Giovanni Boccaccio
Decameron
Edizione di riferimento:
Giovanni Boccaccio: Decameron,
a cura di Vittore
Branca, Utet, Torino 1956
COMINCIA IL LIBRO
CHIAMATO DECAMERON, COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO, NEL QUALE SI CONTENGONO
CENTO NOVELLE IN DIECI DÌ DETTE DA SETTE DONNE E DA TRE GIOVANI UOMINI.
Umana cosa è aver
compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è
massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol
trovato in alcuni; fra quali, se alcuno mai n'ebbe bisogno o gli fu caro o già
ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima
giovinezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d'altissimo e
nobile amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe,
narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla
cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi
fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna
amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito:
il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava un tempo stare,
più di noia che bisogno non m'era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia
tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d'alcuno amico le sue
laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere
avvenuto che io non sia morto.
Ma sì come a Colui
piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte
le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn'altro fervente e il quale
niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo
che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per sè medesimo in
processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sè nella mente m'ha al
presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si
mette né suoi più cupi pelaghi navigando; per che, dove faticoso esser solea,
ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso.
Ma quantunque cessata
sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de' benefici già ricevuti, datimi
da coloro a' quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie
fatiche: ne passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che la
gratitudine, secondo che io credo, trall'altre virtù è sommamente da commendare
e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di
volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora
che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono alli quali per
avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abbisogna, a quegli
almeno a' qual fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio
sostenta mento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a' bisognosi
assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno
apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e si ancora perché più vi fia
caro avuto.
E chi negherà questo,
quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini
convenirsi donare? Esse dentro a' dilicati petti, temendo e vergognando,
tengono l'amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le
palesi coloro il sanno che l'hanno provate: e oltre a ciò, ristrette dà voleri,
dà piaceri, dà comandamenti de' padri, delle madri, de' fratelli e de' mariti,
il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e
quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco
rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri.
E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopravviene nelle lor
menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi
ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini
a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo
apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli
affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a
loro, volendo essi, non manca l'andare a torno, udire e veder molte cose,
uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de' quali modi
ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l'animo a sè e dal noioso
pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con
un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore.
Adunque, acciò che in
parte per me s'ammendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di
forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di
sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all'altre è
assai l'ago e 'l fuso e l'arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o
favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da
una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo
della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate
al lor diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d'amore e altri
fortunati avvenimenti si vederanno così né moderni tempi avvenuti come negli antichi;
delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle
sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in
quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da
seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano
intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia; a Amore ne
rendano grazie, il quale liberandomi dà suoi legami m'ha conceduto il potere
attendere a' lor piaceri.
Comincia la Giornata
prima del Decameron, nella quale dopo la dimostrazione fatta dall'autore, per
che cagione avvenisse di doversi quelle persone, che appresso si mostrano,
ragunare a ragionare insieme, sotto il reggimento di Pampinea si ragiona di
quello che più aggrada a ciascheduno.
GIORNATA PRIMA
INTRODUZIONE
Quantunque volte,
graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente: tutte
siete pietose, tante conosco che la presente opera al vostro iudicio avrà grave
e noioso principio, sì come è la dolorosa ricordazione della pestifera
mortalità trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti
conobbe dannosa, la quale essa porta nella fronte. Ma non voglio per ciò che
questo di più avanti leggere vi spaventi, quasi sempre sospiri e tralle lagrime
leggendo dobbiate trapassare. Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti
che a' camminanti una montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo
piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto più viene lor piacevole quanto maggiore
è stata del salire e dello smontare la gravezza. E sì come la estremità della
allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravegnente letizia sono
terminate. A questa brieve noia (dico brieve in quanto poche lettere si
contiene) seguita prestamente la dolcezza e il piacere quale io v'ho davanti
promesso e che forse non sarebbe da così fatto inizio, se non si dicesse,
aspettato. E nel vero, se io potuto avessi onestamente per altra parte menarvi
a quello che io desidero che per così aspro sentiero come fia questo, io
l'avrei volentier fatto: ma ciò che, qual fosse la cagione per che le cose che
appresso si leggeranno avvenissero, non si poteva senza questa ramemorazion
dimostrare, quasi da necessità constretto a scriverle mi conduco.
Dico adunque che già
erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero
pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza,
oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la
quale, per operazion de' corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta
ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti
nelle parti orientali incominciata, quelle d'inumerabile quantità de' viventi
avendo private, senza ristare d'un luogo in uno altro continuandosi, verso
l'Occidente miserabilmente s'era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno
né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da
oficiali sopra ciò ordinati e vietato l'entrarvi dentro a ciascuno infermo e
molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni
non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte
dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell'anno predetto orribilmente
cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non
come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era
manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d'essa a'
maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe
enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno
uovo, e alcune più e alcun'altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli.
E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto
gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a
venire: e da questo appresso s'incominciò la qualità della predetta infermità a
permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in
ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui
minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era
certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna
pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol
patisse o che la ignoranza de' medicanti (de' quali, oltre al numero degli
scienziati, così di femine come d'uomini senza avere alcuna dottrina di
medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da
che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non
solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra 'l terzo giorno dalla
apparizione de' sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza
alcuna febbre o altro accidente, morivano.
E fu questa pestilenza
di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare
insieme s'avventava a' sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose
secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di
male: ché non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani
infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque
altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale
infermità nel toccator transportare.
Maravigliosa cosa è da
udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei non
fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo,
quantunque da fededegna udito l'avessi. Dico che di tanta efficacia fu la
qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non
solamente l'uomo all'uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente
fece, cioè che la cosa dell'uomo infermo stato, o morto di tale infermità,
tocca da un altro animale fuori della spezie dell'uomo, non solamente della
infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che
gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l'altre volte un dì
così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d'un povero uomo da tale
infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e
quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e
scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento,
come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti
caddero in terra. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o
maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi,
e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele era di schifare e di fuggire
gl'infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute
acquistare.
E erano alcuni, li quali
avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse
molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati
viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo
fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente
usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di
fuori di morte o d'infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri
che aver poteano si dimovano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano
il bere assai e il godere e l'andar cantando attorno e sollazzando e il
sodisfare d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi
e beffarsi esser medicina certissima a tanto male; e così come il dicevano
mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora
a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per
l'altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a
grado o in piacere. E ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi
non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abbandono; di
che le più delle case erano divenute comuni, e così l'usava lo straniere, pure
che ad esse s'avvenisse, come l'avrebbe il proprio signore usate; e con tutto
questo proponimento bestiale sempre gl'infermi fuggivano a lor potere.
E in tanta afflizione e
miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine
come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori di
quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì
di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa
era a ciascun licito quanto a grado gli era d'adoperare. Molti altri servavano,
tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi nelle vivande
quanto i primi né nel bere e nell'altre dissoluzioni allargandosi quanto i
secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza
rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe
odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso,
estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò
fosse cosa che l'aere tutto paresse dal puzzo de' morti corpi e delle infermità
e delle medicine compreso e puzzolente.
Alcuni erano di più
crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra
medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir
loro davanti; e da questo argomento mossi, non curando d'alcuna cosa se non di
sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor
luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l'altrui o almeno il lor
contado, quasi l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella
pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li
quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse; o
quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora
esser venuta. E come che questi così variamente oppinanti non morissero tutti,
non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni
luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani
rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l'uno
cittadino l'altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell'altro cura e i
parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì
fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne,
che l'un fratello l'altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il
fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi
non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di
visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de' quali era la
moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro
sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o
l'avarizia de' serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti
servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti
erano uomini o femine di grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li
qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl'infermi
addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in tal servigio, se
molte volte col guadagno perdeano.
E da questo essere
abbandonati gli infermi da' vicini, da' parenti e dagli amici e avere scarsità
di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna,
quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava
d'avere a' suoi servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna
vergogna ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una femina avrebbe
fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che, in
quelle che ne guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette,
cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se
stati fossero atati, campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli
opportuni servigi, li quali gl'infermi aver non poteano, e per la forza della
pestilenza, era tanta nella città la moltitudine che di dì e di notte morieno,
che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di
necessità, cose contrarie a' primi costumi de' cittadini nacquero tra quali
rimanean vivi. Era usanza (sì come ancora oggi veggiamo usare) che le donne parenti
e vicine nella casa del morto si ragunavano e quivi con quelle che più gli
appartenevano piagnevano; e d'altra parte dinanzi alla casa del morto co' suoi
prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la
qualità del morto vi veniva il chericato; ed egli sopra gli omeri de' suoi
pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta
anzi la morte n'era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la
ferocità della pestilenza tutto o in maggior parte quasi cessarono e altre
nuove in lor luogo ne sopravennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte
donne da torno morivan le genti, ma assai n'erano di quelli che di questa vita
senza testimonio trapassavano; e pochissimi erano coloro a' quali i pietosi
pianti e l'amare lagrime de' suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di
quelle s'usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale
usanza le donne, in gran parte proposta la donnesca pietà per la salute di
loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro, i corpi de' quali
fosser più che da un diece o dodici de' suoi vicini alla chiesa acompagnati; li
quali non gli orrevoli e cari cittadini sopra gli omeri portavano, ma una
maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente, che chiamar si facevan
becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara; e
quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte
disposto ma alla più vicina le più volte il portavano, dietro a quattro o a sei
cherici con poco lume e tal fiata senza alcuno; li quali con l'aiuto de' detti
becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque
sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano.
Della minuta gente, e
forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior
miseria pieno; per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti
nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno
infermavano; e non essendo né serviti né atati d'alcuna cosa, quasi senza
alcuna redenzione, tutti morivano. E assai n'erano che nella strada pubblica o
di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col
puzzo de lor corpi corrotti che altramenti facevano a' vicini sentire sé esser morti;
e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno. Era il più da'
vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione
de' morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a' trapassati.
Essi, e per sé medesimi e con l'aiuto d'alcuni portatori, quando aver ne
potevano, traevano dalle lor case li corpi de' già passati, e quegli davanti
alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n'avrebbe potuti veder
senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, (e tali
furono, che, per difetto di quelle, sopra alcuna tavole) ne portavano. Né fu
una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una
volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e 'l
marito, di due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne
contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per
alcuno, si misero tre o quatro bare, dà portatori portate, di dietro a quella:
e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n'avevano sei o otto e
tal fiata più. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia
onorati; anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli
uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre; per che assai
manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea
potuto con piccoli e radi danni a' savi mostrare doversi con pazienza passare,
la grandezza de' mali eziandio i semplici far di ciò scorti e non curanti.
Alla gran moltitudine
de' corpi mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn'ora concorreva
portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo
dare a ciascun luogo proprio secondo l'antico costume, si facevano per gli
cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle
quali a centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si
mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno
infino a tanto che la fossa al sommo si pervenia.
E acciò che dietro a
ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più
ricercando non vada, dico che, così inimico tempo correndo per quella, non per
ciò meno d' alcuna cosa risparmiò il circustante contado, nel quale, (lasciando
star le castella, che erano nella loro piccolezza alla città) per le sparte
ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza
alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e
per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come
bestie morieno. Per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini
divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel
giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d'aiutare
i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di
consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per
che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani
medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li
campi (dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte
ma pur segate) come meglio piaceva loro se n'andavano. E molti, quasi come
razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza
alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli.
Che più si può dire
(lasciando stare il contado e alla città ritornando) se non che tanta e tal fu
la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra 'l marzo
e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per
l'esser molti infermi mal serviti o abbandonati né lor bisogni per la paura
ch'aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro
alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi
l'accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? 0
quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di
famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! O
quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze
si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle
donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o
Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti,
compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron
con li lor passati!
A me medesimo incresce
andarmi tanto tra tante miserie ravolgendol: per che, volendo omai lasciare
star quella parte di quelle che io acconciamente posso schifare, dico che,
stando in questi termini la nostra città, d'abitatori quasi vota, addivenne, sì
come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di
Santa Maria Novella, un martedì mattina, non essendovi quasi alcuna altra
persona, uditi li divini ufici in abito lugubre quale a sì fatta stagione si
richiedea, si ritrovaro no sette giovani donne tutte l'una all'altra o per
amistà o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il venti e
ottesimo anno passato avea né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue
nobile e bella di forma e ornata di costumi e di leggiadra onestà. Li nomi
delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi
togliesse, la quale è questa: che io non voglio che per le raccontate cose da
loro, che seguono, e per l'ascoltare nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender
vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere che allora, per
le cagioni di sopra mostrate, erano non che alla loro età ma a troppo più
matura larghissime; né ancora dar materia agl'invidiosi, presti a mordere ogni
laudevole vita, di diminuire in niuno atto l'onestà delle valorose donne con
isconci parlari. E però, acciò che quello che ciascuna dicesse senza confusione
si possa comprendere appresso, per nomi alle qualità di ciascuna convenienti o
in tutto o in parte intendo di nominarle: delle quali la prima, e quella che di
più età era, Pampinea chiameremo e al seconda Fiammetta, Filomena la terza e la
quarta Emilia, e appresso Lauretta diremo alla quinta e alla sesta Neifile, e
l'ultima Elissa non senza cagion nomeremo.
Le quali, non già da
alcuno proponimento tirate ma per caso in una delle parti della chiesa
adunatesi, quasi in cerchio a seder postesi, dopo più sospiri lasciato stare il
dir de' paternostri, seco delle qualità del tempo molte e varie cose
cominciarono a ragionare.
E dopo alcuno spazio,
tacendo l'altre, così Pampinea cominciò a parlare: – Donne mie care, voi
potete, così come io, molte volte avere udito che a niuna persona fa ingiuria
chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione è, di ciascuno che ci
nasce, la sua vita quanto può aiutare e conservare e difendere: e concedesi
questo tanto, che alcuna volta è già addivenuto che, per guardar quella, senza
colpa alcuna si sono uccisi degli uomini. E se questo concedono le leggi, nelle
sollecitudini delle quali è il ben vivere d'ogni mortale, quanto maggiormente,
senza offesa d'alcuno, è a noi e a qualunque altro onesto alla conservazione
della nostra vita prendere quegli rimedii che noi possiamo? Ognora che io vengo
ben raguardando alli nostri modi di questa mattina e ancora di più a quegli di
più altre passate e pensando chenti e quali li nostri ragionamenti sieno, io
comprendo, e voi similemente il potete prendere, ciascuna di noi di se medesima
dubitare: né di ciò mi maraviglio niente, ma maravigliomi forte, avvedendomi
ciascuna di noi aver sentimento di donna, non prendersi per voi a quello di che
ciascuna di voi meritamente teme alcun compenso. Noi dimoriamo qui, al parer
mio, non altramente che se essere volessimo o dovessimo testimonie di quanti
corpi morti ci sieno alla sepoltura recati o d'ascoltare se i frati di qua
entro, de' quali il numero è quasi venuto al niente, alle debite ore cantino i
loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci apparisce, né nostri abiti, la
qualità e la quantità delle nostre miserie. E, se di quinci usciamo, o veggiamo
corpi morti o infermi trasportarsi dattorno, o veggiamo coloro li quali per li
loro difetti l'autorità delle publiche leggi già condannò ad essilio, quasi
quelle schernendo, per ciò che sentono gli essecutori di quelle o morti o
malati, con dispiacevoli impeti per la terra discorrere, o la feccia della
nostra città, del nostro sangue riscaldata, chiamarsi becchini e in strazio di
noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni
rimproverandoci i nostri danni. Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: – I
cotali son morti –, e – Gli altrettali sono per morire –; e, se ci fosse chi
fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo.
E, se alle nostre case
torniamo, non so se a voi così come a me adiviene: io, di molta famiglia, niuna
altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e quasi tutti
i capelli addosso mi sento arricciare; e parmi, dovunque io vado o dimoro per
quella, l'ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che
io soleva, ma con una vista orribile, non so donde il loro nuovamente venuta,
spaventarmi.
Per le quali cose, e qui
e fuori di qui e in casa mi sembra star male; e tanto più ancora quanto egli mi
pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso e dove possa andare, come
noi abbiamo, ci sia rimasa altri che noi. E ho sentito e veduto più volte, (se
pure alcuni ce ne sono) quegli cotali, senza fare distinzione alcuna dalle cose
oneste a quelle che oneste non sono, solo che l'appetito le cheggia, e soli e accompagnati,
e di dì e di notte, quelle fare che più di diletto lor porgono. E non che le
solite persone, ma ancora le racchiuse ne' monisteri, faccendosi a credere che
quello a lor si convenga e non si disdica che all'altre, rotte della obedienza
le leggi, datesi a' diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son
divenute lascive e dissolute.
E se così è (che essere
manifestamente si vede) che faccian noi qui? che attendiamo? che sognamo?
perché più pigre e lente alla nostra salute, che tutto il rimanente de'
cittadini, siamo? reputianci noi men care che tutte l'altre? o crediam la
nostra vita con più forti catene esser legata al nostro corpo che quella degli
altri sia, e così di niuna cosa curar dobbiamo, la quale abbia forza
d'offenderla? Noi erriamo, noi siamo ingannate; che bestialità è la nostra se
così crediamo; quante volte noi ci vorrem ricordare chenti e quali sieno stati
i giovani e le donne vinte da questa crudel pestilenza, noi ne vedremo
apertissimo argomento.
E perciò, acciò che noi
per ischifaltà o per traccuttaggine non cadessimo in quello, di che noi per
avventura per alcuna maniera, volendo, potremmo scampare (non so se a voi
quello se ne parrà che a me ne parrebbe), io giudicherei ottimamente fatto che
noi, sì come noi siamo, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di
questa terra uscissimo; e, fuggendo come la morte i disonesti essempli degli
altri, onestamente a' nostri luoghi in contado, de' quali a ciascuna di noi è
gran copia, ce ne andassimo a stare; e quivi quella festa, quella allegrezza,
quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno
della ragione, prendessimo. Quivi s'odono gli uccelletti cantare, veggionvisi
verdeggiare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare
che il mare, e d'alberi ben mille maniere, e il cielo più apertamente, il
quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega,
le quali molto più belle sono a riguardare che le mura vote della nostra città.
Ed evvi oltre a questo l'aere assai più fresco, e di quelle cose che alla vita
bisognano in questi tempi v'è la copia maggiore, e minore il numero delle noie.
Per ciò che, quantunque quivi così muoiano i lavoratori come qui fanno i
cittadini, v'è tanto minore il dispiacere quanto vi sono, più che nella città,
rade le case e gli abitanti. E qui d'altra parte, se io ben veggio, noi non
abbandoniam persona, anzi ne possiamo con verità dire molto più tosto
abbandonate; per ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non
fossimo loro, sole in tanta afflizione n'hanno lasciate.
Niuna riprensione
adunque può cadere in cotal consiglio seguire; dolore e noia e forse morte, non
seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia, prendendo le nostre
fanti e con le cose oportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo e
domane in quello quella alle grezza e festa prendendo che questo tempo può
porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa,
che noi veggiamo (se prima da morte non siam sopragiunte) che fine il cielo
riserbi a queste cose. E ricordivi che egli non si disdice più a noi l'onesta
mente andare, che faccia a gran parte dell'altre lo star disonestamente.
L'altre donne, udita
Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo
avevan già più particularmente tra sé cominciato a trattar del modo, quasi,
quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino. Ma
Filomena, la quale discretissima era, disse: – Donne, quantunque ciò che ragiona
Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò così da correre a farlo, come
mostra che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce
n'ha niuna sì fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sien
ragionate insieme e senza la provedenza d'alcuno uomo si sappiano regolare. Noi
siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose; per le quali cose io
dubito forte, se noi alcuna altra guida non prendiamo che la nostra, che questa
compagnia non si dissolva troppo più tosto, e con meno onor di noi, che non ci
bisognerebbe; e per ciò è buono a provederci avanti che cominciamo.
Disse allora Elissa:
– Veramente gli uomini
sono delle femine capo e senza l'ordine loro rare volte riesce alcuna nostra
opera a laudevole fine; ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi
sa che de' suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono,
chi qua e chi là in diverse brigate, senza saper noi dove, vanno fuggendo
quello che noi cerchiamo di fuggire; e il prender gli strani non saria
convenevole; per che, se alla nostra salute, vogliamo andar dietro, trovare si
convien modo di sì fattamente ordinarci che, dove per diletto e per riposo
andiamo, noia e scandalo non ne segua.
Mentre tralle donne
erano così fatti ragionamenti, e ecco entrar nella chiesa tre giovani non per
ciò tanto che meno di venticinque anni fosse l'età di colui che più giovane era
di loro; ne quali né perversità di tempo né perdita d'amici o di parenti né
paura di se medesimi avea potuto amor, non che spegnere, ma raffreddare. De'
quali, l'uno era chiamato Panfilo, e Filostrato il secondo, e l'ultimo Dioneo,
assai piacevole e costumato ciascuno; e andavano cercando per loro somma
consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le loro donne, le quali
per ventura tutte e tre erano tra le predette sette, come che dell'altre alcune
ne fossero congiunte parenti d'alcuni di loro. Né prima esse agli occhi corsero
di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea allor cominciò
sorridendo:
– Ecco che la fortuna a'
nostri cominciamenti è favorevole, e hacci davanti posti discreti giovani e
valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno, se di prendergli a
questo uficio non schiferemo. Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna
vermiglia, per ciò che l'una era di quelle che dall'un de giovani era amata,
disse:
– Pampinea, per Dio,
guarda ciò che tu dichi; io conosco assai apertamente niuna altra cosa che
tutta buona dir potersi di qualunque s'è l'uno di costoro, e credogli a troppo
maggior cosa che questa non è sofficienti; e similmente avviso loro buona
compagnia e onesta dover tenere non che a noi, ma a molto più belle e più care
che noi non siamo. Ma, per ciò che assai manifesta cosa è loro essere d'alcune
che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa
o di loro, non ce ne segua se gli meniamo.
Disse allora Filomena:
– Questo non monta
niente: là dove io onestamente viva né mi rimorda d'alcuna cosa la coscienza,
parli chi vuole in contrario; Iddio e la verità l'arme per me prenderanno. Ora,
fossero essi pur già disposti a venire, ché veramente, come Pampinea disse,
potremmo dire la fortuna essere alla nostra andata favoreggiante.
L'altre, udendo costei
così fattamente parlare, non solamente si tacquero ma con consentimento
concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro
intenzione e pregassersi che dovesse loro piacere in così fatta andata lor
tener compagnia. Per che senza più parole Pampinea, levatasi in piè, la quale a
alcun di loro per consanguinità era congiunta, verso loro, che fermi stavano a
riguardarle, si fece e, con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione
fe' manifesta, e pregogli per parte di tutte che con puro e fratellevole animo
a tener loro compagnia si dovessero disporre. I giovani si credettero
primieramente essere beffati; ma, poi che videro che da dovero parlava la
donna, rispuosero lietamente sé essere apparecchiati; e senza dare alcuno
indugio all'opera, anzi che quindi si partissono, diedono ordine a ciò che a
fare avessono in sul partire. E ordinatamente fatta ogni cosa opportuna
apparecchiare, e prima mandato là dove intendevan d'andare, la seguente
mattina, cioè il mercoledì, in su lo schiarir del giorno, le donne con alquante
delle lor fanti e i tre giovani con tre lor famigliari, usciti della città, si
misero in via; né oltre a due piccole miglia si dilungarono da essa, che essi
pervennero al luogo da loro primieramente ordinato. Era il detto luogo sopra
una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di
varii albuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare;
in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e
con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di
liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini
maravigliosi e con pozzi d'acque freschissime e con volte piene di preziosi
vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne. Il quale
tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, e ogni cosa di fiori, quali nella
stagione si potevano avere, piena e di giunchi giuncata, la vegnente brigata
trovò con suo non poco piacere.
E postisi nella prirna
giunta a sedere, disse Dioneo, il quale oltre a ogni altro era piacevole
giovane e pieno di motti: – Donne, il vostro senno, più che il nostro
avvedimento ci ha qui guidati. Io non so quello che de' vostri pensieri voi
v'intendete di fare; li miei lasciai io dentro dalla porta della città allora
che io con voi poco fa me ne uscì fuori; e per ciò, o voi a sollazzare e a
ridere e a cantare con meco insieme vi disponete (tanto, dico, quanto alla
vostra dignità s'appartiene), o voi mi licenziate che io per li miei pensieri
mi ritorni e steami nella città tribolata. A cui Pampinea, non d'altra maniera
che se similmente tutti i suoi avesse da sé cacciati, lieta rispose:
– Dioneo, ottimamente
parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha fatto
fuggire. Ma, per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente
durare, io, che cominciatrice fui de' ragionamenti da' quali questa così bella
compagnia è stata fatta pensando al continuare della nostra letizia, estimo che
di necessità sia convenire esser tra noi alcuno principale, il quale noi e
onoriamo e ubbidiamo come maggiore, nel quale ogni pensiero stea di doverci a
lietamente viver disporre. E acciò che ciascun pruovi il peso della
sollecitudine insieme col piacere della maggioranza, e per conseguente, d'una
parte e d'altra tratto, non possa, chi nol pruova, invidia avere alcuna, dico
che a ciascun per un giorno s'attribuisca e 'l peso e l'onore; e chi il primo
di noi esser debba nella elezion di noi tutti sia; di quelli che seguiranno,
come l'ora del vespro s'avvicinerà, quegli o quella che a colui o a colei
piacerà, che quel giorno avrà avuta la signoria; e questo cotale, secondo il
suo arbitrio, del tempo che la sua signoria dee bastare, del luogo e del modo
nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga.
Queste parole sommamente
piacquero e ad una voce lei per reina del primo giorno elessero; e Filomena,
corsa prestamente ad uno alloro, per ciò che assai volte aveva udito ragionare
di quanto onore le frondi di quello eran degne e quanto degno d'onore facevano
chi n'era meritamente incoronato, di quello alcuni rami colti, ne le fece una
ghirlanda onorevole e apparente, la quale messale sopra la testa, fu poi mentre
durò la lor compagnia manifesto segno a ciascuno altro della real signoria e
maggioranza.
Pampinea, fatta reina,
comandò che ogni uom tacesse, avendo già fatti i famigliari de' tre giovani e
le loro fanti, che eran quattro, davanti chiamarsi, e tacendo ciascun, disse:
– Acciò che io prima
essemplo dea a tutte voi, per lo quale, di bene in meglio procedendo, la nostra
compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a
grado ne fia, io primieramente costituisco Parmeno, famigliar di Dioneo, mio
siniscalco, e a lui la cura e la sollecitudine di tutta la nostra famiglia
commetto e ciò che al servigio della sala appartiene. Sirisco, famigliar di
Panfilo, voglio che di noi sia spenditore e tesoriere e di Parmeno seguiti i
comandamenti. Tindaro al servigio di Filostrato e degli altri due attenda nelle
camere loro, qualora gli altri, intorno a' loro ufici impediti, attendere non
vi potessero. Misia mia fante, e Licisca, di Filomena, nella cucina saranno
continue e quelle vivande diligentemente apparecchieranno che per Parmeno loro
saranno imposte. Chimera, di Lauretta, e Stratilia, di Fiammetta, al governo
delle camere delle donne intente vogliamo che stieno e alla nettezza de' luoghi
dove staremo; e ciascuno generalmente, per quanto egli avrà cara la nostra
grazia, vogliamo e comandiamo che si guardi, dove che egli vada, onde che egli
torni, che egli oda o vegga, niuna novella, altro che lieta, ci rechi di fuori.
E questi ordini
sommariamente dati, li quali da tutti commendati furono, lieta drizzata in piè
disse:
– Qui sono giardini, qui
sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai, per li quali ciascuno a suo
piacer sollazzando si vada, e come terza suona, ciascun qui sia, acciò che per
lo fresco si mangi.
Licenziata adunque dalla
nuova reina la lieta brigata, li giovani insieme colle belle donne, ragionando
dilettevoli cose, con lento passo si misono per uno giardino, belle ghirlande
di varie frondi faccendosi e amorosamente cantando.
E poi che in quello
tanto fur dimorati quanto di spazio dalla reina avuto aveano, a casa tornati,
trovarono Parmeno studiosamente aver dato principio al suo uficio, per ciò che,
entrati in sala terrena, quivi le tavole messe videro con tovaglie bianchissime
e con bicchieri che d'ariento parevano, e ogni cosa di fiori di ginestra
coperta; per che, data l'acqua alle mani, come piacque alla reina, secondo il
giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere.
Le vivande dilicatamente
fatte vennero e finissimi vini fur presti; e senza più chetamente li tre
famigliari servirono le tavole. Dalle quali cose, per ciò che belle e ordinate
erano rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono. E levate
le tavole (con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente
i giovani e parte di loro ottima mente e sonare e cantare), comandò la reina
che gli strumenti venissero; e per comandamento di lei Dioneo preso un liuto e
la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare. Per che la
reina coll'altre donne, insieme co' due giovani presa una carola, con lento
passo, mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono; e quella
finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare. E in questa maniera
stettero tanto che tempo parve alla reina d'andare a dormire: per che, data a
tutti la licenzia, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne
separate, se n'andarono, le quali co' letti ben fatti e così di fiori piene
come la sala trovarono, e simigliantemente le donne le loro; per che,
spogliatesi, s'andarono a riposare.
Non era di molto spazio
sonata nona, che la reina, le vatasi, tutte l'altre fece levare, e similmente i
giovani, affermando esser nocivo il troppo dormire di giorno; e così se
n'andarono in uno pratello, nel quale l'erba era verde e grande né vi poteva
d'alcuna parte il sole; e quivi sentendo un soave venticello venire, sì come
volle la lor reina, tutti sopra la verde erba si puosero in cerchio a sedere,
a' quali ella disse così:
– Come voi vedete, il
sole è alto e il caldo è grande, né altro s'ode che le cicale su per gli ulivi;
per che l'andare al presente in alcun luogo sarebbe senza dubbio sciocchezza.
Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri,
e puote ciascuno, secondo che all'animo gli è più di piacere, diletto pigliare.
Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l'animo
dell'una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell'altra o di
chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la
compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo. Voi
non avrete compiuta ciascuno di dire una sua novelletta, che il sole fia
declinato e il caldo mancato, e potremo dove più a grado vi fia andare
prendendo diletto; e per ciò, quando questo che io dico vi piaccia (ché
disposta sono in ciò di seguire il piacer vostro), faccianlo; e dove non vi
piacesse, ciascuno infino all'ora del vespro quello faccia che più gli piace.
Le donne parimente e gli uomini tutti lodarono il novellare. – Adunque, disse
la reina, se questo vi piace, per questa Giornata prima voglio che libero sia a
ciascuno di quella materia ragionare che più gli sarà a grado. E rivolta a
Panfilo, il quale alla sua destra sedea, piacevolmente gli disse che con una
delle sue novelle all'altre desse principio. Laonde Panfilo, udito il
comandamento, prestamente, essendo da tutti ascoltato, cominciò così.
NOVELLA PRIMA
Ser Cepperello con una
falsa confessione inganna uno santo frate, e muorsi; ed essendo stato un
pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.
Convenevole cosa è,
carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l'uomo fa, dallo ammirabile e
santo nome di Colui il quale di tutte fu facitore le dea principio. Per che,
dovendo io al nostro novellare, sì come primo, dare cominciamento, intendo da
una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la
nostra speranza in lui, sì come in cosa impermutabile, si fermi e sempre sia da
noi il suo nome lodato. Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte
sono transitorie e mortali, così in sé e fuor di sé essere piene di noia e
d'angoscia e di fatica e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali senza
niuno fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte
d'esse, durare né ripararci, se spezial grazia di Dio forza e avvedimento non
ci prestasse. La quale a noi e in noi non è da credere che per alcuno nostro
merito discenda, ma dalla sua propia benignità mossa e da prieghi di coloro
impetrata che, sì come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri mentre
furono in vita seguendo, ora con lui etterni sono divenuti e beati; alli quali
noi medesimi, sì come a procuratori informati per esperienza della nostra
fragilità, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di tanto
giudice, delle cose le quali a noi reputiamo opportune gli porgiamo. E ancora
più in questo lui verso noi di pietosa liberalità pieno discerniamo, che, non
potendo l'acume dell'occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare
in alcun modo, avvien forse tal volta che, da oppinione ingannati, tale dinanzi
alla sua maestà facciamo procuratore, che da quella con etterno essilio è
scacciato; e nondimeno esso, al quale niuna cosa è occulta, più alla purità del
pregator riguardando che alla sua ignoranza o allo essilio del pregato, così
come se quegli fosse nel suo conspetto beato, esaudisce coloro che 'l priegano.
Il che manifestamente potrà apparire nella novellala quale di raccontare
intendo; manifestamente dico, non il giudicio di Dio, ma quel degli uomini
seguitando. Ragionasi adunque che essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e
gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con
messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio
addomandato e al venir promosso, sentendo egli gli fatti suoi, sì come le più
volte son quegli de' mercatanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi
di leggiere né subitamente stralciare, pensò quegli commettere a più persone; e
a tutti trovò modo; fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse
sofficiente a riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni.
E la cagion del dubbio
era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali; e
a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli
potesse alcuna fidanza avere che opporre alla loro malvagità si potesse.
E sopra questa
essaminazione pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepperello
da Prato, il qual molto alla sua casa in Parigi si riparava. Il quale, per ciò
che piccolo di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li franceschi
che si volesse dire Cepperello, credendo che cappello, cioè ghirlanda, secondo
il loro volgare, a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non
Ciappello, ma Ciappelletto il chiamavano; e per Ciappelletto era conosciuto per
tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno.
Era questo Ciappelletto
di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de'
suoi strumenti (come che pochi ne facesse) fosse altro che falso trovato; de'
quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richiesto, e quelli più
volentieri in dono che alcun altro grandemente salariato. Testimonianze false
con sommo diletto diceva, richiesto e non richiesto; e dandosi a que' tempi in
Francia a' saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante
quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua
fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere
tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de'
quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d'allegrezza prendea.
Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai,
volenterosamente v'andava; e più volte a fedire e ad uccidere uomini colle
propie mani si trovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de' santi era
grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era
iracundo. A chiesa non usava giammai; e i sacramenti di quella tutti, come vil
cosa, con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli
altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli.
Delle femine era così
vago come sono i cani de' bastoni; del contrario più che alcun altro tristo
uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella conscienzia che un
santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitore grande, tanto che alcuna volta
sconciamente gli facea noia. Giuocatore e mettitor di malvagi dadi era solenne.
Perché mi distendo io in tante parole? Egli era il piggiore uomo forse che mai
nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer
Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai
sovente faceva ingiuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato.
Venuto adunque questo
ser Cepperello nell'animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita
cono sceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere essere tale quale
la malvagità de' borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, gli
disse così:
– Ser Ciappelletto, come
tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui, e avendo tra gli altri a fare
co' borgognoni, uomini pieni d'inganni, non so cui io mi possa lasciare a
riscuotere il mio da loro più convenevole di te; e perciò, con ciò sia cosa che
tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti
avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai
che convenevole sia.
Ser Ciappelletto, che
scioperato si vedea e male agitato delle cose del mondo e lui ne vedeva andare
che suo sostegno e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da
necessità costretto si diliberò, e disse che volea volentieri.
Per che, convenutisi
insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re,
partitosi messer Musciatto, n'andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea; e
quivi, fuor di sua natura, benignamente e mansuetamente cominciò a voler
riscuotere e fare quello per che andato v'era, quasi si riserbasse l'adirarsi
al da sezzo.
E così faccendo,
riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura
prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli
infermò; al quale i due fratelli fecero prestamente venire medici e fanti che
il servissero e ogni cosa opportuna alla sua santà racquistare.
Ma ogni aiuto era nullo,
per ciò che 'l buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto,
secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio,
come colui ch'aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan
forte.
E un giorno, assai
vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi
cominciarono a ragionare:
– Che farem noi – diceva
l'uno all'altro – di costui? Noi abbiamo dei fatti suoi pessimo partito alle
mani, per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran
biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l'avessimo
ricevuto prima, e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora,
senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacere ci debba, così
subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo mandar fuori. D'altra
parte, egli è stato sì malvagio uomo che egli non si vorrà confessare né
prendere alcuno sacramento della Chiesa; e, morendo senza confessione, niuna
chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a' fossi a guisa d'un
cane. E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili che il
simigliante n'avverrà, per ciò che frate né prete ci sarà che 'l voglia né
possa assolvere; per che, non assoluto, anche sarà gittato a' fossi. E se
questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro,
il quale loro pare iniquissimo e tutto 'l giorno ne dicon male, e sì per la
volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò, si leverà a romore e griderrà: –
Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si
vogliono più sostenere –; e correrannoci alle case e per avventura non
solamente l'avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone; di
che noi in ogni guisa stiam male, se costui muore.
Ser Ciappelletto, il
quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragionavano, avendo
l'udire sottile, sì come le più volte veggiamo avere gl'infermi, udì ciò che
costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro:
– Io non voglio che voi
di niuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno.
Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così
n'avverrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate; ma ella
andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio che, per
farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà. E per ciò
procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più che aver potete,
se alcun ce n'è, e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti
vostri e i miei in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti. I due
fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se
n'andarono ad una religione di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo
che udisse la confessione d'un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor
dato un frate antico di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura e
molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e spezial
divozione aveano, e lui menarono.
Il quale, giunto nella
camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima
benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò quanto tempo era
che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser Ciappelletto, che mai
confessato non s'era, rispose:
– Padre mio, la mia
usanza suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta, senza che
assai sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che poi ch'io infermai,
che son presso a otto dì, io non mi confessai, tanta è stata la noia che la
infermità m'ha data.
Disse allora il frate:
– Figliuol mio, bene hai
fatto, e così si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì spesso ti
confessi, poca fatica avrò d'udire o di domandare.
Disse ser Ciappelletto:
– Messer lo frate, non
dite così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non
mi volessi confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi ricordassi
dal dì ch'i' nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi
priego, padre mio buono, che così puntualmente d'ogni cosa mi domandiate come
se mai confessato non mi fossi. E non mi riguardate perch'io infermo sia, ché
io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro,
io facessi cosa che potesse essere perdizione della anima mia, la quale il mio
Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue. Queste parole piacquero molto al
santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente; e poi che a ser
Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare
se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse. Al qual ser
Ciappelletto sospirando rispose:
– Padre mio, di questa
parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria.
Al quale il santo frate
disse:
– Dì sicuramente, ché il
ver dicendo né in confessione né in altro atto si pecco' giammai.
Disse allora ser Ciappelletto:
– Poiché voi di questo
mi fate sicuro, e io il vi dirò: io son così vergine come io uscì del corpo
della mamma mia.
– Oh benedetto sia tu da
Dio! – disse il frate – come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più
meritato, quanto, volendo, avevi più d'arbitrio di fare il contrario che non
abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola sono costretti.
E appresso questo il
domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto; al quale, sospirando
forte, ser Ciappelletto rispose del sì, e molte volte; perciò che con ciò fosse
cosa che egli, oltre a' digiuni delle quaresime che nell'anno si fanno dalle
divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e
in acqua, con quello diletto e con quello appetito l'acqua bevuta avea, e
spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in
pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva
disiderato d'avere cotali insalatuzze d'erbucce, come le donne fanno quando
vanno in villa; e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non
pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava
egli. Al quale il frate disse:
– Figliuol mio, questi
peccati sono naturali e sono assai leggieri; e per ciò io non voglio che tu ne
gravi più la conscienzia tua che bisogni. Ad ogni uomo addiviene, quantunque
santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare, e dopo la
fatica il bere.
– Oh! – disse ser
Ciappelletto – padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io
so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente
e senza alcuna ruggine d'animo; e chiunque altri menti le fa, pecca.
Il frate contentissimo
disse:
– E io son contento che
così ti cappia nell'animo, e piacemi forte la tua pura e buona conscienzia in
ciò. Ma, dimmi: in avarizia hai tu peccato, disiderando più che il convenevole,
o tenendo quello che tu tener non dovesti? Al quale ser Ciappelletto disse:
– Padre mio, io non
vorrei che voi guardaste perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho
a far nulla; anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da
questo abbominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Iddio non
m'avesse così visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco
uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi,
per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte
mie picciole mercatantie, e in quelle ho desiderato di guadagnare, e sempre co'
poveri di Dio quello che ho guadagnato ho partito per mezzo, l'una metà
convertendo né miei bisogni, l'altra metà dando loro; e di ciò m'ha sì bene il
mio Creatore aiutato che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei.
– Bene hai fatto, –
disse il frate – ma come ti se' tu spesso adirato?
– Oh! – disse ser
Ciappelletto – cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto. E chi se
ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non
servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudici? Egli sono state assai
volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i
giovani andare dietro alle vanità e vedendogli giurare e spergiurare, andare
alle taverne, non visitare le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che
quella di Dio.
Disse allora il frate:
– Figliuol mio, cotesta
è buona ira, né io per me te ne saprei penitenzia imporre. Ma, per alcuno caso,
avrebbeti l'ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona
o a fare alcun'altra ingiuria?
A cui ser Ciappelletto
rispose:
– Ohimè, messere, o voi
mi parete uom di Dio: come dite voi coteste parole? o s'io avessi avuto pure un
pensieruzzo di fare qualunque s'è l'una delle cose che voi dite, credete voi
che io creda che Iddio m'avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli
scherani e i rei uomini, de' quali qualunque ora io n'ho mai veduto alcuno,
sempre ho detto: «Va che Dio ti converta».
Allora disse il frate:
– Or mi dì, figliuol
mio, che benedetto sia tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta
contro alcuno o detto mal d'altrui o tolte dell'altrui cose senza piacer di
colui di cui sono?
– Mai, messere, sì, –
rispose ser Ciappelletto – che io ho detto male d'altrui; per ciò che io ebbi già
un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che battere la
moglie, sì che io dissi una volta mal di lui alli parenti della moglie, sì gran
pietà mi venne di quella cattivella, la quale egli, ogni volta che bevuto avea
troppo, conciava come Dio vel dica.
Disse allora il frate:
– Or bene, tu mi di' che
se' stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti?
– Gnaffe, – disse ser
Ciappelletto, – messer sì; ma io non so chi egli si fu, se non che uno,
avendomi recati danari che egli mi dovea dare di panno che io gli avea venduto,
e io messogli in una mia cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai
ch'egli erano quattro piccioli più che essere non doveano; per che, non
rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli
diedi per l'amor di Dio.
Disse il frate:
– Cotesta fu piccola
cosa; e facesti bene a farne quello che ne facesti.
E, oltre a questo, il
domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a
questo modo. E volendo egli già procedere all'assoluzione, disse ser
Ciappelletto:
– Messere, io ho ancora
alcun peccato che io non v'ho detto.
Il frate il domandò
quale; ed egli disse:
– Io mi ricordo che io
feci al fante mio un sabato dopo nona spazzare la casa, e non ebbi alla santa
domenica quella reverenza che io dovea.
– Oh!, – disse il frate,
– figliuol mio, cotesta è leggier cosa.
– Non, – disse ser
Ciappelletto, – non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da onorare,
però che in così fatto dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore.
Disse allora il frate: –
O altro hai tu fatto?
– Messer sì, – rispose
ser Ciappelletto, – ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di
Dio. Il frate cominciò a sorridere e disse:
– Figliuol mio, cotesta
non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo.
Disse allora ser
Ciappelletto:
– E voi fate gran
villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio,
nel quale si rende sacrificio a Dio.
E in brieve de' così
fatti ne gli disse molti, e ultimamente cominciò a sospirare, e appresso a
piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea.
Disse il santo frate:
– Figliuol mio, che hai
tu?
Rispose ser
Ciappelletto:
– Ohimè, messere, ché un
peccato m'è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di
doverlo dire; e ogni volta ch'io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi
essere molto certo che Iddio mai non avrà misericordia di me per questo
peccato.
Allora il santo frate
disse:
– Va via, figliuol, che
è ciò che tu dì? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o
che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerà, fosser tutti
in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è
tanta la benignità e la misericordia di Dio che, confessandogli egli, gliele
perdonerebbe liberamente; e per ciò dillo sicuramente. Disse allora ser
Ciappelletto, sempre piagnendo forte:
– Ohimè, padre mio, il
mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci
si adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato.
A cui il frate disse:
– Dillo sicuramente, ché
io ti prometto di pregare Iddio per te.
Ser Ciappelletto pur
piagnea e nol dicea, e il frate pur il confortava a dire. Ma poi che ser
Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso,
ed egli gittò un gran sospiro e disse:
– Padre mio, poscia che voi mi promettete di
pregare Iddio per me, e io il vi dirò. Sappiate che, quando io era piccolino,
io bestemmiai una volta la mamma mia –; e così detto ricominciò a piagnere
forte.
Disse il frate:
– O figliuol mio, or
parti questo così grande peccato? Oh! gli uomini bestemmiano tutto 'l giorno
Iddio, e sì perdona egli volentieri a chi si pente d'averlo bestemmiato; e tu
non credi che egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente,
se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione
ch'io ti veggio, sì ti perdonerebbe egli.
Disse allora ser
Ciappelletto:
– Ohimè, padre mio, che
dite, – voi? La mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dì e la
notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e
troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, egli non mi sarà
perdonato.
Veggendo il frate non
essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l'assoluzione e
diedegli la sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sì come colui che
pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto.
E chi sarebbe colui che
nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir così? E poi, dopo tutto
questo, gli disse:
– Ser Ciappelletto,
coll'aiuto di Dio voi sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Iddio la
vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sé, piacev'egli che 'l vostro
corpo sia sepellito al nostro luogo?
Al quale ser
Ciappelletto rispose:
– Messer sì; anzi non
vorre' io essere altrove, poscia che voi mi avete promesso di pregare Iddio per
me; senza che io ho avuta sempre spezial divozione al vostro ordine. E per ciò
vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me vegna quel
veracissimo corpo di Cristo, il qual voi la mattina sopra l'altare consecrate;
per ciò che (come che io degno non ne sia) io intendo colla vostra licenzia di
prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione, acciò che io, se vivuto son
come peccatore, almeno muoia come cristiano.
Il santo uomo disse che
molto gli piacea e che egli dicea bene, e farebbe che di presente gli sarebbe
apportato; e così fu.
Li due fratelli, li
quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl'ingannasse, s'eran posti appresso
ad un tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva divideva da
un'altra, e ascoltando leggiermente udivano e intendevano ciò che ser
Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere,
udendo le cose le quali egli confessava d'aver fatte, che quasi scoppiavano, e
fra sé talora dicevano:
– Che uomo è costui, il
quale né vecchiezza né infermità né paura di morte alla qual si vede vicino, né
ancora di Dio dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s'aspetta di
dovere essere, dalla sua malvagità l'hanno potuto rimuovere, né far ch'egli
così non voglia morire come egli è vivuto?
Ma pur vedendo che sì
aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso
si curarono. Ser Ciappelletto poco appresso si comunico', e peggiorando senza
modo, ebbe l'ultima unzione; e poco passato vespro, quel dì stesso che la buona
confessione fatta avea, si morì. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di
quello di lui medesimo come egli fosse onorevolmente sepellito, e man datolo a
dire al luogo de' frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia
secondo l'usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò opportuna
disposero.
Il santo frate che
confessato l'avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del
luogo, e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser
Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione
conceputo avea; e sperando per lui Domenedio dover molti miracoli dimostrare,
persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si
dovesse ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli
s'accordarono; e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto
giaceva, sopr'esso fecero una grande e solenne vigilia; e la mattina, tutti
vestiti co' camici e co' pieviali, con libri in mano e con le croci innanzi,
cantando, andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennità il
recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città, uomini e
donne. E nella chiesa postolo, il santo frate che confessato l'avea, salito in
sul pergamo, di lui cominciò e della sua vita, de' suoi digiuni, della sua
virginità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a
predicare, tra l'altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo
maggior peccato piagnendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea
potuto mettere nel capo che Iddio gliele dovesse perdonare, da questo
volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo:
– E voi, maledetti da
Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra' piedi bestemmiate Iddio e
la Madre, e tutta la corte di paradiso.
E oltre a queste, molte
altre cose disse della sua lealtà e della sua purità; e in brieve colle sue
parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì il mise
nel capo e nella divozion di tutti coloro che v'erano che, poi che fornito fu
l'uficio, colla maggior calca del mondo da tutti fu andato a baciargli i piedi
e le mani, e tutti i panni gli furono in dosso stracciati, tenendosi beato chi
pure un poco di quegli potesse avere; e convenne che tutto il giorno così fosse
tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente
notte, in una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella, e a
mano a mano il dì seguente vi cominciarono le genti ad andare e ad accender
lumi e ad adorarlo, e per conseguente a botarsi e ad appiccarvi le imagini
della cera secondo la promession fatta.
E in tanto crebbe la
fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era, che in alcuna
avversità fosse, che ad altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e
chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Iddio aver mostrati per
lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui.
Così adunque visse e
morì ser Cepperello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar
non voglio essere possibile lui essere beato nella presenza di Dio, per ciò
che, come che la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli potè in su l'estremo
aver sì fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e
nel suo regno il ricevette; ma, per ciò che questo n'è occulto, secondo quello
che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani
del diavolo in perdizione che in paradiso. E se così è, grandissima si può la
benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore, ma alla
purità della fede riguardando, così faccendo noi nostro mezzano un suo nemico,
amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo per mezzano
della sua grazia ricorressimo.
E per ciò, acciò che noi
per la sua grazia nelle presenti avversità e in questa compagnia così lieta
siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l'abbiamo,
lui in reverenza avendo, né nostri bisogni gli ci raccomandiamo, sicurissimi
d'essere uditi.
E qui si tacque.
NOVELLA SECONDA
Abraam giudeo, da
Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità de'
cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.
La novella di Panfilo fu
in parte risa e tutta commendata dalle donne; la quale diligentemente ascoltata
e al suo fine essendo venuta, sedendo appresso di lui Neifile, le comandò la
reina che, una dicendone, l'ordine dello incominciato sollazzo seguisse. La
quale, sì come colei che non meno era di cortesi costumi che di bellezza
ornata, lietamente rispose che volentieri, e cominciò in questa guisa.
Mostrato n'ha Panfilo
nel suo novellare la benignità di Dio non guardare a' nostri errori, quando da
cosa che per noi veder non si possa procedano; e io nel mio intendo di
dimostrarvi quanto questa medesima benignità, sostenendo pazientemente i
difetti di coloro li quali d'essa ne deono dare e colle opere e colle parole
vera testimonianza, il contrario operando, di sé argomento d'infallibile verità
ne dimostri, acciò che quello che noi crediamo con più fermezza d'animo
seguitiamo. Sì come io, graziose donne, già udii ragionare, in Parigi fu un gran
mercatante e buono uomo, il quale fu chiamato Giannotto di Civignì, lealissimo
e diritto e di gran traffico d'opera di drapperia; e avea singulare amistà con
uno ricchissimo uomo giudeo, chiamato Abraam, il qual similmente mercatante era
e diritto e leale uomo assai. La cui dirittura e la cui lealtà veggendo
Giannotto, gl'incominciò forte ad increscere che l'anima d'un così valente e
savio e buono uomo per difetto di fede andasse a perdizione. E per ciò
amichevolmente lo cominciò a pregare che egli lasciasse gli errori della fede
giudaica e ritornasse alla verità cristiana, la quale egli poteva vedere, sì
come santa e buona, sempre prosperare e aumentarsi; dove la sua, in contrario,
diminuirsi e venire al niente poteva discernere.
