che gorgogliare, e dopo picciolo spazio il gorgogliare volgersi in voce e dire:

 

«Bastiti, chi che tu sii che le mie parti molesti con non necessario ravolgimento, che io sanza essere molestato, o molestarti, mitigo la tua sete, né perisca il fraternale amore per che io, che già fui uomo, sia ora fonte».

 

A questa voce Filocolo tutto stupefatto tirò indietro la mano, e quasi che non cadde, né i suoi compagni ebbero minore maraviglia; ma dopo alquanto spazio, Filocolo rassicuratosi così sopra la chiara fonte parlò:

 

«O chi che tu sii, che nelle presenti onde dimori, perdonami se io t'offesi, ché non fu mio intendimento, quando per le tue parti sollazzandomi menava il mio nappo, d'offendere ad alcuno. Ma se gl'iddii da tal molestia ti partano e le tue onde lungamente chiare conservino, non ti sia noia la cagione per che qui relegato dimori narrarci, e chi tu se', e come qui venisti e onde, acciò che per noi la tua fama risusciti, e, i tuoi casi narrando, di te facciamo ancora molte anime pietose, se pietà meritano i tuoi avvenimenti».

 

 

[3]

 

Tacque Filocolo, e l'onde tutte s'incominciarono a dimenare, e dopo alquanto spazio, una voce così parlando uscì del vicino luogo a' due bollori:

 

«Io non so chi tu sii, che con così dolci parole mi costringi a rispondere alla tua domanda; ma però che maravigliare mi fai della tua venuta, non sarà sanza contentazione del tuo disio, solo che ad ascoltarmi ti disponghi. E però che più mia condizione ti sia manifesta, dal principio de' miei danni ti narrerò i miei casi. E sappi ch'io fui di Marmorina, terra ricchissima e bella e piena di nobilissimo popolo, posseduta da Felice, altissimo re di Spagna, e il mio nome fu Fileno, e giovane cavaliere fui nella corte del detto re. Nella quale corte una giovane di mirabilissima bellezza, il cui nome era Biancifiore, con la luce de' suoi begli occhi mi prese in tanto il cuore del suo piacere, che mai uomo di piacere di donna non fu sì preso. Niuna cosa era che io per piacerle non avessi fatto, e già molte cose feci laudevoli per amor di lei. Io ricevetti da lei, un giorno che la festività di Marte si celebrava in Marmorina, un velo col quale ella la sua bionda testa copriva, e quello per sopransegna portato nella palestra, sopra tutti i compagni per forza ricevetti l'onore del giuoco. E da Marmorina partitomi andai a Montoro, dove un figliuolo del detto re chiamato Florio dimorava; e quivi in sua presenza i miei amorosi casi narrai, ignorando che esso Biancifiore più che altra cosa amasse, come poi detto mi fu che esso facea: per le quali cose narrate meritai a torto d'essere da lui odiato. Queste furono principali cagioni de' miei mali, però che, se io fossi taciuto, ancora in Marmorina dimorerei, contentandomi di poter vedere quella bellezza per la quale ora lontano in altra forma dimoro. Ma non essendo io ancora di Marmorina partito, poco tempo appresso della fatta narrazione, Diana, pietosa del crudele male che mi si apparecchiava, in sonno mi fece vedere infinite insidie poste da Florio alla mia vita, e similemente mi fece sentire i colpi che la sua spada e quelle de' suoi compagni s'apparecchiavano di dovermi dare. Le quali cose vedute, narrandole poi io ad un mio amico, il quale de' segreti di Florio alcuna cosa sentiva, m'avverò quello che veduto aveva essermi sanza alcun fallo apparecchiato, se io di Marmorina non mi partissi. Seguitai adunque il consiglio del mio amico, e abandonata Marmorina, e cercati molti luoghi, e pervenuto qui, mi piacque qui di finire la mia fuga e di pigliare questo luogo per etterno essilio: e ancora mi parve solingo e rimoto molto, onde io imaginai di poterci sanza impedimento d'alcuni nascosamente piangere l'abandonato bene; e così lungamente il piansi. Ma per le mie lagrime, non per l'essere lontano, mancava però il verace amore ch'io portava e porto in colei che più bella che altra mi parea, anzi più ciascun giorno mi costringeva e molestava molto. Laonde io un giorno incominciai con dolenti voci a pregare gl'iddii del cielo e della terra e qualunque altri che i miei dolori terminassero, e infinite volte domandai e chiamai la morte, la quale impossibile mi fu di potere avere. Ma pure pietà del mio dolore vinse gl'iddii, li quali chiamando, come io ho detto che faceva, sedendo in questo luogo, mi sentii sopra subitamente venire un sudore e tutto occuparmi, e, dopo questo, ciò che quello toccava in quello medesimo convertiva, e già volendomi con le mani toccare e asciugare quello, né la cosa disiderata toccava, né la mano sentiva l'usato uficio adoperare, ma mi sentiva nel muovere de' membri e nel toccarsi insieme né più né meno come l'onde cacciate l'una dal vento e l'altra dalla terra insieme urtarsi: per che io incontanente me conobbi in questi liquori trasmutato, e mi sentii occupare questo luogo, il quale io poi con la gravezza di me medesimo ho più profondo occupato. E così trasmutato, solo il conoscimento antico e il parlare dagl'iddii mi fu lasciato. Né mai mancarono lagrime a' dolenti occhi, i quali nel mezzo di questa posti, da essi, come da due naturali vene, surge ciò che questa fontana tiene fresca, come voi vedete. E quella verdura sottile, che in alcuna parte cuopre le chiare onde, fu il velo della bella giovane col quale io coperto m'era quel giorno che con tanto effetto la morte disiderava, acciò che sotto la sua ombra, pensando di cui era stato, mi fosse più dolce il morire: e, come vedete, ancora mi cuopre, e emmi caro. Ora hai per le mie parole potuto tutto il mio stato comprendere, il quale io quanto più brievemente ho potuto t'ho dichiarato: non ti sia dunque grave manifestarmi a cui io mi sia manifestato».

 

 

[4]

 

Ascoltando Filocolo le parole di Fileno, si ricordò lui di tutto dire la verità, e cominciò quasi per pietà a lagrimare, e così gli rispose:

 

«Fileno, pietà m'ha mosso de' tuoi casi a lagrimare; e certo io soverrò al tuo domando, poi che al mio se' stato cortese, e non sanza consolazione delle tue lagrime ascolterai le mie parole. E primieramente ti sia manifesto che io mi chiamo Filocolo, e sono di paese assai vicino alla tua terra, nato di nobili parenti, e per quello signore per lo quale tu in lagrime abondi e in dolore, io similemente pellegrinando d'acerbissima doglia pieno vo per lo mondo. Quel Florio, il quale tu mi nomini, io il conosco troppo bene, e non ha guari che io il vidi, e con lui parlai, e tanto dolente per le parole sue essere il compresi, che mai sì doloroso uomo non vidi. Ma certo egli, per quello ch'io intendessi, ha ben ragione di vivere dolente, però che il re suo padre quella bella giovane Biancifiore, la quale tu già amasti, vendé a' mercatanti sì come vilissima serva. I quali mercatanti lei sopra una loro nave trasportarono via, e dove non si sa: per la qual cosa egli, non sappiendo che si fare, muore a dolore. Onde se egli a te nuocere voleva, di tale ingiuria gl'iddii l'hanno ben pagato, avvegna che la tua fuga gli spiacque e fugli noia. E però non pur crescere in angoscia, ma, con ciò sia cosa che a te siano molti compagni e in simiglianti affanni, e io sia uno di quelli, confortati, sperando che quella dea che dalle insidie di Florio ti levò, così come agevole le fu a rendere lo sbranato Ipolito vivo con intera forma, così te nel pristino stato potrà a' suoi servigi recandoti, rintegrare».