Il giudeo rispondeva che
niuna ne credeva né santa né buona fuor che la giudaica, e che egli in quella
era nato e in quella intendeva e vivere e morire; né cosa sarebbe che mai da
ciò il facesse rimuovere. Giannotto non stette per questo che egli, passati
alquanti dì, non gli rimovesse simiglianti parole, mostrandogli, così
grossamente come il più i mercatanti sanno fare, per quali ragioni la nostra
era migliore che la giudaica. E come che il giudeo fosse nella giudaica legge
un gran maestro, tuttavia, o l'amicizia grande che con Giannotto avea che il
movesse, o forse parole le quali lo Spirito Santo sopra la lingua dell'uomo
idiota poneva che sel facessero, al giudeo cominciarono forte a piacere le
dimostrazioni di Giannotto; ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger non
si lasciava.
Così come egli pertinace
dimorava, così Giannotto di sollecitarlo non finava giammai, tanto che il
giudeo, da così continua instanzia vinto, disse:
– Ecco, Giannotto, a te
piace che io divenga cristiano, e io sono disposto a farlo, sì veramente che io
voglio in prima andare a Roma, e quivi vedere colui il quale tu dì che è
vicario di Dio in terra, e considerare i suoi modi e i suoi costumi e
similmente dei suoi fratelli cardinali; e se essi mi parranno tali che io possa
tra per le tue parole e per quelli comprendere che la vostra fede sia migliore
che la mia, come tu ti se' ingegnato di dimostrarmi, io farò quello che detto
t'ho; ove così non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi sono.
Quando Giannotto intese
questo, fu in sé stesso oltremodo dolente, tacitamente dicendo:
– Perduta ho la fatica,
la quale ottimamente mi parea avere impiegata, credendomi costui aver
convertito; per ciò che, se egli va in corte di Roma e vede la vita scelera ta
e lorda de' cherici, non che egli di giudeo si faccia cristiano, ma, se egli
fosse cristiano fatto, senza fallo giudeo si ritornerebbe.
E ad Abraam rivolto
disse:
– Deh, amico mio, perché
vuoi tu entrare in questa fatica e così grande spesa, come a te sarà d'andare
di qui a Roma? senza che, e per mare e per terra, ad un ricco uomo come tu se',
ci è tutto pien di pericoli. Non credi tu trovar qui chi il battesimo ti dea?
E, se forse alcuni dubbi hai intorno alla fede che io ti dimostro, dove ha
maggiori maestri e più savi uomini in quella, che son qui, da poterti di ciò
che tu vorrai o domanderai dichiarire? Per le quali cose al mio parere questa
tua andata è di soperchio. Pensa che tali sono là i prelati quali tu gli hai
qui potuti vedere e puoi, e tanto ancor migliori quanto essi son più vicini al
pastor principale. E perciò questa fatica, per mio consiglio, ti serberai in
altra volta ad alcuno perdono, al quale io per avventura ti farò compagnia. A
cui il giudeo rispose:
– Io mi credo,
Giannotto, che così sia come tu mi favelli, ma, recandoti le molte parole in
una, io son del tutto (se tu vuogli che io faccia quello di che tu m'hai
cotanto pregato) disposto ad andarvi, e altramenti mai non ne farò nulla.
Giannotto, vedendo il
voler suo, disse:
– E tu va con buona
ventura –; e seco avvisò lui mai non doversi far cristiano, come la corte di
Roma veduta avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette.
Il giudeo montò a
cavallo e, come più tosto potè, se n'andò in corte di Roma, là dove pervenuto
dà suoi giudei fu onorevolmente ricevuto. E quivi dimorando, senza dire ad
alcuno per che andato vi fosse, cautamente cominciò a riguardare alle maniere
del papa e de' cardinali e degli altri prelati e di tutti i cortigiani; e tra
che egli s'accorse, sì come uomo che molto avveduto era, e che egli ancora da
alcuno fu informato, egli trovò dal maggiore infino al minore generalmente
tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella naturale, ma
ancora nella soddomitica, senza freno alcuno di rimordimento o di vergogna, in
tanto che la potenzia delle meretrici e de' garzoni in impetrare qualunque gran
cosa non v'era di picciol potere. Oltre a questo, universalmente gulosi,
bevitori, ebriachi e più al ventre serventi a guisa d'animali bruti, appresso
alla lussuria, che ad altro, gli conobbe apertamente.
E più avanti guardando,
in tanto tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente l'uman sangue,
anzi il cristiano, e le divine cose, chenti che elle si fossero, o a' sacrifici
o a' benefici appartenenti, a denari e vendevano e comperavano, maggior
mercatantia faccendone e più sensali avendone che a Parigi di drappi o di
alcun'altra cosa non erano, avendo alla manifesta simonia «procureria» posto
nome, e alla gulosità «sustentazioni», quasi Iddio, lasciamo stare il
significato de' vocaboli, ma la 'ntenzione de' pessimi animi non conoscesse, e
a guisa degli uomini a' nomi delle cose si debba lasciare ingannare. Le quali
cose, insieme con molte altre le quali da tacer sono, sommamente spiacendo al
giudeo, sì come a colui che sobrio e modesto uomo era, parendogli assai aver
veduto, propose di tornare a Parigi, e così fece. Al quale, come Giannotto
seppe che venuto se n'era, niuna cosa meno sperando che del suo farsi
cristiano, se ne venne, e gran festa insieme si fecero; e, poi che riposato si
fu alcun giorno, Giannotto il domandò quello che del santo padre e de'
cardinali e degli altri cortigiani gli parea. Al quale il giudeo prestamente
rispose:
– Parmene male, che
Iddio dea a quanti sono; e di coti così che, se io ben seppi considerare, quivi
niuna santità, niuna divozione, niuna buona opera o essemplo di vita o d'altro
in alcuno che cherico fosse veder mi parve; ma lussuria, avarizia e gulosità,
fraude, invidia e super bia e simili cose e piggiori (se piggiori essere
possono in alcuno) mi vi parve in tanta grazia di tutti vedere, che io ho più
tosto quella per una fucina di diaboliche operazioni che di divine. E per
quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con ogni ingegno e con ogni arte
mi pare che il vostro pastore, e per consequente tutti gli altri, si procaccino
di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana religione, là dove
essi fondamento e sostegno esser dovrebber di quella.
E per ciò che io veggio
non quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra religione
aumentarsi e più lucida e più chiara divenire, meritamente mi par di scerner io
Spirito Santo esser d'essa, sì come di vera e di santa più che alcun'altra,
fondamento e sostegno. Per la qual cosa, dove io rigido e duro stava a' tuoi
conforti e non mi volea far cristiano, ora tutto aperto ti dico che io per
niuna cosa lascerei di cristian farmi. Andiamo adunque alla chiesa: e quivi,
secondo il debito costume della vostra santa fede, mi fa battezzare.
Giannotto, il quale
aspettava dirittamente contraria conclusione a questa, come lui così udì dire
fu il più contento uomo che giammai fosse. E a Nostra Dama di Parigi con lui
insieme andatosene, richiese i cherici di là entro che ad Abraam dovessero dare
il battesimo. Li quali, udendo che esso l'addomandava, prestamente il fecero: e
Giannotto il levò del sacro fonte e nominollo Giovanni; e appresso a gran
valenti uomini il fece compiutamente ammaestrare nella nostra fede la quale
egli prestamente apprese, e fu, poi buono e valente uomo e di santa vita.
NOVELLA TERZA
Melchisedech giudeo, con
una novella di tre anella, cessa un gran pericolo dal Saladino
apparecchiatogli.
Poiché, commendata da
tutti la novella di Neifile, ella si tacque, come alla reina piacque, Filomena
così cominciò a parlare.
La novella da Neifile
detta mi ritorna a memoria il dubbioso caso già avvenuto ad un giudeo. Per ciò
che già e di Dio e della verità della nostra fede è assai bene stato detto, il
discendere oggimai agli avvenimenti e agli atti degli uomini non si dovrà
disdire; e a narrarvi quella verrò, la quale udita, forse più caute diverrete
nelle risposte alle quistioni che fatte vi fossero. Voi dovete, amorose
compagne, sapere che, sì come la sciocchezza spesse volte trae altrui di felice
stato e mette in grandissima miseria, così il senno di grandissimi pericoli
trae il savio e ponlo in grande e in sicuro riposo. E che vero sia che la
sciocchezza di buono stato in miseria altrui conduca, per molti essempli si
vede, li quali non fia al presente nostra cura di raccontare, avendo riguardo
che tutto 'l dì mille essempli n'appaiano manifesti. Ma che il senno di
consolazione sia cagione, come promisi, per una novelletta mosterrò
brievemente.
Il Saladino, il valore
del qual fu tanto che non solamente di piccolo uomo il fe' di Babillonia
soldano, ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece
avere, avendo in diverse guerre e in grandissime sue magnificenze speso tutto
il suo tesoro, e, per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona
quantità di danari, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano
aver gli potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome era
Melchisedech, il quale prestava ad usura in Alessandria, e pensossi costui avere
da poterlo servire quando volesse; ma sì era avaro che di sua volontà non
l'avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare; per che, strignendolo il
bisogno, rivoltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse,
s'avvisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata. E fattolsi chiamare e
familiarmente ricevutolo, seco il fece sedere e appresso gli disse:
– Valente uomo, io ho da
più persone inteso che tu se' savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti;
e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi tu reputi la verace,
o la giudaica o la saracina o la cristiana. Il giudeo, il quale veramente era
savio uomo, s'avvisò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle
parole per dovergli muovere alcuna quistione, e pensò non potere alcuna di
queste tre più l'una che l'altra lodare, che il Saladino non avesse la sua
intenzione. Per che, come colui al qual pareva d'aver bisogno di risposta per
la quale preso non potesse essere, aguzzato lo 'ngegno, gli venne prestamente
avanti quello che dir dovesse, e disse:
– Signor mio, la
quistione la qual voi mi fate è bella, e a volervene dire ciò che io ne sento,
mi vi convien dire una novelletta, qual voi udirete.
Se io non erro, io mi
ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già, il
quale, intra l'altre gioie più care che nel suo tesoro avesse, era uno anello
bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo
fare onore e in perpetuo lasciarlo né suoi discendenti, ordinò che colui de'
suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello
trovato, che colui s'intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli
altri essere come maggiore onorato e reverito.
E colui al quale da
costui fu lasciato il simigliante ordinò né suoi discendenti e così fece come
fatto avea il suo predecessore; e in brieve andò questo anello di mano in mano
a molti successori; e ultimamente pervenne alle mani ad uno, il quale avea tre
figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per la qual cosa
tutti e tre parimente gli amava. E i giovani, li quali la consuetudine dello
anello sapevano, sì come vaghi d'essere ciascuno il più onorato tra' suoi
ciascuno per sé, come meglio sapeva, pregava il padre, il quale era già vecchio,
che, quando a morte venisse, a lui quello anello lasciasse. Il valente uomo,
che parimente tutti gli amava, né sapeva esso medesimo eleggere a qual più
tosto lasciar lo dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti
e tre sodisfare; e segretamente ad uno buono maestro ne fece fare due altri, li
quali sì furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli avea
fare appena conosceva qual si fosse il vero. E venendo a morte, segretamente
diede il suo a ciascun de' figliuoli. Li quali, dopo la morte del padre,
volendo ciascuno la eredità e l'onore occupare, e l'uno negandolo all'altro, in
testimonianza di dover ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il suo
anello. E trovatisi gli anelli sì simili l'uno all'altro che qual di costoro
fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la quistione, qual fosse il
vero erede del padre, in pendente, e ancor pende.
E così vi dico, signor
mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion
proponeste: ciascuno la sua eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti
dirittamente si crede avere e fare; ma chi se l'abbia, come degli anelli,
ancora ne pende la quistione. Il Saladino conobbe costui ottimamente essere
saputo uscire del laccio il quale davanti a' piedi teso gli aveva; e per ciò
dispose d'aprirgli il suo bisogno e vedere se servire il volesse; e così fece,
aprendogli ciò che in animo avesse avuto di fare, se così discretamente, come
fatto avea, non gli avesse risposto.
Il giudeo liberamente
d'ogni quantità che il Saladino richiese il servì; e il Saladino poi
interamente il soddisfece; e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e sempre per
suo amico l'ebbe e in grande e onorevole stato appresso di sé il mantenne.
NOVELLA QUARTA
Un monaco, caduto in
peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate
quella medesima colpa, si libera dalla pena.
Già si tacea Filomena,
dalla sua novella espedita, quando Dioneo, che appresso di lei sedeva, senza
aspettare dalla reina altro comandamento, conoscendo già, per l'ordine
cominciato, che a lui toccava il dover dire, in cotal guisa cominciò a parlare.
Amorose donne, se io ho
bene la 'ntenzione di tutte compresa, noi siam qui per dovere a noi medesimi
novellando piacere; e per ciò, solamente che contro a questo non si faccia,
estimo a ciascuno dovere essere licito (e così ne disse la nostra reina, poco
avanti, che fosse) quella novella dire che più crede che possa dilettare; per
che, avendo udito per li buoni consigli di Giannotto di Civignì Abraam aver
l'anima salvata Melchisedech per lo suo senno avere le sue ricchezze dagli
agguati del Saladino difese, senza riprensione attender da voi, intendo di
raccontar brievemente con che cautela un monaco il suo corpo da gravissima pena
liberasse.
Fu in Lunigiana, paese
non molto da questo lontano, uno monistero già di santità e di monaci più
copioso che oggi non è, nel quale tra gli altri era un monaco giovane, il
vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie Potevano macerare.
Il quale per ventura un giorno in sul mezzodì, quando gli altri monaci tutti
dormivano, andandosi tutto solo dattorno alla sua chiesa, la quale in luogo
assai solitario era, gli venne veduta una giovinetta assai bella, forse
figliuola d'alcuno de' lavoratori della contrada, la quale andava per gli campi
certe erbe cogliendo; né prima veduta l'ebbe, che egli fieramente assalito fu
dalla concupiscenza carnale.
Per che, fattolesi più
presso, con lei entrò in parole e tanto andò d'una in altra, che egli si fu
accordato con lei e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona se
n'accorse. E mentre che egli, da troppa volontà trasportato, men cautamente con
lei scherzava, avvenne che l'abate, da dormir levatosi e pianamente passando
davanti alla cella di costui, sentì lo schiamazzio che costoro insieme faceano;
e per conoscere meglio le voci, chetamente s'accostò all'uscio della cella ad
ascoltare e manifestamente conobbe che dentro a quella era femina e tutto fu
tentato di farsi aprire; poi pensò di voler tenere in ciò altra maniera e,
tornatosi alla sua camera, aspettò che il monaco fuori uscisse.
Il monaco, ancora che da
grandissimo suo piacere e diletto fosse con questa giovane occupato, pur
nondimeno tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito alcuno stropiccio di
piedi per lo dormentorio, ad un piccolo pertugio pose l'occhio e vide
apertissimamente l'abate stare ad ascoltarlo e molto bene comprese l'abate aver
potuto conoscere quella giovane essere nella sua cella. Di che egli, sappiendo
che di questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu do lente; ma pur,
senza del suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente seco molte cose
rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne potesse; e occorsegli
una nuova malizia, la quale al fine imaginato da lui dirittamente pervenne. E
faccendo sembiante che esser gli paresse stato assai con quella giovane, le
disse:
– Io voglio andare a
trovar modo come tu esca di qua entro senza esser veduta; e per ciò statti pianamente
infino alla mia tornata.
E uscito fuori e serrata
la cella colla chiave, dirittamente se n'andò alla camera dello abate, e
presentatagli quella, secondo che ciascuno monaco faceva quando fuori andava,
con un buon volto disse:
– Messere, io non potei
stamane farne venire tutte le legne le quali io avea fatte fare, e perciò con
vostra licenzia io voglio andare al bosco e farlene venire.
L'abate, per potersi più
pienamente informare del fallo commesso da costui, avvisando che questi accorto
non se ne fosse che egli fosse stato da lui veduto, fu lieto di tale accidente,
e volentier prese la chiave e similmente li die' licenzia. E, come il vide
andato via, cominciò a pensar qual far volesse più tosto, o in presenza di
tutti i monaci aprir la cella di costui e far loro vedere il suo difetto, acciò
che poi non avesser cagione di mormorare contra di lui quando il monaco
punisse, o di voler prima da lei sentire come andata fosse la bisogna. E,
pensando seco stesso che questa potrebbe essere tal femina o figliuola di tale
uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna d'averla a tutti i
monaci fatta vedere, s'avvisò di voler prima veder chi fosse e poi prender
partito; e chetamente andatosene alla cella, quel la aprì ed entrò dentro e
l'uscio richiuse.
La giovane, vedendo
venire l'abate, tutta smarrì, e temendo di vergogna cominciò a piagnere. Messer
l'abate, postole l'occhio addosso e veggendola bella e fresca, ancora che
vecchio fosse, sentì subitamente non meno cocenti gli stimoli della carne che
sentiti avesse il suo giovane monaco, e fra sé stesso cominciò a dire: – Deh,
perché non prendo io del piacere quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che
il dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno apparecchiati? Costei è
una bella giovane, ed è qui che niuna per sona del mondo il sa; se io la posso
recare a fare i piacer miei, io non so perché io nol mi faccia. Chi saprà? ai
più; io estimo che egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Domenedio
ne man da altrui –. E così dicendo, e avendo del tutto mutato proposito da
quello per che andato v'era, fattosi più presso alla giovane, pianamente la
cominciò a confortare e a pregarla che non piagnesse; e, d'una parola in altra
procedendo, ad aprirle il suo desiderio pervenne.
La giovane, che non era
di ferro né di diamante, assai agevolmente si piegò a' piaceri dello abate; il
quale, abbracciatala e baciatala più volte, in sul letticello del monaco
salitosene, avendo forse riguardo al grave peso della sua dignità e alla tenera
età della giovane, temendo forse di non offenderla per troppa gravezza, non
sopra il petto di lei salì, ma lei sopra il suo petto pose, e per lungo spazio
con lei si trastullò.
Il monaco, che fatto
avea sembiante d'andare al bosco, essendo nel dormentorio occultato, come vide
l'abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicurato, estimò il suo
avviso dovere avere effetto; e veggendol serrar dentro, l'ebbe per certissimo.
E, uscito di là dov'era, chetamente n'andò ad un pertugio, per lo quale ciò che
l'abate fece o disse, e udì e vide. Parendo allo abate essere assai colla
giovanetta dimorato, serratala nella cella, alla sua camera se ne tornò; e dopo
al quanto, sentendo il monaco e credendo lui esser tornato dal bosco, avvisò di
riprenderlo forte e di farlo incarcerare, acciò che esso solo possedesse la
guadagnata preda; e fattoselo chiamare, gravissimamente e con mal viso il
riprese e comandò che fosse in carcere messo.
Il monaco
prontissimamente rispose:
– Messere, io non sono
ancora tanto all'ordine di san Benedetto stato, che io possa avere ogni
particularità di quello apparata; e voi ancora non m'avavate mostrato che i
monaci si debban far dalle femine priemere, come dà digiuni e dalle vigilie; ma
ora che mostrato me l'avete, vi prometto, se questa mi perdonate, di mai più in
ciò non peccare, anzi farò sempre come io a voi ho veduto fare.
L'abate, che accorto
uomo era, prestamente conobbe costui non solamente aver più di lui saputo, ma
veduto ciò che esso aveva fatto. Perché, dalla sua colpa stessa rimorso, si
vergognò di fare al monaco quello che egli, sì come lui, aveva meritato. E
perdonatogli e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio, onestamente misero
la giovinetta di fuori, e poi più volte si dee credere ve la facesser tornare.
NOVELLA QUINTA
La marchesana di
Monferrato, con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette,
reprime il folle amore del re di Francia.
La novella da Dioneo
raccontata, prima con un poco di vergogna punse i cuori delle donne ascoltanti
e con onesto rossore né loro visi apparito ne diedon segno; e poi quella, l'una
l'altra guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando
ascoltarono. Ma venuta di questa la fine, poiché lui con alquante dolci parole
ebber morso, volendo mostrare che simili novelle non fosser tra donne da
raccontare, la reina verso la Fiammetta, che appresso di lui sopra l'erba
sedeva, rivolta, che essa l'ordine seguitasse le comandò. La quale vezzosamente
e con lieto viso a lei riguardando incominciò. Sì perché mi piace noi essere entrati
a dimostrare con le novelle quanta sia la forza delle belle e pronte risposte,
e sì ancora perché quanto negli uomini è gran senno il cercar d'amar sempre
donna di più alto legnaggio ch'egli non è, così nelle donne è grandissimo
avvedimento il sapersi guardare dal prendersi dello amore di maggiore uomo
ch'ella non è, m'è caduto nell'animo, donne mie belle, di mostrarvi, nella
novella che a me tocca di dire, come e con opere e con parole una gentil donna
sé da questo guardasse e altrui ne rimovesse Era il marchese di Monferrato,
uomo d'alto valore, gonfaloniere della Chiesa, oltre mar passato in un general
passaggio da' cristiani fatto con armata mano. E del suo valore ragionandosi
nella corte del re Filippo il Bornio, il quale a quel medesimo passaggio andar
di Francia s'apparecchiava, fu per un cavalier detto non essere sotto le stelle
una simile coppia a quella del marchese e della sua donna; però che, quanto
tra' cavalieri era d'ogni virtù il marchese famoso, tanto la donna tra tutte
l'altre donne del mondo era bellissima e valorosa.
Le quali parole per sì
fatta maniera nell'animo del re di Francia entrarono, che, senza mai averla
veduta, di subito ferventemente la cominciò ad amare e propose di non volere,
al passaggio al quale andava, in mare entrare altrove che a Genova; acciò che
quivi, per terra andando, onesta cagione avesse di dovere andare la marchesana
a vedere, avvisandosi che, non essendovi il marchese, gli potesse venir fatto
di mettere ad effetto il suo disio. E secondo il pensier fatto mandò ad
esecuzione; per ciò che, mandato avanti ogni uomo, esso con poca compagnia e di
gentili uomini entrò in cammino; e avvicinandosi alle terre del marchese, un dì
davanti mandò a dire alla donna che la seguente mattina l'attendesse a
desinare. La donna, savia e avveduta, lietamente rispose che questa l'era somma
grazia sopra ogni altra e che egli fosse il ben venuto. E appresso entrò in
pensiero che questo volesse dire, che un così fatto re, non essendovi il marito
di lei, la venisse a visitare; né la 'ngannò in questo l'avviso, cioè che la
fama della sua bellezza il vi traesse. Nondimeno, come valorosa donna
dispostasi ad onorarlo, fattisi chiamare di que' buoni uomini che rimasi
v'erano, ad ogni cosa opportuna con loro consiglio fece ordine dare, ma il
convito e le vivande ella sola volle ordinare. E fatte senza indugio quante
galline nella contrada erano ragunare, di quelle sole varie vivande divisò a'
suoi cuochi per lo convito reale.
Venne adunque il re il
giorno detto, e con gran festa e onore dalla donna fu ricevuto. Il quale, oltre
a quello che compreso aveva per le parole del cavaliere, riguardandola, gli
parve bella e valorosa e costumata, e sommamente se ne maravigliò e commendolla
forte, tanto nel suo disio più accendendosi, quanto da più trovava esser la
donna che la sua passata stima di lei. E dopo al cun riposo preso in camere
ornatissime di ciò che a quelle, per dovere un così fatto re ricevere,
s'appartiene, venuta l'ora del desinare, il re e la marchesana ad una tavola
sedettero, e gli altri secondo la lor qualità ad altre mense furono onorati.
Quivi essendo il re
successivamente di molti messi servito e di vini ottimi e preziosi, e oltre a
ciò con diletto talvolta la marchesana bellissima riguardando, sommo piacere
avea. Ma pure, venendo l'un messo appresso l'altro, cominciò il re alquanto a
maravigliarsi, conoscendo che quivi, quantunque le vivande diverse fossero, non
per tanto di niuna cosa essere altro che di galline. E come che il re
conoscesse il luogo, là dove era, dovere esser tale che copiosamente di diverse
salvaggine avervi dovesse, e l'avere davanti significata la sua venuta alla
donna spazio l'avesse dato di poter far cacciare; non pertanto, quantunque
molto di ciò si maravigliasse, in altro non volle prender cagione di doverla
mettere in parole, se non delle sue galline, e con lieto viso rivoltosi verso
lei disse:
– Dama, nascono in
questo paese solamente galline senza gallo alcuno?
La marchesana, che
ottimamente la dimanda intese, parendole che secondo il suo disidero Domenedio
l'avesse tempo mandato opportuno a poter la sua intenzion dimostrare, al re
domandante, baldanzosamente verso lui rivolta, rispose:
– Monsignor no, ma le
femine, quantunque in vestimenti e in onori alquanto dall'altre variino, tutte
perciò son fatte qui come altrove.
Il re, udite queste
parole, raccolse bene la cagione del convito delle galline e la virtù nascosa
nelle parole; e accorsesi che invano con così fatta donna parole si
gitterebbono, e che forza non v'avea luogo; per che così come disavvedutamente
acceso s'era di lei, così saviamente era da spegnere per onor di lui il mal
concetto fuoco. E senza più motteggiarla, temendo delle sue risposte, fuori
d'ogni speranza desinò; e, finito il desinare, acciò che col presto partirsi
ricoprisse la sua disonesta venuta, ringraziatala dell'onor ricevuto da lei,
accomandandolo ella a Dio, a Genova se n'andò.
NOVELLA SESTA
Confonde un valente uomo
con un bel detto la malvagia ipocresia de' religiosi.
Emilia, la quale
appresso la Fiammetta sedea, essendo già stato da tutte commendato il valore e
il leggiadro gastigamento della marchesana fatto al re di Francia, come alla
sua reina piacque, baldanzosamente a dire cominciò. Né io altresì tacerò un
morso dato da un valente uomo secolare ad uno avaro religioso con un motto non
meno da ridere che da commendare.
Fu adunque, o care
giovani, non è ancora gran tempo, nella nostra città un frate minore
inquisitore della eretica pravità, il quale, come che molto s'ingegnasse di
parere santo e tenero amatore della cristiana fede, sì come tutti fanno, era
non men buono investigatore di chi piena aveva la borsa, che di chi di scemo
nella fede sentisse. Per la quale sollecitudine per avventura gli venne trovato
un buono uomo, assai più ricco di denari che di senno, al quale, non già per
difetto di fede, ma semplicemente parlando, forse da vino o da soperchia
letizia riscaldato, era venuto detto un dì ad una sua brigata sé avere un vino
sì buono che ne berrebbe Cristo. Il che essendo allo inquisitore rapportato, ed
egli sentendo che gli suoi poderi eran grandi e ben tirata la borsa, cum
gladiis et fustibus impetuosissimamente corse a formargli un processo
gravissimo addosso, avvisando non di ciò alleviamento di miscredenza nello
inquisito, ma empimento di fiorini nella sua mano ne dovesse procedere, come
fece. E fattolo richiedere, lui domandò se vero fosse ciò che contro di lui era
stato detto. Il buono uomo rispose del sì, e dissegli il modo. A che lo
'nquisitore santissimo e divoto di san Giovanni Boccadoro disse:
– Dunque hai tu fatto
Cristo bevitore e vago de' vini solenni, come se egli fosse Cinciglione o
alcuno altro di voi bevitori ebriachi e tavernieri? E ora, umilmente parlando,
vuogli mostrare questa cosa molto essere leggiera. Ella non è come ella ti
pare; tu n'hai meritato il fuoco, quando noi vogliamo, come noi dobbiamo, verso
te operare.
E con queste e con altre
parole assai, col viso dell'arme, quasi costui fosse stato epicuro negante la
etternità delle anime, gli parlava. E in brieve tanto lo spaurì che il buono
uomo per certi mezzani gli fece con una buona quantità della grascia di san
Giovanni Boccadoro ugner le mani (la quale molto giova alle infermità delle
pestilenziose avarizie de' cherici, e spezialmente de' frati minori, che denari
non osan toccare) acciò ch'egli dovesse verso lui misericordiosamente operare.
La quale unzione, sì
come molto virtuosa, avvegna che Galieno non ne parli in alcuna parte delle sue
medicine, sì e tanto adoperò, che il fuoco minacciatogli di grazia si permutò
in una croce; e, quasi al passaggio d'oltremare andar dovesse, per far più
bella bandiera, gialla gliele pose in sul nero. E oltre a questo, già ricevuti
i denari, più giorni appresso di sé il sostenne, per penitenzia dandogli che
egli ogni mattina dovesse udire una messa in Santa Croce e all'ora del mangiare
avanti a lui presentarsi, e poi il rimanente del giorno quello che più gli
piacesse potesse fare.
Il che costui
diligentemente faccendo, avvenne una mattina tra l'altre che egli udì alla
messa uno evangelio, nel quale queste parole si cantavano: – Voi riceverete per
ogn'un cento, e possederete la vita etterna –; le quali esso nella memoria
fermamente ritenne, e, secondo il comandamento fattogli, ad ora di mangiare
davanti allo inquisitore venendo, il trovò desinare. Il quale lo 'nqui sitore
domandò se egli avesse la messa udita quella mattina. Al quale esso prestamente
rispose:
– Messer sì.
A cui lo 'nquisitore
disse:
– Udisti tu in quella
cosa niuna della quale tu dubiti o vogline domandare?
– Certo, – rispose il
buono uomo, – di niuna cosa che io udissi dubito, anzi tutte per fermo le credo
vere. Udìne io bene alcuna che m'ha fatto e fa avere di voi e degli altri
vostri frati grandissima compassione, pensando al malvagio stato che voi di là
nell'altra vita dovrete avere. Disse allora lo 'nquisitore:
– E qual fu quella
parola, che t'ha mosso ad aver questa compassion di noi?
Il buono uomo rispose:
– Messere, ella fu
quella parola dello evangelio, la qual dice: «Voi riceverete per ogn'un cento».
Lo inquisitore disse:
– Questo è vero; ma
perché t'ha per ciò questa parola commosso?
– Messere, – rispose il
buono uomo – io vel dirò: poi che io usai qui, ho io ogni dì veduto dar qui di
fuori a molta povera gente, quando una e quando due grandissime caldaie di
broda, la quale a' frati di questo convento e a voi si toglie sì come
soperchia, davanti; per che, se per ogn'una cento vene fieno rendute di là, voi
n'avrete tanta che voi dentro tutti vi dovrete affogare.
Come che gli altri, che
alla tavola dello inquisitore erano, tutti ridessono, lo 'nquisitore sentendo
trafiggere la lor brodaiuola ipocresia, tutto si turbò; e se non fosse che
biasimo portava di quello che fatto avea, un altro processo gli avrebbe addosso
fatto, per ciò che con ridevol motto lui e gli altri poltroni aveva morsi; e
per bizzarria gli comandò che quello che più gli piacesse facesse, senza più
davanti venirgli.
NOVELLA SETTIMA
Bergamino, con una
novella di Primasso e dello abate di Clignì, onestamente morde una avarizia
nuova venuta in messer can della Scala.
Mosse la piacevolezza
d'Emilia e la sua novella la reina e ciascun altro a ridere e a commendare il
nuovo avviso del crociato. Ma, poi che le risa rimase furono e racquetato
ciascuno, Filostrato, al qual toccava il novellare, in cotal guisa cominciò a
parlare.
Bella cosa è, valorose
donne, il ferire un segno che mai non si muti, ma quella è quasi maravigliosa,
quando alcuna cosa non usata apparisce di subito, se subitamente da uno arciere
è ferita. La viziosa e lorda vita de' cherici, in molte cose quasi di cattività
fermo segno, senza troppa difficultà dà di sé da parlare, da mordere e da
riprendere a ciascuno che ciò disidera di fare; e per ciò, come che ben facesse
il valente uomo che lo inquisitore della ipocrita carità de' frati, che quello
danno a' poveri che converrebbe loro dare al porco o gittar via, trafisse,
assai estimo più da lodare colui del quale, tirandomi a ciò la precedente
novella, parlar debbo; il quale messer Cane della Scala, magnifico signore,
d'una subita e disusata avarizia in lui apparita morse con una leggiadra
novella, in altrui figurando quello che di sé e di lui intendeva di dire; la
quale è questa.
Sì come chiarissima fama
quasi per tutto il mondo suona, messer Cane della Scala, al quale in assai cose
fu favorevole la fortuna, fu uno de' più notabili e de' più magnifici signori
che dallo imperadore Federigo secondo in quasi sapesse in Italia.
Il quale, avendo
disposto di fare una notabile e maravigliosa festa in Verona, e a quella molte
genti e di varie parti fossero venute, e massimamente uomini di corte d'ogni
maniera, subito (qual che la cagion si fosse) da ciò si ritrasse, e in parte
provedette coloro che venuti v'erano e licenziolli. Solo uno, chiamato
Bergamino, oltre al credere di chi non lo udì presto parlatore e ornato, senza
essere d'alcuna cosa proveduto o licenzia datagli, si rimase, sperando che non
senza sua futura utilità ciò dovesse essere stato fatto. Ma nel pensiero di
messer Cane era caduto ogni cosa che gli si donasse vie peggio esser perduta
che se nel fuoco fosse stata gittata; né di ciò gli dicea o facea dire alcuna
cosa.
Bergamino dopo alquanti
dì, non veggendosi né chiamare né richiedere a cosa che a suo mestier
partenesse e oltre a ciò consumarsi nello albergo co' suoi cavalli e co' suoi
fanti, incominciò a prender malinconia; ma pure aspettava, non parendogli ben
far di partirsi. E avendo seco portate tre belle e ricche robe, che donate gli
erano state da altri signori, per comparire orrevole alla festa, volendo il suo
oste esser pagato, primieramente gli diede l'una, e appresso, soprastando
ancora molto più, convenne, se più volle col suo oste tornare, gli desse la
seconda; e cominciò sopra la terza a mangiare, disposto di tanto stare a vedere
quanto quella durasse e poi partirsi. Ora, mentre che egli sopra la terza roba
mangiava, avvenne che egli si trovò un giorno, desinando messer Cane, davanti
da lui assai nella vista malinconoso. Il qual messer Can veggendo, più per
istraziarlo che per diletto pigliare d'alcun suo detto, disse:
– Bergamino, che hai tu?
tu stai così malinconoso! dinne alcuna cosa.
Bergamino allora, senza
punto pensare, quasi molto tempo pensato avesse, subitamente in acconcio de'
fatti suoi disse questa novella:
– Signor mio, voi dovete
sapere che Primasso fu un gran valente uomo in gramatica e fu oltre ad
ogn'altro grande e presto versificatore, le quali cose il renderono tanto
ragguardevole e sì famoso che, ancora che per vista in ogni parte conosciuto
non fosse, per nome e per fama quasi niuno era che non sapesse chi fosse
Primasso. Ora avvenne che, trovandosi egli una volta a Parigi in povero stato,
sì come egli il più del tempo dimorava, per la virtù che poco era gradita da
coloro che possono assai, udì ragionare d'uno abate di Clignì, il quale si
crede che sia il più ricco prelato di sue entrate che abbia la Chiesa di Dio,
dal papa in fuori; e di lui udì dire maravigliose e magnifiche cose in tener
sempre corte e non esser mai ad alcuno, che andasse là dove egli fosse, negato
né mangiare né bere solo che quando l'abate mangiasse il domandasse. La qual
cosa Primasso udendo, sì come uomo che si dilettava di vedere i valenti uomini
e signori, diliberò di volere andare a vedere la magnificenza di questo abate e
domandò quanto egli allora dimorasse presso a Parigi. A che gli fu risposto che
forse a sei miglia ad un suo luogo; al quale Primasso pensò di potervi essere,
movendosi la mattina a buona ora, ad ora di mangiare.
Fattasi adunque la via
insegnare, non trovando alcun che v'andasse, temette non per isciagura gli
venisse smarrita, e così potere andare in parte dove così tosto non troveria da
mangiare; per che, se ciò avvenisse, acciò che di mangiare non patisse disagio,
seco pensò di portare tre pani, avvisando che dell'acqua (come che ella gli
piacesse poco) troverebbe in ogni parte. E quegli messisi in seno, prese il suo
cammino, e vennegli sì ben fatto che avanti ora di mangiare pervenne là dove
l'abate era. Ed entrato dentro andò riguardando per tutto, e veduta la gran
moltitudine delle tavole messe e il grande apparecchio della cucina e l'altre
cose per lo desinare apprestate, fra sé medesimo disse: – Veramente è questi
così magnifico come uom dice –. E stando alquanto intorno a queste cose
attento, il siniscalco dello abate (per ciò che ora era di mangiare) comandò
che l'acqua si desse alle mani; e, data l'acqua, mise ogni uomo a tavola. E per
avventura avvenne che Primasso fu messo a sedere appunto dirimpetto all'uscio
della camera donde l'abate dovea uscire per venire nella sala a mangiare. Era
in quella corte questa usanza, che in su le tavole né vino né pane né altre
cose da mangiare o da bere si ponea giammai, se prima l'abate non veniva a
sedere alla tavola Avendo adunque il siniscalco le tavole messe, fece dire
all'abate che, qualora gli piacesse, il mangiare era presto.
L'abate fece aprir la
camera per venire nella sala, e venendo si guardò innanzi, e per ventura il
primo uomo che agli occhi gli corse fu Primasso, il quale assai male era in
arnese e cui egli per veduta non conoscea; e come veduto l'ebbe, incontanente
gli corse nello animo un pensier cattivo e mai più non statovi, e disse seco:
«Vedi a cui io do mangiare il mio!» E tornandosi addietro, comandò che la
camera fosse serrata e domandò coloro che appresso lui erano, se alcuno
conoscesse quel ribaldo che a rimpetto all'uscio della sua camera sedeva alle
tavole. Ciascuno rispose del no.
Primasso, il quale avea
talento di mangiare, come colui che camminato avea e uso non era di digiunare,
avendo alquanto aspettato e veggendo che lo abate non veniva, si trasse di seno
l'un de' tre pani li quali portati avea, e cominciò a mangiare. L'abate, poi
che alquanto fu stato, comandò ad uno de' suoi famigliari che riguardasse se
partito si fosse questo Primasso.
Il famigliare rispose:
– Messer no, anzi mangia
pane, il quale mostra che egli seco recasse.
Disse allora l'abate:
– Or mangi del suo, se
egli n'ha, ché del nostro non mangerà egli oggi.
Avrebbe voluto l'abate
che Primasso da sé stesso si fosse partito, per ciò che accomiatarlo non gli
pareva far bene. Primasso, avendo l'un pane mangiato, e l'abate non vegnendo,
cominciò a mangiare il secondo; il che similmente all'abate fu detto, che fatto
avea guardare se partito si fosse.
Ultimamente, non venendo
l'abate, Primasso, mangiato il secondo, cominciò a mangiare il terzo; il che
ancora fu allo abate detto, il quale seco stesso cominciò a pensare e a dire:
«Deh questa che novità è oggi che nell'anima m'è venuta? che avarizia? chente sdegno?
e per cui? Io ho dato mangiare il mio, già è molt'anni, a chiunque mangiare
n'ha voluto, senza guardare se gentile uomo è o villano, povero o ricco. o
mercatante o barattiere stato sia, e ad infiniti ribaldi con l'occhio me l'ho
veduto straziare, né mai nello animo m'entrò questo pensiero che per costui mi
c'è oggi entrato. Fermamente avarizia non mi dee avere assalito per uomo di
picciolo affare, qualche gran fatto dee essere costui che ribaldo mi pare,
poscia che così mi s'è rintuzzato l'animo d'onorarlo». E, così detto, volle
sapere chi fosse, e trovato ch'era Primasso, quivi venuto a vedere della sua
magnificenzia quello che n'aveva udito, il quale avendo l'abate per fama molto
tempo davante per valente uom conosciuto, si vergognò; e, vago di fare
l'ammenda, in molte maniere s'ingegnò d'onorarlo. E appresso mangiare, secondo
che alla sufficienza di Primasso si conveniva, il fe' nobilmente vestire e,
donatigli denari e un pallafreno, nel suo arbitrio rimise l'andare e lo stare.
Di che Primasso contento, rendutegli quelle grazie le quali potè maggiori, a
Parigi, donde a piè partito s'era, ritornò a cavallo. Messer Cane, il quale
intendente signore era, senza altra dimostrazione alcuna ottimamente intese ciò
che dir volea Bergamino, e sorridendo gli disse:
– Bergamino, assai
acconciamente hai mostrati i danni tuoi, la tua virtù e la mia avarizia e quel
che da me di sideri; e veramente mai più che ora per te da avarizia assalito
non fui; ma io la caccerò con quel bastone che tu medesimo hai divisato.
E fatto pagare l'oste di
Bergamino, e lui nobilissimamente d'una sua roba vestito, datigli denari e un
pallafreno, nel suo piacere per quella volta rimise l'andare e lo stare.
NOVELLA OTTAVA
Guglielmo Borsiere con
leggiadre parole trafigge l'avarizia di messer Erminio de' Grimaldi.
Sedeva appresso
Filostrato Lauretta, la quale, poscia che udito ebbe lodare la 'ndustria di
Bergamino e sentendo a lei convenir dire alcuna cosa, senza alcun comandamento
aspettare, piacevolmente così cominciò a parlare.
La precedente novella,
care compagne, m'induce a voler dire come un valente uomo di corte similemente
e non senza frutto pugnesse d'un ricchissimo mercatante la cupidigia; la quale,
perché l'effetto della passata somigli, non vi dovrà perciò essere men cara,
pensando che bene n'addivenisse alla fine.
Fu adunque in Genova,
buon tempo è passato, un gentile uomo chiamato messere Ermino de' Grimaldi, il
quale (per quello che da tutti era creduto) di grandissime possessioni e di
denari di gran lunga trapassava la ricchezza d'ogni altro ricchissimo cittadino
che allora si sapesse in Italia. E sì come egli di ricchezza ogni altro
avanzava che italico fosse, così d'avarizia e di miseria ogni altro misero e
avaro che al mondo fosse soperchiava oltre misura; per ciò che, non solamente
in onorare altrui teneva la borsa stretta, ma nelle cose opportune alla sua
propria persona, contra il general costume de' genovesi che usi sono di
nobilmente vestire, sosteneva egli, per non spendere, difetti grandissimi, e
similmente nel mangiare e nel bere. Per la qual cosa, e meritamente, gli era
de' Grimaldi caduto il soprannome e solamente messer Ermino Avarizia era da
tutti chiamato.
Avvenne che in questi
tempi che costui, non spendendo, il suo multiplicava, arrivò a Genova un valente
uomo di corte e costumato e ben parlante, il quale fu chia mato Guiglielmo
Borsiere, non miga simile a quelli li quali sono oggi, li quali, non senza gran
vergogna de' corrotti e vituperevoli costumi di coloro li quali al presente
vogliono essere gentili uomini e signor chiamati e reputati, sono più tosto da
dire asini nella bruttura di tutta la cattività de' vilissimi uomini allevati,
che nelle corti. E là dove a que' tempi soleva essere il lor mestiere e
consumarsi la lor fatica in trattar paci, dove guerre o sdegni tra gentili
uomini fosser nati, o trattar matrimoni, parentadi e amistà, e con belli motti
e leggiadri ricreare gli animi degli affaticati e sollazzar le corti, e con
agre riprensioni, sì come padri, mordere i difetti de' cattivi, e questo con
premi assai leggieri; oggidì in rapportar male dall'uno all'altro, in seminare
zizzania, in dire cattività e tristizie, e, che è peggio, in farle nella
presenza degli uomini, in rimproverare i mali, le vergogne e le tristezze vere
e non vere l'uno all'altro, e con false lusinghe gli animi gentili alle cose
vili e scelerate ritrarre, s'ingegnano il lor tempo di consumare; e colui è più
caro avuto, e più da' miseri e scostumati signori onorato e con premi
grandissimi essaltato, che più abominevoli parole dice o fa atti: gran vergogna
e biasimevole del mondo presente, e argomento assai evidente che le virtù,di
qua giù dipartitesi, hanno nella feccia de' vizi i miseri viventi abbandonati.
Ma, tornando a ciò che io cominciato avea, da che giusto sdegno un poco m'ha
trasviata più che io non credetti dico che il già detto Guiglielmo da tutti i
gentili uomini di Genova fu onorato e volentieri veduto. Il quale, essendo
dimorato alquanti giorni nella città e avendo udite molte cose della miseria e
della avarizia di messer Ermino, il volle vedere.
Messer Ermino aveva già
sentito come questo Guiglielmo Borsiere era valente uomo, e pure avendo in sé,
quantunque avaro fosse, alcuna favilluzza di gentilezza, con parole assai
amichevoli e con lieto viso il ricevette, e con lui entrò in molti e vari
ragionamenti, e ragionando il menò seco, insieme con altri genovesi che con lui
erano, in una sua casa nuova, la quale fatta avea fare assai bella; e, dopo
avergliele tutta mostrata, disse:
– Deh, messer
Guiglielmo, voi che avete e vedute e udite molte cose, saprestemi voi insegnare
cosa alcuna che mai più non fosse stata veduta, la quale io potessi far dipignere
nella sala di questa mia casa?
A cui Guiglielmo, udendo
il suo mal conveniente parlare, rispose:
– Messere, cosa che non
fosse mai stata veduta non vi crederrei io sapere insegnare, se ciò non fosser
già starnuti o cose a quegli somiglianti; ma, se vi piace, io ve ne insegnerò
bene una che voi non credo che vedeste giammai. Messere Ermino disse:
– Deh, io ve ne priego,
ditemi quale è dessa –; non aspettando lui quello dover rispondere che rispose.
A cui Guiglielmo allora prestamente disse:
– Fateci dipignere la
Cortesia.
Come messere Ermino udì
questa parola, così subitamente il prese una vergogna tale, che ella ebbe forza
di fargli mutare animo quasi tutto in contrario a quello che infino a quella
ora aveva avuto, e disse:
– Messer Guiglielmo, io
la ci farò dipignere in maniera che mai né voi né altri con ragione mi potrà
più dire che io non l'abbia veduta e conosciuta.
E da questo dì innanzi
(di tanta virtù fu la parola da Guiglielmo detta) fu il più liberale e il più
grazioso gentile uomo e quello che più e cittadini e forestieri onorò che altro
che in Genova fosse a' tempi suoi.
NOVELLA NONA
Il re di Cipri, da una
donna di Guascogna trafitto, di cattivo valoroso diviene.
Ad Elissa restava
l'ultimo comandamento della reina; la quale, senza aspettarlo, tutta festevole
cominciò. Giovani donne, spesse volte già addivenne che quello che varie
riprensioni e molte pene date ad alcuno non hanno potuto in lui adoperare, una
parola molte volte per accidente, non che ex proposito, detta l'ha operato. Il
che assai bene appare nella novella raccontata dalla Lauretta, e io ancora con
un'altra assai brieve ve lo intendo dimostrare; perché, con ciò sia cosa che le
buone sempre possan giovare, con attento animo son da ricogliere, chi che
d'esse sia il dicitore.
Dico adunque che né
tempi del primo re di Cipri, dopo il conquisto fatto della Terra Santa da
Gottifrè di Buglione, avvenne che una gentil donna di Guascogna in
pellegrinaggio andò al Sepolcro, donde tornando, in Cipri arrivata, da alcuni
scelerati uomini villanamente fu oltraggiata. Di che ella senza alcuna
consolazion dolendosi, pensò d'andarsene a richiamare al re; ma detto le fu per
alcuno che la fatica si perderebbe, perciò che egli era di sì rimessa vita e da
sì poco bene, che, non che egli l'altrui onte con giustizia vendicasse, anzi
infinite con vituperevole viltà a lui fattene sosteneva; in tanto che chiunque
avea cruccio alcuno, quello col fargli alcuna onta o vergogna sfogava.
La qual cosa udendo la
donna, disperata della vendetta, ad alcuna consolazione della sua noia propose
di voler mordere la miseria del detto re; e andatasene piagnendo davanti a lui,
disse:
– Signor mio, io non
vengo nella tua presenza per vendetta che io attenda della ingiuria che m'è
stata fatta, ma in sodisfacimento di quella ti priego che tu m'insegni come tu
sofferi quelle le quali io intendo che ti son fatte, acciò che, da te
apparando, io possa pazientemente la mia comportare; la quale, sallo Iddio, se
io far lo potessi, volentieri la ti donerei, poi così buon portatore ne sé. Il
re, infino allora stato tardo e pigro, quasi dal sonno si risvegliasse,
cominciando dalla ingiuria fatta a questa donna, la quale agramente vendicò,
rigidissimo persecutore divenne di ciascuno che contro all'onore della sua
corona alcuna cosa commettesse da indi innanzi.
NOVELLA DECIMA
Maestro Alberto da
Bologna onestamente fa vergognare una donna, la quale lui d'esser di lei
innamorato voleva far vergognare. Restava, tacendo già Elissa, l'ultima fatica
del novellare alla reina, la quale, donnescamente cominciando a parlare, disse.
Valorose giovani, come
né lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori
de' verdi prati, così de' laudevoli costumi e de' ragionamenti piacevoli sono i
leggiadri motti. Li quali, per ciò che brievi sono, molto meglio alle donne
stanno che agli uomini, in quanto più alle donne che agli uomini il molto
parlare e lungo, quando senza esso si possa fare, si disdisce, come che oggi
poche o niuna donna rimasa ci sia, la quale o ne 'ntenda alcuno leggiadro o a
quello, se pur lo 'ntendesse, sappia rispondere: general vergogna e di noi e di
tutte quelle che vivono. Per ciò che quella virtù che già fu nell'anime delle
passate hanno le moderne rivolta in ornamenti del corpo; e colei la quale si
vede indosso li panni più screziati e più vergati e con più fregi, si crede
dovere essere da molto più tenuta e più che l'altre onorata, non pensando che,
se fosse chi addosso o in dosso gliele ponesse, uno asino ne porterebbe troppo
più che alcuna di loro; né per ciò più da onorar sarebbe che uno asino.
Io mi vergogno di dirlo,
per ciò che contro all'altre non posso dire che io contro a me non dica: queste
così fregiate, così dipinte, così screziate, o come statue di marmo mutole e
insensibili stanno, o sì rispondono, se sono addomandate, che molto sarebbe
meglio l'avere taciuto; e fannosi a credere che da purità d'animo proceda il
non saper tra le donne e co' valenti uomini favellare, e alla loro milensaggine
hanno posto nome onestà, quasi niuna donna onesta sia se non colei che colla
fante o colla lavandaia o colla sua fornaia favella: il che se la natura avesse
voluto, come elle si fanno a credere, per altro modo loro avrebbe limitato il cinguettare.
E il vero che, così come
nell'altre cose, è in questa da riguardare e il tempo e il luogo e con cui si
favella; per ciò che talvolta avviene che, credendo alcuna donna o uomo con
alcuna paroletta leggiadra fare altrui arrossare, non avendo bene le sue forze
con quelle di quel cotale misurate, quello rossore che in altrui ha creduto
gittare sopra sé l'ha sentito tornare. Per che, acciò che voi vi sappiate
guardare, e oltre a questo acciò che per voi non si possa quello proverbio
intendere che comunemente si dice per tutto, cioè che le femine in ogni cosa
sempre pigliano il peggio, questa ultima novella di quelle d'oggi, la quale a
me tocca di dover dire, voglio venerenda ammaestrate; acciò che come per
nobiltà d'animo dall'altre divise siete, così ancora per eccellenzia di costumi
separate dall'altre vi dimostriate.
Egli non sono ancora
molti anni passati, che in Bologna fu un grandissimo medico e di chiara fama
quasi a tutto 'l mondo, e forse ancora vive, il cui nome fu maestro Alberto. Il
quale, essendo già vecchio di presso a settanta anni, tanta fu la nobiltà del
suo spirito che, essendo già del corpo quasi ogni natural caldo partito, in sé
non schifò di ricevere l'amorose fiamme; perché avendo veduta ad una festa una
bellissima donna vedova, chiamata, secondo che alcuni dicono, madonna
Malgherida de' Ghisolieri, e piaciutagli sommamente, non altrimenti che un
giovinetto, quelle nel maturo petto ricevette, in tanto che a lui non pareva
quella notte ben riposare che il dì precedente veduto non avesse il vago e
dilicato viso della bella donna.
E per questo incominciò
a continuare, quando a piè e quando a cavallo, secondo che più in destro gli
venia, la via davanti alla casa di questa donna. Per la qual cosa ed ella e
molte altre donne s'accorsero della cagione del suo passare, e più volte
insieme ne motteggiarono di vedere uno uomo, così antico d'anni e di senno,
innamorato, quasi credessero questa passione piacevolissima d'amore solamente
nelle sciocche anime de' giovani e non in altra parte capere e dimorare.
Per che, continuando il
passare del maestro Alberto, avvenne un giorno di festa che, essendo questa
donna con molte altre donne a sedere davanti alla sua porta e avendo di lontano
veduto il maestro Alberto verso loro venire, con lei insieme tutte si proposero
di riceverlo e di fargli onore, e appresso di motteggiarlo di questo suo
innamoramento; e così fecero. Per ciò che, levatesi tutte e lui invitato, in
una fresca corte il menarono, dove di finissimi vini e confetti fecer venire; e
al fine con assai belle e leggiadre parole come questo potesse essere, che egli
di questa bella donna fosse innamorato, il domandarono, sentendo esso lei da
molti belli, gentili e leggiadri giovani essere amata.
Il maestro, sentendosi
assai cortesemente pugnere, fece lieto viso e rispose:
– Madonna, che io ami,
questo non dee esser maraviglia ad alcuno savio, e spezialmente voi, però che
voi il valete. E come che agli antichi uomini sieno naturalmente tolte le forze
le quali agli amorosi esercizi si richieggiono, non è per ciò lor tolta la
buona volontà né lo intendere quello che sia da essere amato, ma tanto più
dalla natura conosciuto, quanto essi hanno più di conoscimento che i giovani.
La speranza la quale mi muove che io vecchio ami voi amata da molti giovani, è
questa: io sono stato più volte già là dove io ho veduto merendarsi le donne e
mangiare lupini e porri; e come che nel porro niuna cosa sia buona, pur men reo
e più piacevole alla bocca è il capo di quello, il quale voi generalmente, da
torto appetito tirate, il capo vi tenete in mano, e manicate le frondi, le
quali non solamente non sono da cosa alcuna, ma son di malvagio sapore. E che
so io, madonna, se nello eleggere degli amanti voi vi faceste il simigliante? E
se voi il faceste, io sarei colui che eletto sarei da voi, e gli altri cacciati
via.
La gentil donna insieme
coll'altre alquanto vergognandosi disse:
– Maestro, assai bene e
cortesemente gastigate n'avete della nostra presuntuosa impresa; tuttavia il
vostro amor m'è caro, sì come di savio e valente uomo esser dee; e per ciò,
salva la mia onestà, come a vostra cosa ogni vostro piacere m'imponete
sicuramente.
Il maestro, levatosi co'
suoi compagni, ringraziò la donna, e ridendo e con festa da lei preso commiato,
si partì. Così la donna, non guardando cui motteggiasse, credendo vincere, fu
vinta: di che voi, se savie sarete, ottimamente vi guarderete.
CONCLUSIONE
Già era il sole
inchinato al vespro, e in gran parte il caldo diminuito, quando le novelle
delle giovani donne e de' tre giovani si trovarono esser finite. Per la qual
cosa la loro reina piacevolmente disse:
– Omai, care compagne,
niuna cosa resta più a fare al mio reggimento per la presente giornata, se non
darvi reina nuova, la quale di quella che è a venire, secondo il suo giudicio,
la sua vita e la nostra ad onesto diletto disponga; e quantunque il dì paia di
qui alla notte durare, perciò che chi alquanto non prende di tempo avanti non
pare che ben si possa provedere per l'avvenire, e acciò che quello che la reina
nuova dilibererà esser per domattina opportuno si possa preparare, a questa ora
giudico doversi le seguenti giornate incominciare. E perciò a reverenza di
Colui a cui tutte le cose vivono e consolazione di noi, per questa seconda
giornata Filomena, discretissima giovane, reina guiderà il nostro regno.
E così detto, in piè
levatasi e trattasi la ghirlanda dello alloro, a lei reverente la mise; la
quale essa prima e appresso tutte l'altre e i giovani similmente salutaron come
reina e alla sua signoria piacevolmente s'offersero. Filomena, alquanto per
vergogna arrossata veggendosi coronata del regno e ricordandosi delle parole
poco avanti dette da Pampinea, acciò che milensa non paresse, ripreso l'ardire,
primieramente gli ufici dati da Pampinea riconfermò, e dispose quello che per
la seguente mattina e per la futura cena fare si dovesse, quivi dimorando dove
erano; e appresso così cominciò a parlare:
– Carissime compagne,
quantunque Pampinea, per sua cortesia più che per mia virtù, m'abbia di voi
tutti fatta reina, non sono io per ciò disposta nella forma del nostro vivere
dovere solamente il mio giudicio seguire, ma col mio il vostro insieme; e acciò
che quello che a me par di fare conosciate, e per consequente aggiugnere e
menomar possiate a vostro piacere, con poche parole ve lo intendo di
dimostrare. Se io ho ben riguardato alle maniere oggi da Pampinea tenute, egli
me le pare avere parimente laudevoli e dilettevoli conosciute; e per ciò infino
a tanto che elle, o per troppa continuanza o per altra cagione, non ci
divenisser noiose, quelle non giudico da mutare.
Dato adunque ordine a
quello che abbiamo già a fare cominciato, quinci levatici, alquanto n'andrem
sollazzando, e come il sole sarà per andar sotto, ceneremo per lo fresco, e,
dopo alcune canzonette e altri sollazzi, sarà ben fatto l'andarsi a dormire.
Domattina, per lo fresco levatici, similmente in alcuna parte n'andremo
sollazzando, come a ciascuno sarà più a grado di fare, e, come oggi avem fatto,
così all'ora debita torneremo a mangiare, balleremo, e da dormire levatici,
come oggi state siamo, qui al novellar torneremo, nel quale mi par grandissima
parte di piacere e d'utilità similmente consistere. È il vero che quello che
Pampinea non potè fare, per lo esser tardi eletta al reggimento, io il voglio
cominciare a fare, cioè a ristrignere dentro ad alcun termine quello di che
dobbiamo novellare e davanti mostrarlovi, acciò che ciascuno abbia spazio di
poter pensare ad alcuna bella novella sopra la data proposta contare; la quale,
quando questo vi piaccia, sia questa: che, con ciò sia cosa che dal principio
del mondo gli uomini sieno stati da diversi casi della fortuna menati, e
saranno infino alla fine, ciascun debba dire sopra questo: chi, da diverse cose
infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine. Le donne e gli
uomini parimente tutti questo ordine commendarono e quello dissero di seguire.
Dioneo solamente, tutti gli altri tacendo già, disse:
– Madonna, come tutti
questi altri hanno detto, così dico io sommamente esser piacevole e
commendabile l'ordine dato da voi; ma di spezial grazia vi chieggio un dono, il
quale voglio che mi sia confermato per infino a tanto che la nostra compagnia
durerà, il quale è questo: che io a questa legge non sia costretto di dover
dire novella secondo la proposta data, se io non vorrò, ma quale più di dire mi
piacerà. E acciò che alcun non creda che io questa grazia voglia sì come uomo
che delle novelle non abbia alle mani, infino da ora son contento d'esser
sempre l'ultimo che ragioni.
La reina, la quale lui e
sollazzevole uomo e festevole conoscea e ottimamente si avvisò questo lui non
chiedere se non per dovere la brigata, se stanca fosse del ragionare,
rallegrare con alcuna novella da ridere, col consentimento degli altri
lietamente la grazia gli fece.
E da seder levatasi,
verso un rivo d'acqua chiarissima, il quale d'una montagnetta discendeva in una
valle ombrosa da molti arbori fra vive pietre e verdi erbette, con lento passo
se n'andarono. Quivi, scalze e colle braccia nude per l'acqua andando,
cominciarono a prendere vari diletti fra sé medesime. E appressandosi l'ora
della cena, verso il palagio tornatesi, con diletto cenarono. Dopo la qual
cena, fatti venir gli strumenti, comandò la reina che una danza fosse presa, e
quella menando la Lauretta, Emilia cantasse una canzone, dal leuto di Dioneo
aiutata. Per lo qual comandamento Lauretta prestamente prese una danza, e
quella menò, cantando Emilia la seguente canzone amorosamente:
Io son sì vaga della mia
bellezza,
che d'altro amor giammai
non curerò, né credo
aver vaghezza.
Io veggio in quella,
ogn'ora ch'io mi specchio,
quel ben che fa contento
lo 'ntelletto,
né accidente nuovo o
pensier vecchio
mi può privar di si caro
diletto.
Qual altro dunque
piacevole oggetto
potrei veder giammai,
che mi mettesse in cuor
nuova vaghezza?
Non fugge questo ben,
qualor disio
di rimirarlo in mia
consolazione;
anzi si fa incontro al
piacer mio
tanto soave a sentir,
che sermone
dir nol poria, ne
prendere intenzione
d'alcun mortal giammai,
che non ardesse di cotal
vaghezza.
E io, che ciascun'ora
più m'accendo,
quanto più fiso gli
occhi tengo in esso,
tutta mi dono a lui,
tutta mi rendo,
gustando già di ciò
ch'el m'ha promesso,
e maggior gioia spero
più da presso
sì fatta, che giammai
simil non si sentì qui di
vaghezza.
Questa ballatetta
finita, alla qual tutti lietamente aveano risposto, ancor che alcuni molto alle
parole di quella pensar facesse, dopo alcune altre carolette fatte, essendo già
una particella della brieve notte passata, piacque alla reina di dar fine alla
Giornata prima; e, fatti i torchi accendere, comandò che ciascuno infino alla
seguente mattina s'andasse a riposare; per che ciascuno, alla sua camera
tornatosi, così fece.
Finisce la giornata
prima del Decameron.
Incomincia la seconda giornata,
nella quale. sotto il reggimento di Filomena, sl ragiona di chi, da diverse
cose infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine.
GIORNATA SECONDA
INTRODUZIONE
Già per tutto aveva il
sol recato colla sua luce il nuovo giorno e gli uccelli, su per gli verdi rami
cantando piacevoli versi, ne davano agli orecchi testimonianza, quando
parimente tutte le donne e i tre giovani levatisi ne' giardini se n'entrarono e
le rugiadose erbe con lento passo scalpitando, d'una parte in un'altra, belle
ghirlande faccendosi, per lungo spazio diportando s'andarono. E sì come il
trapassato giorno avean fatto, così fecero il presente: per lo fresco avendo
mangiato, dopo alcun ballo s'andarono a riposare, e da quello appresso la nona
levatisi, come alla loro reina piacque, nel fresco pratello venuti, a lei
dintorno si posero a sedere.
Ella, la quale era
formosa e di piacevole aspetto molto, della sua ghirlanda dello alloro
coronata, alquanto stata e tutta la sua compagnia riguardata nel viso, a
Neifile comandò che alle future novelle con una desse principio; la quale,
senza scusa alcuna fare, così lieta cominciò a parlare.
NOVELLA PRIMA
Martellino, infignendosi
attratto, sopra santo Arrigo fa vista di guarire, e, conosciuto il suo inganno,
è battuto, e poi, preso e in pericolo venuto d'esser impiccato per la gola,
ultimamente scampa.
Spesse volte, carissime
donne, avvenne che chi altrui s'è di beffare ingegnato, e massimamente quelle cose
che sono da reverire, s'è colle beffe e talvolta col danno di sé solo
ritrovato. Il che, acciò che io al comandamento della reina ubbidisca e
principio dea con una mia novella alla proposta, intendo di raccontarvi quello
che prima sventuratamente, e poi fuori di tutto il suo pensiero assai
felicemente, ad un nostro cittadino avvenisse. Era, non è ancora lungo tempo
passato, un tedesco a Trivigi, chiamato Arrigo, il quale, povero uomo essendo,
di portar pesi a prezzo serviva chi il richiedeva; e, con questo, uomo di
santissima vita e di buona era tenuto da tutti. Per la qual cosa, o vero o non
vero che si fosse, morendo egli, adivenne, secondo che i trivigiani affermano,
che nell'ora della sua morte le campane della maggior chiesa di Trivigi tutte,
senza essere da alcuno tirate, cominciarono a sonare. Il che in luogo di
miracolo avendo, questo Arrigo esser santo dicevano tutti; e concorso tutto il
popolo della città alla casa nella quale il suo corpo giaceva, quello a guisa
d'un corpo santo nella chiesa maggiore ne portarono, menando quivi zoppi
attratti e ciechi e altri di qualunque infermità o difetto impediti, quasi
tutti dovessero dal toccamento di questo corpo divenir sani.
In tanto tumulto e
discorrimento di popolo, avvenne che in Trivigi giunsero tre nostri cittadini,
de' quali l'uno era chiamato Stecchi, l'altro Martellino e il terzo Marchese,
uomini li quali, le corti de' signori visitando, di contraffarsi e con nuovi
atti contraffacendo qualun que altro uomo li veditori sollazzavano. Li quali quivi
non essendo stati giammai, veggendo correre ogni uomo, si maravigliarono, e
udita la cagione per che ciò era, disiderosi divennero d'andare a vedere. E
poste le lor cose ad uno albergo, disse Marchese:
– Noi vogliamo andare a
veder questo santo; ma io per me non veggio come noi vi ci possiam pervenire,
per ciò che io ho inteso che la piazza è piena di tedeschi e d'altra gente
armata, la quale il signor di questa terra, acciò che romor non si faccia, vi
fa stare; e oltre a questo la chiesa, per quello che si dica, è sì piena di
gente che quasi niuna persona più vi può entrare.
Martellino allora, che
di veder questa cosa disiderava, disse:
– Per questo non
rimanga; ché di pervenire infino al corpo santo troverrò io ben modo.
Disse Marchese:
– Come?
Rispose Martellino:
– Dicolti. Io mi
contraffarò a guisa d'uno attratto, e tu dall'un lato e Stecchi dall'altro,
come se io per me andar non potessi, mi verrete sostenendo, faccendo sembianti
di volermi là menare acciò che questo santo mi guarisca; egli non sarà alcuno
che veggendoci non ci faccia luogo, e lascici andare. A Marchese e a Stecchi
piacque il modo; e, senza alcuno indugio usciti fuori dello albergo, tutti e
tre in un solitario luogo venuti, Martellino si storse in guisa le mani, le
dita e le braccia e le gambe, e oltre a questo la bocca e gli occhi e tutto il
viso, che fiera cosa pareva a vedere; né sarebbe stato alcuno che veduto
l'avesse, che non avesse detto lui veramente esser tutto della persona perduto
rattratto. E preso così fatto da Marchese e da Stecchi, verso la chiesa si
dirizzarono, in vista tutti pieni di pietà, umilemente e per lo amor di Dio
domandando a ciascuno che dinanzi lor si parava, che loro luogo facesse; il che
agevolmente impetravano; e in brieve, riguardati da tutti, e quasi per tutto
gridandosi –fa luogo, fa luogo, là pervennero ove il corpo di santo Arrigo era
posto; e da certi gentili uomini, che v'erano dattorno, fu Martellino
prestamente preso e sopra il corpo posto, acciò che per quello il beneficio
della sanità acquistasse.
Martellino, essendo
tutta la gente attenta a vedere che di lui avvenisse, stato alquanto, cominciò,
come colui che ottimamente far lo sapeva, a far sembiante di distendere l'uno
dediti, e appresso la mano, e poi il braccio, e così tutto a venirsi
distendendo. Il che veggendo la gente, sì gran romore in lode di santo Arrigo
facevano che i tuoni non si sarieno potuti udire.
Era per avventura un
fiorentino vicino a questo luogo, il quale molto bene conoscea Martellino, ma
per l'essere così travolto quando vi fu menato non lo avea conosciuto; il
quale, veggendolo ridirizzato e riconosciutolo, subitamente cominciò a ridere e
a dire:
– Domine, fallo tristo!
chi non avrebbe creduto, veggendol venire, che egli fosse stato attratto da
dovero?
Queste parole udirono
alcuni trivigiani, li quali incontanente il domandarono:
– Come! Non era costui
attratto?
A'quali il fiorentino
rispose:
– Non piaccia a Dio!
egli è sempre stato diritto come è qualunque di noi, ma sa meglio che altro
uomo, come voi avete potuto vedere, far queste ciance di contraffarsi in
qualunque forma vuole.
Come costoro ebbero
udito questo, non bisognò più avanti; essi si fecero per forza innanzi e
cominciarono a gridare:
– Sia preso questo
traditore e beffatore di Dio e de' santi, il quale, non essendo attratto, per
ischernire il nostro santo e noi, qui a guisa d'attratto è venuto.
E così dicendo il
pigliarono, e giù del luogo dove era il tirarono, e presolo per li capelli e
stracciatigli tutti i panni in dosso, gli cominciarono a dare delle pugna e de'
calci; né parea a colui esser uomo, che a questo far non correa. Martellino
gridava mercé per Dio e quanto poteva s'aiutava; ma ciò era niente: la calca
gli multiplicava ogni ora addosso maggiore.
La qual cosa veggendo Stecchi
e Marchese, cominciarono fra sé a dire che la cosa stava male, e di sé medesimi
dubitando, non ardivano ad aiutarlo; anzi con gli altri insieme gridavano ch'el
fosse morto, avendo nondimeno pensiero tuttavia come trarre il potessero delle
mani del popolo. Il quale fermamente l'avrebbe ucciso, se uno argomento non
fosse stato, il qual Marchese subitamente prese; che, essendo ivi di fuori la
famiglia tutta della signoria, Marchese, come più tosto potè, n'andò a colui
che in luogo del podestà v'era, e disse:
– Mercé per Dio! egli è
qua un malvagio uomo che m'ha tagliata la borsa con ben cento fiorini d'oro; io
vi priego che voi il pigliate, sì che io riabbia il mio. Subitamente, udito
questo, ben dodici de' sergenti corsero là dove il misero Martellino era senza
pettine carminato, e alle maggior fatiche del mondo rotta la calca, loro tutto
pesto e tutto rotto il trassero delle mani e menaronnelo a palagio; dove molti
seguitolo che da lui si tenevano scherniti, avendo udito che per tagliaborse
era stato preso, non parendo loro avere alcuno altro più giusto titolo a fargli
dar la mala ventura, similemente cominciarono a dire, ciascuno da lui essergli
stata tagliata la borsa.
Le quali cose udendo il
giudice del podestà, il quale era un ruvido uomo, prestamente da parte
menatolo, sopra ciò 'ncominciò ad esaminare. Ma Martellino rispondea
motteggiando, quasi per niente avesse quella presura; di che il giudice
turbato, fattolo legare alla colla, parecchie tratte delle buone gli fece dare
con animo di fargli confessare ciò che coloro dicevano, per farlo poi appiccare
per la gola. Ma poi che egli fu in terra posto, domandandolo il giudice se ciò
fosse vero che coloro incontro a lui dicevano, non valendogli il dire di no,
disse:
– Signor mio, io son
presto a confessarvi il vero, ma fatevi a ciascun che mi accusa dire quando e
dove io gli tagliai la borsa, e io vi dirò quello che io avrò fatto, e quel che
no.
Disse il giudice:
– Questo mi piace; e
fattine alquanti chiamare, l'uno diceva che gliele avea tagliata otto dì eran
passati, l'altro sei, l'altro quattro, e alcuni dicevano quel dì stesso.
Il che udendo
Martellino, disse:
– Signor mio, essi
mentono tutti per la gola; e che io dica il vero, questa pruova ve ne posso
fare, che così non fossi io mai in questa terra entrato, come io mal non ci
fui, se non da poco fa in qua; e come io giunsi, per mia disavventura andai a
vedere questo corpo santo, dove io sono stato pettinato come voi potete vedere;
e che questo che io dico sia vero, ve ne può far chiaro l'uficiale del signore
il quale sta alle presentagioni, e il suo libro, e ancora l'oste mio. Per che,
se così trovate come io vi dico, non mi vogliate ad instanzia di questi malvagi
uomini straziare e uccidere.
Mentre le cose erano in
questi termini, Marchese e Stecchi, li quali avevan sentito che il giudice del
podestà fieramente contro a lui procedeva, e già l'aveva collato, temetter
forte, seco dicendo: «Male abbiam procacciato; noi abbiamo costui tratto della
padella, e gittatolo nel fuoco». Per che, con ogni sollecitudine dandosi
attorno, e l'oste loro ritrovato, come il fatto era gli raccontarono. Di che
esso ridendo, gli menò ad un Sandro Agolanti, il quale in Trivigi abitava e
appresso al signore avea grande stato, e ogni cosa per ordine dettagli, con
loro insieme il pregò che de' fatti di Martellino gli tenesse.
Sandro, dopo molte risa,
andatosene al signore, impetrò che per Martellino fosse mandato, e così fu. Il
quale coloro che per lui andarono trovarono ancora in camicia dinanzi al
giudice, e tutto smarrito e pauroso forte, perciò che il giudice niuna cosa in
sua scusa voleva udire; anzi, per avventura avendo alcuno odio né fiorentini,
del tutto era disposto a volerlo fare impiccar per la gola, e in niuna guisa
rendere il voleva al signore, infino a tanto che costretto non fu di renderlo a
suo dispetto. Al quale poiché egli fu davanti, e ogni cosa per ordine dettagli,
porse prieghi che in luogo di somma grazia via il lasciasse andare; per ciò
che, infino che in Firenze non fosse, sempre gli parrebbe il capestro aver
nella gola. Il signore fece grandissime risa di così fatto accidente; e fatta
donare una roba per uomo, oltre alla speranza di tutti e tre di così gran pericolo
usciti, sani e salvi se ne tornarono a casa loro.
NOVELLA SECONDA
Rinaldo d'Esti, rubato,
capita a Castel Guiglielmo ed è albergato da una donna vedova e, de' suoi danni
ristorato, sano e salvo si torna a casa sua.
Degli accidenti di
Martellino da Neifile raccontati senza modo risero le donne, e massimamente
tra' giovani Filostrato, al quale, per ciò che appresso di Neifile sedea,
comandò la reina che novellando la seguitasse. Il quale senza indugio alcuno
incominciò.
Belle donne, a
raccontarsi mi tira una novella di cose catoliche e di sciagure e d'amore in
parte mescolata, la quale per avventura non fia altro che utile avere udita; e
spezialmente a coloro li quali per li dubbiosi paesi d'amore sono camminanti,
né quali, chi non ha detto il paternostro di san Giuliano, spesse volte, ancora
che abbia buon letto, alberga male.
Era adunque, al tempo
del marchese Azzo da Ferrara, un mercatante chiamato Rinaldo d'Esti per sue
bisogne venuto a Bologna; le quali avendo fornite e a casa tornandosi, avvenne
che, uscito di Ferrara e cavalcando verso Verona, s'abbattè in alcuni li quali
mercatanti parevano ed erano masnadieri e uomini di malvagia vita e condizione,
con li quali ragionando incautamente s'accompagnò. Costoro, veggendol
mercatante e stimando lui dover portar danari, seco diliberarono che, come
prima tempo si vedessero, di rubarlo; e perciò, acciò che egli niuna suspezion
prendesse, come uomini modesti e di buona condizione, pure d'oneste cose e di
lealtà andavano con lui favellando, rendendosi, in ciò che potevano e sapevano,
umili e benigni verso di lui; per che egli di avergli trovati si reputava in
gran ventura, per ciò che solo era con uno suo fante a cavallo. E così
camminando, d'una cosa in altra, come né ragionamenti addiviene, trapas sando,
caddero in sul ragionare delle orazioni che gli uomini fanno a Dio; e l'un de'
masnadieri, che erano tre, disse verso Rinaldo:
– E voi, gentile uomo,
che orazione usate di dir camminando? Al quale Rinaldo rispose:
– Nel vero io sono uomo
di queste cose assai materiale e rozzo, e poche orazioni ho per le mani, sì
come colui che mi vivo all'antica e lascio correr due soldi per ventiquattro
denari; ma nondimeno ho sempre avuto in costume camminando di dir la mattina,
quando esco dell'albergo, un paternostro e una avemaria per l'anima del padre e
della madre di san Giuliano, dopo il quale io priego Iddio e lui che la
seguente notte mi deano buono albergo. E assai volte già de' miei dì sono stato
camminando in gran pericoli, de' quali tutti scampato, pur sono la notte poi
stato in buon luogo e bene albergato; per che io porto ferma credenza che san
Giuliano, a cui onore io il dico, m'abbia questa grazia impetrata da Dio; né mi
parrebbe il dì ben potere andare, né dovere la notte vegnente bene arrivare,
che io non l'avessi la mattina detto.
A cui colui, che
domandato l'avea, disse:
– E istamane dicestel
voi?
A cui Rinaldo rispose:
– Sì bene.
Allora quegli che già
sapeva come andar doveva il fatto, disse seco medesimo: «Al bisogno ti fia
venuto; ché, se fallito non ci viene, per mio avviso tu albergherai pur male»;
e poi gli disse:
– Io similmente ho già
molto camminato, e mai nol dissi, quantunque io l'abbia a molti molto già udito
commendare, né giammai non m'avvenne che io per ciò altro che bene albergassi;
e questa sera per avventura ve ne potrete avvedere chi meglio albergherà, o voi
che detto l'avete o io che non l'ho detto. Bene è il vero che io uso in luogo
di quello il Dirupisti, o la 'Ntemerata, o il Deprofundi, che sono, secondo che
una mia avola mi soleva dire, di grandissima virtù.
E così di varie cose
parlando e al lor cammin procedendo, e aspettando luogo e tempo al loro
malvagio proponimento, avvenne che, essendo già tardi, di là da Castel
Guiglielmo, al valicare d'un fiume, questi tre, veggendo l'ora tarda e il luogo
solitario e chiuso, assalitolo, il rubarono, e lui a piè e in camicia lasciato,
partendosi dissero:
– Va e sappi se il tuo
san Giuliano questa notte ti darà buono albergo, ché il nostro il darà bene a
noi –; e, valicato il fiume, andaron via.
Il fante di Rinaldo
veggendolo assalire, come cattivo, niuna cosa al suo aiuto adoperò, ma, volto
il cavallo sopra il quale era, non si ritenne di correre sì fu a Castel
Guiglielmo, e in quello, essendo già sera, entrato, senza darsi altro impaccio,
albergò. Rinaldo rimaso in camicia e scalzo, essendo il freddo grande e
nevicando tuttavia forte, non sappiendo che farsi, veggendo già sopravvenuta la
notte, tremando e battendo i denti, cominciò a riguardare se dattorno alcun
ricetto si vedesse, dove la notte potesse stare, che non si morisse di freddo;
ma niun veggendone (per ciò che poco davanti essendo stata guerra nella
contrada v'era ogni cosa arsa), sospinto dalla freddura, trottando si dirizzò
verso Castel Guiglielmo, non sappiendo perciò che il suo fante là o altrove si
fosse fuggito, pensando, se dentro entrare vi potesse, qual che soccorso gli
manderebbe Iddio.
Ma la notte oscura il
soprapprese di lungi dal castello presso ad un miglio; per la quale cosa sì
tardi vi giunse che, essendo le porti serrate e i ponti levati, entrar non vi
potè dentro. Laonde, dolente e isconsolato, piagnendo guardava dintorno dove
porre si potesse, che almeno addosso non gli nevicasse; e per avventura vide
una casa sopra le mura del castello sportata alquanto in fuori, sotto il quale
sporto diliberò d'andarsi a stare infino al gior no; e là andatosene e sotto
quello sporto trovato un uscio, come che serrato fosse, a piè di quello
ragunato alquanto di pagliericcio che vicin v'era, tristo e dolente si pose a
stare, spesse volte dolendosi a san Giuliano, dicendo questo non essere della
fede che aveva in lui. Ma san Giuliano, avendo a lui riguardo, senza troppo
indugio gli apparecchiò buono albergo.
Egli era in questo
castello una donna vedova, del corpo bellissima quanto alcuna altra, la quale
il marchese Azzo amava quanto la vita sua, e quivi ad instanzia di sé la facea
stare. E dimorava la predetta donna in quella casa, sotto lo sporto della quale
Rinaldo s'era andato a dimorare. Ed era il dì dinanzi per avventura il marchese
quivi venuto per doversi la notte giacere con essolei, e in casa di lei
medesima tacitamente aveva fatto fare un bagno, e nobilmente da cena. Ed
essendo ogni cosa presta, e niun'altra cosa che la venuta del marchese era da
lei aspettata, avvenne che un fante giunse alla porta, il quale recò novelle al
marchese, per le quali a lui subitamente cavalcar convenne; per la qual cosa,
mandato a dire alla donna che non lo attendesse, prestamente andò via. Onde la
donna, un poco sconsolata, non sappiendo che farsi, deliberò d'entrare nel
bagno fatto per lo marchese, e poi cenare e andarsi al letto; e così nel bagno
se n'entrò. Era questo bagno vicino all'uscio dove il meschino Rinaldo s'era
accostato fuori della terra; per che, stando la donna nel bagno, sentì il
pianto e 'l tremito che Rinaldo faceva, il quale pareva diventato una cicogna.
Laonde, chiamata la sua fante, le disse:
– Va su e guarda fuor
del muro a piè di questo uscio chi v'è, e chi egli è, e quel ch'el vi fa. La
fante andò, e aiutandola la chiarità dell'aere, vide costui in camicia e scalzo
quivi sedersi come detto è, tremando forte; per che ella il domandò chi el
fosse. E Rinaldo, sì forte tremando che appena poteva le parole formare, chi el
fosse e come e perché quivi, quanto più brieve potè, le disse; e poi
pietosamente la cominciò a pregare che, se esser potesse, quivi non lo
lasciasse di freddo la notte morire.
La fante, divenutane
pietosa, tornò alla donna e ogni cosa le disse. La qual similmente pietà
avendone, ricordatasi che di quello uscio aveva la chiave, il quale alcuna
volta serviva alle occulte entrate del marchese, disse:
– Va, e pianamente gli
apri; qui è questa cena, e non saria chi mangiarla, e da poterlo albergare ci è
assai. La fante di questa umanità avendo molto commendata la donna, andò e sì
gli aperse, e dentro messolo, quasi assiderato veggendolo, gli disse la donna:
– Tosto, buono uomo,
entra in quel bagno, il quale ancora è caldo.
Ed egli questo, senza
più inviti aspettare, di voglia fece; e tutto dalla caldezza di quello
riconfortato, da morte a vita gli parve essere tornato. La donna gli fece
apprestare panni stati del marito di lei, poco tempo davanti morto, li quali
come vestiti s'ebbe, a suo dosso fatti parevano; e aspettando quello che la
donna gli comandasse, incominciò a ringraziare Iddio e san Giuliano che di sì
malvagia notte, come egli aspettava, l'avevano liberato, e a buono albergo, per
quello che gli pareva, condotto Appresso questo la donna alquanto riposatasi, avendo
fatto fare un grandissimo fuoco in una sua camminata, in quella se ne venne, e
del buono uomo domandò che ne fosse. A cui la fante rispose:
– Madonna, egli s'è
rivestito, ed è un bello uomo e par persona molto da bene e costumato. – Va
dunque, – disse la donna – e chiamalo, e digli che qua se ne venga al fuoco, e
sì cenerà, ché so che cenato non ha.
Rinaldo nella camminata
entrato, e veggendo la donna, e da molto parendogli, reverentemente la salutò,
e quelle grazie le quali seppe maggiori del beneficio fattogli le rende'. La
donna, vedutolo e uditolo, e parendole quello che la fante dicea, lietamente il
ricevette e seco al fuoco familiarmente il fè sedere e dello accidente che
quivi condotto l'avea il domandò. Alla quale Rinaldo per ordine ogni cosa
narrò.
Aveva la donna, nel
venire del fante di Rinaldo nel castello, di questo alcuna cosa sentita, per
che ella ciò che da lui era detto interamente credette; e sì gli disse ciò che
del suo fante sapeva e come leggiermente la mattina appresso ritrovare il
potrebbe. Ma poi che la tavola fu messa, come la donna volle, Rinaldo, con lei
insieme le mani lavatesi, si pose a cenare.
Egli era grande della
persona e bello e piacevole nel viso e di maniere assai laudevoli e graziose e
giovane di mezza età; al quale la donna avendo più volte posto l'occhio addosso
e molto commendatolo, e già, per lo marchese che con lei dovea venire a
giacersi, il concupiscibile appetito avendo desto nella mente, dopo la cena, da
tavola levatasi, colla sua fante si consigliò se ben fatto le paresse che ella,
poi che il marchese beffata l'avea, usasse quel bene che innanzi l'avea la
fortuna mandato. La fante, conoscendo il disiderio della sua donna, quanto potè
e seppe a seguirlo la confortò; per che la donna, al fuoco tornatasi, dove
Rinaldo solo lasciato aveva, cominciatolo amorosamente a guardare, gli disse:
– Deh, Rinaldo, perché
state voi così pensoso? Non credete voi potere essere ristorato d'un cavallo e
d'alquanti panni che voi abbiate perduti? Confortatevi, state lietamente, voi
siete in casa vostra; anzi vi voglio dire più avanti, che, veggendovi cotesti
panni in dosso, li quali del mio morto marito furono, parendomi voi pur desso,
m'è venuto stasera forse cento volte voglia d'abbracciarvi e di baciarvi; e, se
io non avessi temuto che dispiaciuto vi fosse, per certo io l'avrei fatto.
Rinaldo, queste parole
udendo e il lampeggiar degli occhi della donna veggendo, come colui che
mentecatto non era, fattolesi incontro colle braccia aperte, disse:
– Madonna, pensando che
io per voi possa omai sempre dire che io sia vivo, a quello guardando donde
torre mi faceste, gran villania sarebbe la mia se io ogni cosa che a grado vi
fosse non m'ingegnassi di fare; e però contentate il piacer vostro
d'abbracciarmi e di baciarmi, ché io abbraccerò e bacerò voi vie più che
volentieri.
Oltre a queste non
bisognar più parole. La donna, che tutta d'amoroso disio ardeva, prestamente
gli si gittò nelle braccia; e poi che mille volte, disiderosamente
strignendolo, baciato l'ebbe e altrettante da lui fu baciata, levatisi di
quindi, nella camera se n'andarono, e senza niuno indugio coricatisi,
pienamente e molte volte, anzi che il giorno venisse, i lor disii adempierono.
Ma poi che ad apparire cominciò l'aurora, sì come alla donna piacque, levatisi,
acciò che questa cosa non si potesse presummere per alcuno, datigli alcuni
panni assai cattivi ed empiutagli la borsa di denari, pregandolo che questo
tenesse celato, avendogli prima mostrato che via tener dovesse a venir dentro a
ritrovare il fante suo, per quello usciolo onde era entrato, il mise fuori.
Egli, fatto dì chiaro, mostrando di venire di più lontano, aperte le porti,
entrò nel castello e ritrovò il suo fante; per che, rivestitosi de' panni suoi
che nella valigia erano, e volendo montare in su 'l cavallo del fante, quasi
per divino miracolo addivenne che li tre masnadieri che la sera davanti rubato
l'aveano, per altro maleficio da loro fatto poco poi appresso presi, furono in
quel castello menati, e per confessione da loro medesimi fatta, gli fu restituito
il suo cavallo, i panni e i danari, né ne perdé altro che un paio di cintolini,
dei quali non sapevano i masnadieri che fatto se n'avessero.
Per la qual cosa
Rinaldo, Iddio e san Giuliano ringraziando, montò a cavallo e sano e salvo
ritornò a casa sua; e i tre masnadieri il dì seguente andarono a dar de' calci
a rovaio.
NOVELLA TERZA
Tre giovani, male il
loro avere spendendo, impoveriscono; dei quali un nepote con uno abate
accontatosi tornandosi a casa per disperato, lui truova essere la figliuola del
re d'lnghilterra, la quale lui per marito prende e de' suoi zii ogni danno
ristora, tornandogli in buono stato.
Furono con ammirazione
ascoltati i casi di Rinaldo d'Esti dalle donne e dà giovani, e la sua divozion
commendata, e Iddio e san Giuliano ringraziati, che al suo bisogno maggiore gli
avevano prestato soccorso. Né fu per ciò (quantunque cotal mezzo di nascoso si
dicesse) la donna reputata sciocca, che saputo aveva pigliare il bene che Iddio
a casa l'aveva mandato. E mentre che della buona notte che colei ebbe
sogghignando si ragionava, Pampinea, che sé allato allato a Filostrato vedea,
avvisando, sì come avvenne, che a lei la volta dovesse toccare, in sé stessa
recatasi, quel che dovesse dire cominciò a pensare; e dopo il comandamento della
reina, non meno ardita che lieta, così cominciò a parlare. Valorose donne,
quanto più si parla de' fatti della Fortuna, tanto più, a chi vuole le sue cose
ben riguardare, ne resta a poter dire; e di ciò niuno dee aver maraviglia, se
discretamente pensa che tutte le cose, le quali noi scioccamente nostre
chiamiamo, sieno nelle sue mani, e per conseguente da lei secondo il suo
occulto giudicio, senza alcuna posa d'uno in altro e d'altro in uno
successivamente, senza alcuno conosciuto ordine da noi, esser da lei permutate.
Il che, quantunque con piena fede in ogni cosa e tutto il giorno si mostri, e
ancora in alcune novelle di sopra mostrato sia, nondimeno, piacendo alla nostra
reina che sopra ciò si favelli, forse non senza utilità degli ascoltanti aggiugnerò
alle dette una mia novella, la quale avviso dovrà piacere.
Fu già nella nostra
città un cavaliere, il cui nome fu messer Tebaldo, il quale, secondo che alcuni
vogliono, fu de' Lamberti; e altri affermano lui essere stato degli Agolanti,
forse più dal mestiere de' figliuoli di lui poscia fatto, conforme a quello che
sempre gli Agolanti hanno fatto e fanno, prendendo argomento, che da altro. Ma,
lasciando stare di quale delle due case si fosse, dico che esso fu né suoi
tempi ricchissimo cavaliere, ed ebbe tre figliuoli, de' quali il primo ebbe
nome Lamberto, il secondo Tedaldo, e il terzo Agolante, già belli e leggiadri
giovani, quantunque il maggiore a diciotto anni non aggiugnesse, quando esso
messer Tebaldo ricchissimo venne a morte, e a loro, sì come a legittimi suoi
eredi, ogni suo bene e mobile e stabile lasciò.
Li quali, veggendosi
rimasi ricchissimi e di contanti e di possessioni, senza alcuno altro governo
che del loro medesimo piacere, senza alcuno freno o ritegno cominciarono a
spendere, tenendo grandissima famiglia e molti e buoni cavalli e cani e uccelli
e continuamente corte, donando e armeggiando, e faccendo ciò non solamente che
a gentili uomini s'appartiene, ma ancora quello che nello appetito loro
giovenile cadeva di voler fare. Né lungamente fecer cotal vita,che il tesoro
lasciato loro dal padre venne meno; e non bastando alle cominciate spese
seguire le loro rendite, cominciarono a impegnare e a vendere le possessioni; e
oggi l'una e doman l'altra vendendo, appena s'avvidero che quasi al niente
venuti furono, e aperse loro gli occhi la povertà, li quali la ricchezza aveva
tenuti chiusi.
Per la qual cosa
Lamberto, chiamati un giorno gli altri due, disse loro qual fosse l'orrevolezza
del padre stata e quanta la loro, e quale la lor ricchezza e chente la povertà
nella quale per lo disordinato loro spendere eran venuti; e, come seppe il
meglio, avanti che più della lor miseria apparisse, gli confortò con lui
insieme a vendere quel poco che rimaso era loro e andarsene via; e così fecero.
E, senza commiato chiedere o fare alcuna pompa, di Firenze usciti, non si
ritenner sì furono in Inghilterra; e quivi, presa in Londra una casetta,
faccendo sottilissime spese, agramente cominciarono a prestare ad usura; e sì
fu in questo loro favorevole la fortuna, che in pochi anni grandissima quantità
di denari avanzarono. Per la qual cosa con quelli, successivamente or l'uno or
l'altro a Firenze tornandosi, gran parte delle lor possessioni ricomperarono, e
molte dell'altre comperar sopra quelle, e presero moglie; e continuamente in
Inghilterra prestando, ad attendere a' fatti loro un giovane loro nepote, che
avea nome Alessandro, mandarono, ed essi tutti e tre a Firenze avendo
dimenticato a qual partito gli avesse lo sconcio spendere altra volta recati,
nonostante che in famiglia tutti venuti fossero, più che mai strabocchevolmente
spendevano ed erano sommamente creduti da ogni mercatante, e d'ogni gran
quantità di danari. Le quali spese alquanti anni aiutò loro sostenere la moneta
da Alessandro loro mandata, il quale messo s'era in prestare a' baroni sopra
castella e altre loro entrate, le quali di gran vantaggio bene gli
rispondevano. E mentre così i tre fratelli largamente spendeano, e mancando
denari accattavano, avendo sempre la speranza ferma in Inghilterra, avvenne
che, contro alla oppinion d'ogni uomo, nacque in Inghilterra una guerra tra il
re e un suo figliuolo, per la qual tutta l'isola si divise, e chi tenea con
l'uno e chi coll'altro; per la qual cosa furono tutte le castella de' baroni
tolte ad Alessandro, né alcuna altra rendita era che di niente gli rispondesse.
E sperandosi che di giorno in giorno tra 'l figliuolo e 'l padre dovesse esser
pace, e per conseguente ogni cosa restituita ad Alessandro, e merito e capitale,
Alessandro dell'isola non si partiva, e i tre fratelli, che in Firenze erano,
in niuna cosa le loro spese grandissime limitavano, ogni giorno più accattando.
Ma poi che in più anni
niuno effetto seguire si vide alla speranza avuta, li tre fratelli non solamente
la credenza perderono, ma, volendo coloro che aver doveano esser pagati, furono
subitamente presi; e non bastando al pagamento le lor possessioni, per lo
rimanente rimasono in prigione, e le lor donne e i figliuoli piccioletti qual
se ne andò in contado e qual qua e qual là assai poveramente in arnese, più non
sappiendo che aspettare si dovessono, se non misera vita sempre.
Alessandro, il quale in
Inghilterra la pace più anni aspettata avea, veggendo che ella non venia e
parendogli quivi non meno in dubbio della vita sua che invano dimorare, di
liberato di tornarsi in Italia, tutto soletto si mise in cammino. E per ventura
di Bruggia uscendo, vide n'usciva similmente uno abate bianco con molti monaci
accompagnato e con molta famiglia e con gran salmeria avanti, al quale appresso
venieno due cavalieri antichi e parenti del re, co' quali, sì come con
conoscenti, Alessandro accontatosi, da loro in compagnia fu volentieri
ricevuto. Camminando adunque Alessandro con costoro, dolcemente gli domandò chi
fossero i monaci che con tanta famiglia cavalcavano avanti e dove andassono. Al
quale l'uno de' cavalieri rispose:
– Questi che avanti
cavalca è un giovinetto nostro parente, nuovamente eletto abate d'una delle
maggior badie d'lnghilterra; e per ciò che egli è più giovane che per le leggi
non è conceduto a sì fatta dignità, andiam noi con esso lui a Roma ad impetrare
dal Santo Padre che nel difetto della troppo giovane età dispensi con lui, e
appresso nella dignità il confermi; ma ciò non si vuol con alcuno ragionare.
Camminando adunque il
novello abate ora avanti e ora appresso alla sua famiglia, sì come noi tutto il
giorno veggiamo per cammino avvenire de' signori, gli venne nel cammino presso
di sé veduto Alessandro, il quale era giovane assai, di persona e di viso
bellissimo, e, quanto alcuno altro esser potesse, costumato e piacevole e di
bella maniera; il quale maravigliosamente nella pri ma vista gli piacque quanto
mai alcuna altra cosa gli fosse piaciuta e, chiamatolo a sè, con lui cominciò
piacevolmente a ragionare e domandar chi fosse, donde venisse e dove andasse.
Al quale Alessandro ogni suo stato liberamente aperse e sodisfece alla sua
domanda e sé ad ogni suo servigio, quantunque poco potesse, offerse. L'abate,
udendo il suo ragionare bello e ordinato, e più partitamente i suoi costumi
considerando e lui seco estimando, come che il suo mestiere fosse stato
servile, essere gentile uomo, più del piacer di lui s'accese e, già pieno di
compassion divenuto delle sue sciagure, assai familiarmente il confortò e gli
disse che a buona speranza stesse, per ciò che, se valente uom fosse, ancora
Iddio il riporterebbe là onde la fortuna l'aveva gittato, e più ad alto; e
pregollo che, poi verso Toscana andava, gli piacesse d'essere in sua compagnia,
con ciò fosse cosa che esso là similmente andasse. Alessandro gli rendè grazie
del conforto e sé ad ogni suo comandamento disse esser presto.
Camminando adunque
l'abate, al quale nuove cose si volgean per lo petto del veduto Alessandro,
avvenne che dopo più giorni essi pervennero ad una villa, la quale non era
troppo riccamente fornita d'alberghi; e volendo quivi l'abate albergare,
Alessandro in casa d'uno oste, il quale assai suo dimestico era, il fece
smontare, e fecegli la sua camera fare nel meno disagiato luogo della casa; e
quasi già divenuto uno siniscalco dello abate, sì come colui che molto era
pratico, come il meglio si potè per la villa allogata tutta la sua famiglia chi
qua e chi là, avendo l'abate cenato e già essendo buona pezza di notte e ogni
uomo andato a dormire, Alessandro domandò l'oste là dove esso potesse dormire.
Al quale l'oste rispose:
– In verità io non so;
tu vedi che ogni cosa è pieno, e puoi veder me e la mia famiglia dormir su per
le panche; tuttavia nella camera dello abate sono certi granai, à quali io ti
posso menare e porrovvi su alcun letticello, e quivi, se ti piace, come meglio
puoi questa notte ti giaci.
A cui Alessandro disse:
– Come andrò io nella
camera dello abate, che sai che è piccola e per istrettezza non v'è potuto
giacere alcuno de' suoi monaci? Se io mi fossi di ciò accorto quando le cortine
si tesero, io avrei fatto dormire sopra i granai i monaci suoi e io mi sarei
stato dove i monaci dormono.
Al quale l'oste disse:
– L'opera sta pur così,
e tu puoi, se tu vuogli, quivi stare il meglio del mondo: l'abate dorme, e le
cortine son dinanzi; io vi ti porrò chetamente una coltricetta, e dormiviti.
Alessandro, veggendo che
questo si poteva fare senza da re alcuna noia allo abate, vi s'accordò, e
quanto più cheta mente potè vi s'acconciò.
L'abate, il quale non
dormiva, anzi alli suoi nuovi disii fieramente pensava, udiva ciò che l'oste e
Alessandro parlavano, e similmente avea sentito dove Alessandro s'era a giacer
messo; per che, seco stesso forte contento, cominciò a dire: – Iddio ha mandato
tempo a' miei desiri: se io nol prendo, per avventura simile a pezza non mi
tornerà.
E diliberatosi del tutto
di prenderlo, parendogli ogni cosa cheta per lo albergo, con sommessa voce
chiamò Alessandro e gli disse che appresso lui si coricasse; il quale, dopo
molte disdette spogliatosi, vi si coricò. L'abate postagli la mano sopra 'l
petto, lo 'ncominciò a toccare non altramenti che sogliano fare le vaghe
giovani i loro amanti; di che Alessandro si maravigliò forte e dubitò non forse
l'abate, da disonesto amore preso si movesse a così fattamente toccarlo. La
qual dubitazione, o per presunzione o per alcuno atto che Alessandro facesse,
subitamente l'abate conobbe, e sorrise; e prestamente di dosso una camicia, che
avea, cacciatasi, prese la mano d'Alessandro e quella sopra il petto si pose,
dicendo:
– Alessandro, caccia via
il tuo sciocco pensiero, e, cercando qui, conosci quello che io nascondo.
Alessandro, posta la
mano sopra il petto dello abate, trovò due poppelline tonde e sode e dilicate,
non altramenti che se d'avorio fossono state; le quali egli trovate e
conosciuto tantosto costei esser femina, senza altro invito aspettare,
prestamente abbracciatala, la voleva baciare, quando ella gli disse:
– Avanti che tu più mi
t'avvicini, attendi quello che io ti voglio dire. Come tu puoi conoscere, io
son femina e non uomo; e pulcella partitami da casa mia, al papa andava che mi
maritasse. O tua ventura o mia sciagura che sia, come l'altro giorno ti vidi,
sì di te m'accese Amore, che donna non fu mai che tanto amasse uomo; e per
questo io ho diliberato di volere te avanti che alcuno altro per marito; dove
tu me per moglie non vogli, tantosto di qui ti diparti e nel tuo luogo ritorna.
Alessandro, quantunque
non la conoscesse, avendo riguardo alla compagnia che ella avea, lei estimò
dovere essere nobile e ricca, e bellissima la vedea; per che, senza troppo
lungo pensiero, rispose che, se questo a lei piacea, a lui era molto a grado.
Essa allora, levatasi a
sedere in su il letto, davanti ad una tavoletta dove Nostro Signore era
effigiato, postogli in mano uno anello, gli si fece sposare; e appresso insieme
abbracciatisi, con gran piacere di ciascuna delle parti, quanto di quella notte
restava si sollazzarono. E, preso tra loro modo e ordine alli lor fatti, come
il giorno venne, Alessandro levatosi e per quindi della camera uscendo, donde
era entrato, senza sapere alcuno dove la notte dormito si fosse, lieto oltre
misura, con lo abate e con sua compagnia rientrò in cammino, e dopo molte
giornate pervennero a Roma.
E quivi, poi che alcun
dì dimorati furono, l'abate con li due cavalieri e con Alessandro senza più
entrarono al papa, e fatta la debita reverenza, così cominciò l'abate a
favellare:
– Santo padre, sì come
voi meglio che alcuno altro dovete sapere, ciascun che bene e onestamente vuol
vivere, dee, in quanto può, fuggire ogni cagione la quale ad altramenti fare il
potesse conducere; il che acciò che io, che onestamente viver disidero, potessi
compiutamente fare, nell'abito nel quale mi vedete, fuggita segretamente con
grandissima parte de' tesori del re d'lnghilterra mio padre (il quale al re di
Scozia vecchissimo signore, essendo io giovane come voi mi vedete, mi voleva
per moglie dare), per qui venire, acciò che la vostra santità mi maritasse, mi
misi in via. Né mi fece tanto la vecchiezza del re di Scozia fuggire, quanto la
paura di non fare per la fragilità della mia giovanezza, se a lui maritata
fossi, cosa che fosse contra le divine leggi e contra l'onore del real sangue
del padre mio.
E così disposta venendo,
Iddio, il quale solo ottimamente conosce ciò che fa mestiere a ciascuno, credo
per la sua misericordia, colui che a lui piacea che mio marito fosse mi pose
avanti agli occhi; e quel fu questo giovane – e mostrò Alessandro – il quale
voi qui appresso di me vedete, li cui costumi e il cui valore son degni di
qualunque gran donna, quantunque forse la nobiltà del suo sangue non sia così
chiara come è la reale. Lui ho adunque preso e lui voglio; né mai alcuno altro
n'avrò, che che se ne debba parere al padre mio o ad altrui. Per che la
principal cagione per la quale mi mossi è tolta via; ma piacquemi di fornire il
mio cammino, sì per visitare li santi luoghi e reverendi, de' quali questa città
è piena, e la vostra santità, e sì acciò che per voi il contratto matrimonio
tra Alessandro e me solamente nella presenza di Dio io facessi aperto nella
vostra e per conseguente degli altri uomini. Per che umilemente vi priego che
quello che a Dio e a me è piaciuto sia a grado a voi, e la vostra benedizion ne
doniate, acciò che con quella, sì come con più certezza del piacere di Colui
del quale voi siete vicario, noi possiamo insieme, all'onore di Dio ed al
vostro, vivere e ultimamente morire.