 

 

[5]

 

La chiara fonte, finite le parole di Filocolo, tutta enfiò, e con le sue onde passò gli usati termini, producendo un nuovo soffiare, ma più a Filocolo non parlò, il quale lungamente alcuna parola attese. Ma poi che per lungo spazio fu dimorato, e quella riposata vide sì come quando prima col nappo mossa l'avea, egli si dirizzò, e con li compagni suoi, di questa cosa tutti maravigliando si, incominciarono a ragionare, dolendo a ciascuno del misero avvenimento di Fileno, dicendo:

 

«O quanto è dubbiosa cosa nella palestra d'Amore entrare, nella quale il sottomesso arbitrio è impossibile da tal nodo slegare, se non quando a lui piace. Beati coloro che sanza lui vita virtuosa conducono, se bene guardiamo i fini a' quali egli i suoi suggetti conduce. Chi avrebbe ora creduto nel salvatico paese trovare Fileno convertito in fontana di lagrime, il quale fu il più gaio cavaliere e il più leggiadro che la nostra corte avesse? Chi potrebbe pensare Filocolo, figliuolo unico dell'alto re di Spagna, essere per amore divenuto pellegrino, e andare cercando le strane nazioni poste sotto il cielo, e ora in questo luogo trovarsi in questo tempo?».

 

A questo rispose Filocolo dicendo:

 

«L'essere venuto qui m'è assai caro; né per alcuna cosa vorrei non esserci stato, però che mirabile cosa e da notare abbiamo veduta nel diserto luogo, il quale n'è stato dagl'iddii comandato d'onorare, e detto il perché. E certo io non so in che atto io il possa avanti di più onore accrescere che io m'abbia fatto, rinnovando il santo tempio e il suo altare».

 

A cui Ascalion disse:

 

«Noi andremo secondo il santo consiglio, e fornito il nostro cammino e ricevuta la cercata cosa, nel voltare de' nostri passi il tornar qui non ci falla, e allora quello onore che in questo mezzo avremo ne' nostri animi diliberato di fare, faremo agl'iddii e al luogo, però che gl'iddii, solleciti a' beni dell'umana gente niuna utilità per i nostri doni ci concedono; ma poi ch'elli hanno le dimandate cose a' dimandanti concedute, dilettansi e è loro a grado che i ricevitori in luogo di riconoscenza offerino graziosi doni e rendano debiti onori alle loro deità, mostrandosi grati del ricevuto beneficio. E però, come dissi, nel nostro tornare, ricevute le disiate cose, ci mostreremo conoscenti del ricevuto consiglio, onorandolo come si converrà».

 

 

[6]

 

Questo consiglio a tutti piacque, e tutto quel giorno e la notte quivi dimorarono sanza più molestare la misera fontana; e la vegnente mattina, secondo l'ammaestramento dello strano iddio, mancate l'abondanti acque che il solingo piano aveano il preterito giorno allagato, presero il cammino, per lo quale sollecitamente pervennero ad Alfea e a' suoi porti, avanti che l'occidentale orizonte fosse dal sole toccato. Quivi la mandata nave quasi in un'ora con loro insieme trovarono essere venuta: di che contenti, sperando per quello le cose più prospere nel futuro, su vi montarono sanza alcuno indugio, e a' prosperevoli venti renderono le sanguigne vele, comandando che all'isola del fuoco il cammino della nave si dirizzasse. Eolo aiutava con le sue forze il nuovo legno, e lui con Zeffiro a' disiati luoghi pingeva, e Nettunno pacificamente i suoi regni servava: onde Filocolo e' suoi compagni contenti al loro cammino sanza affanno procedeano. Ma la misera fortuna, che niuno mondano bene lascia gustare sanza il suo fele, non consentì che lungamente questa fede fosse a' disiosi giovani servata; ma, avendo già costoro dopo il terzo giorno assai vicini al luogo ove, quando nella nave entrarono, aveano diliberato di riposarsi, riposti, le bocche di Zeffiro richiuse e diede a Noto ampissima via sopra le salate acque: e Nettunno in se medesimo tutto si commosse con ispiacevol mutamento. Onde dopo poco spazio i giovani, non usi di queste cose, quasi morti in tale affanno, sanza ascoltare alcun conforto, nella nave si riputavano.

 

 

[7]

 

Erasi Noto con focoso soffiamento d'Etiopia levato, volendo già il giorno dare luogo alla notte, e avea l'emi sperio tutto chiuso d'oscurissimi nuvoli, minacciando noiosissimo tempo: e i marinari di lontana parte vedeano il mare aver mutato colore. Ma poi che il giorno fu partito, i marinari, da doppia notte occupati, non vedeano che si fare. Elli s'argomentavano quanto potevano di prendere alto mare e di resistere alla sopravegnente tempesta per li veduti segni; ma mentre che gli argomenti utili alla loro salute si prendeano, subitamente incominciò da' nuvoli a scendere un'acqua grandissima, e 'l vento a multiplicare in tanta quantità, che levate loro le vele e spezzato l'albero, non come essi voleano, ma come a lui piaceva, li guidava. E li mari erano alti a cielo e da ogni parte percoteano la resistente nave, coprendo quella alcuna volta dall'un capo all'altro: e già tolto avea loro l'uno de' timoni, e dell'altro stavano in grandissimo affanno di guardare. E il cielo s'apriva sovente mostrando terribilissimi e focosi baleni con pestilenziosi tuoni, i quali, in alcuna parte colti della nave, n'aveano tutte le bande mandate in mare: laonde tutti i marinari dopo lunga fatica, e combattuti dal vento e dalla sopravegnente acqua e da' tuoni, il potersi aiutare, o loro o la nave, aveano perduto, e chi qua e chi là quasi morti sopra la coperta della nave prostrati giaceano vinti; e quasi ogni speranza di salute, per lo dire de' padroni e per le manifeste cose, era perduta. Né ancora la notte mezze le sue dimoranze avea compiute, né il tempo facea sembianti di riposarsi, ma ciascuna ora più minaccevole proffereva maggiori danni con le sue opere: onde niuno conforto né a Filocolo né ad alcuno che vi fosse era rimaso, se non aspettare la misericordia degl'iddii.

 

 

[8]

 

Multiplicava ciascuna ora alla sconsolata nave più pericolo, e ancora che il romore e del mare e de' venti e de' tuoni e dell'acque fosse grandissimo, ancora il faceano molto maggiore le dolenti voci de' marinari, le quali alcune in ramarichii, altre in prieghi agl'iddii che gli dovessero atare dolorosissime delle loro bocche procedeano, conoscendo il pericolo in che erano. Le quali cose Filocolo per lungo spazio avendo vedute, e a quelle e conforto e aiuto co' suoi compagni avea porto quanto potuto avea, vedendo la loro salute ognora più fuggire, con gli altri insieme quasi disperato piangendo s'incominciò a dolere, dicendo così:

 