Maravigliossi
Alessandro, udendo la moglie esser figliuola del re d'lnghilterra, e di
mirabile allegrezza occulta fu ripieno; ma più si maravigliarono li due
cavalieri e sì si turbarono che, se in altra parte che davanti al papa stati
fossero, avrebbono ad Alessandro e forse alla donna fatta villania. D'altra
parte il papa si maravigliò assai e dello abito della donna e della sua
elezione; ma, conoscendo che indietro tornare non si potea, la volle del suo
priego sodisfare. E primieramente, racconsolati i cavalieri li quali turbati
conoscea e in buona pace con la donna e con Alessandro rimessigli, diede ordine
a quello che da far fosse.
E il giorno posto da lui
essendo venuto, davanti a tutti i cardinali e dimolti altri gran valenti
uomini, li quali invitati ad una grandissima festa da lui apparecchiata eran
venuti, fece venire la donna realmente vestita, la qual tanto bella e sì
piacevol parea che meritamente da tutti era commendata e simigliantemente
Alessandro splendidamente vestito, in apparenza e in costurni non miga giovane
che ad usura avesse prestato, ma più tosto reale e da' due cavalieri molto
onorato; e quivi da capo fece solennemente le sponsalizie celebrare, e appresso
le nozze belle e magnifiche fatte, colla sua benedizione gli licenziò.
Piacque ad Alessandro e
similmente alla donna, di Roma partendosi, di venire a Firenze, dove già la
fama aveva la novella recata; e quivi, da' cittadini con sommo onore ricevuti,
fece la donna li tre fratelli liberare, avendo prima fatto ogni uom pagare, e
loro e le lor donne rimise nelle lor possessioni. Per la qual cosa, con buona
grazie di tutti, Alessandro con la sua donna, menandone seco Agolante, si partì
di Firenze, e a Parigi venuti, onorevolmente dal re ricevuti furono. Quindi
andarono i due cavalieri in Inghilterra e tanto col re adoperarono, che egli le
rende'la grazia sua e con grandissima festa lei e 'l suo genero ricevette, il
quale egli poco appresso con grandissimo onore fè cavaliere e donogli la contea
di Cornovaglia.
Il quale fu da tanto e
tanto seppe fare, che egli paceficò il figliuolo col padre, di che seguì gran
bene all'isola, ed egli n'acquistò l'amore e la grazia di tutti i paesani; e
Agolante ricoverò tutto ciò che aver vi doveano interamente e ricco oltre modo
si tornò a Firenze, avendol prima il conte Alessandro cavalier fatto. Il conte
poi con la sua donna gloriosamente visse; e, secondo che alcuni voglion dire,
tra col suo senno e valore e l'aiuto del suocero, egli conquistò poi la Scozia
e funne re coronato.
NOVELLA QUARTA
Landolfo Rufolo,
impoverito, divien corsale e da' Genovesi preso, rompe in mare, e sopra una
cassetta, di gioie carissime piena, scampa, e in Gurfo ricevuto da una femina,
ricco si torna a casa sua.
La Lauretta appresso
Pampinea sedea, la qual veggendo lei al glorioso fine della sua novella, senza
altro aspettare, a parlar cominciò in cotal guisa. Graziosissime donne, niuno
atto della Fortuna, secondo il mio giudicio, si può veder maggiore, che vedere
uno d'infima miseria a stato reale elevare, come la novella di Pampinea n'ha
mostrato essere al suo Alessandro addivenuto. E per ciò che a qualunque della
proposta materia da quinci innanzi novellerà converrà che infra questi termini
dica, non mi vergognerò io di dire una novella, la quale, ancora che miserie maggiori
in sé contenga, non per ciò abbia così splendida riuscita. Ben so che, pure a
quella avendo riguardo, con minor diligenzia fia la mia udita; ma altro non
potendo, sarò scusata. Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più
dilettevole parte d'ltalia; nella quale assai presso a Salerno e una costa
sopra 'l mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d'Amalfi,
piena di picciole città, di giardini e di fontane, e d'uomini ricchi e
procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri. Tra le quali città
dette n'è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v'abbia di ricchi
uomini, ve n'ebbe già uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al
quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di raddoppiarla, venne presso
che fatto di perder con tutta quella sé stesso.
Costui adunque, sì come
usanza suole essere de' mercatanti, fatti suoi avvisi, comperò un grandissimo
legno, e quello tutto di suoi denari caricò di varie mercatantie e andonne con
esse in Cipri. Quivi, con quelle qualità medesime di mercatantie che egli aveva
portate, trovò essere più altri legni venuti; per la qual cagione, non
solamente gli convenne far gran mercato di ciò che portato avea, ma quasi, se
spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via; laonde egli fu vicino
al disertarsi. E portando egli di questa cosa seco grandissima noia, non
sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi
povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi, acciò che la
onde ricco partito s'era povero non tornasse. E, trovato comperatore del suo
gran legno, con quegli denari e con gli altri che della sua mercatantia avuti
avea, comperò un legnetto sottile da corseggiare, e quello d'ogni cosa
opportuna a tal servigio armò e guernì ottimamente, e diessi a far sua della
roba d'ogni uomo, e massimamente sopra i turchi.
Al qual servigio gli fu
molto più la fortuna benivola che alla mercatantia stata non era. Egli, forse
infra uno anno, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non
solamente avere racquistato il suo che in mercatantia avea perduto, ma di gran
lunga quello avere raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato dal primo dolore
della perdita, conoscendo che egli aveva assai per non incappar nel secondo, a
sé medesimo dimostrò quello che aveva, senza voler più, dovergli bastare; e per
ciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua. E pauroso della mercatantia,
non s'mpacciò d'investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col
quale guadagnati gli avea, dato de' remi in acqua, si mise al ritornare. E già
nello Arcipelago venuto, levandosi la sera uno scilocco, il quale non solamente
era contrario al suo cammino, ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il
suo picciol legno non avrebbe bene potuto comportare, in uno seno di mare, il
quale una piccola isoletta faceva, da quello vento coperto, si raccolse, quivi
proponendo d'aspettar lo migliore. Nel qual seno poco stante due gran cocche di
genovesi, le quali venivano di Costantinopoli, per fuggire quello che Landolfo
fuggito avea, con fatica pervennero. Le genti delle quali, veduto il legnetto e
chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e già per fama
conoscendol ricchissimo, sì come uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci,
a doverlo avere si disposero. E messa in terra parte della lor gente con
balestra e bene armata, in parte la fecero andare che del legnetto niuna
persona, sé saettato esser non voleva, poteva discendere; ed essi, fattisi
tirare a' paliscalmi e aiutati dal mare, s'accostarono al picciol legno di
Landolfo, e quello con picciola fatica in picciolo spazio, con tutta la ciurma,
senza perderne uomo, ebbero a man salva; e fatto venire sopra l'una delle lor
cocche Landolfo e ogni cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono, lui in un
povero farsettino ritenendo.
Il dì seguente, mutatosi
il vento, le cocche ver ponente venendo fer vela: e tutto quel dì prosperamente
vennero al loro viaggio; ma nel far della sera si mise un vento tempestoso, il
qual faccendo i mari altissimi, divise le due cocche l'una dall'altra. E per
forza di questo vento addivenne che quella sopra la quale era il misero e
povero Landolfo, con grandissimo impeto di sopra all'isola di Cifalonia
percosse in una secca e, non altramenti che un vetro percosso ad un muro tutta
s'aperse e si stritolò; di che i miseri dolenti che sopra quella erano, essendo
già il mare tutto pieno di mercatantie che notavano e di casse e di tavole,
come in così fatti casi suole avvenire, quantunque oscurissima notte fosse e il
mare grossissimo e gonfiato, notando quelli che notar sapevano,
s'incominciarono ad appiccare a quelle cose che per ventura loro si paravan
davanti.
Intra li quali il misero
Landolfo, ancora che molte volte il dì davanti la morte chiamata avesse, seco
eleggendo di volerla più tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea,
vedendola presta n'ebbe paura; e, come gli altri, venutagli alle mani una
tavola, a quella s'appicco', se forse Iddio, indugiando egli l'affogare, gli
mandasse qualche aiuto allo scampo suo; e a cavallo a quella, come meglio
poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua e ora in là, si
sostenne infino al chiaro giorno. Il quale venuto, guardandosi egli d'attorno,
niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea, e una cassa la quale sopra l'onde del
mare notando talvolta con grandissima paura di lui gli s'appressava, temendo
non quella cassa forse il percotesse per modo che gli noiasse; e sempre che
presso gli venia, quanto potea con mano, come che poca forza n'avesse, la
lontanava. Ma, come che il fatto s'andasse, avvenne che, solutosi subitamente
nell'aere un groppo di vento e percosso nel mare, sì grande in questa cassa
diede e la cassa nella tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per
forza Landolfo lasciatola andò sotto l'onde e ritornò suso notando, più da
paura che da forza aiutato, e vide da se molto dilungata la tavola; per che,
temendo non potere ad essa pervenire, s'appressò alla cassa la quale gli era
assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio
poteva, colle braccia la reggeva diritta. E in questa maniera, gittato dal mare
ora in qua e ora in là, senza mangiare, sì come colui che non aveva che, e
bevendo più che non avrebbe voluto, senza sapere ove si fosse o vedere altro
che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente.
Il dì seguente appresso,
o piacer di Dio o forza di vento che 'l facesse, costui divenuto quasi una
spugna, tenendo forte con amendue le mani gli orli della cassa a quella guisa
che far veggiamo a coloro che per affogar sono, quando prendono alcuna cosa,
pervenne al lito dell'isola di Gurfo, dove una povera feminetta per ventura
suoi stovigli con la rena e con l'acqua salsa lavava e facea belli. La quale,
come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna forma, dubitando e
gridando si trasse indietro.
Questi non potea
favellare e poco vedea, e perciò niente le disse; ma pure, mandandolo verso la
terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e più sottilmente guardando
e vedendo, conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa, quindi
appresso ravvisò la faccia e quello essere che era s'imaginò. Per che, da
compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare, che già era tranquillo, e per
li capelli presolo, con tutta la cassa il tiro in terra, e quivi con fatica le
mani dalla cassa sviluppatogli, e quella posta in capo ad una sua figlioletta
che con lei era, lui come un picciol fanciullo ne portò nella terra, e in una
stufa messolo, tanto lo stropicciò e con acqua calda lavo che in lui ritornò lo
smarrito calore e alquante delle perdute forze; e quando tempo le parve
trattonelo, con alquanto di buon vino e di confetto il riconforto, e alcun
giorno, come potè il meglio, il tenne, tanto che esso, le forze recuperate,
conobbe la dove era. Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa
rendere, la quale salvata gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua
ventura, e così fece.
Costui, che di cassa non
si ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella
non potere sì poco valere che alcun dì non gli facesse le spese; e trovandola
molto leggiera, assai manco della sua speranza. Nondimeno, non essendo la buona
femina in casa, la sconficcò per vedere che dentro vi fosse, e trovò in quella
molte preziose pietre, e legate e sciolte, delle quali egli alquanto
s'intendea; le quali veggendo e di gran valore conoscendole, lodando Iddio che
ancora abbandonare non l'avea voluto, tutto si riconfortò. Ma, si come colui
che in picciol tempo fieramente era stato balestrato dalla fortuna due volte,
dubitando della terza, pensò convenirgli molta cautela avere a voler quelle
cose poter conducere a casa sua; per che in alcuni stracci, come meglio potè,
ravvoltole, disse alla buona femina che più di cassa non avea bisogno, ma che,
se le piacesse, un sacco gli donasse e avessesi quella.
La buona femina il fece
volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva maggiori del
beneficio da lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì, e
montato sopra una barca, passò a Brandizio, e di quindi, marina marina, si
condusse infino a Trani, dove trovati de' suoi cittadini li quali eran
drappieri, quasi per l'amor di Dio fu da loro rivestito, avendo esso già loro
tutti li suoi accidenti narrati, fuori che della cassa; e oltre a questo,
prestatogli cavallo e datogli compagnia, infino a Ravello, dove del tutto
diceva di voler tornare, il rimandarono. Quivi parendogli essere sicuro,
ringraziando Iddio che condotto ve l'avea, sciolse il suo sacchetto, e con più
diligenzia cercata ogni cosa che prima fatto non avea, trovò sé avere tante e
sì fatte pietre che, a convenevole pregio vendendole e ancor meno, egli era il
doppio più ricco che quando partito s'era. E trovato modo di spacciare le sue
pietre, infino a Gurfo mandò una buona quantità di denari, per merito del
servigio ricevuto, alla buona femina che di mare l'avea tratto, e il
simigliante fece a Trani a coloro che rivestito l'aveano; e il rimanente, senza
più volere mercatare, si ritenne e onorevolmente visse infino alla fine.
NOVELLA QUINTA
Andreuccio da Perugia,
venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti
soprapreso, da tutti scampato con un rubino si torna a casa sua.
Le pietre da Landolfo
trovate – cominciò la Fiammetta, alla quale del novellar toccava – m'hanno alla
memoria tornata una novella non guari meno di pericoli in sé contenente che la
narrata dalla Lauretta, ma in tanto differente da essa, in quanto quegli forse
in più anni e questi nello spazio d'una sola notte addivennero, come udirete.
Fu, secondo che io già
intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di
cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli,
messisi in borsa cinquecento fiorin d'oro, non essendo mai più fuori di casa
stato, con altri mercatanti là se n'andò: dove giunto una domenica sera in sul
vespro, dall'oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato, e molti
ne vide e assai ne gli piacquero e di più e più mercato tenne, né di niuno
potendosi accordare, per mostrare che per comperar fosse, sì come rozzo e poco
cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa
sua borsa de' fiorini che aveva. E in questi trattati stando, avendo esso la
sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta
per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò
appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: – Chi starebbe meglio
di me se quegli denari fosser miei? – e passò oltre.
Era con questa giovane
una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata
oltre la giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la
giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a
attendere. Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala, le fece gran
festa, e promettendogli essa di venire a lui all'albergo, senza quivi tenere
troppo lungo sermone, si partì: e Andreuccio si tornò a mercatare ma niente
comperò la mattina.
La giovane, che prima la
borsa d'Andreuccio e poi la contezza della sua vecchia con lui aveva veduta,
per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti
o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o donde e che quivi
facesse e come il conoscesse. La quale ogni cosa così particularmente de' fatti
d'Andreuccio le disse come avrebbe per poco detto egli stesso, sì come colei
che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e
similmente le contò dove tornasse e perché venuto fosse.
La giovane, pienamente
informata e del parentado di lui e de' nomi, al suo appetito fornire con una
sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione, e a casa tornatasi, mise
la vecchia in faccenda per tutto il giorno acciò che a Andreuccio non potesse
tornare; e presa una sua fanticella, la quale essa assai bene a così fatti
servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all'albergo dove Andreuccio
tornava. La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo trovò in su la
porta e di lui stesso il domandò. Alla quale dicendole egli che era desso,
essa, tiratolo da parte, disse:
– Messere, una gentil
donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri.
Il quale ve vedendola,
tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante della persona, s'avvisò
questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli
non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era apparecchiato e
domandolla dove e quando questa donna parlargli volesse. A cui la fanticella
rispose:
– Messere, quando di
venir vi piaccia, ella v'attende in casa sua.
Andreuccio presto, senza
alcuna cosa dir nell'albergo, disse:
– Or via mettiti avanti,
io ti verrò appresso.
Laonde la fanticella a
casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata
Malpertugio, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra.
Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo
luogo andare e a una cara donna, liberamente, andata la fanticella avanti, se
n'entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella già sua
donna chiamata e detto – Ecco Andreuccio, –, la vide in capo della scala farsi
a aspettarlo.
Ella era ancora assai
giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente;
alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese con
le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa
dire, quasi da soperchia tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò la
fronte e con voce alquanto rotta disse:
– O Andreuccio mio, tu
sii il ben venuto!
Esso, maravigliandosi di
così tenere carezze, tutto stupefatto rispose:
– Madonna, voi siate la
ben trovata!
Ella appresso, per la
man presolo, suso nella sua sala il menò e di quella, senza alcuna cosa
parlare, con lui nella sua camera se n'entrò, la quale di rose, di fiori
d'aranci e d'altri odori tutta oliva, là dove egli un bellissimo letto
incortinato e molte robe su per le stanghe, secondo il costume di là, e altri
assai belli e ricchi arnesi vide; per le quali cose, sì come nuovo, fermamente
credette lei dovesse essere non men che gran donna. E postisi a sedere insieme
sopra una cassa che appiè del suo letto era, così gli cominciò a parlare:
– Andreuccio, io sono
molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie
lagrime, sì come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar non
m'udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse maravigliare, sì
come è che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m'ha fatta tanta
grazia che io anzi la mia morte ho veduto alcuno de' miei fratelli, come che io
disideri di vedervi tutti, io non morrò a quella ora che io consolata non
muoia. E se tu forse questo mai più non udisti, io tel vo' dire. Pietro, mio
padre e tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in
Palermo, e per la sua bontà e piacevolezza vi fu e è ancora da quegli che il
conobbero amato assai. Ma tra gli altri che molto l'amarono, mia madre, che
gentil donna fu e allora era vedova, fu quella che più l'amò, tanto che, posta
giù la paura del padre e de' fratelli e il suo onore, in tal guisa con lui si
dimesticò, che io ne nacqui e sonne qual tu mi vedi.
Poi, sopravenuta cagione
a Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la mia madre
piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, più né di me né
di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte il
riprenderei avendo riguardo alla ingratitudine di lui verso mia madre mostrata
(lasciamo stare allo amore che a me come a sua figliola non nata d'una fante né
di vil femina dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente, senza sapere
altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani.
Ma che è?. Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più agevoli a
riprendere che a emendare: la cosa andò pur così. Egli mi lasciò piccola
fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca
donna era, mi diede per moglie a uno da Gergenti, gentile uomo e da bene, il
quale per amor di mia madre e di me tornò a stare a Palermo; e quivi, come
colui che è molto guelfo cominciò a avere alcuno trattato col nostro re Carlo.
Il quale, sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu
cagione di farci fuggire di Cicilia quando io aspettava essere la maggior
cavalleressa che mai in quella isola fosse; donde, prese quelle poche cose che
prender potemmo (poche dico per rispetto alle molte le quali avavamo), la
sciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo
verso di noi trovammo sì grato che, ristoratici in parte li danni li quali per
lui ricevuti avavamo, e possessioni e case ci ha date, e dà continuamente al
mio marito, e tuo cognato che è, buona provisione, sì come tu potrai ancor
vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e non tua,
fratel mio dolce, ti veggio.
E così detto, da capo il
rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte.
Andreuccio, udendo
questa favola così ordinatamente, così compostamente detta da costei, alla
quale in niuno atto moriva la parola tra' denti né balbettava la lingua, e
ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesimo de'
giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo
le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci, ebbe ciò che ella diceva
più che per vero: e poscia che ella tacque, le rispose:
– Madonna, egli non vi dee
parer gran cosa se io mi maraviglio: per ciò che nel vero, o che mio padre, per
che che egli sel facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse giammai, o
che, se egli ne ragionò, a mia notizia venuto non sia, io per me niuna
coscienza aveva di voi se non come se non foste; e emmi tanto più caro l'avervi
qui mia sorella trovata, quanto io ci sono più solo e meno questo sperava. E
nel vero io non conosco uomo di sì alto affare al quale voi non doveste esser
cara, non che a me che un picciolo mercatante sono. Ma d'una cosa vi priego mi
facciate chiaro: come sapeste voi che io qui fossi?»
Al quale ella rispose: –
Questa mattina mel fè sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene,
per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente e in
Palermo e in Perugia stette, e se non fosse che più onesta cosa mi parea che tu
a me venissi in casa tua che io a te nell'altrui, egli ha gran pezza che io a
te venuta sarei.
Appresso queste parole
ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente,
alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello
che meno di creder gli bisognava. Essendo stati i ragionamenti lunghi e il
caldo grande, ella fece venire greco e confetti e fè dar bere a Andreuccio; il
quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in niuna guisa
il sostenne, ma sembiante fatto di forte turbarsi abbracciandol disse:
– Ahi lassa me, ché
assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii con
una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo,
smontato esser dovresti, e vogli di quella uscire per andare a cenare
all'albergo? Di vero tu cenerai con esso meco: e perché mio marito non ci sia,
di che forte mi grava, io ti saprò bene secondo donna fare un poco d'onore.
Alla quale Andreuccio,
non sappiendo altro che rispondersi, disse:
– Io v'ho cara quanto
sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena
e farò villania. Ed ella allora disse:
– Lodato sia Idio, se io
non ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato! benché tu
faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a' tuoi compagni
che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te ne volessi, ve ne potresti
tutti andar di brigata. Andreuccio rispose che de' suoi compagni non volea
quella sera, ma, poi che pure a grado l'era, di lui facesse il piacer suo. Ella
allora fè vista di mandare a dire all'albergo che egli non fosse atteso a cena;
e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di più
vivande serviti, astutamente quella menò per lunga infino alla notte obscura;
ed essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò
in niuna guisa sofferrebbe, per ciò che Napoli non era terra da andarvi per
entro di notte, e massimamente un forestiere; e che come che egli a cena non
fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il
somigliante. Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato,
d'esser con costei, stette. Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e
lunghi non senza cagione tenuti; e essendo della notte una parte passata, ella,
lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli
mostrasse se egli volesse nulla, con le sue femine in un'altra camera se
n'andò.
Era il caldo grande: per
la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimasto, subitamente si spogliò in
farsetto e trassesi i panni di gamba e al capo del letto gli si pose; e
richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre,
dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell'uno de' canti della
camera gli mostrò uno uscio e disse:
– Andate là entro.
Andreuccio dentro
sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la
quale dalla contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era; per
la qual cosa capolevando questa tavola con lui insieme se n'andò quindi giuso:
e di tanto l'amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto
cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno,
s'imbrattò. Il quale luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e
ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un chiassetto stretto, come
spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l'una casa e l'altra
posti, alcune tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali
tavole quella che con lui cadde era l'una.
Ritrovandosi adunque là
giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il
fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l'ebbe cadere, così corse a dirlo alla
donna. La quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni
v'erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi
mattamente sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo,
sirocchia d'un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo, più di lui non
curandosi prestamente andò a chiuder l'uscio del quale egli era uscito quando
cadde. Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a
chiamare: ma ciò era niente. Per che egli, già sospettando e tardi dello
inganno cominciandosi a accorgere salito sopra un muretto che quello
chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all'uscio della casa, il
quale egli molto ben riconobbe, se n'andò, e quivi invano lungamente chiamò e
molto il dimenò e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea
la sua disavventura, cominciò a dire:
– Oimè lasso, in come
piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella!
E dopo molte altre
parole, da capo cominciò a battere l'uscio e a gridare; e tanto fece così che
molti de' circunstanti vicini, desti, non potendo la noia sofferire, si
levarono; e una delle servigiali della donna, in vista tutta sonnocchiosa,
fattasi alla finestra proverbiosamente disse:
– Chi picchia là giù?
– Oh! – disse Andreuccio
– o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso. Al
quale ella rispose: – Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi e tornerai
domattina; io non so che Andreuccio né che ciance son quelle che tu dì; va in
buona ora e lasciaci dormir, se ti piace.
– Come, – disse
Andreuccio – non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i
parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine si dimentichino, rendimi almeno
i panni miei li quali lasciati v'ho, e io m'andrò volentier con Dio.
Al quale ella quasi
ridendo disse:
– Buono uomo, e' mi par
che tu sogni, –, e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu
una cosa. Di che Andreuccio, già certissimo de' suoi danni, quasi per doglia fu
presso a convertire in rabbia la sua grande ira e per ingiuria propose di
rivolere quello che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una
gran pietra, con troppi maggior colpi che prima fieramente cominiciò a
percuotere la porta. La qual cosa molti de' vicini avanti destisi e levatisi,
credendo lui essere alcuno spiacevole il quale queste parole fingesse per
noiare quella buona femina, recatosi a noia il picchiare il quale egli faceva,
fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli
della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire:
– Questa è una gran
villania a venire a questa ora a casa le buone femine e dire queste ciance;
deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a
far con lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte.
Dalle quali parole forse
assicurato uno che dentro dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale
egli né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una boce grossa,
orribile e fiera disse:
– Chi è laggiù?
Andreuccio, a quella
voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender potè, mostrava
di dovere essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto, e come
se del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi:
a cui egli, non senza paura, rispose:
– Io sono un fratello
della donna di là entro.
Ma colui non aspettò che
Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido assai che prima disse:
– Io non so a che io mi
tegno che io non vegno là giù, e deati tante bastonate quante io ti vegga
muovere, asino fastidioso e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci
lascerai dormire persona –; e tornatosi dentro serrò la finestra.
Alcuni de' vicini, che
meglio conoscieno la condizion di colui, umilmente parlando a Andreuccio
dissono:
– Per Dio, buono uomo,
vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì: vattene per lo tuo
migliore.
Laonde Andreuccio,
spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da' conforti di coloro
li quali gli pareva che da carità mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno
altro e de' suoi denar disperato, verso quella parte onde il dì aveva la
fanticella seguita, senza sa per dove s'andasse, prese la via per tornarsi
all'albergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva, disideroso
di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via
chiamata la Ruga Catalana si mise. E verso l'alto della città andando, per
ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno
li quali temendo non fosser della famiglia della corte o altri uomini a mal far
disposti, per fuggirli, in un casolare, il qual si vide vicino, pianamente
ricoverò. Ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in
quel medesimo casolare se n'entrarono; e quivi l'un di loro, scaricati certi
ferramenti che in collo avea, con l'altro insieme gl'incominciò a guardare,
varie cose sopra quegli ragionando. E mentre parlavano, disse l'uno:
– Che vuol dir questo?
Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire –; e questo detto alzata
alquanto la lanterna, ebbe veduto il cattivel d'Andreuccio, e stupefatti
domandar: – Chi è là?
Andreuccio taceva, ma
essi avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi così brutto facesse:
alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente. Costoro,
imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sè: – Veramente in
casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo –. E a lui rivolti, disse l'uno:
– Buono uomo, come che
tu abbi perduti i tuoi denari, tu molto a lodare Idio che quel caso ti venne
che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non
fossi, vivi sicuro che, come prima adormentato ti fossi, saresti stato amazzato
e co' denari avresti la persona perduta. Ma che giova oggimai di piagnere? Tu
ne potresti così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo: ucciso ne
potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola.
E detto questo,
consigliatisi alquanto, gli dissero:
– Vedi, a noi è presa
compassion di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna cosa la
quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà
il valere di troppo più che perduto non hai.
Andreuccio, sì come
disperato, rispuose ch'era presto. Era quel dì sepellito uno arcivescovo di
Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, era stato sepellito con ricchissimi
ornamenti e con uno rubino in dito il quale valeva oltre cinquecento fiorin
d'oro, il quale costoro volevano andare a spogliare; e così a Andreuccio fecer
veduto. Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato, con loro si mise in via;
e andando verso la chiesa maggiore, e Andreuccio putendo forte, disse l'uno:
– Non potremmo noi
trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse
così fieramente? Disse l'altro:
– Sì, noi siam qui
presso a un pozzo al quale suole sempre esser la carrucola e un gran secchione;
andianne là e laverenlo spacciatamente.
Giunti a questo pozzo
trovarono che la fune v'era ma il secchione n'era stato levato: per che insieme
diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo nel pozzo, e egli là giù si
lavasse e, come lavato fosse, crollasse la fune e essi il tirerebber suso; e
così fecero.
Avvenne che, avendol
costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria, li quali e per
lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno
a bere: li quali come quegli due videro, incontanente cominciarono a fuggire,
li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti. Essendo già nel
fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati, posti giù
lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle, cominciarono la fune a tirare
credendo a quella il secchion pien d'acqua essere appicato. Come Andreuccio si
vide alla sponda del pozzo vicino così, lasciata la fune, con le mani si gittò
sopra quella. La qual cosa costoro vedendo, da subita paura presi, senza altro
dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che
Andreuccio si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto, egli
sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure
uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non
avean portate, ancora più s'incominciò a maravigliare. Ma dubitando e non
sappiendo che, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi
diliberò di partirsi: e andava senza saper dove.
Così andando si venne
scontrato in que' due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano; e
come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l'avesse
tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era
avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi
come stato era, ridendo gli contarono perché s'eran fuggiti e chi stati eran
coloro che su l'avean tirato. E senza più parole fare, essendo già mezzanotte,
n'andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente entrarono e
furono all'arca, la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferro il
coperchio, ch'era gravissimo, sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse
entrare, e puntellaronlo. E fatto questo, cominciò l'uno a dire:
– Chi entrerà dentro?
A cui l'altro rispose:
– Non io.
– Nè io, – disse colui –
ma entrivi Andreuccio.
– Questo non farò io, –
disse Andreuccio. Verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero:
– Come non v'enterrai?
In fè di Dio, se tu non v'entri, noi ti darem tante d'uno di questi pali di
ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto.
Andreuccio temendo
v'entrò, e entrandovi pensò seco: – Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi,
per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir
dall'arca, essi se ne andranno pe' fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna –.
E per ciò s'avisò di farsi innanzi tratto la parte sua; e ricordatosi del caro
anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse
all'arcivescovo e miselo a sè; e poi dato il pasturale e la mitra è guanti e
spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente
v'avea.
Costoro, affermando che
esser vi doveva l'anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso
rispondendo che non trovava e sembiante facendo di cercarne, alquanto li tenne
ad aspettare. Costoro che d'altra parte eran sì come lui maliziosi,dicendo pur
che ben cercasse preso tempo, tirarono via il puntello che il coperchio
dell'arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall'arca lasciaron racchiuso. La
qual cosa sentendo Andreuccio, qual egli allor divenisse ciascun sel può
pensare.
Egli tentò più volte e
col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava:
per che da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo
dell'arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avrebbe
conosciuto chi più si fosse morto, o l'arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu
ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio
all'un de' due fini dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni più
a aprirla, di fame e di puzzo tra' vermini del morto corpo convenirlo morire, o
vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro dovere essere
appiccato.
E in così fatti pensieri
e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte
persone, le quali sì come gli avvisava, quello andavano a fare che esso co'
suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che
costoro ebbero l'arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse entrare,
e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione un prete disse:
– Che paura avete voi?
credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangian uomini: io v'entrerò
dentro io.
E così detto, posto il
petto sopra l'orlo dell'arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe
per doversi giuso calare.
Andreuccio, questo
vedendo, in piè levatosi prese il prete per l'una delle gambe e fè sembiante di
volerlo giù tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo
e presto dell'arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati,
lasciata l'arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da
centomilia diavoli fosser perseguitati.
La qual cosa veggendo
Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per
quella via onde era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già avvicinandosi al
giorno, con quello anello in dito andando all'avventura, pervenne alla marina e
quindi al suo albergo si abbattè; dove li suoi compagni e l'albergatore trovò
tutta la notte stati in sollecitudine de' fatti suoi. A'quali ciò che avvenuto
gli era raccontato, parve per lo consiglio dell'oste loro che costui
incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e
a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello, dove per comperare
cavalli era andato.
NOVELLA SESTA
Madonna Beritola, con
due cavriuoli sopra una isola trovata, avendo due figliuoli perduti, ne va in
Lunigiana; quivi l'un de' figliuoli col signor di lei si pone e colla figliuola
di lui giace ed è messo in prigione. Cicilia ribellata al re Carlo, e il
figliuolo riconosciuto dalla madre, sposa la figliuola del suo signore e il suo
fratello ritrova e in grande stato ritornano.
Avevan le donne
parimente e i giovani riso molto de' casi d'Andreuccio dalla Fiammetta narrati,
quando Emilia, sentendo la novella finita, per comandamento della reina, così
cominciò.
Gravi cose e noiose sono
i movimenti vari della Fortuna, de' quali perché quante volte alcuna cosa si
parla, tante è un destare delle nostre menti, le quali leggiermente
s'addormentano nelle sue lusinghe, giudico mai rincrescer non dover l'ascoltare
e a' felici e agli sventurati, in quanto li primi rende avvisati e i secondi
consola. E per ciò, quantunque gran cose dette ne sieno avanti, io intendo di
raccontarvene una novella non meno vera che pietosa; la quale, ancora che lieto
fine avesse, fu tanta e sì lunga l'amaritudine, che appena che io possa credere
che mai da letizia seguita si raddolcisse.
Carissime donne, voi
dovete sapere che appresso la morte di Federigo secondo imperadore fu re di
Cicilia coronato Manfredi, appo il quale in grandissimo stato fu un gentile
uomo di Napoli chiamato Arrighetto Capece, il quale per moglie avea una bella e
gentil donna similmente napoletana, chiamata madonna Beritola Caracciola. Il
quale Arrighetto, avendo il governo dell'isola nelle mani, sentendo che il re
Carlo primo avea a Benevento vinto e ucciso Manfredi, e tutto il regno a lui si
rivolgea, avendo poca sicurtà della corta fede de' ciciliani e non volendo
suddito divenire del nimico del suo si gnore, di fuggire s'apparecchiava. Ma
questo da' ciciliani conosciuto, subitamente egli e molti altri amici e
servitori del re Manfredi furono per prigioni dati al re Carlo, e la
possessione dell'isola appresso.
Madonna Beritola in
tanto mutamento di cose, non sappiendo che d'Arrighetto si fosse e sempre di
quello che era avvenuto temendo, per tema di vergogna, ogni sua cosa lasciata,
con un suo figliuolo d'età forse d'otto anni, chiamato Giusfredi, e gravida e
povera, montata sopra una barchetta, se ne fuggì a Lipari, e quivi partorì un
altro figliuol maschio, il quale nominò lo Scacciato; e presa una balia, con
tutti sopra un legnetto montò per tornarsene a Napoli a' suoi parenti. Ma
altramenti avvenne che il suo avviso; perciò che per forza di vento il legno,
che a Napoli andar dovea, fu trasportato all'isola di Ponzo, dove, entrati in
un picciol seno di mare, cominciarono ad attender tempo al loro viaggio.
Madama Beritola, come
gli altri, smontata in su l'isola e sopra quella un luogo solitario e rimoto
trovato, quivi a dolersi del suo Arrighetto si mise tutta sola. E questa
maniera ciascun giorno tenendo, avvenne che, essendo ella al suo dolersi
occupata, senza che alcuno o marinaro o altri se n'accorgesse, una galea di
corsari sopravvenne, la quale tutti a man salva gli prese, e andò via.
Madama Beritola, finito
il suo diurno lamento, tornata al lito per rivedere i figliuoli, come usata era
di fare, niuna persona vi trovò; di che prima si maravigliò, e poi, subitamente
di quello che avvenuto era sospettando, gli occhi infra 'l mare sospinse, e
vide la galea, non molto ancora allungata, dietro tirarsi il legnetto; per la
qual cosa ottimamente conobbe, sì come il marito, aver perduti i figliuoli; e
povera e sola e abbandonata, senza saper dove mai alcuno doversene ritrovare,
quivi vedendosi, tramortita, il marito è figliuoli chiamando, cadde in su 'l
lito.
Quivi non era chi con
acqua fredda o con altro argomento le smarrite forze rivocasse; per che a bello
agio poterono gli spiriti andar vagando dove lor piacque; ma, poi che nel
misero corpo le partite forze insieme colle lagrime e col pianto tornate
furono, lungamente chiamò i figliuoli, e molto per ogni caverna gli andò
cercando. Ma poi che la sua fatica conobbe vana e vide la notte sopravvenire,
sperando e non sappiendo che, di sé medesima alquanto divenne sollicita, e dal
lito partitasi, in quella caverna, dove di piagnere e di dolersi era usa, si
ritornò.
E poi che la notte con
molta paura e con dolore inestimabile fu passata, e il dì nuovo venuto, e già
l'ora della terza valicata, essa, che la sera avanti cenato non avea, da fame
costretta, a pascere l'erbe si diede; e, pasciuta come potè, piagnendo, a vari
pensieri della sua futura vita si diede. Nè quali mentre ella dimorava, vide
venire una cavriuola ed entrare ivi vicino in una caverna, e dopo alquanto
uscirne e per lo bosco andarsene; per che ella, levatasi, là entrò donde uscita
era la cavriuola, e videvi due cavriuoli forse il dì medesimo nati, li quali le
parevano la più dolce cosa del mondo e la più vezzosa; e, non essendolesi
ancora del nuovo parto rasciutto il latte del petto, quegli teneramente prese e
al petto gli si pose. Li quali, non rifiutando il servigio, così lei poppavano come
la madre avrebber fatto; e d'allora innanzi dalla madre a lei niuna distinzion
fecero. Per che, parendo alla gentil donna avere nel diserto luogo alcuna
compagnia trovata, l'erbe pascendo e bevendo l'acqua, e tante volte piagnendo
quante del marito e de' figliuoli e della sua preterita vita si ricordava,
quivi e a vivere e a morire s'era disposta, non meno dimestica della cavriuola
divenuta che de' figliuoli.
E così dimorando la
gentil donna divenuta fiera, avvenne dopo più mesi che per fortuna similmente
quivi arrivò un legnetto di pisani, dove ella prima era arrivata, e più giorni
vi dimorò.
Era sopra quel legno un
gentile uomo chiamato Currado de' marchesi Malespini con una sua donna valorosa
e santa; e venivano di pellegrinaggio da tutti i santi luoghi li quali nel
regno di Puglia sono, e a casa loro se ne tornavano. Il quale, per passare
malinconia, insieme colla sua donna e con alcuni suoi famigliari e con suoi
cani, un dì ad andare fra l'isola si mise, e non guari lontano al luogo, dove
era madama Beritola, cominciarono i cani di Currado a seguire i due cavriuoli,
li quali già grandicelli pascendo andavano; li quali cavriuoli da' cani
cacciati, in nulla altra parte fuggirono che alla caverna dove era madama
Beritola.
La quale, questo
vedendo, levata in piè e preso un bastone, li cani mandò indietro; e quivi
Currado e la sua donna, che i lor cani seguitavano, sopravvenuti, vedendo
costei, che bruna e magra e pilosa divenuta era, si maravigliarono, ed ella
molto più di loro. Ma poi che a' prieghi di lei ebbe Currado i suoi cani tirati
indietro, dopo molti prieghi la piegarono a dire chi ella fosse e che quivi
facesse; la quale pienamente ogni sua condizione e ogni suo accidente e il suo
fiero proponimento loro aperse. Il che udendo Currado, che molto bene
Arrighetto Capece conosciuto avea, di compassion pianse, e con parole assai
s'ingegnò di rimuoverla da proponimento sì fiero, offerendole di rimenarla a
casa sua o di seco tenerla in quello onore che sua sorella, e stesse tanto che
Iddio più lieta fortuna le mandasse innanzi. Alle quali proferte non piegandosi
la donna, Currado con lei lasciò la moglie e le disse che da mangiare quivi
facesse venire, e lei, che tutta era stracciata, d'alcuna delle sue robe
rivestisse e del tutto facesse che seco la ne menasse. La gentil donna con lei
rimasa, avendo prima molto con madama Beritola pianto de' suoi infortuni, fatti
venire vestimenti e vivande, colla maggior fatica del mondo a prendergli e a
mangiar la condusse; e ultimamente, dopo molti prieghi, affermando ella di mai
non volere andare ove conosciuta fosse, la 'ndusse a doversene seco andare in
Lunigiana insieme co' due cavriuoli e colla cavriuola, la quale in quel mezzo
era tornata e, non senza gran maraviglia della gentil donna, l'avea fatta
grandissima festa.
E così venuto il buon
tempo, madama Beritola con Currado e colla sua donna sopra il lor legno montò,
e con loro insieme la cavriuola e i due cavriuoli (da'quali, non sappiendosi
per tutti il suo nome, ella fu Cavriuola dinominata), e con buon vento tosto
infino nella foce della Magra n'andarono, dove smontati, alle lor castella ne
salirono.
Quivi appresso la donna
di Currado madama Beritola, in abito vedovile, come una sua damigella, onesta e
umile e obediente stette, sempre a' suoi cavriuoli avendo amore e faccendogli
nutricare.
I corsari, li quali
avevano a Ponzo preso il legno sopra il quale madama Beritola venuta era, lei
lasciata sì come da lor non veduta, con tutta l'altra gente a Genova
n'andarono; e quivi tra' padroni della galea divisa la preda, tocco'per
avventura, tra l'altre cose, in sorte ad un messer Guasparrin d'Oria la balia di
madama Beritola e i due fanciulli con lei; il quale lei co' fanciulli insieme a
casa sua ne mandò, per tenergli a guisa di servi né servigi della casa.
La balia, dolente oltre
modo della perdita della sua donna e della misera fortuna nella quale sé e i due
fanciulli caduti vedea, lungamente pianse. Ma, poi che vide le lacrime niente
giovare e sé esser serva con loro insieme, ancora che povera femina fosse, pure
era savia e avveduta; per che, prima come potè il meglio riconfortatasi, e
appresso riguardando dove erano pervenuti, s'avvisò che, se i due fanciulli
conosciuti fossono, per avventura potrebbono di leggiere impedimento ricevere;
e oltre a questo sperando che, quando che sia, si potrebbe mutar la fortuna ed
essi potrebbero, se vivi fossero, nel perduto stato tornare, pensò di non
palesare ad alcuna persona chi fossero, se tempo di ciò non vedesse; e a tutti
diceva, che di ciò domandata l'avessero, che suoi figliuoli erano. E il
maggiore non Giusfredi, ma Giannotto di Procida nominava; al minore non curò di
mutar nome; e con somma diligenzia mostrò a Giusfredi perché il nome cambiato
gli avea e a qual pericolo egli potesse essere se conosciuto fosse; e questo
non una volta ma molte e molto spesso, gli ricordava; la qual cosa il
fanciullo, che intendente era, secondo l'ammaestramento della savia balia
ottimamente faceva. Stettero adunque, e mal vestiti e peggio calzati, ad ogni
vil servigio adoperati, colla balia insieme pazientemente più anni i due
garzoni in casa messer Guasparrino. Ma Giannotto, già d'età di sedici anni,
avendo più animo che a servo non s'apparteneva, sdegnando la viltà della servil
condizione, salito sopra galee che in Alessandria andavano, dal servigio di
messer Guasparrino si partì, e in più parti andò in niente potendosi avanzare.
Alla fine, forse dopo tre o quattro anni appresso la partita fatta da messer
Guasparrino, essendo bel giovane e grande della persona divenuto, e avendo
sentito il padre di lui, il quale morto credeva che fosse, essere ancor vivo,
ma in prigione e in cattività per lo re Carlo guardato, quasi della fortuna
disperato, vagabundo andando, pervenne in Lunigiana, e quivi per ventura con
Currado Malespina si mise per famigliare, lui assai acconciamente e a grado
servendo. E come che (non) rade volte la sua madre, la quale colla donna di
Currado era, vedesse, niuna volta la conobbe, né ella lui; tanto la età l'uno e
l'altro, da quello che esser soleano quando ultimamente si videro, gli avea
trasformati.
Essendo adunque
Giannotto al servigio di Currado, avvenne che una figliuola di Currado, il cui
nome era Spina, rimasa vedova d'uno Niccolò da Grignano, alla casa del padre
tornò; la quale, essendo assai bella e piacevole e giovane di poco più di
sedici anni, per ventura pose gli occhi addosso a Giannotto, ed egli a lei, e
ferventissimamente l'uno dell'altro s'innamorò. Il quale amore non fu
lungamente senza effetto; e più mesi durò avanti che di ciò niuna persona
s'accorgesse. Per la qual cosa essi, troppo assicurati, cominciarono a tener
maniera men discreta che a così fatte cose non si richiedea. E andando un
giorno per un bosco bello e folto d'alberi la giovane insieme con Giannotto,
lasciata tutta l'altra compagnia, entrarono innanzi; e parendo loro molto di
via aver gli altri avanzati, in un luogo dilettevole e pien d'erba e di fiori,
e d'alberi chiuso, ripostisi, a prendere amoroso piacere l'un dell'altro
incominciarono. E, come che lungo spazio stati già fossero insieme, avendo il
gran diletto fattolo loro parere molto brieve, in ciò dalla madre della giovane
prima, e appresso da Currado, soprappresi furono. Il quale, doloroso oltre modo
questo vedendo, senza alcuna cosa dire del perché, amenduni gli fece pigliare a
tre suoi servidori e ad uno suo castello legati menargliene; e d'ira e di
cruccio fremendo andava, disposto di fargli vituperosamente morire.
La madre della giovane,
quantunque molto turbata fosse e degna reputasse la figliuola per lo suo fallo
d'ogni crudel penitenzia, avendo per alcuna parola di Currado compreso qual
fosse l'animo suo verso i nocenti, non potendo ciò comportare, avacciandosi
sopraggiunse l'adirato marito, e cominciollo a pregare che gli dovesse piacere
di non correr furiosamente a volere nella sua vecchiezza della figliuola
divenir micidiale e a bruttarsi le mani del sangue d'un suo fante, e che egli
altra maniera trovasse a sodisfare all'ira sua, sì come di fargli imprigionare
e in prigione stentare e piagnere il peccato commesso. E tanto e queste e molte
altre parole gli andò dicendo la santa donna, che essa da uccidergli l'animo suo
rivolse; e comandò che in diversi luoghi cia scun di loro imprigionato fosse, e
quivi guardati bene, e con poco cibo e con molto disagio servati infino a tanto
che esso altro diliberasse di loro; e così fu fatto. Quale la vita loro in
cattività e in continue lagrime e in più lunghi digiuni che loro non sarien
bisognati si fosse, ciascuno sel può pensare.
Stando adunque Giannotto
e la Spina in vita così dolente ed essendovi già uno anno, senza ricordarsi
Currado di loro, dimorati, avvenne che il re Piero di Raona, per trattato di
messer Gian di Procida, l'isola di Cicilia ribellò e tolse al re Carlo; di che
Currado, come ghibellino, fece gran festa. La quale Giannotto sentendo da
alcuno di quelli che a guardia l'aveano, gittò un gran sospiro, e disse:
– Ahi lasso me! che
passati sono omai quattordici anni che io sono andato tapinando per lo mondo,
niuna altra cosa aspettando che questa, la quale, ora che venuta è, acciò che
io mai d'aver ben più non speri, m'ha trovato in prigione, della quale mai se
non morto uscire non spero!
– E come? – disse il
prigioniere – che monta a te quello che i grandissimi re si facciano? Che avevi
tu a fare in Cicilia?
A cui Giannotto disse:
– El pare che 'l cuor mi
si schianti, ricordandomi di ciò che già mio padre v'ebbe a fare; il quale,
ancora che picciol fanciul fossi quando me ne fuggii, pur mi ricorda che io nel
vidi signore, vivendo il re Manfredi.
Seguì il prigioniere:
– E chi fu tuo padre?
– Il mio padre – disse
Giannotto – posso io omai sicuramente manifestare, poi del pericolo mi veggio
fuori, il quale io temeva scoprendolo. Egli fu chiamato ed è ancora, s'el vive,
Arrighetto Capece, e io non Giannotto, ma Giusfredi ho nome; e non dubito
punto, se io di qui fossi fuori, che tornando in Cicilia io non vi avessi ancora
grandissimo luogo.
Il valente uomo, senza
più avanti andare, come prima ebbe tempo, tutto questo raccontò a Currado. Il
che Currado udendo, quantunque al prigioniere mostrasse di non curarsene,
andatosene a madonna Beritola, piacevolmente la domandò se alcun figliuolo
avesse d'Arrighetto avuto che Giusfredi avesse nome. La donna piagnendo rispose
che, se il maggiore de' suoi due che avuti avea fosse vivo, così si chiamerebbe
e sarebbe d'eta di ventidue anni.
Questo udendo Currado,
avvisò lui dovere esser desso, e caddegli nell'animo, se così fosse, che egli
ad una ora poteva una gran misericordia fare e la sua vergogna e quella della
figliuola tor via, dandola per moglie a costui; e per ciò fattosi segretamente
Giannotto venire, partitamente d'ogni sua passata vita l'esaminò. E trovando
per assai manifesti indizi lui veramente esser Giusfredi, figliuolo
d'Arrighetto Capece, gli disse:
– Giannotto, tu sai
quanta e quale sia la 'ngiuria la qual tu m'hai fatta nella mia propia
figliuola, là dove, trattandoti io bene e amichevolmente, secondo che servidor
si dee fare, tu dovevi il mio onore e delle mie cose sempre e cercare e
operare; e molti sarebbero stati quegli, a' quali se tu quello avessi fatto che
a me facesti, che vituperosamente ti avrebber fatto morire; so il che la mia
pietà non sofferse. Ora, poi che così è come tu mi dì, che tu figliuolo sé di
gentile uomo e di gentil donna, io voglio alle tue angoscie, quando tu medesimo
vogli, porre fine e trarti della miseria e della cattività nella qual tu
dimori, e ad una ora il tuo onore e 'l mio nel suo debito luogo riducere. Come
tu sai, la Spina, la quale tu con amorosa, avvegna che sconvenevole a te e a
lei, amistà prendesti, è vedova, e la sua dota è grande e buona; quali sieno i
suoi costumi, e il padre e la madre di lei, tu il sai; del tuo presente stato
niente dico. Per che, quando tu vogli, io sono disposto, dove ella
disonestamente amica ti fu, ch'ella onestamente tua moglie divenga e che in
guisa di mio figliuolo qui, con esso meco e con lei, quanto ti piacerà dimori.
Aveva la prigione
macerate le carni di Giannotto, ma il generoso animo dalla sua origine tratto
non aveva ella in cosa alcuna diminuito, né ancora lo 'ntero amore il quale
egli alla sua donna portava. E quantunque egli ferventemente disiderasse quello
che Currado gli offereva e sé vedesse nelle sue forze, in niuna parte piegò
quello che la grandezza dello animo suo gli mostrava di dover dire, e rispose:
– Currado, né cupidità
di signoria né desiderio di denari né altra cagione alcuna mi fece mai alla tua
vita né alle tue cose insidie, come traditor, porre. Amai tua figliuola e amo e
amerò sempre, per ciò che degna la reputo del mio amore; e se io seco fui meno
che onestamente, secondo la oppinion de' meccanici, quel peccato commisi, il
quale sempre seco tiene la giovanezza congiunto e che, se via si volesse torre,
converrebbe che via si togliesse la giovanezza, e il quale, se i vecchi si
volessero ricordare d'essere stati giovani e gli altrui difetti colli loro
misurare e li loro cogli altrui, non saria grave come tu e molti altri fanno; e
come amico e non come nemico il commisi. Quello che tu offeri di voler fare
sempre il disiderai, e se io avessi creduto che conceduto mi dovesse esser
suto, lungo tempo è che domandato l'avrei; e tanto mi sarà ora più caro, quanto
di ciò la speranza è minore. Se tu non hai quello animo che le parole tue
dimostrano, non mi pascere di vana speranza; fammi ritornare alla prigione e
quivi quanto ti piace mi fa affliggere, ché quanto io amerò la Spina, tanto
sempre per amor di lei amerò te, che che tu mi ti facci, e avrotti in
reverenza. Currado, avendo costui udito, si maravigliò e di grande animo il
tenne e il suo amore fervente reputò, e più ne l'ebbe caro; e per ciò levatosi
in piè, l'abbracciò e baciò, e senza dar più indugio alla cosa, comandò che
quivi chetamente fosse menata la Spina.
Ella era nella prigione
magra e pallida divenuta e debole, e quasi un'altra femina che esser non soleva
parea, e così Giannotto un altro uomo: i quali nella presenzia di Currado di
pari consentimento contrassero le sponsalizie secondo la nostra usanza.