«O fortuna, sazia di me omai la tua iniqua volontà. Assai ti sono stato trastullo, assai hai di me riso, ora in alto e ora in basso stato. Non penare più di recarmi a quell'ultimo male che continuamente hai disiderato: fallo tosto. Non m'indugiare più la morte, poi che tu la mi disideri: ma se esser puote, io solo la morte riceva, acciò che costoro, i quali per me ingiustamente i tuoi assalti ricevono, non sofferiscano sanza peccato pena. I tuoi innumerabili pericoli tutti, fuori che questo, m'hai fatti provare, e in questo, il quale ancora non avea provato, ogni tua noia si contiene: sia adunque questo, sì come maggiore, a me per fine riserbato nelle mie miserie. A questa niuna cosa peggiore mi può seguire se non morte. Io la disidero: mandalami, acciò che gli altri campino, e la tua voglia s'adempia e i miei dolori si terminino. Sazisi ora ogni tua voglia, e in questo finiscano le tue fatiche e i miei danni. O miseri parenti rimasi sanza figliuolo, confortatevi, ché più aspro fine gli seguita che voi non gli dimandavate: egli è ora nelle reti tese da voi miseramente incappato. Le vostre operazioni questa notte avranno fine e la vostra letizia non vedrà il morto viso, il quale vivo invidiosi lagrimato avete. Solo in questo m'è benigna la fortuna, e in questo la ringrazio, che sì incerta sepoltura mi donerà, che né vivo né morto mai a' vostri occhi mi ripresenterò: per che se mi odiate, come le vostre operazioni hanno mostrato, sanza consolazione in dubbio viverete della mia vita; se mi amate, come figliuolo da' parenti dee essere amato, la fortuna, rapportatrice de' mali, morto mi vi paleserà sanza indugio, e allora potrete conoscere voi debita pena portare del commesso male. Ma la mia oppinione sola questa consolazione ne porterà con l'anima al leggero legnetto d'Acheronte, pensando che la vostra vecchiezza in dolore si consumerà, la quale non consentì che io lieti usassi i miei giovani anni. O Nettunno, perché tanto t'affanni per avere la mia anima? Cuopri la trista nave se possibile è, e me solo in te ne porta. Finisci il tuo disio e le mie pene a un'ora: non nuoccia il mio infortunio agl'innocenti compagni».

 

E poi ch'egli aveva per lungo spazio così detto, e egli con più pietosa voce alzava il viso mirando il turbato cielo, e diceva:

 

«O sommo Giove, venga la tua luce alla sconsolata gente, per la quale i non conosciuti cammini del tuo fratello ci si manifestino, e aiuta il tuo popolo che solo in te spera, e, sanza guardare a' nostri meriti, con pietoso aspetto alla nostra necessità ti rivolgi, e se licito non ci è di potere la dimandata isola prendere con le nostre ancore, prenda la già non nave, sanza pericolo di noi, qualunque altro porto. Umilia il tuo fratello a cui niuna ingiuria facemmo mai, muovasi la tua pietà a' nostri prieghi, né resistano i commessi difetti, i quali sì come uomini continui adoperiamo. E tu, o santo iddio, a cui non ha tre dì passati, o forse quattro, feci debiti sacrificii, aiutaci, e la 'mpromessa fatta dalla santa bocca non la mettere in oblio. Non si conviene agl'iddii essere fallaci, né possibile è che siano; ma cessi che così la tua promessa mi sia attenuta, come quella di Giove fu a Palinuro. Io non men tosto disidero di prendere altri liti, se possibile non è d'avere questi, che per tal maniera la promessione ricevere. O santa Venus, aiutami nel tuo natale luogo. Non mi far perire là ove tu nascesti e dove tu più forza che in altra parte dei avere. Ricordati della mia diritta fede. Cessino per lo tuo aiuto questi venti, e manifestisici la bellezza del bel nido di Leda e la figliuola di Latona, e i mari, che di sé fanno spumose montagne, nelle sue usate pianezze riduci. Vedi che niuno di noi non può più; solo il vostro soccorso sostiene le nostre speranze: quello solo attendiamo. Non si 'ndugi: l'albero, le vele, i timoni e le sarte da' venti e dall'onde ci sono state tolte. E i tuoni e le spaventevoli corruscazioni e le gravi acque cadenti da cielo e mosse da' venti ci hanno i nocchieri e i marinari e noi vinti, e renduti impossibili a più aiutarci: in tempestoso mare, sanza guida e in isconosciuto luogo, abandonato da ogni speranza, per li tuoi servigi così mi ritruovo».

 

 

[9]

 

Gli altri compagni di Filocolo tutti piangeano, e nulla salute speravano, ma del fiero colpo d'Antropos, il quale vicino si vedeano, impauriti, mezzi morti giaceano tutti bagnati, e quasi ogni potenza corporale perduta, si conduceano secondo i disordinati movimenti della nave. Ma il vecchio Ascalion, il quale altre volte di simiglianti avversitadi provate avea, ancora che pauroso fosse, non gli parea cosa nuova, e con migliore speranza viveva che alcuno degli altri, e tutti li giva riconfortando con buone parole come cari figliuoli. E mentre queste cose così andavano, la nave portata da' poderosi venti sanza niuno governamento, avanti che il giorno apparisse da nulla parte, ne' porti dell'antica Partenope fu gittata da' fieri venti, quasi vicina agli ultimi suoi danni: e quivi da' marinari, che vedendosi in porto ripresero conforto, così spezzata dalle bande e fracassata, in sicuro luogo dall'ancore fu fermata, e aspettarono il nuovo giorno ringraziando gl'iddii, non sappiendo in che parte la fortuna gli avesse balestrati.

 

 

[10]

 

Poi che il giorno apparve e il luogo fu conosciuto da' marinari, contenti d'essere in sicuro e grazioso luogo, discesero in terra. E Filocolo co' suoi compagni, a' quali più tosto della sepoltura risuscitati parea uscire che della nave, scesi in terra, e rimirando verso le crucciate acque, ripetendo in se medesimi i passati pericoli della presente notte, appena parea loro potere essere sicuri, e ringraziando gl'iddii che da tal caso recati gli avea a salute, offersero loro pietosi sacrificii e incominciaronsi a confortare. E da un amico d'Ascalion onorevolemente ricevuti furono nella città, e quivi la loro nave fecero racconciare tutta, e di vele e d'albero e di timoni migliori che i perduti la rifornirono; e incominciarono ad aspettar tempo al loro viaggio, il quale molto più si prolungò che 'l loro avviso non estimava. Per la qual cosa Filocolo più volte volle per terra pigliare il cammino, ma, sconfortato da Ascalion, se ne rimase, aspettando il buon tempo in quel luogo.

 

 

[11]

 

Videro Filocolo e' suoi compagni Febeia cinque volte tonda e altretante cornuta, avanti che Noto le sue impetuose forze abandonasse: né quasi mai in questo tempo videro rallegrare il tempo. Per la qual cosa gravissima malinconia e ira la desiderosa anima di Filocolo stimolava, dolendosi della ingiuria che da Eolo ricevere gli pareva. E più volte la sua ira con voti e con pietosi sacrificii e con umili prieghi s'ingegnò di piegare, ma venire non ne poté al disiderato fine, anzi parea che quelli più nocessero; onde egli spesso di ciò si doleva dicendo:

 

«Oimè, che ho io verso gl'iddii commesso, che i miei sacrificii puramente fatti non sono accettati? Io non sacri lego, io non invido de' loro onori, io non assalitore de' loro regni, né tentatore della loro potenza, ma fedelissimo e divoto servidore di tutti: adunque che mi nuoce?».

 

Egli dopo le lunghe malinconie andava alcuna volta a' marini liti, e in quella parte, verso la quale egli imaginava di dovere andare, si volgeva e rimirava, dicendo:

 

«Sotto quella parte del cielo dimora la mia Biancifiore. Quella parte è testé da lei veduta, e io la voglio rimirare. Io sento la dolcezza ch'ella adduce seco, presa dalla luce de' begli occhi di Biancifiore. E poi bassati gli occhi sopra le salate onde, e vedendole verdi e spumanti biancheggiare nelle sue rotture con tumultuoso romore, e similmente il vento con sottili sottentramenti stimolare quelle, turbato in se medesimo dicea:

 

«O dispietata forza di Nettunno, perché commovendo le tue acque impedisci il mio andare? Forse tu pensi ch'io un'altra volta porti il greco fuoco alla tua fortezza, come fecero coloro a' quali se tu così crudele, come a me se', fossi stato, ancora le sue mura vedresti intere e piene di popolo sanza essere mai state ofese. Io non porto insidie, ma come umile amante, col cuore acceso di fiamma inestinguibile, per lo piacere d'una bellissima giovane, sì come tu già avesti, cerco mediante la tua pace di ritrovare lei, allontanata per inganni d'alcuni dalla mia presenza. Di che meritarono più coloro nel tuo cospetto, che portandonela da me la divisero, che meriti io? Che ho io verso di te offeso, che commesso più che li ausonici mercatanti? Niuna cosa: con continui sacrificii ho la tua deità essaltata cercandola di pacificare verso me. Alla quale s'io forse mai offesi, ignorantemente il male commisi: e che che io m'avessi commesso, ben ti dovrebbe bastare, pensando quello che mi facesti, non è lungo tempo passato, quando me e' miei compagni per morti quasi in questo luogo ci gittasti sopra lo spezzato legno. Adunque perché sanza utilità pìù avanti mi nuoci? Certo, se i tuoi regni fossero da essere cercati brieve quantità come da Leandro erano, con la virtù dell'anello ricevuto dalla pietosa madre, mi metterei a cercare il disiato luogo oltre al tuo piacere e crederei poter fornire quello che a lui fornire non lasciasti; ma sì lungo cammino per quelli ho ad andare, che più tosto la forza mi mancherebbe che il tuo potere m'offendesse: e per questo la tua pace cerco, e quella disidero; non la mi negare, io te ne priego per quello amore che già per Esmenia sentisti. E tu, o sommo Eolo, spietato padre di Cannace, tempera le tue ire, ingiustamente verso me levate. Apri gli occhi, e conosci ch'io non sono Enea, il gran nemico della santa Giunone: io sono un giovane che amo, sì come tu già amasti. Pensi tu forse per nuocermi avere da Giunone la seconda impromessa? Raffrena le tue ire, racchiudi lo spiacevole vento sotto la cavata pietra: io non sono Macareo, né mai in alcuna cosa t'offesi. Sostieni ch'io compia lo incominciato viaggio, e quello compiuto, quando nel disiato luogo sarò con la mia donna, quanto ti piace soffia: graziosa cosa mi sarà di quel luogo mai non partirmi. Allora mostrerai le tue forze, quando noioso non mi sarà il dimorare. Ma ora che con angoscia perdo tempo, mitiga la tua furia, e sostieni che 'l mio disio io il possa fornire, ché se tu non fossi, ben conosco che Nettunno priega di starsi in pace».

 

Poi diceva:

 

«Oimè, ove mi costrigne amore di perdere i prieghi? Alle sorde onde e a' dissoluti soffiamenti, ne' quali niuna fede, sì come in cosa sanza niuna stabilità, si truova!».

 

 

[12]

 

Con tali parole più volte si dolea lo innamorato giovane sopra i salati liti, e da malinconia gravato tornava al suo ostiere. Ma essendo già Titan ricevuto nelle braccia di Castore e di Polluce, e la terra rivestita d'ornatissimi vestimenti, e ogni ramo nascoso dalle sue frondi, e gli uccelli, stati taciti nel noioso tempo, con dolci note riverberavano l'aere, e il cielo, che già ridendo a Filocolo il disiderato cammino promettea con ferma fede, avvenne che Filocolo una mattina, pieno di malinconia e tutto turbato nel viso, si levò dal notturno riposo. Il quale vedendolo, i compagni si maravigliarono molto per che più che l'altre fiate turbato stesse. Al quale Ascalion disse:

 

«Giovane, caccia da te ogni malinconia, ché il tempo si racconcia, per lo quale, sanza dubbio di più ricevere sì noioso accidente come già sostenemmo, ci sarà licito il camminare».

 

A cui Filocolo rispose:

 

«Maestro, certamente quello che dite, conosco, ma ciò alla presente malinconia non m'induce».

 

«E come - disse Ascalion - è nuovo accidente venuto, per lo quale tu debbi dimorare turbato?».

 

«Certo - disse Filocolo - l'accidente della mia turbazione è questo, che nella passata notte io ho veduta la più nuova visione che mai alcuno vedesse, e in quella ho avuta gravissima noia nell'animo, veggendo le cose ch'io vedeva: per la qual cosa la turbazione, poi ch'io mi svegliai, ancora da me non è partita, ma sanza dubbio credo che meco non lungamente dimorerà». Pregaronlo Ascalion e' compagni che, cacciando da sé ogni malinconia, gli piacesse la veduta visione narrare loro, nella quale tanta afflizione sostenuta avea. A' quali Filocolo con non mutato aspetto rispose che volentieri, e così cominciò a parlare:

 

 

[13]

 

«A me parea essere da tutti voi lasciato e dimorare sopra lo falernese monte, qui a questa città sopraposto, e sopra quello mi parea che un bellissimo prato fosse, rivestito d'erbe e di fiori dilettevoli assai a riguardare, e pareami di quello potere vedere tutto l'universo; né mi parea che alli miei occhi alcuna nazione s'occultasse. E mentre che io così rimirando intorno le molte regioni dimorava, vidi di quello cerreto ove noi la misera fontana trovammo, uno smeriglione levarsi e cercare il cielo; e poi che egli era assai alzato, pigliando larghissimi giri il vidi incominciare a calare, e dietro a una fagiana bellissima e volante molto, che levata s'era d'una pianura fra selvatiche montagne posta, non guari lontana al natale sito del nostro poeta Naso: e nel già detto prato a me assai appresso mi parea ch'egli la sopragiungesse, e ficcatasela in piedi sopra la schiena, forte ghermita la tenea. Poi appresso, assai vicino di quel luogo onde levata s'era la fagiana, mi parve vedere levare quello uccello che a guardia dell'armata Minerva si pone, e con lui uno nerissimo merlo, e volando quella seguire, e nel suo cospetto e dello smeriglione posarsi. Poi, volti gli occhi in altra parte di quella isola la quale noi cerchiamo, il semplice uccello, in compagnia di Citerea posto, vidi di quindi levare e insieme con un cuculo in quel luogo ancora porsi. E mentre che io in giro gli occhi volgeva, vidi tra l'ultimo ponente e i regni di Trazia di sopra a Senna levarsi uno sparviere bellissimo e uno gheppo, e seguitare un girfalco e un moscardo e un rigogolo e una grua, che di sopra alla riviera del Rodano levati s'erano, e dintorno alla fagiana posarsi. Poi, in più prossimana parte tirati gli occhi, vidi delle guaste mura, lasciate da noi nel piano del fratello del Tevero, uscire un terzuolo, e con forte volo aggiungersi agli altri sopradetti, di dietro al quale la misera reina, ancora de' suoi popoli nimica, levata di presso al luogo onde lo smeriglione levare vidi, volando seguiva: e di non molto lontano alla nostra Marmorina surse il padre d'Elena, e quivi venne, e d'una costa d'una di queste montagne vicine venne uno avoltoio e con gli altri nel bel prato si pose. E mentre che io della adunazione di questi uccelli in me medesimo mi maravigliava, e io guardai e vidi di questa piaggia molti e diversi altri levarsi, e con gli sopradetti giugnersi: e' mi parea, se bene estimai, un nibbio e un falcone e un gufo vedere agli altri precedere, e, a loro dietro, una delle figliuole di Piero conobbi, e una ghiandaia che pigolando forte volava; e, dopo loro, quelli da cui Apollo è accompagnato, e il mirifico tiratore de' carri di Giunone, e una calandra, e un picchio e poi un grande aghirone con la misera Filomena e con Tireo, a' quali dietro volava un indiano pappagallo e un frisone, e con gli altri accolti, fatto di loro un cerchio dintorno alla fagiana, da' piè di Niso sopr'essa. Io maravigliandomi incominciai ad attendere che questi volessero fare. E come ciò rimirava, tutti incominciarono a dare gravissimi assalti alla fagiana, e alcuni allo smerlo, gridando e stridendo, quale tirandosi adietro e quale mettendosi avanti; e chi penne e chi la viva carne di quella ne portava; ma lo smeriglione gridando, sanza ghermirla punto, quanto potea da tutti la difendea; e in questa battaglia per lungo spazio dimorò, e quasi io più volte fui mosso per andare ad aiutarlo, poi ritenendomi fra me dicea: "Veggiamo la fine di costui, se egli avrà tanto vigore che da tutti la difenda". E così attendendo, delle montagne vicine a Pompeana vidi un gran mastino levarsi e correre in questo luogo, e tra tutti gli uccelli ficcatosi, con rabbiosa fame il capo della fagiana prese, e quello divorato, per forza l'altro busto trasse degli artigli di Niso: il quale poi che voti della presa preda si trovò gli artigli, gridando il vidi non so come in tortola essere trasmutato, e sopra un vicino albero, nel quale fronda verde il nuovo tempo non avea rimessa, posarsi, e sopra quello a modo di pianto umano quasi la sentiva dolere. E così stando, mi parve vedere il cielo chiudersi d'oscuri nuvoli, molto peggio che quella notte, che noi di morire dubitammo, non fece. E picciolo spazio stette ch'egli ne cominciò a scendere un'acqua pistolenziosa con una grandine grossa, con venti e con tempesta simile mai non veduta: e i tuoni e' lampi erano innumerabili e grandissimi. E certo io dubitava non il mondo un'altra volta in caos dovesse tornare! E tutta questa pistolenzia parea che sopra il dolente uccello cadesse: la quale dolendosi con l'alie chiuse tutta la sostenea. La terra e 'l mare e 'l cielo crucciati e minacciando peggio, pareano contra a quella commossi, né parea che luogo fosse alcuno ove essa per sua salute ricorso avere potesse. E così di questa visione in altre, le quali alla memoria non mi tornano, mi trasportò la non stante fantasia, infino a quell'ora che io poco inanzi mi svegliai, trovandomi ancora nella mente turbato della compassione avuta al povero uccello».