E poi che più giorni,
senza sentirsi da alcuna persona di ciò che fatto era alcuna cosa, gli ebbe di
tutto ciò che bisognò loro e di piacere era fatti adagiare, parendogli tempo di
farne le loro madri liete, chiamate la sua donna e la Cavriuola, così verso lor
disse:
– Che direste voi,
madonna, se io vi facessi il vostro figliuolo maggior riavere, essendo egli
marito d'una delle mie figliuole?
A cui la Cavriuola
rispose:
– Io non vi potrei di
ciò altro dire se non che, se io vi potessi più esser tenuta che io non sono,
tanto più vi sarei quanto voi più cara cosa che non sono io medesima a me mi
rendereste; e rendendomela in quella guisa che voi dite, alquanto in me la mia
perduta speranza rivocareste–; e lagrimando si tacque.
Allora disse Currado
alla sua donna:
– E a te che ne
parrebbe, donna, se io così fatto genero ti donassi?
A cui la donna rispose:
– Non che un di loro,
che gentili uomini sono, ma un ribaldo, quando a voi piacesse, mi piacerebbe.
Allora disse Currado:
– Io spero infra pochi
dì farvi di ciò liete femine. E veggendo già nella prima forma i due giovani
ritornati, onorevolmente vestitigli, domandò Giusfredi:
– Che ti sarebbe caro
sopra l'allegrezza la qual tu hai, se tu qui la tua madre vedessi?
A cui Giusfredi rispose:
– Egli non mi si lascia
credere che i dolori de' suoi sventurati accidenti l'abbian tanto lasciata
viva; ma, se pur fosse, sommamente mi saria caro, sì come colui che ancora per
lo suo consiglio mi crederrei gran parte del mio stato ricoverare in Cicilia.
Allora Currado l'una e
l'altra donna quivi fece venire. Elle fecero amendune maravigliosa festa alla
nuova sposa, non poco maravigliandosi, quale spirazione potesse essere stata
che Currado avesse a tanta benignità recato, che Giannotto con lei avesse
congiunto. Al quale madama Beritola, per le parole da Currado udite, cominciò a
riguardare, e da occulta virtù desta in lei alcuna rammemorazione de' puerili
lineamenti del viso del suo figliuolo, senza aspettare altro dimostramento,
colle braccia aperte gli corse al collo; né la soprabondante pietà e allegrezza
materna le permisero di potere alcuna parola dire, anzi sì ogni virtù sensitiva
le chiusero che quasi morta nelle braccia del figliuol cadde. Il quale,
quantunque molto si maravigliasse, ricordandosi d'averla molte volte avanti in
quel castello medesimo veduta e mai non riconosciutola, pur non dimeno conobbe
incontanente l'odor materno e sé medesimo della sua preterita trascutaggine
biasimando, lei nelle braccia ricevuta lagrimando teneramente baciò. Ma poi che
madama Beritola, pietosamente dalla donna di Currado e dalla Spina aiutata e
con acqua fredda e con altre loro arti, in sé le smarrite forze ebbe rivocate,
rabbraccò da capo il figliuolo con molte lagrime e con molte parole dolci; e
piena di materna pietà mille volte o più il baciò, ed egli lei reverentemente
molto la vide e ricevette. Ma poi che l'accoglienze oneste e liete furo iterate
tre e quattro volte, non senza gran letizia e piacere de' circustanti, e l'uno
all'altro ebbe ogni suo accidente narrato; avendo già Currado a' suoi amici
significato con gran piacere di tutti il nuovo parentado fatto da lui, e
ordinando una bella e magnifica festa, gli disse Giusfredi:
– Currado, voi avete
fatto me lieto di molte cose e lungamente avete onorata mia madre; ora, acciò
che niuna parte in quello che per vo' si possa ci resti a fare, vi priego che
voi mia madre e la mia festa e me facciate lieti della presenza di mio
fratello, il quale in forma di servo messer Guasparrin d'Oria tiene in casa il
quale come io vi dissi già, e lui e me prese in corso; e appresso che voi
alcuna persona mandiate in Cicilia, il quale pienamente s'informi delle
condizioni e dello stato del paese, e mettasi a sentire quello che è
d'Arrighetto mio padre, se egli è o vivo o morto; e se è vivo, in che stato; e
d'ogni cosa pienamente informato, a noi ritorni.
Piacque a Currado la
domanda di Giusfredi e, senza alcuno indugio, discretissime persone mandò e a
Genova e in Cicilia. Colui che a Genova andò, trovato messer Guasparrino, da
parte di Currado diligentemente il pregò che lo Scacciato e la sua balia gli
dovesse mandare, ordinatamente narrandogli ciò che per Currado era stato fatto
verso Giusfredi e verso la madre.
Messer Guasparrin si
maraviò forte, questo udendo, e disse:
– Egli è vero che io
farei per Currado ogni cosa, che io potessi, che gli piacesse; e ho bene in
casa avuti, già sono quattordici anni, il garzon che tu dimandi e una sua
madre, li quali io gli manderò volentieri; ma dira'gli da mia parte che si
guardi di non aver troppo creduto o di non credere alle favole di Giannotto, il
qual dì che oggi si fa chiamar Giusfredi, per ciò che egli è troppo più
malvagio che egli non s'avvisa.
E così detto, fatto
onorare il valente uomo, si fece in segreto chiamar la balia e cautamente la
esaminò di questo fatto. La quale, avendo udita la rebellion di Cicilia e
sentendo Arrighetto esser vivo, cacciata via la paura che già avuta avea,
ordinatamente ogni cosa gli disse. e le cagioni gli mostrò per che quella
maniera che fatto aveva tenuta avesse.
Messer Guasparrino,
veggendo li detti della balia con quegli dello ambasciador di Currado
ottimamente convenirsi. cominciò a dar fede alle parole; e per un modo e per un
altro, sì come uomo che astutissimo era, fatta inquisizion di questa opera, e
più ogni ora trovando cose che più fede gli davano al fatto, vergognandosi del
vil trattamento fatto del garzone, in ammenda di ciò, avendo una sua bella
figlioletta d'età d'undici anni, conoscendo egli chi Arrighetto era stato e
fosse, con una gran dota gli diè per moglie; e, dopo una gran festa di ciò
fatta. col garzone e colla figliuola e collo ambasciadore di Currado e colla
balia montato sopra una galeotta bene armata, se ne venne a Lerici; dove,
ricevuto da Currado, con tutta la sua brigata n'andò ad un castel di Currado,
non molto di quivi lontano, dove la festa grande era apparecchiata. Quale la
festa della madre fosse rivedendo il suo figliuolo, qual quella de' due
fratelli, qual quella di tutti e tre alla fedel balia, qual quella di tutti
fatta a messer Guasparrino e alla sua figliuola, e di lui a tutti, e di tutti
insieme con Currado e colla sua donna e co' figliuoli e co' suoi amici, non si
potrebbe con parole spiegare; e per ciò a voi, donne, la lascio ad imaginare.
Alla quale, acciò che compiuta fosse, volle Domeneddio, abbondantissimo
donatore quando comincia, sopraggiugnere le liete novelle della vita e del
buono stato d'Arrighetto Capece.
Per ciò che, essendo la
festa grande e i convitati (le donne e gli uomini) alle tavole ancora alla
prima vivanda, sopraggiunse colui il quale andato era in Cicilia, e tra l'altre
cose, raccontò d'Arrighetto che, essendo egli in Catania per lo re Carlo
guardato in prigione quando il romore contro al re si levò nella terra, il
popolo a furore corse alla prigione e, uccise le guardie, lui n'avean tratto
fuori, e sì come capitale nemico del re Carlo, l'avevano fatto lor capitano e
seguitolo a cacciare e ad uccidere i franceschi. Per la qual cosa egli
sommamente era venuto nella grazia del re Pietro, il quale lui in tutti i suoi
beni e in ogni suo onore rimesso aveva; laonde egli era in grande e in buono
stato; aggiugnendo che egli aveva lui con sommo onore ricevuto e inestimabile
festa aveva fatta della sua donna e del figliuolo, de' quali mai dopo la
presura sua niente aveva saputo; e oltre a ciò mandava per loro una saettia con
alquanti gentili uomini, li quali appresso venieno.
Costui fu con grande allegrezza
e festa ricevuto e ascoltato; e prestamente Currado con alquanti dei suoi amici
in contro si fecero a' gentili uomini che per madama Beritola e per Giusfredi
venieno, e loro lietamente ricevette, e al suo convito, il quale ancora al
mezzo non era, gl'introdusse.
Quivi e la donna e
Giusfredi e oltre a questi tutti gli altri con tanta letizia gli videro, che
mai simile non fu udita; e essi, avanti che a mangiar si ponessero, da parte
d'Arrighetto e salutarono e ringraziarono, quanto il meglio seppero e più
poterono, Currado e la sua donna dell'onore fatto e alla donna di lui e al
figliuolo; e Arrighetto e ogni cosa che per lui si potesse offersero al lor
piacere. Quindi a messer Guasparrino rivolti, il cui beneficio era inoppinato,
dissero sé essere certissimi che, qualora ciò che per lui verso lo Scacciato
stato era fatto da Arrighetto si sapesse, che grazie simiglianti e maggiori
rendute sarebbono. Appresso questo, lietissimamente nella festa delle due nuove
spose e con li novelli sposi mangiarono.
Nè solo quel dì fece
Currado festa al genero e agli altri suoi e parenti e amici, ma molti altri. La
quale poi che riposata fu, parendo a madama Beritola e a Giusfredi e agli altri
di doversi partire, con molte lagrime da Currado e dalla sua donna e da messer
Guasparrino, sopra la saettia montati, seco la Spina menandone, si partirono; e
avendo prospero vento, tosto in Cicilia pervennero, dove con tanta festa da
Arrighetto tutti parimente, è fi gliuoli e le donne, furono in Palermo
ricevuti, che dire non si potrebbe giammai: dove poi molto tempo si crede che
essi tutti felicemente vivessero, e, come conoscenti del ricevuto beneficio,
amici di Messer Domeneddio.
NOVELLA SETTIMA
Il soldano di Babilonia
ne manda una sua figliuola a marito al re del Garbo, la quale per diversi
accidenti in spazio di quattro anni alle mani di nove uomini perviene in
diversi luoghi; ultimamente, restituita al padre per pulcella, ne va al re del
Garbo, come prima faceva, per moglie.
Forse non molto più si
sarebbe la novella d'Emilia distesa, che la compassione avuta dalle giovani
donne a' casi di madama Beritola loro avrebbe condotte a lagrimare. Ma, poi che
a quella fu posta fine, piacque alla reina che Panfilo seguitasse, la sua
raccontando; per la qual cosa egli, che ubidientissimo era, incominci.
Malagevolmente, piacevoli donne, si può da noi conoscer quello che per noi si
faccia, per ci che, se come assai volte s'è potuto vedere, molti estimando, se
essi ricchi divenissero, senza sollecitudine e sicuri poter vivere, quello non
solamente con prieghi a Dio addomandarono, ma sollecitamente, non recusando
alcuna fatica o pericolo, d'acquistarlo cercarono; e, come che loro venisse
fatto, trovarono chi per vaghezza di così ampia eredità gli uccise, li quali
avanti che arricchiti fossero amavan la vita loro. Altri di basso stato per
mille pericolose battaglie, per mezzo il sangue de' fratelli e degli amici loro
saliti all'altezza de' regni, in quegli somma felicità esser credendo, senza le
infinite sollecitudini e paure di che piena la videro e sentirono, conobbero,
non senza la morte loro, che nell'oro alle mense reali si beveva il veleno.
Molti furono che la forza corporale e la bellezza, e certi gli ornamenti, con
appetito ardentissimo disiderarono, né prima d'aver mal disiderato s'avvidero,
che essi quelle cose loro di morte essere o di dolorosa vita cagione. E acciò
che io partitamente di tutti gli umani disideri non parli, affermo niuno
poterne essere con pieno avve dimento, sì come sicuro da' fortunosi casi, che
da' viventi si possa eleggere; per che, se dirittamente operar volessimo, a
quello prendere e possedere ci dovremmo disporre che Colui ci donasse, il quale
sol ciò che ci fa bisogno conosce e puolci dare. Ma per ciò che, come che gli
uomini in varie cose pecchino disiderando, voi, graziose donne, sommamente
peccate in una, cioè nel disiderare d'esser belle, in tanto che, non bastandovi
le bellezze che dalla natura concedute vi sono, ancora con maravigliosa arte
quelle cercate d'accrescere, mi piace di raccontarvi quanto sventuratamente
fosse bella una saracina, alla quale in forse quattro anni avvenne per la sua
bellezza di fare nuove nozze da nove volte. Già è buon tempo passato che di
Babilonia fu un soldano, il quale ebbe nome Beminedab, al quale ne' suoi dì
assai cose secondo il suo piacere avvennero. Aveva costui, tra gli altri suoi
molti figliuoli e maschi e femine, una figliuola chiamata Alatiel, la quale,
per quello che ciascuno che la vedeva dicesse, era la più bella femina che si
vedesse in quei tempi nel mondo; e per ciò che in una grande sconfitta, la
quale aveva data ad una gran moltitudine d'arabi che addosso gli eran venuti,
l'aveva maravigliosamente aiutato il re del Garbo, a lui, domandandogliele egli
di grazia speziale, l'aveva per moglie data, e lei con onorevole compagnia e
d'uomini e di donne e con molti nobili e ricchi arnesi fece sopra una nave bene
armata e ben corredata montare, e a lui mandandola, l'accomandò a Dio.
I marinari, come videro
il tempo ben disposto, diedero le vele a' venti e del porto d'Alessandria si
partirono e più giorni felicemente navigarono; e già avendo la Sardigna
passata, parendo loro alla fine del loro cammino esser vicini, si levarono
subitamente un giorno diversi venti, li quali, essendo ciascuno oltre modo
impetuoso, sì faticarono la nave dove la donna era e' marinari, che più volte
per perduti si tennero. Ma pure, come valenti uomini, ogni arte e ogni forza
operando, essendo da infinito mare combattuti, due dì sostennero; e surgendo
già dalla tempesta cominciata la terza notte, e quella non cessando ma
crescendo tutta fiata, non sappiendo essi dove si fossero né potendolo per
estimazion marinaresca comprendere né per vista, per ciò che oscurissimo di
nuvoli e di buia notte era il cielo, essendo essi non guari sopra Maiolica,
sentirono la nave sdrucire.
Per la qual cosa, non
veggendovi alcun rimedio al loro scampo, avendo a mente ciascun sè medesimo e
non altrui, in mare gittarono un paliscalmo, e sopra quello più tosto di
fidarsi disponendo, che sopra la isdrucita nave, si gittarono i padroni; a'
quali appresso or l'uno or l'altro di quanti uomini erano nella nave,
quantunque quelli che prima nel paliscalmo eran discesi colle coltella in mano
il contradicessero, tutti si gittarono; e, credendosi la morte fuggire, in
quella incapparono; per ciò che non potendone per la contrarietà del tempo
tanti reggere il paliscalmo, andato sotto, tutti quanti perirono. E la nave,
che da impetuoso vento era sospinta, quantunque sdrucita fosse e già presso che
piena d'acqua (non essendovi su rimasa altra persona che la donna e le sue
femine, e quelle tutte per la tempesta del mare e per la paura vinte su per
quella quasi morte giacevano), velocissimamente correndo, in una piaggia
dell'isola di Maiolica percosse; e fu tanta e sì grande la foga di quella, che
quasi tutta si ficcò nella rena vicina al lito forse una gittata di pietra; e
quivi dal mar combattuta, la notte, senza poter più dal vento esser mossa, si
stette.
Venuto il giorno chiaro
e alquanto la tempesta acchetata, la donna, che quasi mezza morta era, alzò la
testa, e così debole come era cominciò a chiamare ora uno e ora un altro della
sua famiglia; ma per niente chiamava, ché i chiamati eran troppo lontani. Per
che, non sentendosi rispondere ad alcuno né alcuno veggendone, si maravigliò
molto e cominciò ad avere grandissima paura; e co me meglio potè levatasi, le
donne che in compagnia di lei erano e l'altre femine tutte vide giacere, e or
l'una e or l'altra dopo molto chiamare tentando, poche ve ne trovò che avessono
sentimento, sì come quelle che, tra per grave angoscia di stomaco e per paura
morte s'erano; di che la paura alla donna divenne maggiore. Ma nondimeno,
strignendola necessità di consiglio, per ciò che quivi tutta sola si vedeva,
non conoscendo o sappiendo dove si fosse, pure stimolò tanto quelle che vive
erano, che su le fece levare; e trovando quelle non sapere dove gli uomini
andati fossero, e veggendo la nave in terra percossa e d'acqua piena, con
quelle insieme dolorosamente cominciò a piagnere.
E già era ora di nona,
avanti che alcuna persona su per lo lito o in altra parte vedessero, a cui di
sé potessero fare venire alcuna pietà ad aiutarle. In su la nona, per avventura
da un suo luogo tornando, passò quindi un gentile uomo, il cui nome era Pericon
da Visalgo, con più suoi famigli a cavallo, il quale, veggendo la nave,
subitamente imaginò ciò che era e comandò ad un de' famigli che senza indugio
procacciasse di su montarvi e gli raccontasse ciò che vi fosse. Il famigliare,
ancora che con difficultà il facesse, pur vi montò su, e trovò la gentil
giovane, con quella poca compagnia che avea, sotto il becco della proda della
nave tutta timida star nascosa. Le quali, come costui videro, piagnendo più
volte misericordia addomandarono; ma, accorgendosi che intese non erano, né
esse lui intendevano, con atti s'ingegnarono di dimostrare la loro
disavventura.
Il famigliare, come potè
il meglio ogni cosa ragguardata, raccontò a Pericone ciò che su v'era; il
quale, prestamente fattone giù torre le donne e le più preziose cose che in
essa erano e che aver si potessono, con esse n'andò ad un suo castello; e quivi
con vivande e con riposo riconfortate le donne, comprese, per gli arnesi
ricchi, la donna che trovata avea dovere essere gran gentil donna, e lei
prestamente conobbe all'onore che vedeva dall'altre fare a lei sola. E
quantunque pallida e assai male in ordine della persona per la fatica del mare
allor fosse la donna, pur parevano le sue fattezze bellissime a Pericone; per
la qual cosa subitamente seco diliberò, se ella marito non avesse, di volerla
per moglie, e se per moglie avere non la potesse, di volere avere la sua
amistà. Era Pericone uomo di fiera vista e robusto molto; e avendo per alcun dì
la donna ottimamente fatta servire, e per questo essendo ella riconfortata
tutta, veggendola esso oltre ad ogni estimazione bellissima, dolente senza modo
che lei intendere non poteva né ella lui, e così non poter saper chi si fosse,
acceso nondimeno della sua bellezza smisuratamente, con atti piacevoli e
amorosi s'ingegnò d'inducerla a fare senza contenzione i suoi piaceri. Ma ciò
era niente: ella rifiutava del tutto la sua dimestichezza; e intanto più
s'accendeva l'ardore di Pericone. Il che la donna veggendo, e già quivi per
alcuni giorni dimorata, e per li costumi avvisando che tra cristiani era e in
parte dove, se pure avesse saputo, il farsi conoscere le montava poco,
avvisandosi che a lungo andare o per forza o per amore le converrebbe venire a
dovere i piaceri di Pericon fare, con altezza d'animo seco propose di calcare
la miseria della sua fortuna, e alle sue femine, che più che tre rimase non le
ne erano, comandò che ad alcuna persona mai manifestassero chi fossero, salvo
se in parte si trovassero dove aiuto manifesto alla lor libertà conoscessero;
oltre a questo sommamente confortandole a conservare la loro castità,
affermando sé aver seco proposto che mai di lei se non il suo marito goderebbe.
Le sue femine di ciò la commendarono, e dissero di servare al loro potere il
suo comandamento. Pericone, più di giorno in giorno accendendosi, e tanto più
quanto più vicina si vedeva la disiderata cosa e più negata, e veggendo che le
sue lusinghe non gli valevano, di spose lo 'ngegno e l'arti, riserbandosi alla fine
le forze. Ed essendosi avveduto alcuna volta che alla donna piaceva il vino, sì
come a colei che usata non n'era di bere per la sua legge che il vietava, con
quello, sì come con ministro di Venere, s'avvisò di poterla pigliare; e
mostrando di non aver cura di ciò che ella si mostrava schifa, fece una sera,
per modo di solenne festa, una bella cena, nella quale la donna venne; e in
quella, essendo di molte cose la cena lieta, ordinò con colui che a lei
serviva, che di vari vini mescolati le desse bere. Il che colui ottimamente
fece; ed ella, che di ciò non si guardava, dalla piacevolezza del beveraggio
tirata, più ne prese che alla sua onestà non sarebbe richiesto; di che ella,
ogni avversità trapassata dimenticando, divenne lieta, e veggendo alcune femine
alla guisa di Maiolica ballare, essa alla maniera alessandrina ballò.
Il che veggendo
Pericone, esser gli parve vicino a quel che egli disiderava; e continuando in
più abbondanza di cibi e di beveraggi la cena, per grande spazio di notte la
prolungò. Ultimamente, partitisi i convitati, colla donna solo se n'entrò nella
camera; la quale, più calda di vino che d'onestà temperata, quasi come se
Pericone una delle sue femine fosse, senza alcuno ritegno di vergogna, in
presenza di lui spogliatasi, se n'entrò nel letto. Pericone non diede indugio a
seguitarla; ma spento ogni lume, prestamente dall'altra parte le si coricò
allato, e in braccio recatalasi, senza alcuna contradizione di lei, con lei
incominciò amorosamente a sollazzarsi; il che poi che ella ebbe sentito, non
avendo mai davanti saputo con che corno gli uomini cozzano, quasi pentuta del
non avere alle lusinghe di Pericone assentito, senza attendere d'essere a così
dolci notti invitata, spesse volte sé stessa invitava, non colle parole, ché
non si sapea fare intendere, ma co' fatti.
A questo gran piacere di
Pericone e di lei, non essendo la fortuna contenta d'averla di moglie d'un re
fatta divenire amica d'un castellano, le si parò davanti più crudele amistà.
Aveva Pericone un
fratello d'età di venticinque anni, bello e fresco come una rosa, il cui nome
era Marato; il quale, avendo costei veduta ed essendogli sommamente piaciuta,
parendogli, secondo che per gli atti di lei poteva comprendere, essere assai
bene della grazia sua ed estimando che ciò che di lei disiderava niuna cosa
gliele toglieva se non la solenne guardia che faceva di lei Pericone, cadde in
un crudel pensiero, e al pensiero seguì senza indugio lo scelerato effetto.
Era allora per ventura
nel porto della città una nave, la quale di mercatantia era carica per andare
in Chiarenza in Romania, della quale due giovani genovesi eran padroni, e già
aveva collata la vela per doversi, come buon vento fosse, partire; colli quali
Marato convenutosi, ordinò come da loro colla donna la seguente notte ricevuto
fosse. E questo fatto, faccendosi notte, seco ciò che far doveva avendo
disposto, alla casa di Pericone, il quale di niente da lui si guardava,
sconosciutamente se n'andò con alcuni suoi fidatissimi compagni, li quali a
quello che fare intendeva richiesti aveva, e nella casa, secondo l'ordine tra
lor posto, si nascose.
E poi che parte della
notte fu trapassata, aperto a' suoi compagni, là dove Pericon colla donna
dormiva n'andarono, e quella aperta, Pericon dormente uccisono, e la donna
desta e piagnente minacciando di morte, se alcun romore facesse, presero; e con
gran parte delle più preziose cose di Pericone, senza essere stati sentiti,
prestamente alla marina n'andarono, e quivi senza indugio sopra la nave se ne
montarono Marato e la donna, e' suoi compagni se ne tornarono.
I marinari, avendo buon
vento e fresco, fecero vela al lor viaggio.
La donna amaramente e
della sua prima sciagura e di questa seconda si dolfe molto; ma Marato, col
santo Cresciinman che Iddio ci diè, la cominciò per sì fatta maniera a
consolare, che ella, già con lui dimesticatasi, Pericone dimenticato avea; e
già le pareva star bene, quando la fortuna l'apparecchiò nuova tristizia, quasi
non contenta delle passate. Per ciò che, essendo ella di forma bellissima, sì
come già più volte detto avemo, e di maniere laudevoli molto, sì forte di lei i
due giovani padroni della nave s'innamorarono che, ogn'altra cosa
dimenticatane, solamente a servirle e a piacerle intendevano, guardandosi
sempre non Marato s'accorgesse della cagione.
Ed essendosi l'uno
dell'altro di questo amore avveduto, di ciò ebbero insieme segreto
ragionamento, e convennersi di fare l'acquisto di questo amor comune, quasi
amore così questo dovesse patire, come la mercatantia o i guadagni fanno. E
veggendola molto da Marato guardata, e per ciò alla loro intenzione impediti,
andando un dì a vela velocissimamente la nave, e Marato standosi sopra la poppa
e verso il mare riguardando, di niuna cosa da loro guardandosi, di concordia
andarono e, lui prestamente di dietro preso, il gittarono in mare; e prima per
ispazio di più d'un miglio dilungati furono, che alcuno si fosse pure avveduto
Marato esser caduto in mare; il che sentendo la donna, e non veggendosi via da
poterlo ricoverare, nuovo cordoglio sopra la nave a far cominciò.
Al conforto della quale
i due amanti incontanente vennero, e con dolci parole e con promesse
grandissime, quantunque ella poco intendesse, lei, che non tanto il perduto
Marato quanto la sua sventura piagnea, s'ingegnavan di racchetare. E dopo
lunghi sermoni e una e altra volta con lei usati, parendo loro lei quasi avere
racconsolata, a ragionamento vennero tra sé medesimi, qual prima di loro la
dovesse con seco menare a giacere. E, volendo ciascuno essere il primo, né
potendosi in ciò tra loro alcuna concordia trovare, prima con parole grave e
dura riotta incominciarono, e da quella accesi nell'ira, messo mano alle
coltella, furiosamente s'andarono addosso, e più colpi (non potendo quelli che
sopra la nave erano dividergli) si diedono insieme, de' quali incontanente l'un
cadde morto e l'altro, in molte parti della persona gravemente fedito, rimase
in vita. Il che dispiacque molto alla donna, sì come a colei che quivi sola
senza aiuto o consiglio d'alcun si vedea, e temeva forte non sopra lei l'ira si
volgesse de' parenti e degli amici de' due padroni; ma i prieghi del fedito e
il prestamente pervenire a Chiarenza, dal pericolo della morte la liberarono.
Dove col fedito insieme discese in terra, e con lui dimorando in uno albergo,
subitamente corse la fama della sua gran bellezza per la città, e agli orecchi
del prenze della Morea, il quale allora era in Chiarenza, pervenne; laonde egli
veder la volle, e vedutola, e oltre a quello che la fama portava bella
parendogli, sì forte di lei subitamente s'innamorò, che ad altro non poteva
pensare.
E avendo udito in che
guisa quivi pervenuta fosse, s'avvisò di doverla potere avere. E cercando de'
modi, e i parenti del fedito sappiendolo, senza altro aspettare, prestamente
gliele mandarono; il che al prenze fu sommamente caro e alla donna altressì,
per ciò che fuor d'un gran pericolo esser le parve. Il prenze vedendola, oltre
alla bellezza, ornata di costumi reali, non potendo altramenti saper chi ella
si fosse, nobile donna dovere essere l'estimò, e per tanto il suo amore in lei
si raddoppiò; e onorevolmente molto tenendola, non a guisa d'amica, ma di sua
propia moglie la trattava. Il perché, avendo a' trapassati mali alcun rispetto
la donna e parendole assai bene stare, tutta riconfortata e lieta divenuta, in
tanto le sue bellezze fiorirono, che di niuna altra cosa pareva che tutta la
Romania avesse da favellare. Per la qual cosa al duca d'Atene, giovane e bello
e pro'della persona, amico e parente del prenze, venne disidero di vederla; e
mostrando di venirlo a visitare, come usato era talvolta di fare, con bella e
onorevole compagnia se ne venne a Chiarenza, dove onorevolmente fu ricevuto e
con gran festa.
Poi dopo alcuni dì venuti
insieme a ragionamento delle bellezze di questa donna, domandò il duca se così
era mirabil cosa come si ragionava. A cui il prenze rispose:
– Molto più; ma di ciò
non le mie parole, ma gli occhi tuoi voglio ti faccian fede.
A che sollecitando il
duca il prenze, insieme n'andarono là dove ella era; la quale costumatamente
molto e con lieto viso, avendo davanti sentita la lor venuta, gli ricevette; e
in mezzo di loro fattala sedere, non si potè di ragionar con lei prender
piacere, per ciò che essa poco o niente di quella lingua intendeva. Per che
ciascun lei, sì come maravigliosa cosa, guardava, e il duca massimamente, il
quale appena seco poteva credere lei essere cosa mortale; e non accorgendosi,
riguardandola, dell'amoroso veleno che egli con gli occhi bevea, credendosi al
suo piacer sodisfare mirandola, sé stesso miseramente impacciò, di lei
ardentissimamente innamorandosi. E poi che da lei insieme col prenze partito si
fu ed ebbe spazio di poter pensare seco stesso, estimava il prenze sopra ogni
altro felice, sì bella cosa avendo al suo piacere; e, dopo molti e vari
pensieri, pesando più il suo focoso amore che la sua onestà, diliberò, che che
avvenir se ne dovesse, di privare di questa felicità il prenze e sé a suo
potere farne felice.
E avendo l'animo al
doversi avacciare, lasciando ogni ragione e ogni giustizia dall'una delle
parti, agl'inganni tutto il suo pensier dispose; e un giorno, secondo l'ordine
malvagio da lui preso, insieme con un segretissimo cameriere del prenze, il
quale avea nome Ciuriaci, segretissimamente tutti i suoi cavalli e le sue cose
fece mettere in assetto per doversene andare; e la notte vegnente insieme con
un compagno, tutti armati, messo fu dal predetto Ciuriaci nella camera del
prenze chetamente, il quale egli vide che per lo gran caldo che era, dormendo
la donna, esso tutto ignudo si stava ad una finestra volta alla marina a
ricevere un venticello che da quella parte veniva. Per la qual cosa, avendo il
suo compagno davanti informato di quello che avesse a fare, chetamente n'andò
per la camera infino alla finestra, e quivi con un coltello ferito il prenze
per le reni, infino all'altra parte il passò e, prestamente presolo, dalla
finestra il gittò fuori. Era il palagio sopra il mare, e alto molto, e quella
finestra alla quale allora era il prenze, guardava sopra certe case dall'impeto
del mare fatte cadere, nelle quali rade volte o non mai andava persona; per che
avvenne, sì come il duca davanti avea provveduto, che la caduta del corpo del
prenze da alcuno non fu né potè esser sentita. Il compagno del duca ciò
veggendo esser fatto, prestamente un capestro da lui per ciò portato, faccendo
vista di fare carezze a Ciuriaci, gli gittò alla gola, e tirò sì che Ciuriaci
niuno romore potè fare; e sopraggiuntovi il duca, lui strangolarono, e dove il
prenze gittato avea il gittarono. E questo fatto, manifestamente conoscendo sé
non esser stati né dalla donna né da altrui sentiti, prese il duca un lume in
mano, e quello portò sopra il letto, e chetamente tutta la donna, la quale
fisamente dormiva, scoperse; e riguardandola tutta, la lodò sommamente, e se
vestita gli era piaciuta, oltre ad ogni comparazione ignuda gli piacque. Per
che, di più caldo disio accesosi, non spaventato dal ricente peccato da lui
commesso, con le mani ancor sanguinose, allato le si coricò e con lei, tutta
sonnocchiosa e credente che il prenze fosse, si giacque.
Ma poi che alquanto con
grandissimo piacere fu dimorato con lei, levatosi e fatto alquanti de' suoi
compagni quivi venire, fe' prender la donna in guisa che romo re far non
potesse, e per una falsa porta, dond'egli entrato era, trattala, e a caval
messala, quanto più potè tacitamente, con tutti i suoi entrò in cammino, e
verso Atene se ne tornò. Ma (per ciò che moglie aveva) non in Atene, ma ad un
suo bellissimo luogo, che poco di fuori dalla città sopra il mare aveva, la
donna più che altra dolorosa mise, quivi nascosamente tenendola e faccendola
onorevolmente di ciò che bisognava servire.
Avevano la seguente
mattina i cortigiani del prenze infino a nona aspettato che 'l prenze si
levasse; ma niente sentendo, sospinti gli usci delle camere, che solamente
chiusi erano, e niuna persona trovandovi, avvisando che occultamente in alcuna
parte andato fosse per istarsi alcun dì a suo diletto con quella sua bella donna,
più non si dierono impaccio.
E così standosi, avvenne
che il dì seguente un matto, entrato intra le ruine dove il corpo del prenze e
di Ciuriaci erano, per lo capestro tirò fuori Ciuriaci, e andavaselo tirando
dietro. Il quale non senza gran maraviglia fu riconosciuto da molti, li quali
con lusinghe fattisi menare al matto là, onde tratto l'avea, quivi, con
grandissimo dolore di tutta la città, quello del prenze trovarono, e
onorevolmente il sepellirono; e de' commettitori di così grande eccesso investigando,
e veggendo il duca d'Atene non esservi, ma essersi furtivamente partito,
estimarono, così come era, lui dovere aver fatto questo e menatasene la donna.
Per che prestamente in lor prenze un fratello del morto prenze sustituendo, lui
alla vendetta con ogni lor potere incitarono; il quale, per più altre cose poi
accertato così essere come imaginato avieno, richiesti e amici e parenti e
servidori di diverse parti, prestamente congregò una bella e grande e poderosa
oste, e a far guerra al duca d'Atene si dirizzò.
Il duca, queste cose
sentendo, a difesa di sé similmente ogni suo sforzo apparecchiò, e in aiuto di
lui molti signor vennero, tra' quali, mandati dallo imperadore di Costantino
poli, furono Constanzio suo figliuolo e Manovello suo nepote, con bella e con
gran gente; li quali dal duca onorevolemente ricevuti furono, e dalla duchessa
più, per ciò che loro sirocchia era.
Appressandosi di giorno
in giorno più alla guerra le cose, la duchessa, preso tempo, amenduni nella
camera se gli fece venire, e quivi con lagrime assai e con parole molte tutta
la istoria narrò, le cagioni della guerra mostrando e il dispetto a lei fatto
dal duca della femina, la quale nascosamente si credeva tenere; e forte di ciò
condogliendosi, gli pregò che allo onor del duca e alla consolazion di lei
quello compenso mettessero, che per loro si potesse il migliore.
Sapevano i giovani tutto
il fatto come stato era, e per ciò, senza troppo addomandar, la duchessa come
seppero il meglio riconfortarono e di buona speranza la riempirono; e da lei
informati dove stesse la donna, si dipartirono. E avendo molte volte udita la
donna di maravigliosa bellezza commendare, disideraron di vederla e il duca
pregarono che loro la mostrasse. Il quale, mal ricordandosi di ciò che al
prenze avvenuto era per averla mostrata a lui, promise di farlo; e fatto in un
bellissimo giardino (che nel luogo, dove la donna dimorava, era) apparecchiare
un magnifico desinare, loro la seguente mattina con pochi altri compagni a
mangiar con lei menò.
E sedendo Constanzio con
lei, la cominciò a riguardare pieno di maraviglia, seco affermando mai sì bella
cosa non aver veduta, e che per certo per iscusato si doveva avere il duca e
qualunque altro che, per avere una così bella cosa, facesse tradimento o altra
disonesta cosa; e una volta e altra mirandola, e più ciascuna commendandola,
non altramenti a lui avvenne che al duca avvenuto era. Per che, da lei
innamorato partitosi, tutto il pensiero della guerra abbandonato, si diede a
pensare come al duca torre la potesse, ottimamente a ciascuna persona il suo
amor celando.
Ma, mentre che esso in
questo fuoco ardeva, sopravenne il tempo d'uscire contro al prenze, che già
alle terre del duca s'avvicinava; per che il duca e Constanzio e gli altri
tutti, secondo l'ordine dato, d'Atene usciti, andarono a contrastare a certe
frontiere, acciò che più avanti non potesse il prenze venire. E quivi per più
dì dimorando, avendo sempre Constanzio l'animo e 'l pensiero a quella donna,
imaginando che, ora che 'l duca non l'era vicino, assai bene gli potrebbe venir
fatto il suo piacere, per aver cagione di tornarsi ad Atene si mostrò forte
della persona disagiato; per che, con licenzia del duca, commessa ogni sua
podestà in Manovello, ad Atene se ne venne alla sorella, e quivi, dopo alcun dì,
messala nel ragionare del dispetto che dal duca le pareva ricevere per la donna
la qual teneva, le disse che, dove ella volesse, egli assai bene di ciò
l'aiuterebbe, faccendola di colà ove era trarre e menarla via.
La duchessa, estimando
Constanzio questo per amore di lei e non della donna fare, disse che molto le
piacea, sì veramente dove in guisa si facesse che il duca mai non risapesse che
essa a questo avesse consentito; il che Constanzio pienamente le promise. Per
che la duchessa consentì che egli, come il meglio gli paresse, facesse.
Constanzio chetamente
fece armare una barca sottile, e, quella una sera ne mandò vicina al giardino
dove dimorava la donna, informati de' suoi che su v'erano quello che a fare
avessero, e appresso con altri n'andò al palagio dove era la donna; dove da
quegli che quivi al servigio di lei erano fu lietamente ricevuto, e ancora
dalla donna, e con esso lui da' suoi servidori accompagnata e da' compagni di
Constanzio, sì come gli piacque, se n'andò nel giardino. E quasi alla donna da
parte del duca parlar volesse con lei verso una porta che sopra il mare usciva
solo se n'andò, la quale già essendo da uno de suoi compagni aperta, e quivi
col segno dato chiamata la barca, fattala prestamente prendere e sopra la barca
porre, rivolto alla famiglia di lei disse:
– Niuno se ne muova né
faccia motto, se egli non vuol morire, per ciò che io intendo non di rubare al
duca la femina sua, ma di torre via l'onta la quale egli fa alla mia sorella.
A questo niuno ardì di
rispondere; per che Constanzio co' suoi sopra la barca montato e alla donna che
piagnea accostatosi, comandò che de' remi dessero in acqua e andasser via. Li
quali, non vogando ma volando, quasi in sul dì del seguente giorno ad Egina pervennero.
Quivi in terra discesi e riposandosi, Constanzio colla donna, che la sua
sventurata bellezza piagnea, si sollazzò; quindi, rimontati in su la barca,
infra pochi giorni pervennero a Chios, e quivi, per tema delle riprensioni del
padre e che la donna rubata non gli fosse tolta, piacque a Constanzio, come in
sicuro luogo, di rimanersi; dove più giorni la bella donna pianse la sua
disavventura; ma pur poi da Constanzio riconfortata, come l'altre volte fatto
avea, s'incominciò a prendere piacere di ciò che la fortuna avanti
l'apparecchiava.
Mentre queste cose
andavano in questa guisa, Osbech, allora re de' turchi, il quale in continua
guerra stava collo imperadore, in questo tempo venne per caso alle Smirre; e
quivi udendo come Constanzio in lasciva vita con una sua donna, la quale rubata
avea, senza alcun provedimento si stava in Chios, con alcuni legnetti armati là
andatone una notte e tacitamente colla sua gente nella terra entrato, molti
sopra le letta ne prese prima che s'accorgessero li nemici esser sopravenuti; e
ultimamente alquanti, che, risentiti, erano all'arme corsi, n'uccisero; e arsa
tutta la terra, e la preda e' prigioni sopra le navi posti, verso le Smirre si
ritornarono.
Quivi pervenuti,
trovando Osbech, che giovane uomo era, nel riveder della preda, la bella donna,
e cono scendo questa esser quella che con Constanzio era stata sopra il letto
dormendo presa, fu sommamente contento veggendola; e senza niuno indugio sua
moglie la fece e celebrò le nozze e con lei si giacque più mesi lieto.
Lo 'mperadore, il quale,
avanti che queste cose avvenissero, aveva tenuto trattato con Basano re di
Capadocia, acciò che sopra Osbech dall'una parte con le sue forze discendesse,
ed egli colle sue l'assalirebbe dall'altra, né ancora pienamente l'aveva potuto
fornire, per ciò che alcune cose le quali Basano addomandava, sì come meno
convenevoli, non aveva voluto fare, sentendo ciò che al figliuolo era avvenuto,
dolente fuor di misura, senza alcuno indugio ciò che il re di Capadocia
domandava fece, e lui quanto più potè allo scendere sopra Osbech sollecitò,
apparecchiandosi egli d'altra parte d'andargli addosso.
Osbech, sentendo questo,
il suo essercito ragunato, prima che da due potentissimi signori fosse stretto
in mezzo, andò contro al re di Capadocia, lasciata nelle Smirre a guardia d'un
suo fedel famigliare e amico la sua bella donna, e col re di Capadocia dopo
alquanto tempo affrontatosi combatté, e fu nella battaglia morto e il suo
essercito sconfitto e disperso. Per che Basano vittorioso cominciò liberamente
a venirsene verso le Smirre, e vegnendo, ogni gente a lui, sì come a vincitore,
ubbidiva.
Il famigliare d'Osbech,
il cui nome era Antioco, a cui la bella donna era a guardia rimasa, ancora che
attempato fosse, veggendola così bella, senza servare al suo amico e signor
fede, di lei s'innamorò; e sappiendo la lingua di lei (il che molto a grado
l'era, sì come a colei alla quale parecchi anni a guisa quasi di sorda e di
mutola era convenuta vivere, per lo non aver persona inteso, né essa essere stata
intesa da persona), da amore incitato, cominciò seco tanta famigliarità a
pigliare in pochi dì, che non dopo molto, non avendo riguardo al signor loro
che in arme e in guerra era, fecero la dimestichezza non solamente amichevole,
ma amorosa divenire, l'uno dell'altro pigliando sotto le lenzuola maraviglioso
piacere. Ma sentendo costoro Osbech essere vinto e morto, e Basano ogni cosa
venir pigliando, insieme per partito presero di quivi non aspettarlo; ma, presa
grandissima parte delle più care cose che quivi eran d'Osbech, insieme
nascosamente se n'andarono a Rodi; e quivi non guari di tempo dimorarono, che
Antioco infermò a morte. Col quale tornando per ventura un mercatante cipriano,
da lui molto amato e sommamente suo amico, sentendosi egli verso la fine
venire, pensò di volere e le sue cose e la sua cara donna lasciare a lui. E già
alla morte vicino, amenduni gli chiamò, così dicendo:
– Io mi veggio senza
alcun fallo venir meno; il che mi duole, per ciò che di vivere mai non mi giovò
come or faceva. È il vero che d'una cosa contentissimo muoio, per ciò che, pur
dovendo morire, mi veggio morire nelle braccia di quelle due persone le quali
io più amo che alcune altre che al mondo ne sieno, cioè nelle tue, carissimo
amico, e in quelle di questa donna, la quale io più che me medesimo ho amata
poscia che io la conobbi. È il vero che grave m'è, lei sentendo qui forestiera
e senza aiuto e senza consiglio, morendomi io, rimanere; e più sarebbe grave
ancora, se io qui non sentissi te, il quale io credo che quella cura di lei
avrai per amor di me, che di me medesimo avresti; e per ciò quanto più posso ti
priego, che s'egli avviene che io muoia, che le mie cose ed ella ti sieno
raccomandate, e quello dell'une e dell'altra facci, che credi che sia
consolazione dell'anima mia. E te, carissima donna, priego che dopo la mia
morte me non dimentichi, acciò che io di là vantar mi possa, che io di qua
amato sia dalla più bella donna che mai formata fosse dalla natura. Se di
queste due cose voi mi darete intera speranza, senza niun dubbio n'andrò
consolato. L'amico mercatante e la donna similmente, queste parole udendo,
piagnevano; e avendo egli detto, il confor tarono e promisongli sopra la lor
fede di quel fare che egli pregava, se avvenisse che el morisse. Il quale non
stette guari che trapassò e da loro fu onorevolmente fatto sepellire.
Poi, pochi dì appresso,
avendo il mercatante cipriano ogni suo fatto in Rodi spacciato e in Cipri
volendosene tornare sopra una cocca di catalani che v'era, domandò la bella
donna quello che far volesse, con ciò fosse cosa che a lui convenisse in Cipri
tornare. La donna rispose che con lui, se gli piacesse, volentieri se
n'andrebbe, sperando che per amor d'Antioco da lui come sorella sarebbe
trattata e riguardata. Il mercatante rispose che d'ogni suo piacere era
contento; e acciò che da ogni ingiuria che sopravenire le potesse avanti che in
Cipri fosser la difendesse, disse che era sua moglie. E sopra la nave montati,
data loro una cameretta nella poppa, acciò che i fatti non paressero alle parole
contrari, con lei in uno lettuccio assai piccolo si dormiva. Per la qual cosa
avvenne quello che né dell'un né dell'altro nel partir da Rodi era stato
intendimento, cioè che incitandogli il buio e l'agio e 'l caldo del letto, le
cui forze non son piccole, dimenticata l'amistà e l'amor d'Antioco morto, quasi
da iguale appetito tirati, cominciatisi a stuzzicare insieme, prima che a Baffa
giugnessero, là onde era il cipriano, insieme fecero parentado; e a Baffa
pervenuti, più tempo insieme col mercatante si stette.
Avvenne per ventura che
a Baffa venne per alcuna sua bisogna un gentile uomo, il cui nome era Antigono,
la cui età era grande, ma il senno maggiore, e la ricchezza piccola; per ciò
che in assai cose intramettendosi egli ne' servigi del re di Cipri, gli era la
fortuna stata contraria. Il quale, passando un giorno davanti la casa dove la
bella donna dimorava, essendo il cipriano mercatante andato con sua mercatantia
in Erminia, gli venne per ventura ad una finestra della casa di lei questa
donna veduta, la quale, per ciò che bellissima era, fiso cominciò a riguardare,
e cominciò seco stesso a ricordarsi di doverla avere altra volta veduta, ma il
dove in niuna maniera ricordar si poteva.
La bella donna, la quale
lungamente trastullo della fortuna era stata, appressandosi il termine nel
quale i suoi mali dovevano aver fine, come ella Antigono vide, così si ricordò
di lui in Alessandria ne' servigi del padre in non piccolo stato aver veduto;
per la qual cosa subita speranza prendendo di dover potere ancora nello stato
real ritornare per lo colui consiglio, non sentendovi il mercatante suo, come
più tosto potè, si fece chiamare Antigono. Il quale a lei venuto, ella
vergognosamente domandò se egli Antigono di Famagosta fosse, sì come ella
credeva. Antigono rispose del sì, e oltre a ciò disse:
– Madonna, a me par voi
riconoscere, ma per niuna cosa mi posso ricordar dove, per che io vi priego, se
grave non v'è, che a memoria mi riduciate chi voi siete.
La donna, udendo che
desso era, piagnendo forte gli si gittò colle braccia al collo, e dopo
alquanto, lui che forte si maravigliava domandò se mai in Alessandria veduta
l'avesse. La qual domanda udendo Antigono, incontanente riconobbe costei essere
Alatiel figliuola del soldano, la quale morta in mare si credeva che fosse, e
vollele fare la debita reverenza; ma ella nol sostenne e pregollo che seco
alquanto si sedesse. La qual cosa da Antigono fatta, egli reverentemente la
domandò come e quando e donde quivi venuta fosse, con ciò fosse cosa che per
tutta terra d'Egitto s'avesse per certo lei in mare, già eran più anni passati,
essere annegata.
A cui la donna disse:
– Io vorrei bene che
così fosse stato più tosto che avere avuta la vita la quale avuta ho, e credo
che mio padre vorrebbe il simigliante, se giammai il saprà –; e così detto
ricominciò maravigliosamente a piagnere.
Per che Antigono le
disse:
– Madonna, non vi
sconfortate prima che vi bisogni; se vi piace, narratemi i vostri accidenti e
che vita sia stata la vostra; per avventura l'opera potrà essere andata in modo
che noi ci troveremo collo aiuto di Dio buon compenso.
– Antigono, – disse la
bella donna – a me parve, come io ti vidi, vedere il padre mio, e da quello
amore e da quella tenerezza, che io a lui tenuta son di portare, mossa,
potendomiti celare, mi ti feci palese, e di poche persone sarebbe potuto
addivenire d'aver vedute, delle quali io tanto contenta fossi, quanto sono
d'aver te innanzi ad alcuno altro veduto e riconosciuto; e per ciò quello che
nella mia malvagia fortuna ho sempre tenuto nascoso, a te, sì come a padre,
paleserò. Se vedi, poi che udito l'avrai, di potermi in alcuno modo nel mio
pristino stato tornare, priegoti l'adoperi; se nol vedi, ti priego che mai ad
alcuna persona dichi d'avermi veduta o di me avere alcuna cosa sentita.
E questo detto, sempre
piagnendo, ciò che avvenuto l'era dal dì che in Maiolica ruppe infino a quel
punto, gli raccontò. Di che Antigono pietosamente a piagnere cominciò; e poi
che alquanto ebbe pensato, disse:
– Madonna, poi che
occulto è stato ne' vostri infortuni chi voi siete, senza fallo più cara che
mai vi renderò al vostro padre, e appresso per moglie al re del Garbo.
E, domandato da lei del
come, ordinatamente ciò che da far fosse le dimostrò; e acciò che altro per
indugio intervenir non potesse, di presente si tornò Antigono in Famagosta, e
fu al re, al qual disse:
– Signor mio, se a voi
aggrada, voi potete ad una ora a voi far grandissimo onore, e a me, che povero
sono per voi, grande utile senza gran vostro costo.
Il re domandò come.
Antigono allora disse:
– A Baffa è pervenuta la
bella giovane figliuola del soldano, di cui è stata così lunga fama che
annegata era, e per servare la sua onestà grandissimo disagio ha sofferto
lungamente, e al presente è in povero stato e disidera di tornarsi al padre. Se
a voi piacesse di mandargliele sotto la mia guardia questo sarebbe grande onor
di voi, e di me gran bene; né credo che mai tal servigio di mente al soldano
uscisse.
Il re, da una reale onestà
mosso, subitamente rispose che gli piacea; e onoratamente per lei mandando, a
Famagosta la fece venire, dove da lui e dalla reina con festa inestimabile e
con onor magnifico fu ricevuta. La qual poi dal re e dalla reina de' suoi casi
addomandata, secondo l'ammaestramento datole da Antigono rispose e contò tutto.
E pochi dì appresso,
addomandandolo ella, il re, con bella e onorevole compagnia d'uomini e di
donne, sotto il governo d'Antigono la rimandò al soldano; dal quale se con
festa fu ricevuta niun ne dimandi, e Antigono similmente con tutta la sua
compagnia. La quale poi che alquanto fu riposata, volle il soldano sapere come
fosse che viva fosse, e dove tanto tempo dimorata, senza mai avergli fatto di
suo stato alcuna cosa sentire. La donna, la quale ottimamente gli
ammaestramenti d'Antigono aveva tenuti a mente, appresso al padre così cominciò
a parlare:
– Padre mio, forse il
ventesimo giorno dopo la mia partita da voi, per fiera tempesta la nostra nave,
sdrucita, percosse a certe piaggie là in ponente, vicine d'un luogo chiamato
Aguamorta una notte; e che che degli uomini, che sopra la nostra nave erano,
s'avvenisse, io nol so né seppi giammai; di tanto mi ricorda che, venuto il
giorno, e io quasi di morte a vita risurgendo, essendo già la stracciata nave
da' paesani veduta ed essi a rubar quella di tutta la contrada corsi, io con
due delle mie femine prima sopra il lito poste fummo, e incontanente da'
giovani prese, chi qua con una e chi là con un'altra cominciarono a fuggire.
Che di loro si fosse io nol seppi mai; ma, avendo me contrastante due giovani
presa e per le trecce tirandomi, piagnendo io sempre forte, av venne che,
passando costoro che mi tiravano una strada per entrare in un grandissimo
bosco, quattro uomini in quella ora di quindi passavano a cavallo, li quali
come quegli che mi tiravano vidono, così lasciatami prestamente presero a
fuggire.