 

 

[14]

 

«Strane cose ne conta il tuo parlare -disse Ascalion, - né che ciò si voglia significare credo che mai alcuno conoscerebbe: e però niuna malinconia te ne dee succedere. Manifesta cosa è che ciascuno uomo ne' suoi sonni vede mirabili cose e impossibili e strane, dalle quali poi isviluppato si maraviglia, ma conoscendo i principii onde muovono, quelle sanza alcun pensiero lascia andare: e però quelle cose che ne conti che vedute hai, sì come vane, nella loro vanità le lascia passare. E poi che il tempo si rallegra, e de' nostri disiderii lieto indizio ci dimostra, e noi similmente ci rallegriamo; andiamo e la piacevole aere su per li salati liti prendiamo: e ragionando, del nostro futuro viaggio ci proveggiamo passando tempo». Così Filocolo col duca e con Parmenione e con gli altri compagni si mosse, e con lento passo, di diverse cose parlando, verso quella parte ove le reverende ceneri dell'altissimo poeta Maro si posano, dirizzano il loro andare. I quali non furono così parlando guari dalla città dilungati, che essi pervenuti allato ad un giardino, udirono in esso graziosa festa di giovani e di donne. E l'aere di varii strumenti e di quasi angeliche voci ripercossarisonava tutta, entrando con dolce diletto a' cuori di coloro a' cui orecchi così riverberata venia: i quali canti a Filocolo piacque di stare alquanto a udire, acciò che la preterita malinconia, mitigandosi per la dolcezza del canto, andasse via. Ristette adunque ad ascoltare: e mentre che la fortuna così lui e i compagni fuori del giardino tenea ad ascoltare sospesi, un giovane uscì di quello, e videli, e nell'aspetto nobilissimi e uomini da riverire gli conobbe. Per che egli sanza indugio tornato a' compagni, disse:

 

«Venite, onoriamo alquanti giovani, ne' sembianti gentili e di grande essere, i quali, forse vergognandosi di passare qua entro sanza essere chiamati, dimorano di fuori ascoltando i nostri canti».

 

Lasciarono adunque i compagni di costui le donne alla loro festa, e usciti del giardino se ne vennero a Filocolo, il quale nel viso conobbero di tutti il maggiore, e a lui, con quella reverenza che essi avevano già negli animi compresa che si convenisse, parlarono, pregandolo che in onore e accrescimento della loro festa gli piacesse co' suoi compagni passare con loro nel giardino, con più prieghi sopra questo strignendolo che esso loro questa grazia non negasse. Legarono i dolci prieghi l'animo gentile di Filocolo, e non meno quello de' compagni; e così a' preganti fu da Filocolo risposto:

 

«Amici, in verità tal festa da noi cercata non era, né similemente fuggita, ma sì come naufragi gittati ne' vostri porti, per fuggire gli accidiosi pensieri che l'ozio induce, andavamo per questi liti le nostre avversità recitando; e come che la fortuna ad ascoltare voi c'inducesse non so, ma disiderosa, pare, di cacciare da noi ogni noia, pensando che voi, in cui cortesia infinita conosco, ci ha parati davanti: e però a' vostri prieghi satisfaremo, ancora che forse parte della cortesia, che da noi procedere dovrebbe, guastiamo».

 

E così parlando insieme nel bel giardino se n'entrarono, ove molte belle donne trovarono; dalle quali graziosamente ricevuti furono, e con loro insieme accolti alla loro festa.

 

 

[15]

 

Ma poi che Filocolo per grande spazio ebbe la festa di costoro veduta, e festeggiato con essi, a lui parve di partirsi. E volendo prendere congedo da' giovani e ringraziarli del ricevuto onore, una donna più che altra da riverire, piena di maravigliosa bellezza e di virtù, venne dov'egli stava, e così disse:

 

«Nobilissimo giovane, voi per la vostra cortesia questa mattina a questi giovani avete fatta una grazia, per la quale essi sempre vi sono tenuti, cioè di venire ad onorare la loro festa: piacciavi, adunque, all'altre donne e a me la seconda grazia non negare».

 

A cui Filocolo con soave voce rispose:

 

«Gentil donna, a voi niuna cosa giustamente si poria negare; comandate: io e' miei compagni a' vostri piaceri tutti siamo presti».

 

A cui la donna così disse:

 

«Con ciò sia cosa che voi, venendo, in grandissima quantità la nostra festa multiplicaste, io vi voglio pregare che partendovi non la manchiate, ma qui con noi questo giorno, in quello che cominciato avemo, infino alla sua ultima ora consumate».

 

Filocolo rimirava costei parlante nel viso, e vedea i suoi occhi pieni di focosi raggi sintillare come matutina stella, e la sua faccia piacevolissima e bella; né poi che la sua Biancifiore non vide, gli parea sì bella donna avere veduta. Alla cui domanda così rispose:

 

«Madonna, disposto sono a più tosto il vostro piacere che 'l mio dovere adempiere: però quanto a voi piacerà, tanto con voi dimorerò, e' miei compagni con meco».

 

Ringraziollo la donna, e ritornando all'altre, con esse insieme s'incominciò a rallegrare.

 

 

[16]

 

In tal maniera dimorando Filocolo con costoro, prese intima dimestichezza con un giovane chiamato Caleon, di costumi ornatissimo e facundo di leggiadra eloquenza, a cui egli parlando così disse:

 

«Oh, quanto voi agl'iddii immortali siete tenuti più che alcuni altri, i quali in una volontà pacifici vi conservano di far festa!».

 

«Assai loro ci conosciamo obligati - rispose Caleon; - ma quale cagione vi muove a parlare questo?».

 

Filocolo rispose:

 

«Certo niuna altra cosa se non il vedervi qui così assembrati tutti in un volere».

 

«Certo - disse Caleon - non vi maravigliate di ciò, ché quella donna, in cui tutta leggiadria si riposa, a questo ci mosse e tiene».

 

Disse Filocolo:

 

«E chi è questa donna?».

 

Caleon rispose:

 

«Quella che vi pregò che voi qui rimaneste, quando partire poco inanzi vi volevate».

 

«Bellissima e di gran valore mi pare nel suo aspetto - disse Filocolo, - ma se ingiusta non è la mia domanda, manifestimisi per voi il suo nome, e donde ella sia e di che parenti discesa».

 

A cui Caleon rispose:

 

«Niuna vostra domanda potrebbe essere ingiusta; e però che di così valorosa donna niuno è che apertamente parlando non deggia palesare la sua fama, al vostro dimando interamente sodisfarò. Il suo nome è da noi qui chiamato Fiammetta, posto che la più parte delle genti il nome di Colei la chiamino, per cui quella piaga, che il prevaricamento della prima madre aperse, richiuse. Ella è figliuola dell'altissimo prencipe sotto il cui scettro questi paesi in quiete si reggono, e a noi tutti è donna: e, brievemente, niuna virtù è che in valoroso cuore debbia capere, che nel suo non sia; e voi, sì come io estimo, oggi dimorando con noi, il conoscerete».

 

«Ciò che voi dite - disse Filocolo - non si può ne' suoi sembianti celare: gl'iddii a quel fine, che sì singulare donna merita, la conducano; e certo quello e più che voi non dite, credo di lei. Ma queste altre donne chi sono?».

 

Disse Caleon:

 

«Queste donne sono alcune di Partenope, e altre altronde in sua compagnia, sì come noi medesimi, qui venute».

 

E poi che essi ebbero per lungo spazio così ragionato, disse Caleon:

 

«Deh, dolce amico, se a voi non fosse noia, a me molto sarebbe a grado di vostra condizione conoscere più avanti che quello che il vostro aspetto ripresenti, acciò che forse, conoscendovi, più degnamente vi possiamo onorare: però che tal fiata il non conoscere fa negli onoranti il debito dell'onorare mancare».

 

A cui Filocolo rispose:

 

«Niuno mancamento dalla vostra parte potrebbe venire in onorarmi, ma tanto n'avete fatto avanti, che soprabondando avete i termini trapassati. Ma poi che della mia condizione disiderate sapere, ingiusto saria di ciò non sodisfarvi, e però, quanto licito m'è di scoprirne, ve ne dirò. Io sì sono un povero pellegrino d'amore, il quale vo cercando una mia donna a me con sottile inganno levata da' miei parenti: e questi gentili uomini i quali con meco vedete, per loro cortesia nel mio pellegrinaggio mi fanno compagnia: e il mio nome è Filocolo, di nazione spagnuolo, gittato da tempestoso mare ne' vostri porti, cercando io l'isola de' siculi».

 

Ma tanto coperto parlare non gli seppe, che il giovine di sua condizione non comprendesse più avanti che Filocolo disiderato non avrebbe: e de' suoi accidenti compassione avendo, il riconfortò alquanto con parole che nel futuro vita migliore gli promettevano. E da quell'ora inanzi multiplicando l'onore, non come pellegrino e come uomo accettato a quella festa, ma come maggiore e principale di quella, a tutti il fece onorare, e la donna massimamente comandò che così fosse, poi che da Caleon la sua condizione intese, in sé molto caro avendo tale accidente.

 

 

[17]

 

Era già Appollo col carro della luce salito al meridiano cerchio e quasi con diritto occhio riguardava la rivestita terra, quando le donne e' giovani in quel luogo adunati, lasciato il festeggiare, per diverse parti del giar dino cercando, dilettevoli ombre e diversi diletti per diverse schiere prendevano, fuggendo il caldo aere che li dilicati corpi offendeva. Ma la gentil donna, con quattro compagne appresso, prese Filocolo per la mano dicendoli:

 

«Giovane, il caldo ci costringe di cercare i freschi luoghi: però in questo prato, il quale qui davanti a noi vedi, andiamo, e quivi con varii parlamenti la calda parte di questo giorno passiamo».

 

Andò adunque Filocolo, lodando il consiglio della donna, dietro a' passi di lei, e con lui i suoi compagni, e Caleon e due altri giovani con loro: e vennero nel mostrato prato, bellissimo molto d'erbe e di fiori, e pieno di dolce soavità d'odori, dintorno al quale belli e giovani albuscelli erano assai, le cui frondi verdi e folte, dalle quali il luogo era difeso da' raggi del gran pianeto. E nel mezzo d'esso pratello una picciola fontana chiara e bella era, dintorno alla quale tutti si posero a sedere; e quivi di diverse cose, chi mirando l'acqua chi cogliendo fiori, incominciarono a parlare. Ma però che tal volta disavvedutamente l'uno le novelle dell'altro trarompeva, la bella donna disse così:

 

«Acciò che i nostri ragionamenti possano con più ordine procedere e infino alle più fresche ore continuarsi, le quali noi per festeggiare aspettiamo, ordiniamo uno di noi qui in luogo di nostro re, al quale ciascuno una quistione d'amore proponga, e da esso a quella debita risposta prenda. E certo, secondo il mio avviso, noi non avremo le nostre quistioni poste, che il caldo sarà, sanza che noi il sentiamo, passato, e il tempo utilmente con diletto sarà adoperato».

 

Piacque a tutti, e fra loro dissero:

 

«Facciasi re».

 

E con unica voce tutti Ascalion, per che più che alcuno era attempato, in re eleggevano. A' quali Ascalion rispose sé a tanto uficio essere insofficiente, però che più ne' servigi di Marte che in quelli di Venere avea i suoi anni spesi; ma, se a tutti piacesse di rimettere in lui la elezione di tal re, egli si credea bene tanto conoscere avanti delle qualità di tutti, che egli il costituirebbe tale che vere risposte a tali dimande renderebbe. Consentirono allora tutti che in Ascalion fosse liberamente la elezione rimessa, poi che assumere in lui tale dignità non volea.

 

 

[18]

 

Levossi allora Ascalion, e colti alcuni rami d'un verde alloro, il quale quasi sopra la fontana gittava la sua ombra, di quelli una bella coronetta fece, e quella recata in presenza di tutti costoro, così disse:

 

«Da poi che io ne' miei più giovani anni cominciai ad avere conoscimento, giuro per quelli iddii che io adoro, che non mi torna nella memoria di avere veduta o udita nomare donna di tanto valore, quanto questa Fiammetta, nella cui presenza Amore di sé tutti infiammati ci tiene, e da cui noi questo giorno siamo stati onorati in maniera da mai non doverlo dimenticare. E però che ella, sì come io sanza fallo conosco, è d'ogni grazia piena e di bellezza, e di costumi ornatissima e di leggiadra eloquenza dotata, io in nostra reina la eleggo; e molto meglio, per la sua magnificenza, la imperiale corona le si converrebbe! A costei di reale stirpe ancora discesa, e a cui le occulte vie d'amore sono tutte aperte, sarà lieve cosa nelle nostre quistioni contentarci».

 

E appresso questo, alla valorosa donna davanti umilemente le si inchinò, dicendo:

 

«Gentile donna, ornate la vostra testa di questa corona, la quale non meno che d'oro è da tener cara a coloro che degni sono per le loro opere di tali coprirsi la testa».

 

Alquanto il candido viso della bella donna si dipinse di nuova rossezza, dicendo:

 

«Certo non debitamente avete di reina proveduto all'amoroso popolo, che di sofficientissimo re avea bisogno, però che di tutti voi, che qui dimorate, la più semplice e con meno virtù sono, né alcuno di voi è a cui meglio che a me investita non fosse. Ma poi che a voi piace, né alla vostra elezione posso opporre, e acciò che io alla fatta promessa non sia contraria, io la prenderò, e spero che dagl'iddii e da essa l'ardire dovuto a tanto uficio prenderò: e con l'aiuto di colui a cui queste frondi furono già care, a tutti risponderò secondo il mio poco sapere. Nondimeno io divotamente il priego che egli nel mio petto entri, e muova la mia voce con quel suono, col quale egli già l'ardito uomo vinto fece meritare d'uscire della guaina de' suoi membri. Io, per via di festa, lievi risposte vi donerò, sanza cercare le profondità delle proposte questioni, le quali andare cercando più tosto affanno che diletto recherebbe alle nostre menti».