Li quattro uomini, li
quali nel sembiante assai autorevoli mi parevano, veduto ciò, corsero dove io
era e molto mi domandarono, e io dissi molto, ma né da loro fui intesa né io
loro intesi. Essi, dopo lungo consiglio, postami sopra uno de' lor cavalli, mi
menarono ad uno monastero di donne secondo la lor legge religiose, e quivi, che
che essi dicessero, io fui da tutte benignamente ricevuta e onorata sempre, e
con gran divozione con loro insieme ho poi servito a san Cresci in Val Cava, a
cui le femine di quel paese voglion molto bene. Ma, poi che per alquanto tempo
con loro dimorata fui, e già alquanto avendo della loro lingua apparata,
domandandomi esse chi io fossi e donde, e io conoscendo là dove io era e
temendo, se il vero dicessi, non fossi da lor cacciata sì come nemica della lor
legge, risposi che io era figliuola d'un gran gentile uomo di Cipri, il quale
mandandomene a marito in Creti, per fortuna quivi eravam corsi e rotti.
E assai volte in assai
cose, per tema di peggio, servai i lor costumi; e domandata dalla maggiore di
quelle donne, la quale elle appellan badessa, se in Cipri tornare me ne
volessi, risposi che niuna cosa tanto desiderava; ma essa, tenera del mio
onore, mai ad alcuna persona fidar non mi volle che verso Cipri venisse, se
non, forse due mesi sono, venuti quivi certi buoni uomini di Francia colle loro
donne, de' quali alcun parente v'era della badessa, e sentendo essa che in
Jerusalem andavano a visitare il Sepolcro, dove colui cui tengon per Iddio fu
sepellito poi che da' giudei fu ucciso, a loro mi raccomandò, e pregogli che in
Cipri a mio padre mi dovessero presentare.
Quanto questi gentili
uomini m'onorassono e lietamente mi ricevessero insieme colle lor donne, lunga
istoria sarebbe a raccontare. Saliti adunque sopra una nave, dopo più giorni
pervenimmo a Baffa; e quivi veggendomi pervenire, né persona conoscendomi né
sappiendo che dovermi dire a' gentili uomini che a mio padre mi volean
presentare, secondo che loro era stato imposto dalla veneranda donna,
m'apparecchiò Iddio, al qual forse di me incresceva, sopra il lito Antigono in
quella ora che noi a Baffa smontavamo; il quale io prestamente chiamai, e in
nostra lingua, per non essere da' gentili uomini né dalle lor donne intesa, gli
dissi che come figliuola mi ricevesse. Egli prestamente m'intese; e fattami la
festa grande, quegli gentili uomini e quelle donne secondo la sua povera
possibilità onorò, e me ne menò al re di Cipri, il quale con quello onor mi
ricevette e qui a voi m'ha rimandata, che mai per me raccontare non si
potrebbe. Se altro a dir ci resta, Antigono, che molte volte da me ha questa
mia fortuna udita, il racconti.
Antigono allora al
soldano rivolto disse:
– Signor mio,
ordinatissimamente sì come ella m'ha più volte detto e come quegli gentili
uomini colli quali venne mi dissero, v'ha raccontato. Solamente una parte v'ha
lasciata a dire, la quale io estimo che, per ciò che bene non sta a lei di
dirlo, l'abbia fatto; e questo è, quanto quegli gentili uomini e donne, colli
quali venne, dicessero della onesta vita la quale con le religiose donne aveva
tenuta e della sua virtù e de' suoi laudevoli costumi, e delle lagrime e del
pianto che fecero e le donne e gli uomini quando, a me restituitola, si
partiron da lei. Delle quali cose se io volessi a pien dire ciò che essi mi
dissero, non che il presente giorno, ma la seguente notte non ci basterebbe;
tanto solamente averne detto voglio che basti, che (secondo che le loro parole
mostravano e quello ancora che io n'ho potuto vedere) voi vi potete vantare
d'avere la più bella figliuola e la più onesta e la più valorosa che altro
signore che oggi corona porti. Di queste cose fece il soldano maravigliosissima
festa e più volte pregò Iddio che grazia gli concedesse di poter degni meriti
rendere a chiunque avea la figliuola onorata, e massimamente al re di Cipri,
per cui onoratamente gli era stata rimandata; e appresso alquanti dì, fatti
grandissimi doni apparecchiare ad Antigono, al tornarsi in Cipri il licenziò,
al re per lettere e per speziali ambasciadori grandissime grazie rendendo di
ciò che fatto aveva alla figliuola.
Appresso questo, volendo
che quello che cominciato era avesse effetto, cioè che ella moglie fosse del re
del Garbo, a lui ogni cosa significò pienamente, scrivendoli oltre a ciò che,
se gli piacesse d'averla, per lei si mandasse. Di ciò fece il re del Garbo gran
festa, e mandato onorevolmente per lei, lietamente la ricevette. Ed essa che
con otto uomini forse diecemilia volte giaciuta era, allato a lui si coricò per
pulcella, e fecegliele credere che così fosse; e reina con lui lietamente poi
più tempo visse. E perciò si disse: – Bocca baciata non perde ventura, anzi
rinnuova come fa la luna.
NOVELLA OTTAVA
Il conte d'Anguersa,
falsamente accusato, va in essilio e lascia due suoi figliuoli in diversi
luoghi in Inghilterra, ed egli sconosciuto tornando, lor truova in buono stato,
va come ragazzo nello essercito del re di Francia, e riconosciuto innocente, è
nel primo stato ritornato.
Sospirato fu molto dalle
donne per li vari casi della bella donna: ma chi sa che cagione moveva que'
sospiri? Forse v'eran di quelle che non meno per vaghezza di così spesse nozze
che per pietà di colei sospiravano. Ma lasciando questo stare al presente,
essendosi da loro riso per l'ultime parole da Panfilo dette, e veggendo la
reina in quelle la novella di lui esser finita, ad Elissa rivolta, impose che con
una delle sue l'ordine seguitasse. La quale, lietamente faccendolo, in
cominciò.
Ampissimo campo è quello
per lo quale noi oggi spaziando andiamo, né ce n'è alcuno, che, non che uno
aringo, ma diece non ci potesse assai leggiermente correre, sì copioso l'ha
fatto la Fortuna delle sue nuove e gravi cose; e per ciò, venendo di quelle che
infinite sono a raccontare alcuna, dico che essendo lo 'mperio di Roma da'
franceschi né tedeschi trasportato, nacque tra l'una nazione e l'altra
grandissima nimistà e acerba e continua guerra, per la quale, sì per la difesa
del suo paese e sì per l'offesa dell'altrui, il re di Francia e un suo
figliuolo, con ogni sforzo del lor regno, e appresso d'amici e di parenti, che
far poterono, ordinarono un grandissimo essercito per andare sopr'a'nimici; e
avanti che a ciò procedessero, per non lasciare il regno senza governo,
sentendo Gualtieri conte d'Anguersa gentile e savio uomo e molto lor fedele
amico e servidore, e ancora che assai ammaestrato fosse nell'arte della guerra,
per ciò che loro più alle dilicatezze atto che a quelle fatiche parea, lui in
luogo di loro sopra tutto il governo del rea me di Francia general vicario
lasciarono, e andarono al loro cammino.
Cominciò adunque
Gualtieri e con senno e con ordine l'uficio commesso, sempre d'ogni cosa colla
reina e colla nuora di lei conferendo; e benché sotto la sua custodia e
giurisdizione lasciate fossero, nondimeno come sue donne e maggiori in ciò che
per lui si poteva l'onorava. Era il detto Gualtieri del corpo bellissimo e
d'età forse di quaranta anni, e tanto piacevole e costumato, quanto alcuno
altro gentile uomo il più esser potesse; e, oltre a tutto questo, era il più
leggiadro e il più dilicato cavaliere che a quegli tempi si conoscesse, e
quegli che più della persona andava ornato.
Ora avvenne che, essendo
il re di Francia e il figliuolo nella guerra già detta, essendosi morta la
donna di Gualtieri e a lui un figliuol maschio e una femina piccoli fanciulli
rimasi di lei senza più, che costumando egli alla corte delle donne predette e
con loro spesso parlando delle bisogne del regno, che la donna del figliuol del
re gli pose gli occhi addosso e con grandissima affezione la persona di lui e i
suoi costumi considerando, d'occulto amore ferventemente di lui s'accese; e sé
giovane e fresca sentendo e lui senza alcuna donna, si pensò leggiermente
doverle il suo disidero venir fatto, e pensando niuna cosa a ciò contrastare,
se non vergogna, di manifestargliele si dispose del tutto e quella cacciar via.
Ed, essendo un giorno sola e parendole tempo, quasi d'altre cose con lui
ragionar volesse, per lui mandò. Il conte, il cui pensiero era molto lontano da
quel della donna, senza alcuno indugio a lei andò; e postosi, come ella volle,
con lei sopra un letto in una camera tutti soli a sedere, avendola il conte già
due volte domandata della cagione per che fatto l'avesse venire ed ella
taciuto, ultimamente da amor sospinta, tutta di vergogna divenuta vermiglia,
quasi piagnendo e tutta tremante, con parole rotte così cominciò a dire:
– Carissimo e dolce
amico e signor mio, voi potete, come savio uomo, agevolmente conoscere quanta
sia la fragilità e degli uomini e delle donne, e per diverse cagioni più in una
che in altra; per che debitamente dinanzi a giusto giudice un medesimo peccato
in diverse qualità di persone non dee una medesima pena ricevere. E chi sarebbe
colui che dicesse che non dovesse molto più essere da riprendere un povero uomo
o una povera femina, a' quali colla loro fatica convenisse guadagnare quello
che per la vita loro lor bisognasse, se da amore stimolati fossero e quello
seguissero, che una donna la quale fosse ricca e oziosa, e a cui niuna cosa che
a' suoi disideri piacesse mancasse? Certo io non credo niuno. Per la quale
ragione io estimo che grandissima parte di scusa debbian fare le dette cose in
servigio di colei che le possiede, se ella per avventura si lascia trascorrere
ad amare; e il rimanente debbia fare l'avere eletto savio e valoroso amadore,
se quella l'ha fatto che ama. Le quali cose con ciò sia cosa che amendune,
secondo il mio parere, sieno in me, e, oltre a queste, più altre le quali ad
amare mi debbono inducere, sì come a la mia giovanezza e la lontananza del mio
marito, ora convien che surgano in servigio di me alla difesa del mio focoso
amore nel vostro cospetto; le quali, se quel vi potranno che nella presenza de'
savi debbon potere, io vi priego che consiglio e aiuto in quello che io vi
dimanderò mi porgiate. Egli è il vero che, per la lontananza di mio marito, non
potend'io agli stimoli della carne né alla forza d'amore contrastare, le quali
sono di tanta potenzia che i fortissimi uomini, non che le tenere donne, hanno
già molte volte vinti e vincono tutto il giorno, essendo io negli agi e negli
ozi né quali voi mi vedete, a secondare li piaceri d'amore e a divenire
innamorata mi sono lasciata trascorrere; e come che tal cosa, se saputa fosse,
io conosca non essere onesta, nondimeno, essendo e stando nascosa, quasi di
niuna cosa esser disonesta la giudichi, pur m'è di tanto Amore stato grazioso, che
egli non solamente non m'ha il debito conoscimento tolto nello eleggere
l'amante, ma me n'ha molto in ciò prestato, voi degno mostrandomi da dovere da
una donna, fatta come sono io, essere amato; il quale, se 'l mio avviso non
m'inganna, io reputo il più bello, il più piacevole e 'l più leggiadro e 'l più
savio cavaliere, che nel reame di Francia trovar si possa; e sì come io senza
marito posso dire che io mi veggia, così voi ancora senza mogliere. Per che io
vi priego, per cotanto amore quanto è quello che io vi porto, che voi non
neghiate il vostro verso di me e che della mia giovanezza v'incresca, la qual
veramente come il ghiaccio al fuoco si consuma per voi.
A queste parole
sopravennero in tanta abbondanza le lagrime, che essa, che ancora più prieghi
intendeva di porgere, più avanti non ebbe poter di parlare; ma, bassato il viso
e quasi vinta, piagnendo, sopra il seno del conte si lasciò colla testa cadere.
Il conte, il quale
lealissimo cavaliere era, con gravissime riprensioni cominciò a mordere così
folle amore e a sospignerla indietro, che già al collo gli si voleva gittare; e
con saramenti ad affermare che egli prima sofferrebbe d'essere squartato, che
tal cosa contro allo onore del suo signore né in sé né in altrui consentisse.
Il che la donna udendo, subitamente dimenticato l'amore e in fiero furore
accesa, disse:
– Dunque sarò io, villan
cavaliere, in questa guisa da voi del mio disidero schernita? Unque a Dio non
piaccia, poi che voi volete me far morire, che io voi o morire o cacciar del
mondo non faccia.
E così detto, ad una ora
messesi le mani né capelli e rabbuffatigli stracciatigli tutti, e appresso nel
petto squarciandosi i vestimenti, cominciò a gridar forte:
– Aiuto aiuto, ché 'l
conte d'Anguersa mi vuol far forza. Il conte, veggendo questo e dubitando forte
più della invidia cortigiana che della sua coscienza e, temendo per quella non
fosse più fede data alla malvagità della donna che alla sua innocenzia,
levatosi come più tosto potè della camera e del palagio s'uscì e fuggissi a
casa sua, dove, senza altro consiglio prendere, pose i suoi figliuoli a
cavallo, ed egli montatovi altressì, quanto più potè, n'andò verso Calese.
Al romor della donna
corsero molti, li quali, vedutola e udita la cagione del suo gridare, non
solamente per quello dieder fede alle sue parole, ma aggiunsero la leggiadria e
la ornata maniera del conte, per potere a quel venire, essere stata da lui
lungamente usata. Corsesi adunque a furore alle case del conte per arrestarlo;
ma non trovando lui, prima le rubar tutte e appresso infino a' fondamenti le
mandar giuso.
La novella, secondo che
sconcia si diceva, pervenne nell'oste al re e al figliuolo; li quali turbati
molto a perpetuo essilio lui e i suoi discendenti dannarono, grandissimi doni
promettendo a chi o vivo o morto loro il presentasse. Il conte, dolente che
d'innocente fuggendo s'era fatto nocente, pervenuto senza farsi conoscere o
esser conosciuto co' suoi figliuoli a Calese, prestamente trapassò in
Inghilterra, e in povero abito n'andò verso Londra, nella quale prima che
entrasse, con molte parole ammaestrò i due piccioli figliuoli, e massimamente
in due cose: prima, che essi pazientemente comportassero lo stato povero nel
quale senza lor colpa la fortuna con lui insieme gli aveva recati; e appresso,
che con ogni sagacità si guardassero di mai non manifestare ad alcuno onde si
fossero né di cui figliuoli, se cara avevan la vita.
Era il figliuolo,
chiamato Luigi, di forse nove anni, e la figliuola, che nome avea Violante,
n'avea forse sette; li quali, secondo che comportava la lor tenera età, assai
ben compresero l'ammaestramento del padre loro, e per opera il mostrarono
appresso. Il che, acciò che meglio far si potesse, gli parve di dover loro i
nomi mutare, e così fece; e nominò il maschio Perotto, e Giannetta la femina; e
pervenuti poveramente vestiti in Londra, a guisa che far veggiamo a questi
paltoni franceschi, si diedono ad andar la limosina addomandando.
Ed essendo per ventura
in tal servigio una mattina ad una chiesa, avvenne che una gran dama, la quale
era moglie dell'uno de' maliscalchi del re d'Inghilterra, uscendo della chiesa,
vide questo conte e i due suoi figlioletti, che limosina addomandavano; il
quale ella domandò donde fosse e se suoi erano quegli figliuoli. Alla quale
egli rispose che era di Piccardia e che, per misfatto d'un suo maggior
figliuolo, ribaldo, con quegli due che suoi erano, gli era convenuto partire.
La dama, che pietosa
era, pose gli occhi sopra la fanciulla, e piacquele molto, per ciò che bella e
gentilesca e avvenente era, e disse:
– Valente uomo, se tu ti
contenti di lasciare appresso di me questa tua figlioletta, per ciò che buono
aspetto ha, io la prenderò volentieri; e se valente femina sarà, io la mariterò
a quel tempo che convenevole sarà in maniera che starà bene.
Al conte piacque molto
questa domanda e prestamente rispose del sì, e con lagrime gliele diede e
raccomandò molto. E così avendo la figliuola allogata e sappiendo bene a cui,
diliberò di più non dimorar quivi; e limosinando traversò l'isola e con Perotto
pervenne in Gales non senza gran fatica, sì come colui che d'andare a piè non
era uso.
Quivi era un altro de'
maliscalchi del re, il quale grande stato e molta famiglia tenea, nella corte
del quale il conte alcuna volta, ed egli è l figliuolo, per aver da mangiare,
molto si riparavano.
Ed essendo in essa alcun
figliuolo del detto maliscalco, e altri fanciulli di gentili uomini, e faccendo
cotali pruove fanciullesche sì come di correre e di saltare, Perotto
s'incominciò con loro a mescolare e a fare così destramente, o più, come alcuno
degli altri facesse, ciascuna pruova che tra lor si faceva. Il che il
maliscalco alcuna volta veggendo, e piacendogli molto la maniera è modi del
fanciullo, domandò chi egli fosse.
Fugli detto che egli era
figliuolo d'un povero uomo, il quale alcuna volta per limosina là entro veniva.
A cui il maliscalco il fece addimandare; e il conte, sì come colui che d'altro
Iddio non pregava, liberamente gliel concedette, quantunque noioso gli fosse il
da lui dipartirsi. Avendo adunque il conte il figliuolo e la figliuola acconci,
pensò di più non voler dimorare in Inghilterra; ma, come il meglio potè, se ne
passò in Irlanda, e pervenuto a Stanforda, con un cavaliere d'un conte paesano
per fante si pose, tutte quelle cose faccendo che a fante o a ragazzo possono
appartenere; e quivi, senza esser mai da alcuno conosciuto, con assai disagio e
fatica, dimorò lungo tempo.
Violante, chiamata
Giannetta, colla gentil donna in Londra venne crescendo e in anni e in persona
e in bellezza e in tanta grazia e della donna e del marito di lei e di ciascuno
altro della casa e di chiunque la conoscea, che era a veder maravigliosa cosa;
né alcuno era che a' suoi costumi e alle sue maniere riguardasse, che lei non
dicesse dovere essere degna d'ogni grandissimo bene e onore. Per la qual cosa
la gentil donna che lei dal padre ricevuta avea, senza aver mai potuto sapere
chi egli si fosse altramenti che da lui udito avesse, s'era proposta di doverla
onorevolmente, secondo la condizione della quale estimava che fosse, maritare.
Ma Iddio, giusto
riguardatore degli altrui meriti, lei nobile femina conoscendo e senza colpa
penitenzia portar dello altrui peccato, altramente dispose; e acciò che a mano
di vile uomo la gentil giovane non venisse, si dee credere che quello che
avvenne egli per sua benignità permettesse.
Aveva la gentil donna,
colla quale la Giannetta dimorava, un solo figliuolo del suo marito, il quale
ed essa e 'l padre sommamente amavano, sì perché figliuolo era e sì ancora
perché per virtù e per meriti il valeva, come colui che più che altro e
costumato e valoroso e pro' e bello della persona era. Il quale, avendo forse
sei anni più che la Giannetta, e lei veggendo bellissima e graziosa, sì forte
di lei s'innamorò, che più avanti di lei non vedeva. E per ciò che egli
imaginava lei di bassa condizion dovere essere, non solamente non ardiva
addomandarla al padre e alla madre per moglie; ma temendo non fosse ripreso che
bassamente si fosse ad amar messo, quanto poteva il suo amore teneva nascoso:
per la qual cosa troppo più che se palesato l'avesse lo stimolava. Laonde
avvenne che, per soverchio di noia, egli infermò, e gravemente. Alla cura del
quale essendo più medici richiesti, e avendo un segno e altro guardato di lui e
non potendo la sua infermità tanto conoscere, tutti comunemente si disperavano
della sua salute. Di che il padre e la madre del giovane portavano sì gran
dolore e malinconia, che maggiore non si saria potuta portare: e più volte con
pietosi prieghi il domandavano della cagione del suo male, a' quali o sospiri
per risposta dava, o che tutto si sentia consumare.
Avvenne un giorno che,
sedendosi appresso di lui un medico assai giovane, ma in scienzia profondo
molto, e lui per lo braccio tenendo in quella parte dove essi cercano il polso,
la Giannetta, la quale, per rispetto della madre di lui, lui sollicitamente
serviva, per alcuna cagione entrò nella camera nella quale il giovane giacea.
La quale come il giovane vide, senza alcuna parola o atto fare, sentì con più
forza nel cuore l'amoroso ardore, per che il polso più forte cominciò a
battergli che l'usato; il che il medico sentì incontanente e maravigliossi, e
stette cheto per vedere quanto questo battimento dovesse durare. Come la
Giannetta uscì dalla camera, e il battimento ristette; per che parte parve al
medico avere della cagione della infermità del giovane; e stato alquanto, quasi
d'alcuna cosa volesse la Giannetta addomandare, sempre tenendo per lo braccio
lo 'nfermo, la si fè chiamare. Al quale ella venne incontanente; né prima nella
camera entrò, che 'l battimento del polso ritornò al giovane; e lei partita,
cessò. Laonde, parendo al medico avere assai piena certezza, levatosi e tratti
da parte il padre e la madre del giovane, disse loro:
– La sanità del vostro
figliuolo non è nello aiuto de' medici, ma nelle mani della Giannetta dimora,
la quale, sì come io ho manifestamente per certi segni conosciuto, il giovane
focosamente ama, come che ella non se ne accorge, per quello che io vegga.
Sapete omai che a fare v'avete, se la sua vita v'è cara.
Il gentile uomo e la sua
donna, questo udendo, furon contenti, in quanto pure alcun modo si trovava al
suo scampo, quantunque loro molto gravasse che quello, di che dubitavano, fosse
desso, cioè di dover dare la Giannetta al loro figliuolo per isposa.
Essi adunque, partito il
medico, se n'andarono allo infermo, e dissegli la donna così:
– Figliuol mio, io non
avrei mai creduto che da me d'alcuno tuo disidero ti fossi guardato, e
spezialmente veggendoti tu, per non aver quello, venir meno; per ciò che tu
dovevi esser certo e dei che niuna cosa è che per contentamento di te far
potessi, quantunque meno che onesta fosse, che io come per me medesima non la
facessi; ma poi che pur fatta l'hai, è avvenuto che Domeneddio è stato
misericordioso di te più che tu medesimo, e a ciò che tu di questa infermità
non muoia, m'ha dimostrata la cagione del tuo male, la quale niuna altra cosa è
che soverchio amore, il quale tu porti ad alcuna giovane, qual che ella si sia.
E nel vero di manifestar questo non ti dovevi tu vergognare, per ciò che la tua
età il richiede, e se tu innamorato non fossi, io ti riputerei da assai poco.
Adunque, figliuol mio, non ti guardare da me, ma sicuramente ogni tuo disidero
mi scuopri; e la malinconia e il pensiero il quale hai e dal quale questa
infermità procede, gitta via e confortati e renditi certo che niuna cosa sarà
per sodisfacimento di te che tu m'imponghi, che io a mio potere non faccia, sì
come colei che te più amo che la mia vita. Caccia via la vergogna e la paura, e
dimmi se io posso intorno al tuo amore adoperare alcuna cosa; e se tu non
truovi che io a ciò sia sollicita e ad effetto tel rechi, abbimi per la più
crudel madre che mai partorisse figliuolo.
Il giovane, udendo le
parole della madre, prima si vergognò, poi, seco pensando che niuna persona
meglio di lei potrebbe al suo piacere sodisfare, cacciata via la vergogna, così
le disse:
– Madonna, niuna altra
cosa mi v'ha fatto tenere il mio amor nascoso quanto l'essermi nelle più delle
persone avveduto che, poi che attempati sono, d'essere stati giovani ricordar
non si vogliono. Ma, poi che in ciò discreta vi veggio, non solamente quello di
che dite vi siete accorta non negherò esser vero, ma ancora di cui vi farò
manifesto, con cotal patto che effetto seguirà alla vostra promessa a vostro
potere, e così mi potrete aver sano. Al quale la donna (troppo fidandosi di ciò
che non le doveva venir fatto nella forma nella qual già seco pensava)
liberamente rispose che sicuramente ogni suo disidero l'aprisse; ché ella senza
alcuno indugio darebbe opera a fare che egli il suo piacere avrebbe.
– Madama, – disse allora
il giovane – l'alta bellezza e le laudevoli maniere della nostra Giannetta, e
il non poterla fare accorgere, non che pietosa, del mio amore, e il non avere
ardito mai di manifestarlo ad alcuno, m'hanno condotto dove voi mi vedete; e se
quello che promesso m'avete o in un modo o in un altro non segue, state sicura
che la mia vita fia brieve.
La donna, a cui più
tempo da conforto che da riprensioni parea, sorridendo disse:
– Ahi, figliuol mio,
dunque per questo t'hai tu lasciato aver male? Confortati e lascia fare a me,
poi che guarito sarai.
Il giovane, pieno di
buona speranza, in brevissimo tempo di grandissimo miglioramento mostrò segni,
di che la donna contenta molto si dispose a voler tentare come quello potesse
osservare che promesso avea. E, chiamata un dì la Giannetta per via di motti
assai cortesemente la domandò se ella avesse alcuno amadore. La Giannetta,
divenuta tutta rossa, rispose:
– Madama, a povera
damigella e di casa sua cacciata, come io sono, e che all'altrui servigio
dimori, come io fo, non si richiede né sta bene l'attendere ad amore.
A cui la donna disse:
– E se voi non l'avete,
noi ve ne vogliamo donare uno, di che voi tutta giuliva viverete e più della
vostra biltà vi diletterete; per ciò che non a' convenevole che così bella
damigella, come voi siete, senza amante dimori.
A cui la Giannetta
rispose:
– Madama, voi dalla
povertà di mio padre togliendomi, come figliuola cresciuta m'avete, e per
questo ogni vostro piacer far dovrei; ma in questo io non vi piacerò già,
credendomi far bene. Se a voi piacerà di donarmi marito, colui intendo io
d'amare, ma altro no; per ciò che della eredità de' miei passati avoli niuna
cosa rimasa m'è se non l'onestà, quella intendo io di guardare e di servare
quanto la vita mi durerà.
Questa parola parve
forte contraria alla donna a quello a che di venire intendea per dovere al
figliuolo la promessa servare, quantunque, sì come savia donna, molto seco
medesima ne commendasse la damigella, e disse:
– Come, Giannetta? Se
monsignore lo re, il quale è giovane cavaliere, e tu se' bellissima damigella,
volesse del tuo amore alcun piacere, negherestigliele tu?
Alla quale essa
subitamente rispose:
– Forza mi potrebbe fare
il re, ma di mio consentimento mai da me, se non quanto onesto fosse, aver non
potrebbe.
La donna, comprendendo
qual fosse l'animo di lei, lasciò stare le parole e pensossi di metterla alla
pruova; e così al figliuol disse di fare, come guarito fosse, di metterla con
lui in una camera e ch'egli s'ingegnasse d'avere di lei il suo piacere, dicendo
che disonesto le pareva che essa, a guisa d'una ruffiana, predicasse per lo
figliuolo e pregasse la sua damigella.
Alla qual cosa il
giovane non fu contento in alcuna guisa, e di subito fieramente peggiorò: il
che la donna veggendo, aperse la sua intenzione alla Giannetta. Ma più costante
che mai trovandola, raccontato ciò che fatto avea al marito, ancora che grave
loro paresse, di pari consentimento diliberarono di dargliele per isposa,
amando meglio il figliuol vivo con moglie non convenevole a lui che morto senza
alcuna; e così, dopo molte novelle, fecero.
Di che la Giannetta fu
contenta molto e con divoto cuore ringraziò Iddio che lei non avea dimenticata;
né per tutto questo mai altro che figliuola d'un piccardo si disse.
Il giovane guerì, e fece
le nozze più lieto che altro uomo, e cominciossi a dare buon tempo con lei.
Perotto, il quale in
Gales col maliscalco del re d'lnghilterra era rimaso, similmente crescendo
venne in grazia del signor suo, e divenne di persona bellissimo e pro' quanto
alcuno altro che nell'isola fosse, intanto che né in tornei né in giostre, né
in qualunque altro atto d'arme niuno era nel paese che quello valesse che egli;
perché per tutto, chiamato da loro Perotto il piccardo, era conosciuto e
famoso.
E come Iddio la sua
sorella dimenticata non avea, così similmente d'aver lui a mente dimostrò; per
ciò che, venuta in quella contrada una pestilenziosa mortalità, quasi la metà
della gente di quella se ne portò; senza che grandissima parte del rimaso per
paura in altre contrade se ne fuggirono; di che il paese tutto pareva
abbandonato. Nella qual mortalità il maliscalco suo signore e la donna di lui e
un suo figliuolo e molti altri e fratelli e nepoti e parenti tutti morirono, né
altro che una damigella già da marito di lui rimase e, con alcuni altri
famigliari, Perotto. Il quale, cessata al quanto la pestilenza, la damigella,
per ciò che prod'uomo e valente era, con piacere e consiglio d'alquanti pochi
paesani vivi rimasi, per marito prese e di tutto ciò che a lei per eredità
scaduto era il fece signore.
Nè guari di tempo passò
che, udendo il re d'lnghilterra il maliscalco esser morto e conoscendo il valor
di Perotto il piccardo, in luogo di quello che morto era il sustituì e fecelo
suo maliscalco. E così brievemente avvenne de' due innocenti figliuoli del
corte d'Anguersa da lui per perduti lasciati.
Era già il deceottesimo
anno passato poi che il conte d'Anguersa, fuggendo, di Parigi s'era partito,
quando a lui dimorante in Irlanda, avendo in assai misera vita molte cose
patite, già vecchio veggendosi, venne voglia di sentire, se egli potesse,
quello che de' figliuoli fosse addivenuto. Per che del tutto della forma, della
quale esser solea, veggendosi trasmutato e sentendosi per lo lungo esercizio
più della persona atante che quando giovane in ozio dimorando non era,
partitosi assai povero e male in arnese da colui col quale lungamente era
stato, se ne venne in Inghilterra e là se ne andò dove Perotto avea lasciato, e
trovò lui esser maliscalco e gran signore, e videlo sano e atante e bello della
persona; il che gli aggradì forte, ma farglisi conoscere non volle infino a
tanto che saputo non avesse della Giannetta.
Per che, messosi in
cammino, prima non ristette che in Londra pervenne; e quivi, cautamente domandato
della donna alla quale la figliuola lasciata avea e del suo stato, trovò la
Giannetta moglie del figliuolo; il che forte gli piacque, e ogni sua avversità
preterita reputò piccola, poiché vivi aveva ritrovati i figliuoli e in buono
stato. E disideroso di poterla vedere, cominciò come povero uomo a ripararsi
vicino alla casa di lei. Dove un giorno, veggendol Giachetto Lamiens, che così
era chiamato il marito della Giannetta, avendo di lui compassione per ciò che
povero e vecchio il vide, comandò ad uno de' suoi famigliari che nella sua casa
il menasse e gli facesse dare da mangiar per Dio, il che il famigliare
volentier fece. Aveva la Giannetta avuti di Giachetto già più figliuoli, de'
quali il maggiore non avea oltre ad otto anni, ed erano i più belli e i più
vezzosi fanciulli del mondo. Li quali, come videro il conte mangiare, così
tutti quanti gli fur dintorno e cominciarogli a far festa, quasi da occulta
virtù mossi avesser sentito costui loro avolo essere. Il quale, suoi nepoti
cognoscendoli, cominciò loro a mostrare amore e a far carezze; per la qual cosa
i fanciulli da lui non si volean partire, quantunque colui che al governo di
loro attendea gli chiamasse. Per che la Giannetta, ciò sentendo, uscì d'una
camera e quivi venne laddove era il conte, e minacciogli forte di battergli, se
quello che il lor maestro volea non facessero. I fanciulli cominciarono a
piagnere e a dire ch'essi volevano stare appresso a quel prod'uomo, il quale
più che il lor maestro gli amava; di che e la donna e 'l conte si rise.
Erasi il conte levato,
non miga a guisa di padre ma di povero uomo, a fare onore alla figliuola sì
come a donna, e maraviglioso piacere veggendola avea sentito nell'animo. Ma
ella né allora né poi il conobbe punto, per ciò che oltre modo era trasformato
da quello che esser soleva, sì come colui che vecchio e canuto e barbuto era, e
magro e bruno divenuto, e più tosto un altro uomo pareva che il conte. E
veggendo la donna che i fanciulli da lui partir non si voleano, ma volendogli
partire piagnevano, disse al maestro che alquanto gli lasciasse stare.
Standosi adunque i
fanciulli col prod'uomo, avvenne che il padre di Giachetto tornò e dal maestro
loro sentì questo fatto; per che egli, il quale a schifo avea la Giannetta,
disse:
– Lasciagli stare colla
mala ventura che Iddio dea loro; ché essi fanno ritratto da quello onde nati
sono. Essi son per madre discesi di paltoniere, e per ciò non a' da
maravigliarsi se volentier dimoran con paltonieri.
Queste parole udì il
conte, e dolfergli forte; ma pure nelle spalle ristretto, così quella ingiuria
sofferse come molte altre sostenute avea.
Giachetto, che sentita
aveva la festa che i figliuoli al prod'uomo, cioè al conte, facevano,
quantunque gli dispiacesse, nondimeno tanto gli amava che, avanti che piagner
gli vedesse, comandò che, se 'l prod'uomo ad alcun servigio là entro dimorar
volesse, che egli vi fosse ricevuto. Il quale rispose che vi rimanea
volentieri, ma che altra cosa far non sapea che attendere a' cavalli, di che
tutto il tempo della sua vita era usato. Assegnatogli adunque un cavallo, come
quello governato avea, al trastullare i fanciulli intendea.
Mentre che la fortuna,
in questa guisa che divisata è, il conte d'Anguersa e i figliuoli menava,
avvenne che il re di Francia, molte triegue fatte con gli alamanni, morì, e in
suo luogo fu coronato il figliuolo, del quale colei era moglie per cui il conte
era stato cacciato. Costui, essendo l'ultima triegua finita, co' tedeschi
ricominciò asprissima guerra; in aiuto del quale, sì come nuovo parente, il re
d'lnghilterra mandò molta gente sotto il governo di Perotto suo maliscalco e di
Giachetto Lamiens figliuolo dell'altro maliscalco; col quale il prod'uomo, cioè
il conte, andò e, senza essere da alcuno riconosciuto, dimorò nell'oste per
buono spazio a guisa di ragazzo; e quivi, come valente uomo, e con consigli e
con fatti più che a lui non si richiedea, assai di bene adoperò.
Avvenne durante la
guerra che la reina di Francia infermò gravemente; e conoscendo ella sé
medesima venire alla morte, contrita d'ogni suo peccato, divotamente si
confessò dallo arcivescovo di Ruem, il quale da tutti era tenuto uno santissimo
e buono uomo, e tra gli altri peccati gli narrò ciò che per lei a gran torto il
conte d'Anguersa ricevuto avea. Nè solamente fu a lui contenta di dirlo, ma
davanti a molti altri valenti uomini tutto come era stato raccontò, pregandogli
che col re operassono che 'l conte, se vivo fosse, e se non, alcun de' suoi
figliuoli nel loro stato restituiti fossero; né guari poi dimorò che, di questa
vita passata, onorevolmente fu sepellita. La qual confessione al re raccontata,
dopo alcun doloroso sospiro delle ingiurie fatte al valente uomo a torto, il
mosse a fare andare per tutto l'essercito, e oltre a ciò in molte altre parti,
una grida, che chi il conte d'Anguersa o alcuno de' figliuoli gli rinsegnasse,
maravigliosamente da lui per ogn'uno guiderdonato sarebbe; con ciò fosse cosa
che egli lui per innocente di ciò per che in essilio andato era l'avesse, per
la confessione fatta dalla reina, e nel primo stato e in maggiore intendeva di
ritornarlo. Le quali cose il conte in forma di ragazzo udendo, e sentendo che
così era il vero, subitamente fu a Giachetto e il pregò che con lui insieme
fosse con Perotto, per ciò che egli voleva lor mostrare ciò che il re andava
cercando.
Adunati adunque tutti e
tre insieme, disse il conte a Perotto, che già era in pensiero di palesarsi:
– Perotto, Giachetto,
che è qui, ha tua sorella per mogliere, né mai n'ebbe alcuna dota; e per ciò,
acciò che tua sorella senza dota non sia, io intendo che egli e non altri abbia
questo benificio che il re promette così grande per te, e ti rinsegni sì come
figliuolo del conte d'Anguersa, e per la Violante tua sorella e sua mogliere, e
per me che il conte d'Anguersa e vostro padre sono.
Perotto, udendo questo e
fiso guardandolo, tantosto il riconobbe, e piagnendo gli si gittò a' piedi e
abbracciollo dicendo:
– Padre mio, voi siate
il molto ben venuto.
Giachetto, prima udendo
ciò che il conte detto avea e poi veggendo quello che Perotto faceva, fu ad
un'ora da tanta maraviglia e da tanta allegrezza soprappreso, che appena sapeva
che far si dovesse; ma pur, dando alle parole fede e vergognandosi forte di
parole ingiuriose già da lui verso il conte ragazzo usate, piagnendo gli si
lasciò cadere a' piedi e umilmente d'ogni oltraggio passato domandò perdonanza,
la quale il conte assai benignamente, in piè rilevatolo, gli diede.
E poi che i vari casi di
ciascuno tutti e tre ragionati ebbero, e molto piantosi e molto rallegratosi
insieme, volendo Perotto e Giachetto rivestire il conte, per niuna maniera il
sofferse, ma volle che, avendo prima Giachetto certezza d'avere il guiderdon
promesso, così fatto e in quello abito di ragazzo, per farlo più vergognare,
gliele presentasse.
Giachetto adunque col
conte e con Perotto appresso venne davanti al re e offerse di presentargli il
conte e i figliuoli, dove, secondo la grida fatta, guiderdonare il dovesse. Il
re prestamente per tutti fece il guiderdon venire maraviglioso agli occhi di
Giachetto, e comandò che via il portasse dove con verità il conte e i figliuoli
dimostrasse come promettea. Giachetto allora, voltatosi indietro e davanti
messosi il conte suo ragazzo e Perotto, disse:
– Monsignore, ecco qui
il padre e 'l figliuolo; la figliuola, ch'è mia mogliere, e non è qui, con
l'aiuto di Dio tosto vedrete.
Il re, udendo questo,
guardò il conte e, quantunque molto da quello che esser solea trasmutato fosse,
pur, dopo l'averlo alquanto guardato, il riconobbe; e quasi con le lagrime in
su gli occhi, lui che ginocchione stava levò in piede, e il baciò e abbracciò,
e amichevolmente ricevette Perotto, e comandò che incontanente il conte di
vestimenti, di famiglia e di cavalli e d'arnesi rimesso fosse in assetto,
secondo che alla sua nobilità si richiedea; la qual cosa tantosto fu fatta.
Oltre a questo, onorò il re molto Perotto, e volle ogni cosa sapere di tutti i
suoi preteriti casi.
E quando Giachetto prese
gli alti guiderdoni per l'avere insegnati il conte è figliuoli, gli disse il
conte:
– Prendi cotesti doni
dalla magnificenza di monsignore lo re, e ricordera'ti di dire a tuo padre che
i tuoi figliuoli, suoi e miei nepoti, non sono per madre nati di paltoniere.
Giachetto prese i doni,
e fece a Parigi venir la moglie e la suocera, e vennevi la moglie di Perotto; e
quivi in grandissima festa furon col conte, il quale il re avea in ogni suo ben
rimesso e maggior fattolo che fosse giammai. Poi ciascuno colla sua licenzia
tornò a casa sua, ed esso infino alla morte visse in Parigi più gloriosamente
che mai.
NOVELLA NONA
Bernabò da Genova, da
Ambrogiuolo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie innocente sia
uccisa. Ella scampa, e in abito d'uomo serve il soldano; ritrova lo
'ngannatore, e Bernabò conduce in Alessandria, dove lo ngannatore punito,
ripreso abito feminile, col marito ricchi si tornano a Genova.
Avendo Elissa colla sua
compassionevole novella il suo dover fornito, Filomena reina, la quale bella e
grande era della persona, e nel viso più che altra piacevole e ridente, sopra
sé recatasi, disse:
– Servar si vogliono i
patti a Dioneo, e però, non restandoci altri che egli e io a novellare, io dirò
prima la mia, ed esso, che di grazia il chiese, l'ultimo fia che dirà –; e
questo detto, così cominciò.
Suolsi tra' volgari
spesse volte dire un cotal proverbio, che lo 'ngannatore rimane a piè dello
'ngannato; il quale non pare che per alcuna ragione si possa mostrare esser
vero, se per gli accidenti che avvengono non si mostrasse. E per ciò seguendo
la proposta, questo insiememente, carissime donne, esser vero come si dice m'è
venuto in talento di dimostrarvi; né vi dovrà esser discaro d'averlo udito,
acciò che dagli 'ngannatori guardar vi sappiate.
Erano in Parigi in uno
albergo alquanti grandissimi mercatanti italiani, qual per una bisogna e qual
per un'altra, secondo la loro usanza; e avendo una sera fra l'altre tutti
lietamente cenato, cominciarono di diverse cose a ragionare; e d'un
ragionamento in altro travalicando, pervennero a dire delle lor donne, le quali
alle lor case avevan lasciate. E motteggiando cominciò alcuno a dire:
– Io non so come la mia
si fa, ma questo so io bene, che quando qui mi viene alle mani alcuna
giovinetta che mi piaccia, io lascio stare dall'un de' lati l'amore il quale io
porto a mia mogliere, e prendo di questa qua quel piacere che io posso.
L'altro rispose:
– E io fo il
simigliante, perciò che se io credo che la mia donna alcuna sua ventura
procacci, ella il fa, e se io nol credo, sì 'l fa; e per ciò a fare a far sia;
quale asino dà in parete, tal riceve.
Il terzo quasi in questa
medesima sentenzia parlando pervenne; e brievemente tutti pareva che a questo
s'accordassero, che le donne lasciate da loro non volessero perder tempo.
Un solamente, il quale
avea nome Bernabò Lomellin da Genova, disse il contrario, affermando sé di
spezial grazia da Dio avere una donna per moglie la più compiuta di tutte
quelle virtù che donna o ancora cavaliere in gran parte o donzello dee avere,
che forse in Italia ne fosse un'altra; per ciò che ella era bella del corpo e
giovine ancora assai e destra e atante della persona, né alcuna cosa era che a
donna appartenesse, sì come di lavorar lavorii di seta e simili cose, che ella
non facesse meglio che alcun'altra. Oltre a questo niuno scudiere, o famigliar
che dir vogliamo, diceva trovarsi, il quale meglio né più accortamente servisse
ad una tavola d'un signore, che serviva ella, sì come colei che era
costumatissima savia e discreta molto. Appresso questo la commendò meglio
sapere cavalcare un cavallo, tenere uno uccello, leggere e scrivere e fare una
ragione, che se un mercatante fosse; e da questo, dopo molte altre lode,
pervenne a quello di che quivi si ragionava, affermando con saramento
niun'altra più onesta né più casta potersene trovar di lei; per la qual cosa
egli credeva certamente che, se egli diece anni o sempre mai fuor di casa
dimorasse, che ella mai a così fatte novelle non intenderebbe con altro uomo.
Era, tra questi mercatanti che così ragionavano, un giovane mercatante,
chiamato Ambrogiuolo da Piagenza, il quale di questa ultima loda che Bernabò
avea data alla sua donna cominciò a far le maggior risa del mondo, e gabbando
il domandò se lo 'mperadore gli avea questo privilegio più che a tutti gli
altri uomini conceduto. Bernabò, un poco turbatetto, disse che non lo
'mperadore ma Iddio, il quale poteva un poco più che lo 'mperadore, gli avea
questa grazia conceduta.
Allora disse Ambrogiuolo:
– Bernabò, io non dubito
punto che tu non ti creda dir vero; ma, per quello che a me paia, tu hai poco
riguardato alla natura delle cose; per ciò che, se riguardato v'avessi, non ti
sento di sì grosso ingegno che tu non avessi in quella cognosciuto cose che ti
farebbono sopra questa materia più temperatamente parlare. E per ciò che tu non
creda che noi, che molto largo abbiamo delle nostre mogli parlato, crediamo
avere altra moglie o altrimenti fatta che tu, ma da uno naturale avvedimento
mossi così abbiam detto, voglio un poco con teco sopra questa materia
ragionare.
Io ho sempre inteso
l'uomo essere il più nobile animale che tra' mortali fosse creato da Dio, e
appresso la femina; ma l'uomo, sì come generalmente si crede e vede per opere,
è più perfetto; e avendo più di perfezione, senza alcun fallo dee avere più di
fermezza e così ha, per ciò che universalmente le femine sono più mobili, e il
perché si potrebbe per molte ragioni naturali dimostrare, le quali al presente
intendo di lasciare stare. Se l'uomo adunque è di maggior fermezza e non si può
tenere che non condiscenda, lasciamo stare ad una che 'l prieghi, ma pure a non
disiderare una che gli piaccia, e oltre al disidero, di far ciò che può acciò
che con quella esser possa, e questo non una volta il mese, ma mille il giorno
avvenirgli; che speri tu che una donna naturalmente mobile, possa fare a'
prieghi, alle lusinghe, a' doni, a mille altri modi che userà uno uomo savio
che l'ami? Credi che ella si possa tenere? Certo, quantunque tu te l'affer mi,
io non credo che tu 'l creda; e tu medesimo dì che la moglie tua è femina e
ch'ella è di carne e d'ossa come sono l'altre. Per che, se così è, quegli
medesimi disideri deono essere i suoi e quelle medesime forze che nell'altre
sono a resistere a questi naturali appetiti; per che possibile è, quantunque
ella sia onestissima, che ella quello che l'altre faccia; e niuna cosa
possibile è così acerbamente da negare, o da affermare il contrario a quella,
come tu fai.
Al quale Bernabò rispose
e disse:
– Io son mercatante e
non fisofolo, e come mercatante risponderò. E dico che io conosco ciò che tu dì
potere avvenire alle stolte, nelle quali non è alcuna vergogna; ma quelle che
savie sono hanno tanta sollecitudine dello onor loro, che elle diventan forti
più che gli uomini, che di ciò non si curano, a guardarlo; e di queste così
fatte è la mia.
Disse Ambrogiuolo:
– Veramente, se per ogni
volta che elle a queste così fatte novelle attendono, nascesse loro un corno
nella fronte, il quale desse testimonianza di ciò che fatto avessero, io mi
credo che poche sarebber quelle che v'attendessero; ma, non che il corno nasca,
egli non se ne pare a quelle che savie sono né pedata né orma; e la vergogna e
'l guastamento del l'onore non consiste se non nelle cose palesi; per che,
quando possono occultamente, il fanno, o per mattezza lasciano. E abbi questo
per certo che colei sola è casta, la quale o non fu mai da alcun pregata, o se
pregò, non fu esaudita. E quantunque io conosca per naturali e vere ragioni
così dovere essere, non ne parlerei io così appieno come io fo, se io non ne
fossi molte volte e con molte stato alla pruova. E dicoti così, che se io fossi
presso a questa tua così santissima donna, io mi crederrei in brieve spazio di
tempo recarla a quello che io ho già dell'altre recate.
Bernabò turbato rispose:
– Il quistionar con
parole potrebbe distendersi troppo; tu diresti e io direi, e alla fine niente
monterebbe. Ma poi che tu dì che tutte sono così pieghevoli e che 'l tuo
ingegno è cotanto, acciò che io ti faccia certo della onestà della mia donna,
io son disposto che mi sia tagliata la testa se tu mai a cosa che ti piaccia in
cotale atto la puoi conducere; e se tu non puoi, io non voglio che tu perda
altro che mille fiorin d'oro.
Ambrogiuolo, già in su
la novella riscaldato, rispose:
– Bernabò, io non so
quello ch'io mi facessi del tuo sangue se io vincessi; ma se tu hai voglia di
vedere pruova di ciò che io ho già ragionato, metti cinquemilia fiorin d'oro
de' tuoi, che meno ti deono esser cari che la testa, contro a mille de' miei; e
dove tu niuno termine poni, io mi voglio obbligare d'andare a Genova e infra
tre mesi dal dì che io mi partirò di qui aver della tua donna fatta mia
volontà, e in segno di ciò recarne meco delle sue cose più care e sì fatti e
tanti indizi che tu medesimo confesserai esser vero; sì veramente che tu mi
prometterai sopra la tua fede infra questo termine non venire a Genova né
scrivere a lei alcuna cosa di questa materia. Bernabò disse che gli piacea
molto; e quantunque gli altri mercatanti, che quivi erano, s'ingegnassero di
sturbar questo fatto, conoscendo che gran male ne potea nascere, pure erano de'
due mercatanti sì gli animi accesi, che, oltre al voler degli altri, per belle
scritte di lor mano s'obbligarono ]'uno all'altro.
E fatta la obbligagione,
Bernabò rimase e Ambrogiuolo quanto più tosto potè se ne venne a Genova. E
dimoratovi alcun giorno e con molta cautela informatosi del nome della contrada
e de' costumi della donna, quello e più ne 'ntese che da Bernabò udito n'avea;
per che gli parve matta impresa aver fatta. Ma pure, accontatosi con una povera
femina che molto nella casa usava e a cui la donna voleva gran bene, non
potendola ad altro inducere, con denari la corruppe e a lei in una cassa
artificiata a suo modo si fece portare, non solamente nella casa, ma nella
camera della gentil donna; e quivi, come se in alcuna parte andar volesse, la
buona femina, secondo l'ordine datole da Ambrogiuolo, la raccomandò per alcun
dì.
Rimasa adunque la cassa
nella camera e venuta la notte, all'ora che Ambrogiuolo avvisò che la donna
dormisse, con certi suoi ingegni apertala, chetamente nella camera uscì, nella
quale un lume acceso avea. Per la qual cosa egli il sito della camera, le
dipinture e ogni altra cosa notabile che in quella era cominciò a ragguardare e
a fermare nella sua memoria.
Quindi, avvicinatosi al
letto e sentendo che la donna e una piccola fanciulla, che con lei era,
dormivan forte, pianamente scopertola tutta, vide che così era bella ignuda
come vestita, ma niuno segnale da potere rapportare le vide, fuori che uno
ch'ella n'avea sotto la sinistra poppa, ciò era un neo d'intorno al quale erano
alquanti peluzzi biondi come oro; e, ciò veduto, chetamente la ricoperse, come
che, così bella vedendola, in disiderio avesse di mettere in avventura la vita
sua e coricarlesi allato. Ma pure, avendo udito lei essere così cruda e
alpestra intorno a quelle novelle, non s'arrischiò; e statosi la maggior parte
della notte per la camera a suo agio, una borsa e una guarnacca d'un suo
forziere trasse e alcuno anello e alcuna cintura, e ogni cosa nella cassa sua
messa, egli altressì vi si ritornò, e così la serrò come prima stava; e in
questa maniera fece due notti, senza che la donna di niente s'accorgesse.
Vegnente il terzo dì,
secondo l'ordine dato, la buona femina tornò per la cassa sua e colà la riportò
onde levata l'avea; della quale Ambrogiuolo uscito, e contentata secondo la
promessa la femina, quanto più tosto potè con quelle cose si tornò a Parigi
avanti il termine preso. Quivi, chiamati que' mercatanti che presenti erano
stati alle parole e al metter de' pegni, presente Bernabò, disse sé aver vinto
il pegno tra lor messo, perciò che fornito aveva quello di che vantato s'era; e
che ciò fosse vero, primieramente disegnò la forma della camera e le dipinture
di quella, e appresso mostrò le cose che di lei aveva seco recate, affermando
da lei averle avute.
Confessò Bernabò così
esser fatta la camera come diceva e oltre a ciò sé riconoscere quelle cose
veramente della sua donna essere state; ma disse lui aver potuto da alcuno de'
fanti della casa sapere la qualità della camera e in simil maniera avere avute
le cose; per che, se altro non dicea, non gli parea che questo bastasse a
dovere aver vinto.
Per che Ambrogiuolo disse:
– Nel vero questo doveva
bastare; ma, poi che tu vuogli che io più avanti ancora dica, e io il dirò.
Dicoti che madonna Zinevra tua mogliere ha sotto la sinistra poppa un neo ben
grandicello, dintorno al quale son forse sei peluzzi biondi come oro.
Quando Bernabò udì
questo, parve che gli fosse dato d'un coltello al cuore, siffatto dolore sentì;
e tutto nel viso cambiato, eziandio se parola non avesse detta, diede assai
manifesto segnale ciò esser vero che Ambrogiuolo diceva, e dopo alquanto disse:
– Signori, ciò che
Ambrogiuolo dice è vero; e perciò, avendo egli vinto, venga qualor gli piace e
sì si paghi –; e così fu il dì seguente Ambrogiuolo interamente pagato.
E Bernabò, da Parigi
partitosi, con fellone animo contro alla donna verso Genova se ne venne. E
appressandosi a quella non volle in essa entrare, ma si rimase ben venti miglia
lontano ad essa ad una sua possessione; e un suo famigliare, in cui molto si
fidava, con due cavalli e con sue lettere mandò a Genova, scrivendo alla donna
come tornato era e che con lui a lui venisse; e al famiglio segretamente impose
che, come in parte fosse colla donna che migliore gli paresse, senza niuna
misericordia la dovesse uccidere e a lui tornarsene.
Giunto adunque il
famigliare a Genova e date le lettere e fatta l'ambasciata, fu dalla donna con
gran festa ricevuto, la quale la seguente mattina, montata col famigliare a
cavallo, verso la sua possessione prese il cammino. E camminando insieme e di
varie cose ragionando, pervennero in uno vallone molto profondo e solitario e
chiuso d'alte grotte e d'alberi, il quale parendo al famigliare luogo da dovere
sicuramente per sé fare il comandamento del suo signore, tratto fuori il
coltello e presa la donna per lo braccio, disse:
– Madonna, raccomandate
l'anima vostra a Dio, ché a voi, senza passar più avanti, convien morire.
La donna, vedendo il
coltello e udendo le parole, tutta spaventata disse:
– Mercè per Dio! anzi
che tu mi uccida, dimmi di che io t'ho offeso, che tu uccider mi debbi.
– Madonna, – disse il
famigliare, – me non avete offeso d'alcuna cosa; ma di che voi offeso abbiate
il vostro marito io nol so, se non che egli mi comandò che, senza alcuna
misericordia aver di voi, io in questo cammin v'uccidessi; e se io nol facessi,
mi minacciò di farmi impiccar per la gola. Voi sapete bene quant'io gli son
tenuto, e come io di cosa che egli m'imponga possa dir di no; sallo Iddio che
di voi m'incresce, ma io non posso altro. A cui la donna piagnendo disse:
– Ahi mercé per Dio! non
volere divenire micidiale di chi mai non t'offese, per servire altrui. Iddio,
che tutto conosce, sa che io non feci mai cosa per la quale io dal mio marito
debbia così fatto merito ricevere. Ma lasciamo ora star questo; tu puoi, quando
tu vogli, ad una ora piacere a Dio e al tuo signore e a me in questa maniera:
che tu prenda questi miei panni, e solamente il tuo farsetto e un cappuccio; e
con essi torni al mio e tuo signore, e dichi che tu m'abbi uccisa; e io ti
giuro, per quella salute la quale tu donata m'avrai, che io mi dileguerò e
andronne in parte che mai né a lui né a te né in queste contrade di me perverrà
alcuna novella.
Il famigliare, che mal
volentieri l'uccidea, leggiermente divenne pietoso; per che, presi i drappi
suoi e datole un suo farsettaccio e un cappuccio, e lasciatile certi denari li
quali essa avea, pregandola che di quelle contrade si dileguasse, la lasciò nel
vallone e a piè, e andonne al signor suo, al qual disse che il suo comandamento
non solamente era fornito, ma che il corpo di lei morto aveva tra parecchi lupi
lasciato.
Bernabò dopo alcun tempo
se ne tornò a Genova e, saputosi il fatto, forte fu biasimato.
La donna, rimasa sola e
sconsolata, come la notte fu venuta, contraffatta il più che potè, n'andò ad
una villetta ivi vicina, e quivi da una vecchia procacciato quello che le
bisognava, racconciò il farsetto a suo dosso, e fattol corto, e fattosi della
sua camicia un paio di pannilini, e i capelli tondutosi e trasformatasi tutta
in forma d'un matinaro, verso il mare se ne venne; dove per avventura trovò un
gentile uomo catalano, il cui nome era segner En Cararch, il quale d'una sua
nave, la quale alquanto di quivi era lontana, in Albegna disceso era a
rinfrescarsi ad una fontana. Col quale entrata in parole, con lui s'acconciò
per servidore, e salissene sopra la nave, faccendosi chiamar Sicuran da Finale.
Quivi, di miglior panni rimesso in arnese dal gentile uomo, lo 'ncominciò a
servir sì bene e sì acconciamente, che egli gli venne oltre modo a grado.
Avvenne, ivi a non gran
tempo, che questo catalano con un suo carico navicò in Alessandria e portò
certi falconi pellegrini al soldano, e presentogliele; al quale il soldano
avendo alcuna volta dato mangiare, e veduti i costumi di Sicurano, che sempre a
servir l'andava, e piaciutigli, al catalano il domandò; e quegli, ancora che
grave gli paresse, gliele lasciò.
Sicurano in poco di
tempo non meno la grazia e l'amor del soldano acquistò col suo bene adoperare,
che quella del catalano avesse fatto. Per che in processo di tempo avvenne che,
dovendosi in un certo tempo dell'anno, a guisa d'una fiera, fare una gran
ragunanza di mercatanti e cristiani e saracini in Acri, la quale sotto la
signoria del soldano era; acciò che i mercatanti e le mercatantie sicure
stessero, era il soldano sempre usato di mandarvi, oltre agli altri suoi
uficiali, alcuno de' suoi grandi uomini con gente che alla guardia attendesse.
Nella qual bisogna, sopravvegnendo il tempo, diliberò di mandare Sicurano il
quale già ottimamente la lingua sapeva; e così fece.
Venuto adunque Sicurano
in Acri signore e capitano della guardia de' mercatanti e della mercatantia, e
quivi bene e sollicitamente faccendo ciò che al suo uficio apparteneva, e
andando dattorno veggendo, e molti mercatanti e ciciliani e pisani e genovesi e
viniziani e altri italiani vedendovi, con loro volentieri si dimesticava per
rimembrarza della contrada sua.
Ora avvenne, tra l'altre
volte, che, essendo egli ad un fondaco di mercatanti viniziani smontato, gli
vennero vedute tra altre gioie una borsa e una cintura, le quali egli
prestamente riconobbe essere state sue, e maravigliossi; ma, senza altra vista
fare, piacevolmente domandò di cui fossero e se vendere si voleano.
Era quivi venuto
Ambrogiuolo da Piagenza con molta mercatantia in su una nave di viniziani, il
quale, udendo che il capitano della guardia domandava di cui fossero, si trasse
avanti e ridendo disse:
– Messere, le cose son
mie e non le vendo; ma s'elle vi piacciono, io le vi donerò volentieri.
Sicurano, vedendol
ridere, suspicò non costui in alcuno atto l'avesse raffigurato; ma pur, fermo
viso faccendo, disse:
– Tu ridi forse, perché
vedi me uom d'arme andar domandando di queste cose feminili?
Disse Ambrogiuolo:
– Messere, io non rido
di ciò, ma rido del modo ne quale io le guadagnai.
A cui Sicuran disse:
– Deh, se Iddio ti dea
buona ventura, se egli non è disdicevole, diccelo come tu le guadagnasti.
– Messere, – disse
Ambrogiuolo, – queste mi donò con alcuna altra cosa una gentil donna di Genova
chiamata madonna Zinevra, moglie di Bernabò Lomellin, una notte che io giacqui
con lei, e pregommi che per suo amore io le tenessi. Ora risi io, per ciò che
egli mi ricordò della sciocchezza di Bernabò, il qual fu di tanta follia che
mise cinquemilia fiorin d'oro contro a mille che io la sua donna non recherei
a' miei piaceri; il che io feci e vinsi il pegno; ed egli, che più tosto sé
della sua bestialità punir dovea che lei d'aver fatto quello che tutte le
femine fanno, da Parigi a Genova tornandosene, per quello che io abbia poi
sentito, la fece uccidere.
Sicurano, udendo questo,
prestamente comprese qual fosse la cagione dell'ira di Bernabò verso lei e
manifestamente conobbe costui di tutto il suo male esser cagione; e seco pensò
di non lasciargliele portare impunita. Mostrò adunque Sicurano d'aver molto
cara questa novella, e artatamente prese con costui una stretta dimestichezza,
tanto che per gli suoi conforti Ambrogiuolo, finita la fiera, con essolui e con
ogni sua cosa se n'andò in Alessandria, dove Sicurano gli fece fare un fondaco
e misegli in mano de' suoi denari assai; per che egli, util grande veggendosi,
vi dimorava volentieri.
Sicurano, sollicito a
volere della sua innocenzia far chiaro Bernabò, mai non riposò infino a tanto
che con opera d'alcuni grandi mercatanti genovesi che in Alessandria erano,
nuove cagioni trovando, non l'ebbe fatto venire; il quale, in assai povero
stato essendo, ad alcun suo amico tacitamente fece ricevere, infino che tempo
gli paresse a quel fare che di fare intendea.
Avea già Sicurano fatta
raccontare ad Ambrogiuolo la novella davanti al soldano, e fattone al soldano
prendere piacere; ma poi che vide quivi Bernabò, pensando che alla bisogna non
era da dare indugio, preso tempo convenevole, dal soldano impetrò che davanti
venir si facesse Ambrogiuolo e Bernabò, e in presenzia di Bernabò, se
agevolmente fare non si potesse, con severità da Ambrogiuolo si traesse il vero
come stato fosse quello di che egli della moglie di Bernabò si vantava.
Per la qual cosa,
Ambrogiuolo e Bernabò venuti, il soldano in presenzia di molti con rigido viso
ad Ambrogiuol comandò che il vero dicesse come a Bernabò vinti avesse
cinquemilia fiorin d'oro; e quivi era presente Sicurano, in cui Ambrogiuolo più
avea di fidanza, il quale con viso troppo più turbato gli minacciava gravissimi
tormenti se nol dicesse. Per che Ambrogiuolo, da una parte e d'altra spaventato
e ancora alquanto costretto, in presenzia di Bernabò e di molti altri, niuna
pena più aspettandone che la restituzione di fiorini cinquemilia d'oro e delle
cose, chiaramente, come stato era il fatto, narrò ogni cosa.
E avendo Ambrogiuolo
detto, Sicurano, quasi esecutore del soldano, in quello rivolto a Bernabò
disse:
– E tu che facesti per
questa bugia alla tua donna?
A cui Bernabò rispose:
– Io, vinto dalla ira
della perdita de' miei denari e dall'onta della vergogna che mi parea avere
ricevuta dalla mia donna, la feci ad un mio famigliare uccidere; e, secondo che
egli mi rapportò, ella fu prestamente divorata da molti lupi.
Queste cose così nella
presenzia del soldan dette e da lui tutte udite e intese, non sappiendo egli
ancora a che Sicurano, che questo ordinato avea e domandato, volesse riuscire,
gli disse Sicurano:
– Signor mio assai
chiaramente potete conoscere quanto quella buona donna gloriar si possa
d'amante e di marito; ché l'amante ad una ora lei priva d'onore, con bugie
guastando la fama sua, e diserta il marito di lei; e il marito, più credulo
alle altrui falsità che alla verità da lui per lunga esperienza potuta
conoscere, la fa uccidere e mangiare a' lupi; e oltre a questo tanto il bene e
l'amore che l'amico e 'l marito le porta, che, con lei lungamente dimorati,
niuno la conosce. Ma per ciò che voi ottimamente conosciate quello che ciascun
di costoro ha meritato, ove voi mi vogliate di spezial grazia fare di punire lo
'ngannatore e perdonare allo 'ngannato, io la farò qui in vostra e in loro
presenzia venire.
Il soldano, disposto in
questa cosa di volere in tutto compiacere a Sicurano, disse che gli piacea e
che facesse la donna venire. Maravigliossi forte Bernabò, il quale lei per
fermo morta credea; e Ambrogiuolo, già del suo male indovino, di peggio avea
paura che di pagar denari, né sapea che si sperare o che più temere, perché
quivi la donna venisse, ma più con maraviglia la sua venuta aspettava.
Fatta adunque la
concessione dal soldano a Sicurano, esso, piagnendo e in ginocchion dinanzi al
soldan gittatosi, quasi ad una ora la maschil voce e il più voler maschio
parere si partì, e disse:
– Signor mio, io sono la
misera sventurata Zinevra, sei anni andata tapinando in forma d'uom per lo
mondo, da questo traditor d'Ambrogiuol falsamente e reamente vituperata, e da
questo crudele e iniquo uomo data ad uccidere ad un suo fante e a mangiare a'
lupi.
E stracciando i panni
dinanzi e mostrando il petto, sé esser femina e al soldano e a ciascuno altro
fece palese; rivolgendosi poi ad Ambrogiuolo, ingiuriosamente domandandolo
quando mai, secondo che egli avanti si vantava, con lei giaciuto fosse. Il
quale, già riconoscendola, e per vergogna quasi mutolo divenuto, niente dicea.
Il soldano, il qual sempre per uomo avuta l'avea, questo vedendo e udendo,
venne in tanta maraviglia, che più volte quello che egli vedeva e udiva
credette più tosto esser sogno che vero. Ma pur, poi che la maraviglia cessò,
la verità conoscendo, con somma laude la vita e la constanzia e i costumi e la
virtù della Zinevra, infino allora stata Sicuran chiamata, commendò. E, fattili
venire onorevolissimi vestimenti femminili e donne che compagnia le tenessero,
secondo la dimanda fatta da lei, a Bernabò perdonò la meritata morte.
Il quale,
riconosciutola, a' piedi di lei si gittò piagnendo e domandando perdonanza, la
quale ella, quantunque egli maldegno ne fosse, benignamente gli diede, e in
piede il fece levare, teneramente sì come suo marito abbracciandolo. Il soldano
appresso comandò che incontanente Ambrogiuolo in alcuno alto luogo della città
fosse al sole legato ad un palo e unto di mele, né quindi mai, infino a tanto
che per sé medesimo non cadesse, levato fosse; e così fu fatto. Appresso
questo, comandò che ciò che d'Ambrogiuolo stato era fosse alla donna donato;
che non era sì poco che oltre a diecimilia dobbre non valesse; ed egli, fatta
apprestare una bellissima festa, in quella Bernabò, come marito di madonna
Zinevra, e madonna Zinevra sì come valorosissima donna, onorò, e donolle che in
gioie e che in vasellamenti d'oro e d'ariento e che in denari, quello che valse
meglio d'altre diecemilia dobbre. E, fatto loro apprestare un legno, poi che
finita fu la festa per loro fatta, gli licenziò di potersi tornare a Genova al
lor piacere; dove ricchissimi e con grande allegrezza tornarono, e con sommo onore
ricevuti furono, e spezialmente madonna Zinevra, la quale da tutti si credeva
che morta fosse; e sempre di gran virtù e da molto, mentre visse, fu reputata.
Ambrogiuolo il dì
medesimo che legato fu al palo e unto di mele, con sua grandissima angoscia dalle
mosche e dalle vespe e da' tafani, de' quali quel paese è copioso molto, fu non
solamente ucciso, ma infino all'ossa divorato; le quali bianche rimase e a'
nervi appiccate, poi lungo tempo, senza esser mosse, della sua malvagità fecero
a chiunque le vide testimonianza. E così rimase lo 'ngannatore a piè dello
'ngannato.
NOVELLA DECIMA
Paganino da Monaco ruba
la moglie a messer Ricciardo da Chinzica, il quale, sappiendo dove ella è, va e
diventa amico di Paganino. Raddomandagliele, ed egli, dove ella voglia, gliele
concede. Ella non vuol con lui tornare, e, morto messer Ricciardo, moglie di
Paganin diviene.
Ciascuno della onesta
brigata sommamente commendò per bella la novella dalla loro reina contata, e
massimamente Dioneo, al quale solo per la presente giornata restava il
novellare. Il quale, dopo molte commendazioni di quella fatte, disse.
Belle donne, una parte
della novella della reina m'ha fatto mutare consiglio di dirne una che
all'animo m'era, a doverne un'altra dire; e questa è la bestialità di Bernabò,
come che bene ne gli avvenisse, e di tutti gli altri che quello si danno a
credere che esso di creder mostrava, cioè che essi andando per lo mondo e con
questa e con quella ora una volta ora un'altra sollazzandosi, s'imaginano che
le donne a casa rimase si tengano le mani a cintola, quasi noi non conosciamo,
che tra esse nasciamo e cresciamo e stiamo, di che elle sien vaghe. La qual
dicendo, ad un'ora vi mosterrò chente sia la sciocchezza di questi cotali, e
quanto ancora sia maggiore quella di coloro li quali, sé più che la natura
possenti estimando, si credono quello con dimostrazioni favolose potere che
essi non possono, e sforzansi d'altrui recare a quello che essi sono, non
patendolo la natura di chi è tirato.
Fu dunque in Pisa un
giudice, più che di corporal forza dotato d'ingegno, il cui nome fu messer
Ricciardo di Chinzica, il qual, forse credendosi con quelle medesime opere
sodisfare alla moglie che egli faceva agli studi, essendo molto ricco, con non
piccola sollicitudine cercò d'avere bella e giovane donna per moglie; dove e
l'uno e l'altro, se così avesse saputo consigliar sé come altrui faceva, doveva
fuggire. E quello gli venne fatto, per ciò che messer Lotto Gualandi per moglie
gli diede una sua figliuola, il cui nome era Bartolomea, una delle più belle e
delle più vaghe giovani di Pisa, come che poche ve n'abbiano che lucertole
verminare non paiano. La quale il giudice menata con grandissima festa a casa
sua, e fatte le nozze belle e magnifiche, pur per la prima notte incappò una
volta per consumare il matrimonio a toccarla, e di poco fallò che egli quella
una non fece tavola; il quale poi la mattina, sì come colui che era magro e
secco e di poco spirito, convenne che con vernaccia e con confetti ristorativi
e con altri argomenti nel mondo si ritornasse. Or questo messer lo giudice,
migliore stimatore delle sue forze divenuto che stato non era avanti,
incominciò ad insegnare a costei un calendario buono da fanciulli che stanno a
leggere, e forse già stato fatto a Ravenna. Per ciò che, secondo che egli le
mostrava, niun dì era che non solamente una festa, ma molte non ne fossero; a
reverenza delle quali per diverse cagioni mostrava l'uomo e la donna doversi
astenere da così fatti congiugnimenti, sopra questi aggiugnendo digiuni e quattro
tempora e vigilie d'apostoli e di mille altri santi, e venerdì e sabati, e la
domenica del Signore e la quaresima tutta, e certi punti della luna e altre
eccezioni molte, avvisandosi forse che così feria far si convenisse con le
donne nel letto, come egli faceva talvolta piatendo alle civili. E questa
maniera (non senza grave malinconia della donna, a cui forse una volta ne
toccava il mese e appena) lungamente tenne, sempre guardandola bene, non forse
alcuno altro le 'nsegnasse conoscere li dì da lavorare, come egli l'aveva
insegnate le feste.
Avvenne che, essendo il
caldo grande, a messer Ricciardo venne disidero d'andarsi a diportare ad un suo
luogo molto bello vicino a Montenero, e quivi per pren dere aere, dimorarsi
alcun giorno, e con seco menò la sua bella donna. E quivi standosi, per darle
alcuna consolazione, fece un giorno pescare, e sopra due barchette, egli in su
una co' pescatori ed ella in su un'altra con altre donne, andarono a vedere; e
tirandogli il diletto, parecchi miglia, quasi senza accorgersene, n'andarono
infra mare.
E mentre che essi più
attenti stavano a riguardare, subito una galeotta di Paganin da Mare, allora
molto famoso corsale, sopravenne; e vedute le barche, si dirizzò a loro; le
quali non poteron sì tosto fuggire, che Paganin non giugnesse quella ove eran
le donne; nella quale veggendo la bella donna, senza altro volerne, quella,
veggente messer Ricciardo che già era in terra, sopra la sua galeotta posta,
andò via. La qual cosa veggendo messer lo giudice, il quale era sì geloso che
temeva dello aere stesso, se esso fu dolente non è da domandare. Egli senza
pro, e in Pisa e altrove, si dolfe della malvagità de' corsari, senza sapere
chi la moglie tolta gli avesse o dove portatola.
A Paganino, veggendola
così bella, parve star bene; e, non avendo moglie, si pensò di sempre tenersi
costei, e lei, che forte piagnea, cominciò dolcemente a confortare. E venuta la
notte, essendo a lui il calendaro caduto da cintola e ogni festa o feria uscita
di mente, la cominciò a confortare co' fatti, parendogli che poco fossero il dì
giovate ]e parole; e per sì fatta maniera la racconsolò, che, prima che a
Monaco giugnessero, il giudice e le sue leggi le furono uscite di mente, e
cominciò a viver più lietamente del mondo con Paganino. Il quale, a Monaco
menatala, oltre alle consolazioni che di dì e di notte le dava, onoratamente
come sua moglie la tenea. Poi a certo tempo pervenuto agli orecchi di messer
Ricciardo dove la sua donna fosse, con ardentissimo disidero, avvisandosi niun
interamente saper far ciò che a ciò bisognava, esso stesso dispose d'andar per
lei, disposto a spendere per lo riscatto di lei ogni quantità di denari; e,
messosi in mare, se n'andò a Monaco, e quivi la vide ed ella lui; la quale poi
la sera a Paganino il disse e lui della sua intenzione informò.
La seguente mattina
messer Ricciardo, veggendo Paganino, con lui s'accontò e fece in poca d'ora una
gran dimestichezza e amistà, infignendosi Paganino di conoscerlo e aspettando a
che riuscir volesse. Per che, quando tempo parve a messer Ricciardo, come
meglio seppe e il più piacevolmente, la cagione per la quale venuto era gli
discoperse, pregandolo che quello che gli piacesse prendesse e la donnagli
rendesse. Al quale Paganino con lieto viso rispose:
– Messere, voi siate il
ben venuto, e rispondendo in brieve, vi dico così: egli è vero che io ho una
giovane in casa, la qual non so se vostra moglie o d'altrui si sia, per ciò che
voi io non conosco, né lei altressì se non in tanto quanto ella è meco alcun
tempo dimorata. Se voi siete suo marito, come voi dite, io, perciò che piacevol
gentil uom mi parete, vi menerò da lei, e son certo che ella vi conoscerà bene.
Se essa dice che così sia come voi dite e vogliasene con voi venire, per amor
della vostra piacevolezza quello che voi medesimo vorrete per riscatto di lei
mi darete; ove così non fosse, voi fareste villania a torre, per ciò che io son
giovane uomo e posso così come un altro tenere una femina, e spezialmente lei
che è la più piacevole che io vidi mai.
Disse allora messer
Ricciardo:
– Per certo ella è mia
moglie, e se tu mi meni dove ella sia, tu il vedrai tosto; ella mi si gittarà
incontanente al collo; e per ciò non domando che altramenti sia se non come tu
medesimo hai divisato.
– Adunque, – disse
Paganino, – andiamo.
Andatisene adunque nella
casa di Paganino e stando in una sua sala, Paganino la fece chiamare, ed ella
vestita e acconcia uscì d'una camera e quivi venne dove messer Ricciardo con
Paganino era, né altramenti fece motto a messer Ricciardo che fatto s'avrebbe
ad un altro forestiere che con Paganino in casa sua venuto fosse. Il che
vedendo il giudice, che aspettava di dovere essere con grandissima festa
ricevuto da lei, si maravigliò forte, e seco stesso cominciò a dire: – Forse
che la malinconia e il lungo dolore che io ho avuto, poscia che io la perdei
m'ha si trasfigurato che ella non mi riconosce – Per che egli disse:
– Donna, caro mi costa
il menarti a pescare, per ciò che simil dolore non si sentì mai a quello che io
ho poscia portato che io ti perdei, e tu non pare che mi riconoschi, sì
salvaticamente motto mi fai. Non vedi tu che io sono il tuo messer Ricciardo,
venuto qui per pagare ciò che volesse questo gentile uomo, in casa cui noi
siamo, per riaverti e per menartene; ed egli, la sua mercè, per ciò che io
voglio, mi ti rende?
La donna rivolta a lui,
un cotal pocolin sorridendo, disse:
– Messere, dite voi a
me? Guardate che voi non m'abbiate colta in iscambio, chè, quanto è io, non mi
ricordo che io vi vedessi giammai.
Disse messer Ricciardo:
– Guarda ciò. che tu dì,
guatami bene; se tu ti vorrai bene ricordare, tu vedrai bene che io sono il tuo
Ricciardo di Chinzica.
La donna disse:
– Messere, voi mi
perdonerete, forse non è egli così onesta cosa a me, come voi v'imaginate, il
molto guardarvi, ma io v'ho nondimeno tanto guardato, che io conosco che io mai
più non vi vidi.
Imaginossi messer
Ricciardo che ella questo facesse per tema di Paganino, di non volere in sua
presenza confessare di conoscerlo; per che, dopo alquanto, chiese di grazia a
Paganino che in camera solo con esso lei le potesse parlare. Paganin disse che
gli piacea, sì veramente che egli non la dovesse contra suo piacere baciare; e
alla donna comandò che con lui in camera andasse e udisse ciò che egli volesse
dire, e come le piacesse gli rispondesse.
Andatisene adunque in
camera la donna e messer Ricciardo soli, come a seder si furon posti,
incominciò messer Ricciardo a dire:
– Deh, cuor del corpo
mio, anima mia dolce, speranza mia, or non riconosci tu Ricciardo tuo che t'ama
più che sé medesimo? Come può questo essere? Son io così trasfigurato? Deh,
occhio mio bello, guatami pure un poco.
La donna incominciò a
ridere e, senza lasciarlo dir più, disse:
– Ben sapete che io non
sono sì smimorata, che io non conosca che voi siete messer Ricciardo di
Chinzica mio marito; ma voi, mentre che io fu'con voi, mostraste assai male di
conoscer me, per ciò che se voi eravate savio o sete, come volete esser tenuto,
dovavate bene aver tanto conoscimento, che voi dovavate vedere che io era
giovane e fresca e gagliarda, e per conseguente conoscere quello che alle
giovani donne, oltre al vestire e al mangiar, bene che elle per vergogna nol
dicano, si richiede; il che come voi il faciavate? voi il vi sapete. E s'egli
v'era più a grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovavate
pigliarla; benché a me non parve mai che voi giudice foste, anzi mi paravate un
banditore di sagre e di feste, sì ben le sapavate, e le digiune e le vigilie. E
dicovi che se voi aveste tante feste fatte fare a' lavoratori che le vostre
possessioni lavorano, quante faciavate fare a colui che il mio piccol
campicello aveva a lavorare, voi non avreste mai ricolto granello di grano.
Sonmi abbattuta a costui che ha voluto Iddio, sì come pietoso ragguardatore
della mia giovanezza, col quale io mi sto in questa camera, nella qual non si
sa che cosa festa sia (dico di quelle feste che voi, più divoto a Dio che a'
servigi delle donne, cotante celebravate), né mai dentro a quello uscio entrò
né sabato né venerdì né vigilia né quattro tempora né quaresima, ch'è così
lunga, anzi di dì e di notte ci si lavora e battecisi la lana; e poi che questa
notte sonò mattutino, so bene come il fatto andò da una volta in su. E però con
lui intendo di starmi e di lavorare mentre sarò giovane; e le feste e le
perdonanze e i digiuni serbarmi a far quando sarò vecchia; e voi colla buona
ventura sì ve n'andate il più tosto che voi potete, e senza me fate feste
quante vi piace. Messer Ricciardo, udendo queste parole, sosteneva dolore
incomportabile, e disse, poi che lei tacer vide: – Deh, anima mia dolce, che
parole son quelle che tu dì? Or non hai tu riguardo all'onore de' parenti tuoi
e al tuo? Vuo'tu innanzi star qui per bagascia di costui e in peccato mortale,
che a Pisa mia moglie? Costui, quando tu gli sarai rincresciuta, con gran
vitupero di te medesima ti caccerà via; io t'avrò sempre cara, e sempre, ancora
che io non volessi, sarai donna della casa mia. Dei tu per questo appetito
disordinato e disonesto lasciar l'onor tuo e me, che t'amo più che la vita mia?
Deh, speranza mia cara, non dir più così, voglitene venir con meco; io da
quinci innanzi, poscia che io conosco il tuo disidero, mi sforzerò; e però, ben
mio dolce, muta consiglio e vientene meco, ché mai ben non sentii poscia che tu
tolta mi fosti.
A cui la donna rispose:
– Del mio onore non
intendo io che persona, ora che non si può, sia più di me tenera; fossonne
stati i parenti miei quando mi diedero a voi! li quali se non furono allora del
mio, io non intendo d'essere al presente del loro; e se io ora sto in peccato
mortaio, io starò quando che sia in peccato pestello: non ne siate più tenero
di me. E dicovi così, che qui mi pare esser moglie di Paganino, e a Pisa mi
pareva esser vostra bagascia, pensando che per punti di luna e per isquadri di
geometria si convenivano tra voi e me congiugnere i pianeti, dove qui Paganino
tutta la notte mi tiene in braccio e strignemi e mordemi, e come egli mi conci
Iddio ve 'l dica per me. Anche dite voi che vi sforzerete: e di che? di farla
in tre pace, e rizzare a mazzata? Io so che voi siete divenuto un prò cavaliere
poscia che io non vi vidi. Andate, e sforzatevi di vivere; ché mi pare anzi che
no che voi ci stiate a pigione, sì tisicuzzo e tristanzuol mi parete. E ancor
vi dico più, che quando costui mi lascerà (ché non mi pare a ciò disposto, dove
io voglia stare), io non intendo per ciò di mai tornare a voi, di cui, tutto
premendovi, non si farebbe uno scodellin di salsa; per ciò che con mio
grandissimo danno e interesse vi stetti una volta; per che in altra parte
cercherei mia civanza. Di che da capo vi dico che qui non ha festa né vigilia;
laonde io intendo di starmi; e per ciò, come più tosto potete, v'andate con
Dio, se non che io griderò che voi mi vogliate sforzare.
Messer Ricciardo,
veggendosi a mal partito e pure allora conoscendo la sua follia d'aver moglie
giovane tolta essendo spossato, dolente e tristo s'uscì della camera e disse
parole assai a Paganino, le quali non montarono un frullo. E ultimamente, senza
alcuna cosa aver fatta, lasciata la donna, a Pisa si ritornò, e in tanta
mattezza per dolor cadde che, andando per Pisa, a chiunque il salutava o
d'alcuna cosa il domandava, niuna altra cosa rispondeva se non: – Il mal foro
non vuol festa –; e dopo non molto tempo si morì. Il che Paganin sentendo, e
conoscendo l'amore che la donna gli portava, per sua legittima moglie la sposò,
e senza mai guardar festa o vigilia o fare quaresima, quanto le gambe ne gli
poteron portare, lavorarono e buon tempo si diedono. Per la qual cosa, donne
mie care, mi pare che ser Bernabò disputando con Ambrogiuolo cavalcasse la
capra in verso il chino.
CONCLUSIONE
Questa novella diè tanto
che ridere a tutta la compagnia, che niun ve n'era a cui non dolessero le
mascelle, e di pari consentimento tutte le donne dissono che Dioneo diceva vero
e che Bernabò era stato una bestia. Ma, poi che la novella fu finita e le risa
ristate, avendo la reina riguardato che l'ora era omai tarda, e che tutti avean
novellato, e la fine della sua signoria era venuta, secondo il cominciato
ordine, trattasi la ghirlanda di capo, sopra la testa la pose di Neifile con
lieto viso dicendo: – Omai, cara compagna, di questo piccol popolo il governo
sia tuo –; e a seder si ripose.
Neifile del ricevuto
onore un poco arrossò e tal nel viso divenne qual fresca rosa d'aprile o di
maggio in su lo schiarir del giorno si mostra, con gli occhi vaghi e
scintillanti, non altramenti che mattutina stella, un poco bassi. Ma poi che
l'onesto romor de' circustanti, nel quale il favor loro verso la reina
lietamente mostravano, si fu riposato ed ella ebbe ripreso l'animo, alquanto più
alta che usata non era sedendo, disse:
– Poiché così è che io
vostra reina sono, non dilungandomi dalla maniera tenuta per quelle che davanti
a me sono state, il cui reggimento voi ubbidendo commendato avete, il parer mio
in poche parole vi farò manifesto, il quale, se dal vostro consiglio sarà
commendato, quel seguiremo.
Come voi sapete, domane
è venerdì e il seguente dì sabato, giorni, per le vivande le quali s'usano in
quegli, al quanto tediosi alle più genti; senza che 'l venerdì, avendo riguardo
che in esso Colui che per la nostra vita morì sostenne passione, è degno di
reverenza; per che giusta cosa e molto onesta reputerei, che, ad onor d'lddio,
più tosto ad orazioni che a novelle vacassimo. E il sabato appresso usanza è
delle donne di lavarsi la testa e di tor via ogni polvere, ogni sucidume che
per la fatica di tutta la passata settimana sopravenuta fosse; e sogliono
similmente assai, a reverenza del la Vergine Madre del Figliuol di Dio,
digiunare, e da indi in avanti per onor della sopravvegnente domenica da
ciascuna opera riposarsi; per che, non potendo così a pieno in quel dì l'ordine
da noi preso nel vivere seguitare, similmente stimo sia ben fatto, quel dì del
novellare ci posiamo. Appresso, per ciò che noi qui quattro dì dimorate saremo,
se noi vogliam tor via che gente nuova non ci sopravvenga, reputo opportuno di
mutarci di qui e andarne altrove, e il dove io ho già pensato e proveduto.
Quivi quando noi saremo domenica appresso dormire adunati, avendo noi oggi
avuto assai largo spazio da discorrere ragionando, sì perché più tempo da
pensare avrete, e sì perché sarà ancora più bello che un poco si ristringa del
novellare la licenzia e che sopra uno de' molti fatti della Fortuna si dica, ì
ho pensato che questo sarà, di chi alcuna cosa molto da lui disiderata con
industria acquistasse o la perduta recuperasse. Sopra che ciascun pensi di dire
alcuna cosa che alla brigata esser possa utile o almeno dilettevole, salvo
sempre il privilegio di Dioneo.
Ciascun commendò il
parlare e il diviso della reina, e così statuiron che fosse. La quale appresso
questo, fattosi chiamare il suo siniscalco, dove metter dovesse la sera le
tavole, e quello appresso che far dovesse in tutto il tempo delta sua signoria
pienamente gli divisò, e cosi fatto, in piè dirizzata colla sua brigata, a far
quello che più piacesse a ciascuno gli licenziò.
Presero adunque le donne
e gli uomini inverso un giardinetto la via, e quivi, poi che alquanto diportati
si furono, l'ora della cena venuta, con festa e con piacer cenarono e da quella
levati, come alla reina piacque, menando Emilia la carola, la seguente canzone
da Pampinea, rispondendo l'altre, fu cantata:
Qual donna canterà,
s'i'non cant'io,
che son contenta d'ogni
mio disio?
Vien dunque, Amor, cagion
d'ogni mio bene,
d'ogni speranza e d'ogni
lieto effetto;
cantiamo insieme un
poco,
non de' sospir né delle
amare pene
ch'or più dolce mi fanno
il tuo diletto,
ma sol del chiaro foco,
nel quale ardendo in
festa vivo e 'n gioco,
te adorando, come un mio
iddio.
Tu mi ponesti innanzi
agli occhi, Amore,
il primo dì ch'io nel
tuo foco entrai,
un giovinetto tale,
che di biltà, d'ardir,
né di valore
non se ne troverebbe un
maggior mai,
né pure a lui eguale:
di lui m'accesi tanto,
che aguale
lieta ne canto teco,
signor mio.
E quel che 'n questo m'è
sommo piacere,
è ch'io gli piaccio
quanto egli a me piace,
Amor, la tua merzede;
perché in questo mondo
il mio volere
posseggo, e spero
nell'altro aver pace
per quella intera fede
che io gli porto. Iddio
che questo vede,
del regno suo ancor ne
sarà pio.
Appresso questa, più
altre se ne cantarono e più danze si fecero e sonarono diversi suoni. Ma,
estimando la reina tempo esser di doversi andare a posare, co' torchi avanti
ciascuno alla sua camera se n'andò; e li due dì seguenti a quelle cose vacando
che prima la reina aveva ragionate, con disiderio aspettarono la domenica.
Finisce la seconda
giornata del Decameron.
Incomincia la terza
giornata nella quale si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna
cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta
ricoverasse.
GIORNATA TERZA
INTRODUZIONE
L'aurora già di
vermiglia cominciava, appressandosi il sole, a divenir rancia, quando la
domenica la reina levata e fatta tutta la sua compagnia levare, e avendo già il
siniscalco gran pezzo davanti mandato al luogo dove andar doveano assai delle
cose opportune e chi quivi preparasse quello che bisognava, veggendo già la
reina in cammino, prestamente fatta ogn'altra cosa caricare, quasi quindi il
campo levato, colla salmeria n'andò e colla famiglia rimasa appresso delle
donne e de' signori.
La reina adunque con
lento passo, accompagnata e seguita dalle sue donne e dai tre giovani, alla
guida del canto di forse venti usignuoli e altri uccelli, per una vietta non
troppo usata, ma piena di verdi erbette e di fiori, li quali per lo
sopravvegnente sole tutti s'incominciavano ad aprire, prese il cammino verso
l'occidente, e cianciando e motteggiando e ridendo colla sua brigata, senza
essere andata oltre a dumilia passi, assai avanti che mezza terza fosse ad un
bellissimo e ricco palagio, il quale alquanto rilevato dal piano sopra un
poggetto era posto, gli ebbe condotti. Nel quale entrati e per tutto andati, e
avendo le gran sale, le pulite e ornate camere compiutamente ripiene di ciò che
a camera s'appartiene, sommamente il commendarono e magnifico reputarono il
signor di quello. Poi, a basso discesi, e veduta l'ampissima e lieta corte di
quello, le volte piene d'ottimi vini e la freddissima acqua e in gran copia che
quivi surgea, più ancora il lodarono. Quindi, quasi di riposo vaghi, sopra una
loggia che la corte tutta signoreggiava, essendo ogni cosa piena di quei fiori
che concedeva il tempo e di frondi, postisi a sedere, venne il discreto siniscalco,
e loro con preziosissimi confetti e ottimi vini ricevette e riconfortò.
Appresso la qual cosa, fattosi aprire un giardino che di costa era al palagio,
in quello, che tutto era dattorno murato, se n'entrarono; e parendo loro nella
prima entrata di maravigliosa bellezza tutto insieme, più attentamente le parti
di quello cominciarono a riguardare. Esso avea dintorno da sé e per lo mezzo in
assai parti vie ampissime; tutte diritte come strale e coperte di pergolati di
viti, le quali facevan gran vista di dovere quello anno assai uve fare; e tutte
allora fiorite sì grande odore per lo giardin rendevano, che, mescolato insieme
con quello di molte altre cose che per lo giardino olivano, pareva loro essere
tra tutta la spezieria che mai nacque in oriente; le latora delle quali vie
tutte di rosai bianchi e vermigli e di gelsomini erano quasi chiuse; per le
quali cose, non che la mattina, ma qualora il sole era più alto, sotto
odorifera e dilettevole ombra, senza esser tocco da quello, vi si poteva per tutto
andare. Quante e quali e come ordinate poste fossero le piante che erano in
quel luogo, lungo sarebbe a raccontare; ma niuna n'è laudevole, la quale il
nostro aere patisca, di che quivi non sia abondevolmente. Nel mezzo del quale
(quello che è non men commendabile che altra cosa che vi fosse, ma molto più),
era un prato di minutissima erba e verde tanto che quasi nera parea, dipinto
tutto forse di mille varietà di fiori, chiuso dintorno di verdissimi e vivi
aranci e di cedri, li quali, avendo i vecchi frutti e i nuovi e i fiori ancora,
non solamente piacevole ombra agli occhi, ma ancora all'odorato facevan
piacere. Nel mezzo del qual prato era una fonte di marmo bianchissimo e con
maravigliosi intagli. Iv'entro, non so se da natural vena o da artificiosa, per
una figura la quale sopra una colonna che nel mezzo di quella diritta era,
gittava tanta acqua e sì alta verso il cielo, che poi non senza dilettevol
suono nella fonte chiarissima ricadea, che di meno avria macinato un mulino. La
qual poi (quella dico che soprabbondava al pieno della fonte) per occulta via
del pratello usciva e, per canaletti assai belli e artificiosamente fatti,
fuori di quello divenuta palese, tutto lo 'ntorniava; e quindi per canaletti
simili quasi per ogni parte del giardin discorrea, raccogliendosi ultimamente
in una parte dalla quale del bel giardino avea l'uscita, e quindi verso il pian
discendendo chiarissima, avanti che a quel divenisse, con grandissima forza e
con non piccola utilità del signore, due mulina volgea.
Il veder questo
giardino, il suo bello ordine, le piante la e la fontana co' ruscelletti
procedenti da quella, tanto piacque a ciascuna donna e a' tre giovani che tutti
cominciarono ad affermare che, se Paradiso si potesse in terra fare, non
sapevano conoscere che altra forma che quella di quel giardino gli si potesse
dare, né pensare, oltre a questo, qual bellezza gli si potesse aggiugnere.
Andando adunque contentissimi dintorno per quello, faccendosi di vari rami
d'albori ghirlande bellissime, tuttavia udendo forse venti maniere di canti
d'uccelli quasi a pruova l'un dell'altro cantare, s'accorsero d'una dilettevol
bellezza, della quale, dall'altre soprappresi, non s'erano ancora accorti; ché
essi videro il giardin pieno forse di cento varietà di belli animali, e l'uno
all'altro mostrandolo, d'una parte uscir conigli, d'altra parte correr lepri, e
dove giacer cavriuoli, e in alcuna cerbiatti giovani andar pascendo, e, oltre a
questi, altre più maniere di non nocivi animali, ciascuno a suo diletto, quasi
dimestichi, andarsi a sollazzo; le quali cose, oltre agli altri piaceri, un vie
maggior piacere aggiunsero. Ma poi che assai, or questa cosa or quella
veggendo, andati furono, fatto dintorno alla bella fonte metter le tavole, e
quivi prima sei canzonette cantate e alquanti balli fatti, come alla reina
piacque, andarono a mangiare, e con grandissimo e bello e riposato ordine
serviti, e di buone e dilicate vivande, divenuti più lieti su si levarono, e a'
suoni e a' canti e a' balli da capo si dierono, infino che alla reina, per lo
caldo sopravvegnente, parve ora che, a cui piacesse, s'andasse a dormire.
De'quali chi vi andò e chi, vinto dalla bellezza del luogo, andar non vi volle,
ma, quivi dimoratisi, chi a legger romanzi, chi a giucare a scacchi e chi a
tavole, mentre gli altri dormiron, si diede.
Ma, poi che, passata la
nona, ciascuno levato si fu, e il viso colla fresca acqua rinfrescato s'ebbero,
nel prato, sì come alla reina piacque, vicini alla fontana venutine, e in
quello secondo il modo usato postisi a sedere, ad aspettar cominciarono di
dover novellare sopra la materia dalla reina proposta. De'quali il primo a cui
la reina tal carico impose fu Filostrato, il quale cominciò in questa guisa.
NOVELLA PRIMA
Masetto da Lamporecchio
si fa mutolo e diviene ortolano di uno monistero di donne, le quali tutte
concorrono a giacersi con lui.
Bellissime donne, assai
sono di quegli uomini e di quelle femine che sì sono stolti, che credono troppo
bene che, come ad una giovane è sopra il capo posta la benda bianca e in dosso
messale la nera cocolla, che ella più non sia femina né più senta de' feminili
appetiti se non come se di pietra l'avesse fatta divenire il farla monaca; e se
forse alcuna cosa contra questa lor credenza n'odono, così si turbano come se
contra natura un grandissimo e scelerato male fosse stato commesso, non
pensando né volendo aver rispetto a sé medesimi, li quali la piena licenzia di
poter far quel che vogliono non può saziare, né ancora alle gran forze dell'ozio
e della solitudine. E similmente sono ancora di quegli assai che credono troppo
bene che la zappa e la vanga e le grosse vivande e i disagi tolgano del tutto
a' lavoratori della terra i concupiscibili appetiti e rendan loro d'intelletto
e d'avvedimento grossissimi. Ma quanto tutti coloro che così credono sieno
ingannati, mi piace, poi che la reina comandato me l'ha, non uscendo della
proposta fatta da lei, di farvene più chiare con una piccola novelletta. In
queste nostre contrade fu, ed è ancora, un monistero di donne assai famoso di
santità (il quale io non nomerò per non diminuire in parte alcuna la fama sua),
nel quale, non ha gran tempo, non essendovi allora più che otto donne con una
badessa, e tutte giovani, era un buono omicciuolo d'un loro bellissimo giardino
ortolano, il quale, non contentandosi del salario, fatta la ragion sua col
castaldo delle donne, a Lamporecchio, là ond'egli era, se ne tornò.
Quivi, tra gli altri che
lietamente il raccolsono, fu un giovane lavoratore forte e robusto e, secondo
uom di villa, con bella persona e con viso assai piacevole, il cui nome era
Masetto; e domandollo dove tanto tempo stato fosse. Il buono uomo, che Nuto
avea nome, gliele disse. Il quale Masetto domandò, di che egli il monistero
servisse. A cui Nuto rispose:
– Io lavorava un loro
giardino bello e grande e, oltre a questo, andava alcuna volta al bosco per le
legne, attigneva acqua e faceva cotali altri servigetti; ma le donne mi davano
sì poco salaro, che io non ne potevo appena pure pagare i calzari. E, oltre a
questo, elle son tutte giovani e parmi ch'elle abbiano il diavolo in corpo, ché
non si può far cosa niuna al lor modo; anzi, quand'io lavorava alcuna volta
l'orto, l'una diceva: – Pon qui questo –; e l'altra: – Pon qui quello –; e
l'altra mi toglieva la zappa di mano e diceva: – Questo non sta bene –; e
davanmi tanta seccaggine, che io lasciava stare il lavorio e uscivami
dell'orto; sì che, tra per l'una cosa e per l'altra, io non vi volli star più e
sonmene venuto. Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io me ne venni, che, se
io n'avessi alcuno alle mani che fosse da ciò, che io gliele mandassi, e io
gliele promisi; ma tanto il faccia Dio san delle reni, quanto io o ne
procaccerò o ne gli manderò niuno. A Masetto, udendo egli le parole di Nuto,
venne nell'animo un disidero sì grande d'esser con queste monache, che tutto se
ne struggea, comprendendo per le parole di Nuto che a lui dovrebbe poter venir
fatto di quello che egli disiderava. E avvisandosi che fatto non gli verrebbe
se a Nuto ne dicesse niente, gli disse:
– Deh come ben facesti a
venirtene! Che è un uomo a star con femine? Egli sarebbe meglio a star con
diavoli: elle non sanno delle sette volte le sei quello che elle si vogliono
elleno stesse.
Ma poi, partito il lor
ragionare, cominciò Masetto a pensare che via dovesse tenere a dovere potere
esser con loro; e conoscendo che egli sapeva ben fare quegli servigi che Nuto
diceva, non dubitò di perder per quello, ma temette di non dovervi esser
ricevuto per ciò che troppo era giovane e appariscente. Per che, molte cose
divisate seco, imaginò: – Il luogo è assai lontano di qui e niuno mi vi
conosce; se io so far vista d'esser mutolo, per certo io vi sarò ricevuto –. E
in questa imaginazione fermatosi, con una sua scure in collo, senza dire ad
alcuno dove s'andasse, in guisa d'un povero uomo se n'andò al monistero; dove
pervenuto, entrò dentro e trovò per ventura il castaldo nella corte; al quale
faccendo suoi atti come i mutoli fanno, mostrò di domandargli mangiare per
l'amor di Dio e che egli, se bisognasse, gli spezzerebbe delle legne.
Il castaldo gli diè da
mangiar volentieri, e appresso questo gli mise innanzi certi ceppi che Nuto non
avea potuto spezzare, li quali costui, che fortissimo era, in poca d'ora ebbe
tutti spezzati. Il castaldo, che bisogno avea d'andare al bosco, il menò seco,
e quivi gli fece tagliate delle legne; poscia, messogli l'asino innanzi, con
suoi cenni gli fece intendere che a casa ne le recasse. Costui il fece molto
bene, per che il castaldo a far fare certe bisogne che gli eran luogo più
giorni vel tenne. De quali avvenne che uno dì la badessa il vide, e domandò il
castaldo chi egli fosse. Il quale le disse:
– Madonna, questi è un
povero uomo mutolo e sordo, il quale un di questi dì ci venne per limosina, sì
che io gli ho fatto bene, e hogli fatte fare assai cose che bisogno c'erano. Se
egli sapesse lavorar l'orto e volesseci rimanere, io mi credo che noi n'avremmo
buon servigio, per ciò che egli ci bisogna, ed egli è forte e potrebbene l'uom
fare ciò che volesse; e, oltre a questo, non vi bisognerebbe d'aver pensiero
che egli motteggiasse queste vostre giovani.
A cui la badessa disse:
– In fè di Dio tu di'il
vero. Sappi se egli sa lavorare e ingegnati di ritenercelo; dagli qualche paio
di scarpette qualche cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da
mangiare.
Il castaldo disse di
farlo.
Masetto non era guari
lontano, ma faccendo vista di spazzar la corte tutte queste parole udiva, e
seco lieto diceva: – Se voi mi mettete costà entro, io vi lavorrò sì l'orto che
mai non vi fu così lavorato.
Ora, avendo il castaldo
veduto che egli ottimamente sapea lavorare e con cenni domandatolo se egli
voleva star quivi, e costui con cenni rispostogli che far voleva ciò che egli
volesse, avendolo ricevuto, gl'impose che egli l'orto lavorasse e mostrogli
quello che a fare avesse; poi andò per altre bisogne del monistero, e lui
lasciò. Il quale lavorando l'un dì appresso l'altro, le monache incominciarono
a dargli noia e a metterlo in novelle, come spesse volte avviene che altri fa
de' mutoli, e dicevangli le più scelerate parole del mondo, non credendo da lui
essere intese; e la badessa, che forse estimava che egli così senza coda come
senza favella fosse, di ciò poco o niente si curava.
Or pure avvenne che
costui un dì avendo lavorato molto e riposandosi, due giovinette monache, che
per lo giardino andavano, s'appressarono là dove egli era, e lui che sembiante
facea di dormire cominciarono a riguardare. Per che l'una, che alquanto era più
baldanzosa, disse all'altra:
– Se io credessi che tu
mi tenessi credenza, io ti direi un pensiero che io ho avuto più volte, il
quale forse anche a te potrebbe giovare.
L'altra rispose:
– Di'sicuramente, ché
per certo io nol dirò mai a persona.