 

E questo detto, con le dilicate mani prese l'offerta ghirlanda, e la sua testa ne coronò, e comandò che, sotto pena d'essere dall'amorosa festa privato, ciascuno s'apparecchiasse di proporre alcuna quistione, la quale fosse bella e convenevole a quello di che ragionare intendeano, e tale, che più tosto della loro gioia fosse accrescitrice, che per troppa sottigliezza o per altro guastatrice di quella.

 

 

[19]

 

Dalla destra mano di lei sedea Filocolo, a cui ella disse:

 

«Giovane, cominciate a proporre, acciò che gli altri ordinatamente come noi qui seggiamo, più sicuramente dopo voi proponga».

 

A cui Filocolo rispose:

 

«Nobilissima donna, sanza alcuno indugio al vostro comandamento ubidirò»; e così disse:

 

«Io mi ricordo che in quella città dov'io nacqui si faceva un giorno una grandissima festa, alla quale cavalieri e donne erano molti ad onorarla. Io che similemente v'era, andando con gli occhi intorno mirando quelli che nel luogo stavano, vidi due giovani graziosi assai nel loro aspetto, i quali amenduni una bellissima giovane rimiravano, né si saria per alcuno potuto conoscere chi più stato fosse di loro acceso della bellezza di costei. E quando essi lungamente costei ebbero riguardata, non faccendo essa all'uno migliori sembianti che all'altro, elli incominciarono fra loro a ragionare di lei: e fra l'altre parole che io del loro ragionamento intesi, si fu che ciascuno diceva sé essere più amato da lei, e in ciò ciascuno diversi atti dalla giovane per adietro fatti allegava in aiuto di sé. E essendo per lungo spazio in tale quistione dimorati, e già quasi per le molte parole venuti a volersi oltraggiare, si riconobbero che male faceano, però che in tale atto danno e vergogna di loro e dispiacere della giovane adoperavano; ma mossi con iguale concordia, amenduni davanti alla madre della giovane se n'andarono, la quale similemente a quella festa stava, e così in presenza di lei proposero che, con ciò fosse cosa che sopra tutte l'altre giovani del mondo a ciascuno di loro la figlia di lei piaceva e essi fossero in quistione quale d'essi due piacesse più a lei, che le piacesse di concedere loro questa grazia, acciò che maggiore scandolo tra loro non nascesse, cioè che alla figlia comandasse che o con parole o con atti loro dimostrasse qual di loro da lei più fosse amato. La pregata donna ridendo rispose che volentieri; e chiamata la figliuola a sé, le disse: "Bella figlia, ciascuno di questi due più che sé t'ama, e in quistione sono quale da te più sia amato, e cercano, di grazia, che tu o con segno o con parola ne li facci certi; e però, acciò che d'amore, di cui pace e bene sempre dee nascere, non nasca il contrario, falli di ciò contenti, e con cortesi sembianti mostra inverso del quale più il tuo animo si piega". Disse la giovane: "Ciò mi piace". E rimiratili amenduni alquanto, vide che l'uno avea in testa una bella ghirlanda di fresche erbette e di fiori, e l'altro sanza alcuna ghirlanda dimorava. Allora la giovane, che similmente in capo una ghirlanda di verdi frondi avea, levò quella di capo a sé, e a colui che sanza ghirlanda davanti le stava la mise in ca po; appresso, quella che l'altro giovane in capo avea ella la prese e a sé la pose, e, loro lasciati stare, si ritornò alla festa, dicendo che il comandamento della madre e il piacere di loro avea fatto. I giovani rimasi così, nel primo quistionare ritornarono, ciascuno dicendo che più da lei era amato; e quelli la cui ghirlanda la giovane prese e posela sopra la sua testa, diceva: "Fermamente ella ama più me, però che a niuno altro fine ha ella la mia ghirlanda presa, se non perché le mie cose le piacciono, e per avere cagione d'essermi tenuta; ma a te ha ella la sua donata quasi in luogo d'ultimo congedo, non volendo, come villana, che l'amore che tu l'hai portato sia sanza alcuno merito; ma quella ghirlanda donandolati, ultimamente t'ha meritato". L'altro dicendo il contrario, così rispondeva: "Veramente la giovane le tue cose ama più che te, ciò si può vedere, ché ella ne prese; ma ella ama più me che le mie cose, in quanto ella delle sue mi donò: e non è segno d'ultimo merito il donare, come tu di', ma è principio d'amistà e d'amore. E fa il dono colui che 'l riceve suggetto al donatore: però costei, forse di me incerta, acciò che più certa di me avere per suggetto fosse, con dono mi volle alla sua signoria legare, se io legato forse non vi fossi. Ma tu, come puoi comprendere che se ella dal principio ti leva, ch'ella mai ti debbia donare?". E così quistionando dimorarono per grande spazio, e sanza alcuna diffinizione si partirono. Ora, dico io, grandissima reina, se a voi fosse l'ultima sentenza in tale questione domandata, che giudichereste voi?».

 

 

[20]

 

Con occhi d'amorosa luce sfavillanti, alquanto sorridendo si rivolse la bella donna a Filocolo, e dopo un lieve sospiro così rispose:

 

«Nobilissimo giovane, bella è la vostra quistione, e certo saviamente si portò la donna, e ciascun de' giovani assai bene la sua parte difendea; ma acciò che ne richiedete quello che ultimamente di ciò giudicheremo, così vi rispondiamo. A noi pare, e così dee parere a ciascuno che sottilmente riguarda, che la giovane ami l'uno, e l'altro non abbia in odio; ma, per più il suo intendimento tener coperto, fece due atti contrarii, come appare, e ciò non sanza cagione fece, ma acciò che l'amore di colui cui ella amava più fermo acquistasse è quello dell'altro non perdesse: e ciò fu saviamente fatto. E però venendo alla nostra quistione, la quale è a quale de' due sia più amore stato mostrato, diciamo che colui a cui ella donò la sua ghirlanda è più da lei amato. E questa ne pare la ragione: qualunque uomo o donna ama alcuna persona, per la forza di questo amore portato è ciascuno sì forte obligato alla cosa amata, che sopra tutte le cose a quella disidera di piacere, né a più legarla bisognano o doni o servigi; e questo è manifesto. Ma veggiamo che chi ama, la cosa amata, in qualunque maniera puote, di farsela benigna e suggetta s'ingegna in diversi modi, acciò che quella possa a' suoi piaceri recare, o con più ardita fronte il suo disio dimandare. E che questo sia come noi parliamo, assai la infiammata Dido con le sue opere cel palesa, la quale, già dell'amore d'Enea ardendo, infino a tanto che essa con onori e con doni non gliele parve aver preso, non ebbe ardire di tentare la dubbiosa via del dimandare. Dunque la giovane colui cui essa più amò, quello di più obligarsi cercò: e così diremo che quelli che 'l dono della ghirlanda ricevette, colui sia più dalla giovane amato».

 

 

[21]

 

Rispose Filocolo poi che la reina tacque:

 

«Discreta donna, assai è da lodare la vostra risposta, ma non per tanto molta d'ammirazione mi porge, però che di ciò che diffinito avete della proposta quistione, io terrei che il contrario fosse da giudicare, con ciò sia cosa che generalmente tra gli amanti soglia essere questa consuetudine, cioè disiderare di portare sopra sé alcuna delle gioie della cosa amata, però che di quelle le più volte più che di tutto il rimanente si sogliono gloriare, e, quella sentendo sopra sé, nell'animo si rallegrano. E come voi potete avere udito, Paris rade volte o nulla entrava nell'aspre battaglie contra i Greci sanza soprasegnale donatogli dalla sua Elena, credendosi per quello molto meglio, che sanza quello, valere: e certo, secondo il mio giudicio, il suo pensiero non era vano. Per la qual cosa io così direi che, sì come voi diceste, saviamente fece la giovane, non diffinendo però come voi faceste, ma in questa maniera: conoscendo la giovane che da' due giovani era molto amata e ella più che l'uno amare non potesse, però che amore indivisibile cosa si truova, ella l'uno dell'amore che le portava volle guiderdonare, acciò che tale benivolenza non rimanesse da lei inguiderdonata, e donogli la sua ghirlanda in merito di ciò. All'altro, cui ella amava, volle porgere ardire e ferma speranza del suo amore, levandogli la sua ghirlanda e ponendola a sé: nel quale levare gli mostrò sé essergli obligata per la presa ghirlanda; e però, a mio giudicio, più costui a cui tolse, che quello a cui donò amava».

 

 

[22]

 

Al quale la gentil donna rispose:

 

«Assai il tuo argomentare ci piacerebbe, se tu te stesso nel tuo parlare non dannassi. Guarda come perfetto amore insieme col rubare può concorrere: come mi potrai tu mai mostrarne che io ami quella persona la quale io rubo più che quella a cui io dono, con ciò sia cosa che tra più manifesti segni d'amare alcuna persona è il donare? E secondo la quistione proposta, ella all'uno donò la ghirlanda, all'altro la tolse, non le fu dall'altro donata: e quello che noi tutto giorno per essemplo veggiamo può qui per essemplo bastare, che si dice volgarmente coloro essere da' signori più amati i quali le grazie e' doni ricevono, che quelli che di quelli privati sono. E però noi ultimamente tegnamo, conchiudendo, che quegli sia più amato a cui è donato, che a cui è tolto. Ben conosciamo che alla presente questione molto contro alla nostra diffinizione si potrebbe opporre e alle opposte ragioni rispondere; ma ultimamente tale determinazione rimarrà vera. Ma però che il tempo non è da porre in una cosa sola, sanza più sopra questa parlare, gli altri ascolteremo, se vi piace».

 

A cui Filocolo disse che assai gli piacea, e che bene bastava tale soluzione alla sua domanda; e qui si tacque.

 

 

[23]

 

Sedea appresso Filocolo un giovane cortese e grazioso nello aspetto, il cui nome era Longanio, il quale, sì tosto come Filocolo tacque, così cominciò a dire:

 

«Eccellentissima reina, tanto è stata bella la prima questione, che la mia appena piacerà, ma non per tanto, per non essere fuori di sì nobile compagnia cacciato, io dirò la mia».

 

E così parlando seguì:

 

«E' non sono molti giorni passati, che io soletto in una camera dimorando, involto negli affannosi pensieri porti dagli amorosi disii, i quali con aspra battaglia il cuore assalito m'aveano, sentii un pietoso pianto, al quale, perché vicino a me la stimativa il giudicava, porsi intentivamente gli orecchi e conobbi che donne erano. Laond'io, per vedere chi fossero e dove, subito mi levai, e, rimirando per una finestra, vidi a fronte alla mia camera in un'altra dimorare due donne sanza più, le quali erano carnali sorelle, di bellezza ine stimabile ornate, le quali vidi che questo pianto solette facevano. Onde io in segreta parte dimorando, sanza essere da loro veduto, lungamente le riguardai; né però potei comprendere tutte le parole che per dolore con le lagrime fuori mandavano, se non che l'effetto di tale pianto, secondo quello che compresi, per amore mi parve. Per che io sì per la pietà di loro, sì per la pietà di sì dolce cagione, a piangere incominciai così nascoso. Ma dopo lungo spazio, perseverando queste pure nel loro dolore, con ciò fosse cosa che io fossi assai dimestico e parente di loro, proposi di volere più certa la cagione del loro pianto sapere, e ad esse andai. Le quali non prima mi videro, che vergognandosi ristrinsero le lagrime ingegnandosi d'onorarmi. A cui io dissi: "Giovani donne, per niente v'affannate di ristringere dentro il vostro dolore per la mia venuta, con ciò sia cosa che tutte le vostre lagrime mi sieno state, già è gran pezza, manifeste. Non vi bisogna di guardarvi da me né di celarmi per vergogna la cagione del vostro pianto, la quale io sono venuto qui per sapere, però che da me mal merito in niuno atto ne riceverete, ma aiuto e conforto quant'io potrò". Molto si scusarono le donne dicendo sé di niuna cosa dolersi; ma poi che pure scongiurandole mi videro disideroso di sapere quello, la maggiore di tempo così cominciò a parlare: "Piacere è degl'iddii che a te li nostri segreti si manifestino: e però sappi che noi, più che altre donne mai, fummo crude e aspre resistenti agli aguti dardi di Cupido, il quale, lunga stagione saettandoci, mai ne' nostri cuori alcuno ne poté ficcare. Ma egli ultimamente più infiammato, avendo proposto di vincere la sua puerile gara, aperse il giovane braccio, e con la più cara saetta, nel macerato per li molti colpi avanti ricevuti, ci ferì con sì gran forza, che i ferri passarono dentro e maggiore piaga fecero, che, se agli altri colpi fatta non avessimo resistenza, non avriano fatta: e per lo piacere di due nobilissimi giovani alla sua signoria divenimmo suggette, seguendo i suoi piaceri con più intera fede e con più fervente volere che mai altre donne facessero. Ora ci ha la fortuna e amore di quelli, come io ti dirò, sconsolate. Io, che prima che costei, amai, con ingegno maestrevolemente credendo il mio disio terminare, feci sì che io ebbi al mio piacere l'amato giovane, il quale io trovai altrettanto di me quanto io di lui essere innamorato. Ma certo già per tale effetto l'amorosa fiamma non mancò, né menomò il disio, ma ciascuno crebbe, e più che mai arsi e ardo: il quale fuoco, tenendo lui nelle braccia e tal volta vedendolo, come io poteva il meglio mitigava tenendolo dentro nascoso. Avvenne, non si rivide poi la luna tonda, che costui commise disavedutamente cosa, per la quale etterno essilio della presente città gli fu donato: ond'egli, dubitando la morte, di qui s'è partito, sanza speranza di ritornare. E io, sopra ogni altra femina, ardendo più che mai, sanza lui sono rimasa disperata, onde io mi dolgo; e quella cosa che più la mia doglia aumenta è che io da tutte parti mi veggo chiusa la via di poterlo seguire: pensa oramai se io ho di dolermi cagione". Dissi io allora: "E quest'altra perché si duole?". Quella rispose: "Questa similmente com'io innamorata d'un altro, e da lui similmente sanza fine amata, acciò che i suoi disii non passassero sanza parte d'alcun diletto, per gli amorosi sentieri più volte s'è ingegnata di volergli recare ad effetto, a' cui intendimenti gelosia ha sempre rotte le vie e occupate: per che mai a quelli non poté pervenire, né vede di potere, onde ella si consuma stretta da ferventissimo amore, come tu puoi pensare se mai amasti. Trovandoci noi, adunque, qui solette, de' nostri infortunii cominciammo a ragionare, e conoscendoli più che d'alcuna altra donna maggiori, non potemmo ritenere le lagrime, ma piangendo ci dolavamo, sì come tu potesti vedere". Assai mi dolfe di loro udendo questo, e con quelle parole che al loro conforto mi parvero utili le sovenni, e da loro mi partii. Ora mi s'è più volte per la mente rivolto il loro dolore, e alcuna volta ho fra me pensato qual doveva essere maggiore, e l'una volta consento quello dell'una, l'altra quello dell'altra: e le molte ragioni per le quali ciascuna mi pare che abbia da dolersi non mi lasciano fermare ad alcuna, onde io ne dimoro in dubbio. Piacciavi che per voi io di questa erranza esca, dicendomi quale maggiore doglia vi pare che sostenga».

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