Allora la baldanzosa
incominciò:
– Io non so se tu t'hai
posto mente come noi siamo tenute strette, né che mai qua entro uomo alcuno osa
entrare, se non il castaldo ch'è vecchio e questo mutolo; e io ho più volte a
più donne, che a noi son venute, udito dire che tutte l'altre dolcezze del mondo
sono una beffa a rispetto di quella quando la femina usa con l'uomo. Per che io
m'ho più volte messo in animo, poiché con altrui non posso, di volere con
questo mutolo provare se così è. Ed egli è il miglior del mondo da ciò costui;
ché, perché egli pur volesse, egli nol potrebbe né saprebbe ridire. Tu vedi
ch'egli è un cotal giovanaccio sciocco, cresciuto innanzi al senno; volentieri
udirei quello che a te ne pare.
– Ohimè, – disse l'altra
– che è quello che tu di'? Non sai tu che noi abbiam promesso la virginità
nostra a Dio?
– O, – disse colei –
quante cose gli si promettono tutto 'l dì, che non se ne gli attiene niuna! se
noi gliele abbiam promessa, truovisi un'altra o dell'altre che gliele
attengano.
A cui la compagna disse:
– O se noi ingravidassimo,
come andrebbe il fatto?
Quella allora disse:
– Tu cominci ad aver
pensiero del mal prima che egli ti venga; quando cotesto avvenisse, allora si
vorrà pensare; egli ci avrà mille modi da fare sì che mai non si saprà, pur che
noi medesime nol diciamo.
Costei, udendo ciò,
avendo già maggior voglia che l'altra di provare che bestia fosse l'uomo,
disse:
– Or bene, come faremo?
A cui colei rispose:
– Tu vedi ch'egli è in
su la nona; io mi credo che le suore sien tutte a dormire, se non noi; guatiam
per l'orto se persona ci è, e s'egli non ci è persona, che abbiam noi a fare se
non a pigliarlo per mano e menarlo in questo capannetto, là dove egli fugge
l'acqua; e quivi l'una si stea dentro con lui e l'altra faccia la guardia? Egli
è sì sciocco, che egli s'acconcerà comunque noi vorremo. Masetto udiva tutto
questo ragionamento, e disposto ad ubidire, niuna cosa aspettava se non l'esser
preso dall'una di loro.
Queste, guardato ben per
tutto e veggendo che da niuna parte potevano esser vedute, appressandosi quella
che mosse avea le parole a Masetto, lui destò, ed egli incontanente si levò in
piè. Per che costei con atti lusinghevoli presolo per la mano, ed egli faccendo
cotali risa sciocche, il menò nel capannetto, dove Masetto senza farsi troppo
invitare quel fe ce che ella volle. La quale, sì come leale compagna, avuto
quel che volea, diede all'altra luogo, e Masetto, pur mostrandosi semplice,
faceva il lor volere. Per che avanti che quindi si dipartissono, da una volta
in su ciascuna provar volle come il mutolo sapea cavalcare; e poi, seco spesse
volte ragionando, dicevano che bene era così dolce cosa, e più, come udito
aveano; e prendendo a convenevoli ore tempo, col mutolo s'andavano a
trastullare.
Avvenne un giorno che
una lor compagna, da una finestretta della sua cella di questo fatto
avvedutasi, a due altre il mostrò. E prima tennero ragionamento insieme di
doverle accusare alla badessa; poi, mutato consiglio e con loro accordatesi,
partefici divennero del podere di Masetto. Alle quali l'altre tre per diversi
accidenti divenner compagne in vari tempi.
Ultimamente la badessa,
che ancora di queste cose non s'accorgea, andando un dì tutta sola per lo
giardino, essendo il caldo grande, trovò Masetto (il qual di poca fatica il dì,
per lo troppo cavalcar della notte, aveva assai) tutto disteso al l'ombra d'un
mandorlo dormirsi, e avendogli il vento i panni dinanzi levati indietro, tutto
stava scoperto.
La qual cosa riguardando
la donna, e sola vedendosi, in quel medesimo appetito cadde che cadute erano le
sue monacelle; e, destato Masetto, seco nella sua camera nel menò, dove
parecchi giorni, con gran querimonia dalle monache fatta che l'ortolano non
venia a lavorar l'orto, il tenne, provando e riprovando quella dolcezza la qual
essa prima all'altre solea biasimare.
Ultimamente della sua
camera alla stanza di lui rimandatolne, e molto spesso rivolendolo, e oltre a
ciò più che parte volendo da lui, non potendo Masetto sodisfare a tante,
s'avvisò che il suo esser mutolo gli potrebbe, se più stesse, in troppo gran
danno resultare. E perciò una notte colla badessa essendo, rotto lo
scilinguagnolo, cominciò a dire:
– Madonna, io ho inteso
che un gallo basta assai bene a dieci galline, ma che dieci uomini possono male
o con fatica una femina sodisfare, dove a me ne conviene servir nove, al che
per cosa del mondo io non potrei durare; anzi son io, per quello che infino a
qui ho fatto, a tal venuto che io non posso far né poco né molto; e perciò o
voi mi lasciate andar con Dio, o voi a questa cosa trovate modo.
La donna udendo costui
parlare, il quale ella teneva mutolo, tutta stordì, e disse:
– Che è questo? Io
credeva che tu fossi mutolo.
– Madonna, – disse
Masetto – io era ben così, ma non per natura, anzi per una infermità che la
favella mi tolse, e solamente da prima questa notte la mi sento essere
restituita, di che io lodo Iddio quant'io posso.
La donna sel credette, e
domandollo che volesse dir ciò che egli a nove aveva a servire. Masetto le
disse il fatto. Il che la badessa udendo, s'accorse che monaca non avea che
molto più savia non fosse di lei; per che, come discreta, senza lasciar Masetto
partire, dispose di voler colle sue monache trovar modo a questi fatti, acciò
che da Masetto non fosse il monistero vituperato. Ed essendo di que' dì morto
il lor castaldo, di pari consenatimento, apertosi tra tutte ciò che per
addietro da tutte era stato fatto, con piacer di Masetto ordinarono che le
genti circustanti credettero che, per le loro orazioni e per gli meriti del
santo in cui intitolato era il monistero, a Masetto, stato lungamente mutolo,
la favella fosse restituita, e lui castaldo fecero; e per sì fatta maniera le
sue fatiche partirono, che egli le poté comportare. Nelle quali, come che esso
assai monachin generasse, pur sì discretamente procedette la cosa che niente se
ne sentì se non dopo la morte della badessa, essendo già Masetto presso che
vecchio e disideroso di tornarsi ricco a casa; la qual cosa saputa, di leggier
gli fece venir fatto. Così adunque Masetto vecchio, padre e ricco, senza aver
fatica di nutricar figliuoli o spesa di quegli, per lo suo avvedimento avendo
saputo la sua giovanezza bene adoperare, donde con una scure in collo partito
s'era se ne tornò, affermando che così trattava Cristo chi gli poneva le corna
sopra 'l cappello.
NOVELLA SECONDA
Un pallafrenier giace
con la moglie d'Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s'accorge; truovalo e
tondelo; il tonduto tutti gli altri tonde, e così campa della mala ventura.
Essendo la fine venuta
della novella di Filostrato, della quale erano alcuna volta un poco le donne
arrossate e alcun'altra se ne avevan riso, piacque alla reina che Pampinea
novellando seguisse. La quale, con ridente viso incominciando, disse.
Sono alcuni sì poco discreti
nel voler pur mostrare di conoscere e di sentire quello che per lor non fa di
sapere, che alcuna volta per questo riprendendo i disavveduti difetti in
altrui, si credono la loro vergogna scemare, dove essi l'accrescono in
infinito; e che ciò sia vero, nel suo contrario mostrandovi l'astuzia d'un
forse di minor valore tenuto che Masetto, nel senno d'un valoroso re, vaghe
donne, intendo che per me vi sia dimostrato. Agilulf re de' longobardi, sì come
i suoi predecessori avevan fatto, in Pavia città di Lombardia fermò il solio
del suo regno, avendo presa per moglie Teudelinga, rimasa vedova d'Autari re
stato similmente de' longobardi, la quale fu bellissima donna, savia e onesta
molto, ma male avventurata in amadore. Ed essendo alquanto per la virtù e per
lo senno di questo re Agilulf le cose de' longobardi prospere e in quiete,
avvenne che un pallafreniere della detta reina, uomo quanto a nazione di
vilissima condizione, ma per altro da troppo più che da così vil mestiere, e
della persona bello e grande così come il re fosse, senza misura della reina
s'innamorò. E per ciò che il suo basso stato non gli avea tolto che egli non
conoscesse questo suo amore esser fuor d'ogni convenienza, sì come savio, a
niuna persona il palesava, né eziandio a lei con gli occhi ardiva di scoprirlo.
E quantunque senza alcuna speranza vivesse di dover mai a lei piacere, pur seco
si gloriava che in alta parte avesse allogati i suoi pensieri; e, come colui
che tutto ardeva in amoroso fuoco, studiosamente faceva, oltre ad ogn'altro de'
suoi compagni, ogni cosa la qual credeva che alla reina dovesse piacere. Per
che interveniva che la reina, dovendo cavalcare, più volentieri il palla freno
da costui guardato cavalcava che alcuno altro; il che quando avveniva, costui
in grandissima grazia sel reputava; e mai dalla staffa non le si partiva, beato
tenendosi qualora pure i panni toccar le poteva.
Ma, come noi veggiamo
assai sovente avvenire, quanto la speranza diventa minore tanto l'amor maggior
farsi, così in questo povero pallafreniere avvenia, in tanto che gravissimo gli
era il poter comportare il gran disio così nascoso come facea, non essendo da
alcuna speranza atato; e più volte seco, da questo amor non potendo
disciogliersi, diliberò di morire. E pensando seco del modo, prese per partito
di voler questa morte per cosa per la quale apparisse lui morire per lo amore
che alla reina aveva portato e portava; e questa cosa propose di voler che tal
fosse, che egli in essa tentasse la sua fortuna in potere o tutto o parte aver
del suo disidero. Né si fece a voler dir parole alla reina o a voler per
lettere far sentire il suo amore, ché sapeva che in vano o direbbe o
scriverrebbe; ma a voler provare se per ingegno colla reina giacer potesse.
Né altro ingegno né via
c'era se non trovar modo come egli in persona del re, il quale sapea che del
continuo con lei non giacea, potesse a lei pervenire e nella sua camera
entrare.
Per che, acciò che
vedesse in che maniera e in che abito il re, quando a lei andava, andasse, più
volte di notte in una gran sala del palagio del re, la quale in mezzo era tra
la camera del re e quella della reina, si nascose; e in tra l'altre una notte
vide il re uscire della sua camera inviluppato in un gran mantello e aver
dall'una mano un torchietto acceso e dall'altra una bacchetta, e andare alla
camera della reina e senza dire alcuna cosa percuotere una volta o due l'uscio
della camera con quella bacchetta, e incontanente essergli aperto e toltogli di
mano il torchietto. La qual cosa venuta, e similmente vedutolo ritornare, pensò
di così dover fare egli altressì; e trovato modo d'avere un mantello simile a
quello che al re veduto avea e un torchietto e una mazzuola, e prima in una
stufa lavatosi bene, acciò che non forse l'odore del letame la reina noiasse o
la facesse accorgere dello inganno, con queste cose, come usato era, nella gran
sala si nascose. E sentendo che già per tutto si dormia, e tempo parendogli o
di dovere al suo disiderio dare effetto o di far via con alta cagione alla bramata
morte, fatto colla pietra e collo acciaio che seco portato avea un poco di
fuoco, il suo torchietto accese, e chiuso e avviluppato nel mantello se n'andò
all'uscio della camera e due volte il percosse colla bacchetta. La camera da
una cameriera tutta sonnochiosa fu aperta, e il lume preso e occultato; laonde
egli, senza alcuna cosa dire, dentro alla cortina trapassato e posato il
mantello, se n'entrò nel letto nel quale la reina dormiva. Egli disiderosamente
in braccio recatalasi, mostrandosi turbato (per ciò che costume del re esser
sapea che quando turbato era niuna cosa voleva udire), senza dire alcuna cosa o
senza essere a lui detta, più volte carnalmente la reina cognobbe. E come che
grave gli paresse il partire, pur temendo non la troppa stanza gli fosse
cagione di volgere l'avuto diletto in tristizia, si levò, e ripreso il suo
mantello e il lume, senza alcuna cosa dire se n'andò, e come più tosto potè si
tornò al letto suo.
Nel quale appena ancora
esser poteva, quando il re, levatosi, alla camera andò della reina, di che ella
si mara vigliò forte; ed essendo egli nel letto entrato e lietamente
salutatala, ella, dalla sua letizia preso ardire, disse:
– O signor mio, questa
che novità è stanotte? Voi vi partite pur testé da me; e oltre l'usato modo di
me avete preso piacere, e così tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi
fate.
Il re, udendo queste
parole, subitamente presunse la reina da similitudine di costumi e di persona
essere stata ingannata; ma, come savio, subitamente pensò, poi vide la reina
accorta non se n'era né alcuno altro, di non volernela fare accorgere. Il che
molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbon detto: – Io non ci fu'io, chi fu
colui che ci fu? come andò? chi ci venne? – Di che molte cose nate sarebbono,
per le quali egli avrebbe a torto contristata la donna e datole materia di
disiderare altra volta quello che già sentito avea; e quello che tacendo niuna
vergogna gli poteva tornare, parlando s'arebbe vitupero recato.
Risposele adunque il re,
più nella mente che nel viso o che nelle parole turbato:
– Donna, non vi sembro
io uomo da poterci altra volta essere stato e ancora appresso questa tornarci?
A cui la donna rispose:
– Signor mio, sì; ma
tuttavia io vi priego che voi guardiate alla vostra salute.
Allora il re disse:
– Ed egli mi piace di
seguire il vostro consiglio; e questa volta senza darvi più impaccio me ne vo'
tornare.
E avendo l'animo già
pieno d'ira e di mal talento, per quello che vedeva gli era stato fatto,
ripreso il suo mantello, s'uscì della camera e pensò di voler chetamente
trovare chi questo avesse fatto, imaginando lui della casa dovere essere, e
qualunque si fosse, non esser potuto di quella uscire.
Preso adunque un
picciolissimo lume in una lanternetta, se n'andò in una lunghissima casa che nel
suo palagio era sopra le stalle de' cavalli, nella quale quasi tutta la sua
famiglia in diversi letti dormiva; ed estimando che, qualunque fosse colui che
ciò fatto avesse che la donna diceva, non gli fosse ancora il polso e 'l
battimento del cuore per lo durato affanno potuto riposare, tacitamente,
cominciato dall'uno de' capi della casa, a tutti cominciò ad andare toccando il
petto per sapere se gli battesse.
Come che ciascuno altro
dormisse forte, colui che colla reina stato era non dormiva ancora; per la qual
cosa, vedendo venire il re e avvisandosi ciò che esso cercando andava, forte
cominciò a temere tanto che sopra il battimento della fatica avuta la paura
n'aggiunse un maggiore; e avvisossi fermamente che, se il re di ciò
s'avvedesse, senza indugio il facesse morire. E come che varie cose gli
andasser per lo pensiero di doversi fare, pur vedendo il re senza alcuna arme,
diliberò di far vista di dormire e d'attender quello che il re far dovesse.
Avendone adunque il re molti cerchi né alcuno trovandone il quale giudicasse
essere stato desso, pervenne a costui, e trovandogli batter forte il cuore,
seco disse: – Questi è desso –. Ma, sì come colui che di ciò che fare intendeva
niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra cosa gli fece se non che con un
paio di forficette, le quali portate avea, gli tondè alquanto dal l'una delle
parti i capelli, li quali essi a quel tempo portavano lunghissimi, acciò che a
quel segnale la mattina seguente il riconoscesse; e questo fatto, si dipartì, e
tornossi alla camera sua.
Costui, che tutto ciò
sentito avea, sì come colui che malizioso era, chiaramente s'avvisò per che
così segnato era stato; là onde egli senza alcuno aspettar si levò, e trovato
un paio di forficette, delle quali per avventura v'erano alcun paio per la
stalla per lo servigio de' cavalli, pianamente andando a quanti in quella casa
ne giacevano, a tutti in simil maniera sopra l'orecchie tagliò i ca pelli; e
ciò fatto, senza essere stato sentito, se ne tornò a dormire.
Il re levato la mattina,
comandò che avanti che le porti del palagio s'aprissono tutta la sua famiglia
gli venisse davanti; e così fu fatto. Li quali tutti, senza alcuna cosa in capo
davanti standogli, esso cominciò a guardare per riconoscere il tonduto da lui;
e veggendo la maggior parte di loro co' capelli ad un medesimo modo tagliati,
si maravigliò, e disse seco stesso: – Costui, il quale io vo cercando,
quantunque di bassa condizion sia, assai ben mostra d'essere d'alto senno –.
Poi, veggendo che senza romore non poteva avere quel ch'egli cercava, disposto
a non volere per piccola vendetta acquistar gran vergogna, con una sola parola
d'ammonirlo e dimostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque; e a tutti
rivolto disse:
– Chi 'l fece nol faccia
mai più, e andatevi con Dio. Un altro gli averebbe voluti far collare,
martoriare, esaminare, e domandare; e ciò facendo, avrebbe scoperto quello che
ciascun dee andar cercando di ricoprire; ed essendosi scoperto, ancora che
intera vendetta n'avesse presa, non scemata ma molto cresciuta n'avrebbe la sua
vergogna, e contaminata l'onestà della donna sua.
Coloro che quella parola
udirono si maravigliarono e lungamente fra sé esaminarono che avesse il re
voluto per quella dire; ma niuno ve ne fu che la 'ntendesse se non colui solo a
cui toccava. Il quale, sì come savio, mai, vivente il re, non la scoperse, né
più la sua vita in sì fatto atto commise alla fortuna.
NOVELLA TERZA
Sotto spezie di
confessione e di purissima conscienza una donna innamorata d'un giovane induce
un solenne frate, senza avvedersene egli, a dar modo che 'l piacer di lei
avesse intero effetto.
Taceva già Pampinea, e
l'ardire e la cautela del pallafreniere era dà più di loro stata lodata, e
similmente il senno del re, quando la reina, a Filomena voltatasi, le 'mpose il
seguitare; per la qual cosa Filomena vezzosamente così incominciò a parlare.
Io intendo di
raccontarvi una beffe che fu da dovero fatta da una bella donna ad uno solenne
religioso, tanto più ad ogni secolar da piacere, quanto essi, il più
stoltissimi e uomini di nuove maniere e costumi, si credono più che gli altri
in ogni cosa valere e sapere, dove essi di gran lunga sono da molto meno, sì
come quegli che per viltà d'animo non avendo argomento, come gli altri uomini,
di civanzarsi, si rifuggono dove aver possano da mangiar come il porco. La
quale, o piacevoli donne, io racconterò non solamente per seguire l'ordine
imposto, ma ancora per farvi accorte che eziandio i religiosi, à quali noi,
oltre modo credule, troppa fede prestiamo, possono essere e sono alcuna volta,
non che dagli uomini, ma da alcuna di noi cautamente beffati.
Nella nostra città, più
d'inganni piena che d'amore o di fede, non sono ancora molti anni passati, fu
una gentil donna di bellezze ornata e di costumi, d'altezza d'animo e di
sottili avvedimenti quanto alcun'altra dalla natura dotata, il cui nome, né
ancora alcuno altro che alla presente novella appartenga, come che io gli
sappia, non intendo di palesare, per ciò che ancora vivono di quegli che per
questo si caricherebber di sdegno, dove di ciò sarebbe con risa da trapassare.
Costei adunque, d'alto
legnaggio veggendosi nata e maritata ad uno artefice lanaiuolo, per ciò che
ricchissimo era, non potendo lo sdegno dell'animo porre in terra, per lo quale
estimava niuno uomo di bassa condizione, quantunque ricchissimo fosse, esser di
gentil donna degno; e veggendo lui ancora con tutte le sue ricchezze da niuna
altra cosa essere più avanti che da saper divisare un mescolato o fare ordire
una tela o con una filatrice disputare del filato, propose di non volere de'
suoi abbracciamenti in alcuna maniera se non in quanto negare non gli potesse;
ma di volere a soddisfazione di sé medesima trovare alcuno, il quale più di ciò
che il lanaiuolo le paresse che fosse degno, e innamorossi d'uno assai valoroso
uomo e di mezza età, tanto che qual dì nol vedeva, non poteva la seguente notte
senza noia passare. Ma il valente uomo, di ciò non accorgendosi, niente ne
curava; ed ella, che molto cauta era, né per ambasciata di femina né per
lettera ardiva di fargliele sentire, temendo de' pericoli possibili ad
avvenire. Ed essendosi accorta che costui usava molto con un religioso, il
quale, quantunque fosse tondo e grosso uomo, nondimeno, per ciò che di
santissima vita era, quasi da tutti avea di valentissimo frate fama, estimò
costui dovere essere ottimo mezzano tra lei e il suo amante; e avendo seco
pensato che modo tener dovesse, se n'andò a convenevole ora alla chiesa dove
egli dimorava, e fattosel chiamare, disse, quando gli piacesse, da lui si volea
confessare.
Il frate, vedendola, ed
estimandola gentil donna, l'ascoltò volentieri; ed essa dopo la confessione
disse:
– Padre mio, a me
convien ricorrere a voi per aiuto e per consiglio di ciò che voi udirete. Io
so, come colei che detto ve l'ho, che voi conoscete i miei parenti e 'l mio
marito, dal quale io sono più che la vita sua amata, né alcuna cosa disidero
che da lui, sì come da ricchissimo uomo e che 'l può ben fare, io non l'abbia
incontanente, per le quali cose io più che me stessa l'amo; e, lasciamo stare
che io facessi, ma se io pur pensassi cosa niuna che contro al suo onore e
piacer fosse, niuna rea femina fu mai del fuoco degna come sarei io.
Ora uno, del quale nel
vero io non so il nome, ma per sona dabbene mi pare, e, se io non ne sono
ingannata, usa molto con voi, bello e grande della persona, vestito di panni
bruni assai onesti, forse non avvisandosi che io così fatta intenzione abbia
come io ho, pare che m'abbia posto l'assedio, né posso farmi né ad uscio né a
finestra, né uscir di casa, che egli incontanente non mi si pari innanzi; e
maravigliom'io come egli non è ora qui; di che io mi dolgo forte, per ciò che
questi così fatti modi fanno sovente senza colpa alle oneste donne acquistar
biasimo. Hommi posto in cuore di fargliele alcuna volta dire à miei fratelli;
ma poscia m'ho pensato che gli uomini fanno alcuna volta l'ambasciate per modo
che le risposte seguitan cattive, di che nascon parole e dalle parole si
perviene à fatti; per che, acciò che male e scandalo non ne nascesse, me ne son
taciuta, e diliberami di dirlo più tosto a voi che ad altrui, sì perché pare
che suo amico siate, sì ancora perché a voi sta bene di così fatte cose, non
che gli amici, ma gli strani ripigliare. Per che io vi priego per solo Iddio
che voi di ciò il dobbiate riprendere e pregare che più questi modi non tenga.
Egli ci sono dell'altre donne assai le quali per avventura son disposte a
queste cose, e piacerà loro d'esser guatate e vagheggiate da lui, là dove a me
è gravissima noia, sì come a colei che in niuno atto ho l'animo disposto a tal
materia. E detto questo, quasi lagrimar volesse, bassò la testa. Il santo frate
comprese incontanente che di colui dicesse di cui veramente diceva, e
commendata molto la donna di questa sua disposizion buona, fermamente credendo
quello esser vero che ella diceva, le promise d'operar sì e per tal modo che
più da quel cotale non le sarebbe dato noia; e conoscendola ricca molto, le
lodò l'opera della carità e della limosina, il suo bisogno raccontandole. A cui
la donna disse:
– Io ve ne priego per
Dio; e s'egli questo negasse, sicuramente gli dite che io sia stata quella che
questo v'abbia detto e siamevene doluta.
E quinci, fatta la
confessione e presa la penitenza, ricordandosi de' conforti datile dal frate
dell'opera della limosina, empiutagli nascosamente la man di denari, il pregò
che messe dicesse per l'anima dei morti suoi; e dai piè di lui levatasi, a casa
se ne tornò.
Al santo frate non dopo
molto, sì come usato era, venne il valente uomo, col quale poi che d'una cosa e
d'altra ebbero insieme alquanto ragionato, tiratol da parte, per assai cortese
modo il riprese dello intendere e del guardare che egli credeva che esso
facesse a quella donna, sì come ella gli aveva dato ad intendere. Il valente
uomo si maravigliò, sì come colui che mai guatata non l'avea e radissime volte
era usato di passare davanti a casa sua, e cominciò a volersi scusare; ma il
frate non lo lasciò dire, ma disse egli:
– Or non far vista di
maravigliarti, né perder parole in negarlo, per ciò che tu non puoi; io non ho
queste cose sapute dà vicini; ella medesima, forte di te dolendosi, me l'ha
dette. E quantunque a te queste ciance omai non ti stean bene, ti dico io di
lei cotanto, che, se mai io ne trovai alcuna di queste sciocchezze schifa, ella
è dessa; e per ciò, per onor di te e per consolazione di lei, ti priego te ne
rimanghi e lascila stare in pace.
Il valente uomo, più
accorto che 'l santo frate, senza troppo indugio la sagacità della donna
comprese, e mostrando alquanto di vergognarsi, disse di più non intramettersene
per innanzi; e dal frate partitosi, dalla casa n'andò della donna, la quale
sempre attenta stava ad una picciola finestretta per doverlo vedere, se vi
passasse. E vedendol venire, tanto lieta e tanto graziosa gli si mostrò, che
egli assai bene potè comprendere sé avere il vero compreso dalle parole del
frate; e da quel dì innanzi assai cautamente, con suo piacere e con grandissimo
diletto e consolazion della donna, faccendo sembianti che altra faccenda ne
fosse cagione, continuò di passar per quella contrada. Ma la donna, dopo
alquanto già accortasi che ella a costui così piacea come egli a lei,
disiderosa di volerlo più accendere e certificare dello amore che ella gli
portava, preso luogo e tempo, al santo frate se ne tornò, e postaglisi nella
chiesa a sedere à piedi, a piagnere incominciò.
Il frate, questo
vedendo, la domandò pietosamente che novella ella avesse.
La donna rispose:
– Padre mio, le novelle
che io ho non sono altre che di quel maledetto da Dio vostro amico, di cui io
mi vi ramaricai l'altr'ieri, per ciò che io credo che egli sia nato per mio
grandissimo stimolo e per farmi far cosa, che io non sarò mai lieta né mai
ardirò poi di più pormivi a' piedi.
– Come! – disse il frate
– non s'è egli rimaso di darti più noia?
– Certo no, – disse la
donna – anzi, poi che io mi vene dolfi, quasi come per un dispetto, avendo
forse avuto per male che io mi ve ne sia doluta, per ogni volta che passar vi
solea, credo che poscia vi sia passato sette. E or volesse Iddio che il
passarvi e il guatarmi gli fosse bastato, ma egli è stato sì ardito e sì
sfacciato, che pure ieri mi mandò una femina in casa con sue novelle e con sue
frasche, e quasi come se io non avessi delle borse e delle cintole, mi mandò
una borsa e una cintola; il che io ho avuto e ho sì forte per male, che io
credo, se io non avessi guardato al peccato, e poscia per vostro amore, io
avrei fatto il diavolo, ma pure mi son rattemperata, né ho voluto fare né dire
cosa alcuna che io non vel faccia prima assapere.
E oltre a questo, avendo
io già renduta indietro la borsa e la cintola alla feminetta che recata l'avea,
che gliele riportasse, e brutto commiato datole, temendo che ella per sé non la
tenesse e a lui; dicesse che io l'avessi ricevuta, sì com'io intendo che elle
fanno alcuna volta, la richiamai indietro e piena di stizza gliele tolsi di
mano e holla recata a voi, acciò che voi gliele rendiate e gli diciate che io
non ho bisogno di sue cose per ciò che, la mercé di Dio e del marito mio io ho
tante borse e tante cintole che io ve l'affogherei entro. E appresso questo, sì
come a padre mi vi scuso che, se egli di questo non si rimane, io il dirò al
marito mio e a' fratei miei, e avvegnane che può; ché io ho molto più caro che
egli riceva villania, se ricevere ne la dee, che io abbia biasimo per lui:
frate, bene sta.
E detto questo, tuttavia
piagnendo forte, si trasse di sotto alla guarnacca una bellissima e ricca borsa
con una leggiadra e cara cinturetta, e gittolle in grembo al frate; il quale,
pienamente credendo ciò che la donna diceva, turbato oltre misura le prese, e
disse:
– Figliuola, se tu di
queste cose ti crucci, io non me ne maraviglio né te ne so ripigliare; ma lodo
molto che tu in questo seguiti il mio consiglio. Io il ripresi l'altr'ieri, ed
egli m'ha male attenuto quello che egli mi promise: per che, tra per quello e
per questo che nuovamente fatto ha, io gli credo per sì fatta maniera riscaldare
gli orecchi; che egli più briga non ti darà; e tu colla benedizion d'Iddio non
ti lasciassi vincer tanto all'ira, che tu ad alcuno dei tuoi il dicessi, ché
gli ne potrebbe troppo di mal seguire. Né dubitar che mai di questo biasimo ti
segua, ché io sarò sempre e dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini fermissimo
testimonio della tua onestà.
La donna fece sembiante
di riconfortarsi alquanto, e lasciate queste parole, come colei che l'avarizia
sua e degli altri conoscea, disse:
– Messere, a queste
notti mi sono appariti più miei parenti, e parmi che egli sieno in grandissime
pene, e non domandino altro che limosine, e spezialmente la mamma mia, la quale
mi pare sì afflitta e cattivella, che è una pietà a vedere. Credo che ella
porti grandissime pene di vedermi in questa tribulazione di questo nemico
d'Iddio, e per ciò vorrei che voi mi diceste per l'anime loro le quaranta messe
di san Grigorio e delle vostre orazioni, acciò che Iddio gli tragga di quel
fuoco pennace –; e così detto, gli pose in mano un fiorino.
Il santo frate
lietamente il prese, e con buone parole e con molti essempli confermò la
divozion di costei e, datale la sua benedizione, la lasciò andare.
E partita la donna, non
accorgendosi ch'egli era uccellato, mandò per l'amico suo; il qual venuto, e
vedendol turbato, in contanente s'avvisò che egli avrebbe novelle dalla donna,
e aspettò che dir volesse il frate. Il quale, ripetendogli le parole altre
volte dettegli e di nuovo ingiuriosamente e crucciato parlandogli, il riprese
molto di ciò che detto gli avea la donna che egli doveva aver fatto.
Il valente uomo, che
ancor non vedea a che il frate riuscir volesse, assai tiepidamente negava sé
aver mandata la borsa e la cintura, acciò che al frate non togliesse fede di
ciò, se forse data gliele avesse la donna. Ma il frate, acceso forte, disse:
– Come il puo'tu negare,
malvagio uomo? Eccole, ché ella medesima piagnendo me l'ha recate; vedi se tu
le conosci! Il valente uomo, mostrando di vergognarsi forte, disse:
– Mai sì che io le
conosco, e confessovi che io feci male, e giurovi che, poi che io così la
veggio disposta, che mai di questo voi non sentirete più parola.
Ora le parole fur molte;
alla fine il frate montone diede la borsa e la cintura allo amico suo, e dopo
molto averlo ammaestrato e pregato che più a queste cose non attendesse, ed
egli avendogliele promesso, il licenziò. Il valente uomo, lietissimo e della
certezza che aver gli parea dello amor della donna e del bel dono, come dal
frate partito fu, in parte n'andò dove cautamente fece alla sua donna vedere
che egli avea e l'una e l'altra cosa; di che la donna fu molto contenta, e più
ancora per ciò che le parea che 'l suo avviso andasse di bene in meglio. E
niuna altra cosa aspettando se non che il marito andasse in alcuna parte per
dare all'opera compimento, avvenne che per alcuna cagione non molto dopo a
questo convenne al marito andare infino a Genova.
E come egli fu la
mattina montato a cavallo e andato via, così la donna n'andò al santo frate e
dopo molte querimonie piagnendo gli disse:
– Padre mio, or vi dico
io bene che io non posso più sofferire; ma per ciò che l'altr'ieri io vi
promisi di niuna cosa farne che io prima nol vi dicessi, son venuta ad
iscusarmivi, e acciò che voi crediate che io abbia ragione e di piagnere e di
ramaricarmi, io vi voglio dire ciò che 'l vostro amico, anzi dia volo del
ninferno, mi fece stamane poco innanzi mattutino.
Io non so qual mala
ventura gli facesse assapere che il marito mio andasse iermattina a Genova, se
non che stamane, all'ora che io v'ho detta, egli entrò in un mio giardino e
venne sene su per uno albero alla finestra della camera mia, la quale è sopra
il giardino, e già aveva la finestra aperta e voleva nella camera entrare,
quando io destatami subito mi levai, e aveva cominciato a gridare e per Dio e
per voi, dicendomi chi egli era; laonde io, udendolo, per amor di voi tacqui, e
ignuda come io nacqui corsi e serragli la finestra nel viso, ed egli nella sua
mal'ora credo che se ne andasse, perciò che poi più nol sentii. Ora, se questa
è bella cosa ed è da sofferire, vedetel voi; io per me non intendo di più
comportargliene, anzi ne gli ho io bene per amor di voi sofferte troppe. Il
frate, udendo questo, fu il più turbato uomo del mondo, e non sapeva che dirsi,
se non che più volte la domandò se ella aveva ben conosciuto che egli non fosse
stato altri.
A cui la donna rispose:
– Lodato sia Iddio, se
io non conosco ancor lui da un altro! Io vi dico ch'e'fu egli, e perche'egli il
negasse, non gliel credete.
– Figliuola, qui non ha
altro da dire, se non che questo è stato troppo grande ardire e troppo mal
fatta cosa, e tu facesti quello che far dovevi di mandarnelo come facesti. Ma
io ti voglio pregare, poscia che Iddio ti guardò di vergogna, che, come due
volte seguito hai il mio consiglio, così ancora questa volta facci, cioè che
senza dolertene ad alcuno tuo parente lasci fare a me, a vedere se io posso
raffrenare questo diavolo scatenato, che io credeva che fosse un santo; e se io
posso tanto fare che io il tolga da questa bestialità, bene sta; e se io non
potrò, infino ad ora con la mia benedizione ti do la parola che tu ne facci
quello che l'animo ti giudica che ben sia fatto.
– Ora ecco, – disse la
donna – per questa volta io non vi voglio turbare né disubidire; ma sì
adoperate che egli si guardi di più noiarmi, ché io vi prometto di non tornar
più per questa cagione a voi –; e senza più dire, quasi turbata, dal frate si
partì.
Né era appena ancor fuor
della chiesa la donna, che il valente uomo sopravenne e fu chiamato dal frate,
al quale, da parte tiratol, esso disse la maggior villania che mai ad uomo
fosse detta, disleale e spergiuro e traditor chiamandolo. Costui, che già due
altre volte conosciuto avea che montavano i mordimenti di questo frate, stando
attento, e con risposte perplesse ingegnandosi di farlo parlare, primieramente
disse:
– Perché questo cruccio,
messere? Ho io crocifisso Cristo?
A cui il frate rispose:
– Vedi svergognato! Odi
ciò ch'e'dice! Egli parla né più né meno come se uno anno o due fosser passati
e per la lunghezza del tempo avesse le sue tristizie e disonestà dimenticate.
Etti egli da stamane a mattutino in qua uscito di mente l'avere altrui
ingiuriato? Ove fostù stamane poco avanti al giorno?
Rispose il valente uomo:
– Non so io ove io mi
fui; molto tosto ve n'è giunto il messo.
– Egli è il vero, –
disse il frate – che il messo me n'è giunto; io m'avviso che tu ti credesti,
per ciò che il marito non c'era, che la gentil donna ti dovesse incontanente ricevere
in braccio. Hi meccere: ecco onesto uomo! è divenuto andator di notte, apritor
di giardini e salitor d'alberi. Credi tu per improntitudine vincere la santità
di questa donna, che le vai alle finestre su per gli alberi la notte? Niuna
cosa è al mondo che a lei dispiaccia, come fai tu; e tu pur ti vai riprovando.
In verità, lasciamo stare che ella te l'abbia in molte cose mostrato, ma tu ti
se' molto bene ammendato per li miei gastigamenti. Ma così ti vo' dire: ella ha
infino a qui, non per amore che ella ti porti ma ad instanzia de' prieghi miei,
taciuto di ciò che fatto hai; ma essa non tacerà più; conceduta l'ho la
licenzia che, se tu più in cosa alcuna le spiaci, ch'ella faccia il parer suo.
Che farai tu, se ella il dice à fratelli? Il valente uomo, avendo assai
compreso di quello che gli bisognava, come meglio seppe e potè con molte ampie
promesse racchetò il frate; e da lui partitosi, come il mattutino della
seguente notte fu, così egli nel giardino entrato e su per lo albero salito e
trovata la finestra aperta, se n'entrò nella camera, e come più tosto potè
nelle braccia della sua bella donna si mise. La quale, con grandissimo disidero
avendolo aspettato, lietamente il ricevette, dicendo:
– Gran mercé a messer lo
frate, che così bene t'insegnò la via da venirci. E appresso, prendendo l'un
dell'altro piacere, ragionando e ridendo molto della simplicità del frate
bestia, biasimando i lucignoli e' pettini e gli scardassi, insieme con gran
diletto si sollazzarono. E dato ordine à lor fatti, sì fecero, che senza aver
più a tornare a messer lo frate, molte altre notti con pari letizia insieme si
ritrovarono; alle quali io priego Iddio per la sua santa misericordia che tosto
conduca me e tutte l'anime cristiane che voglia ne hanno.
NOVELLA QUARTA
Don Felice insegna a
frate Puccio come egli diverrà beato faccendo una sua penitenzia; la quale
frate Puccio fa, e don Felice in questo mezzo con la moglie del frate si dà
buon tempo.
Poi che Filomena, finita
la sua novella, si tacque, avendo Dioneo con dolci parole molto lo 'ngegno
della donna commendato e ancora la preghiera da Filomena ultimamente fatta, la
reina ridendo guardò verso Panfilo, e disse:
– Ora appresso, Panfilo,
continua con alcuna piacevol cosetta il nostro diletto.
Panfilo prestamente rispose
che volontieri, e cominciò. Madonna, assai persone sono che, mentre che essi si
sforzano d'andarne in paradiso, senza avvedersene vi mandano altrui; il che ad
una nostra vicina, non ha ancor lungo tempo, sì come voi potrete udire,
intervenne. Secondo che io udii già dire, vicino di san Brancazio stette un
buon uomo e ricco, il quale fu chiamato Puccio di Rinieri, che poi, essendo
tutto dato allo spirito, si fece bizzoco di quegli di san Francesco, e fu
chiamato frate Puccio, e seguendo questa sua vita spirituale, per ciò che altra
famiglia non avea che una sua donna e una fante, né per questo ad alcuna arte
attender gli bisognava, usava molto la chiesa. E per ciò che uomo idiota era e
di grossa pasta, diceva suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle
messe, né mai falliva che alle laude che cantavano i secolari esso non fosse, e
digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi che egli era degli scopatori.
La moglie, che monna
Isabetta avea nome, giovane ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella e
ritondetta che pareva una mela casolana, per la santità del marito e forse per
la vecchiezza, faceva molto spesso troppo più lunghe diete che voluto non
avrebbe; e, quand'ella si sarebbe voluta dormire o forse scherzar con lui, ed
egli le raccontava la vita di Cristo e le prediche di frate Nastagio o il
lamento della Maddalena o così fatte cose.
Tornò in questi tempi da
Parigi un monaco chiamato don Felice, conventuale di san Brancazio, il quale
assai giovane e bello della persona era e d'aguto ingegno e di profonda
scienza, col qual frate Puccio prese una stretta dimestichezza. E per ciò che
costui ogni suo dubbio molto bene gli solvea, e oltre a ciò, avendo la sua
condizion conosciuta, gli si mostrava santissimo, se lo incominciò frate Puccio
a menare talvolta a casa e a dargli desinare e cena, secondo che fatto gli
venia; e la donna altressì per amor di fra Puccio era sua dimestica divenuta e
volentier gli faceva onore.
Continuando adunque il
monaco a casa di fra Puccio e veggendo la moglie così fresca e ritondetta,
s'avvisò qual dovesse essere quella cosa della quale ella patisse maggior
difetto; e pensossi, se egli potesse, per tor fatica a fra Puccio, di volerla
supplire. E, postole l'occhio addosso e una volta e altra bene astutamente,
tanto fece che egli l'accese nella mente quello medesimo disidero che aveva
egli; di che accortosi il monaco, come prima destro gli venne, con lei ragionò
il suo piacere. Ma, quantunque bene la trovasse disposta a dover dare all'opera
compimento, non si poteva trovar modo, per ciò che costei in niun luogo del
mondo si voleva fidare ad esser col monaco se non in casa sua; e in casa sua
non si potea, perché fra Puccio non andava mai fuor della terra; di che il
monaco avea gran malinconia. E dopo molto gli venne pensato un modo da dover
potere essere colla donna in casa sua senza sospetto, non ostante che fra
Puccio in casa fosse. Ed essendosi un dì andato a star con lui frate Puccio,
gli disse così:
– Io ho già assai volte
compreso, fra Puccio, che tutto il tuo disidero è di divenir santo, alla qual
cosa mi par che tu vadi per una lunga via, là dove ce n'è una che è molto
corta, la quale il papa e gli altri suoi maggior prelati, che la sanno e usano,
non vogliono che ella si mostri; per ciò che l'ordine chericato, che il più di
limosine vive, incontanente sarebbe disfatto, sì come quello al quale più i
secolari né con limosine né con altro attenderebbono. Ma, per ciò che tu se'
mio amico e ha' mi onorato molto, dove io credessi che tu a niuna persona del
mondo l'appalesassi, e volessila seguire, io la t'insegnerei. Frate Puccio,
divenuto disideroso di questa cosa, prima cominciò a pregare con grandissima
instanzia che gliele insegnasse, e poi a giurare che mai, se non quanto gli
piacesse, ad alcuno nol direbbe, affermando che, se tal fosse che esso seguir
la potesse, di mettervisi. – Poi che tu così mi prometti, – disse il monaco – e
io la ti mosterrò. Tu dei sapere che i santi dottori tengono che a chi vuol
divenir beato si convien fare la penitenzia che tu udirai; ma intendi
sanamente: io non dico, che dopo la penitenzia tu non sii peccatore come tu ti
se'; ma avverrà questo, che i peccati che tu hai infino all'ora della
penitenzia fatti, tutti si purgheranno e sarannoti per quella perdonati; e
quegli che tu farai poi non saranno scritti a tua dannazione, anzi se
n'andranno con l'acqua benedetta, come ora fanno i veniali.
Conviensi adunque l'uomo
principalmente con gran diligenzia confessare de' suoi peccati quando viene a
cominciar la penitenzia; e appresso questo li convien cominciare un digiuno e
una astinenzia grandissima, la qual convien che duri quaranta dì, ne' quali,
non che da altra femina, ma da toccare la propria tua moglie ti conviene
astenere. E oltre a questo si conviene avere nella tua propria casa alcun luogo
donde tu possi la notte vedere il cielo, e in su l'ora della compieta andare in
questo luogo, e quivi avere una tavola molto larga ordinata in guisa che,
stando tu in pie', vi possi le reni appoggiare, e tenendo gli piedi in terra
distender le braccia a guisa di crucifisso; e se tu quelle volessi appoggiare
ad alcun cavigliuolo, puoil fare; e in questa maniera guardando il cielo, star
senza muoverti punto insino a matutino. E, se tu fossi litterato, ti
converrebbe in questo mezzo dire certe orazioni che io ti darei; ma, perché non
sé, ti converrà dire trecento paternostri con trecento avemarie a reverenzia
della Trinità, e riguardando il cielo, sempre aver nella memoria Iddio essere
stato creatore del cielo e della terra, e la passion di Cristo, stando in
quella maniera che stette egli in su la croce. Poi, come matutino suona, te ne
puoi, se tu vuogli, andare e così vestito gittarti sopra 'l letto tuo e
dormire: e la mattina appresso si vuole andare alla chiesa, e quivi udire
almeno tre messe e dir cinquanta paternostri con altrettante avemarie; e
appresso questo con simplicità fare alcuni tuoi fatti, se a far n'hai alcuno, e
poi desinare, ed essere appresso al vespro nella chiesa e quivi dire certe
orazioni che io ti darò scritte, senza le quali non si può fare; e poi in su la
compieta ritornare al modo detto. E faccendo questo, sì come io feci già, spero
che anzi che la fine della penitenzia venga, tu sentirai maravigliosa cosa
della beatitudine etterna, se con divozione fatta l'avrai.
Frate Puccio disse
allora:
– Questa non è troppo
grave cosa, né troppo lunga, e deesi assai ben poter fare; e per ciò io voglio
al nome di Dio cominciar domenica.
E da lui partitosene e
andatosene a casa, ordinatamente, con sua licenzia perciò, alla moglie disse
ogni cosa. La donna intese troppo bene per lo star fermo infino a matutino
senza muoversi ciò che il monaco voleva dire; per che, parendole assai buon
modo, disse che di questo e d'ogn'altro bene, che egli per l'anima sua face va,
ella era contenta, e che, acciò che Iddio gli facesse la sua penitenzia
profittevole, ella voleva con esso lui digiunare, ma fare altro no.
Rimasi adunque in
concordia, venuta la domenica, frate Puccio cominciò la sua penitenzia, e
messer lo monaco, convenutosi colla donna, ad ora che veduto non poteva essere,
le più delle sere con lei se ne veniva a cenare, seco sempre recando e ben da
mangiare e ben da bere, poi con lei si giaceva infino all'ora del matutino, al
quale levandosi se n'andava, e frate Puccio tornava al letto.
Era il luogo, il quale
frate Puccio aveva alla sua penitenzia eletto, allato alla camera nella quale
giaceva la donna, né da altro era da quella diviso che da un sottilissimo muro;
per che, ruzzando messer lo monaco troppo colla donna alla scapestrata ed ella
con lui, parve a frate Puccio sentire alcuno dimenamento di palco della casa;
di che, avendo già detti cento de' suoi paternostri, fatto punto quivi, chiamò
la donna senza muoversi, e domandolla ciò che ella faceva.
La donna, che
motteggevole era molto, forse cavalcando allora senza sella la bestia di san
Benedetto o vero di san Giovanni Gualberto, rispose:
– Gnaffe, marito mio, io
mi dimeno quanto io posso. Disse allora frate Puccio:
– Come ti dimeni? Che
vuol dir questo dimenare?
La donna ridendo, che e
di buona aria e valente donna era, e forse avendo cagion di ridere, rispose:
– Come non sapete voi
quello che questo vuol dire? Ora io ve l'ho udito dire mille volte: chi la sera
non cena, tutta notte si dimena.
Credettesi frate Puccio
che il digiunare, il quale ella a lui mostrava di fare, le fosse cagione di non
poter dormire, e per ciò per lo letto si dimenasse, per che egli di buona fede
disse:
– Donna, io t'ho ben
detto, non digiunare; ma, poiché pur l'hai voluto fare, non pensare a ciò,
pensa di riposarti; tu dai tali volte per lo letto, che tu fai dimenar ciò che
ci è.
Disse allora la donna:
– Non ve ne caglia no;
io so ben ciò ch'i'mi fo; fate pur ben voi, ché io farò bene io, se io potrò.
Stettesi adunque cheto
frate Puccio e rimise mano à suoi paternostri; e la donna e messer lo monaco da
questa notte innanzi, fatto in altra parte della casa ordinare un letto, in
quello, quanto durava il tempo della penitenzia di frate Puccio, con
grandissima festa si stavano, e ad una ora il monaco se n'andava e la donna al
suo letto tornava, e poco stante dalla penitenzia a quello se ne venia frate
Puccio.
Continuando adunque in
così fatta maniera il frate la penitenzia e la donna col monaco il suo diletto,
più volte motteggiando disse con lui:
– Tu fai fare la
penitenzia a frate Puccio, per la quale noi abbiam guadagnato il paradiso.
E parendo molto bene
stare alla donna, sì s'avvezzò à cibi del monaco che, essendo dal marito
lungamente stata tenuta in dieta, ancora che la penitenzia di frate Puccio si
consumasse, modo trovò di cibarsi in altra parte con lui, e con discrezione
lungamente ne prese il suo piacere.
Di che, acciò che
l'ultime parole non sieno discordanti alle prime, avvenne che, dove frate
Puccio, faccendo penitenzia sé credette mettere in paradiso, egli vi mise il
monaco, che da andarvi tosto gli avea mostrata la via, e la moglie, che con lui
in gran necessità vivea di ciò che messer lo monaco, come misericordioso, gran
divizia le fece.
NOVELLA QUINTA
Il Zima dona a messer Francesco
Vergellesi un suo pallafreno, e per quello con licenzia di lui parla alla sua
donna ed, ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondo la sua
risposta poi l'effetto segue.
Aveva Panfilo, non senza
risa delle donne, finita la novella di frate Puccio, quando donnescamente la
reina ad Elissa impose che seguisse. La quale, anzi acerbetta che no, non per
malizia ma per antico costume, così cominciò a parlare.
Credonsi molti, molto
sappiendo, che altri non sappi nulla, li quali spesse volte, mentre altrui si
credono uccellare, dopo il fatto sé da altrui essere stati uccellati conoscono;
per la qual cosa io reputo gran follia quella di chi si mette senza bisogno a
tentar le forze dello altrui ingegno. Ma perché forse ogn'uomo della mia oppinione
non sarebbe, quello che ad un cavalier pistolese n'addivenisse, l'ordine dato
del ragionar seguitando, mi piace di raccontarvi.
Fu in Pistoia nella
famiglia dei Vergellesi un cavalier nominato messer Francesco, uomo molto ricco
e savio e avveduto per altro, ma avarissimo senza modo; il quale, dovendo andar
podestà di Melano, d'ogni cosa opportuna a dovere onorevolmente andare fornito
s'era, se non d'un pallafreno solamente che bello fosse per lui; né trovandone
alcuno che gli piacesse, ne stava in pensiero.
Era allora un giovane in
Pistoia, il cui nome era Ricciardo, di piccola nazione ma ricco molto, il quale
sì ornato e sì pulito della persona andava, che generalmente da tutti era
chiamato il Zima, e avea lungo tempo amata e vagheggiata infelicemente la donna
di messer Francesco, la quale era bellissima e onesta molto. Ora aveva costui
un de' più belli pallafreni di Toscana e avevalo molto caro per la sua
bellezza; ed essendo ad ogn'uom publico lui vagheggiare la moglie di messer
Francesco, fu chi gli disse che, se egli quello addimandasse, che egli
l'avrebbe per l'amore il quale il Zima alla sua donna portava.
Messer Francesco, da
avarizia tirato, fattosi chiamare il Zima, in vendita gli domandò il suo
pallafreno, acciò che il Zima gliele profferesse in dono.
Il Zima, udendo ciò, gli
piacque, e rispose al cavaliere:
- Messere, se voi mi
donaste ciò che voi avete al mondo, voi non potreste per via di vendita avere
il mio pallafreno, ma in dono il potreste voi bene avere, quando vi piacesse,
con questa condizione che io, prima che voi il prendiate, possa con la grazia
vostra e in vostra presenzia parlare alquante parole alla donna vostra, tanto
da ogn'uom separato che io da altrui che da lei udito non sia.
Il cavaliere, da
avarizia tirato e sperando di dover beffar costui, rispose che gli piacea, e
quantunque egli volesse; e lui nella sala del suo palagio lasciato, andò nella
camera alla donna, e quando detto l'ebbe come agevolmente poteva il pallafreno
guadagnare, le impose che ad udire il Zima venisse; ma ben si guardasse che a
niuna cosa che egli dicesse rispondesse né poco né molto. La donna biasimò
molto questa cosa, ma pure, convenendole seguire i piaceri del marito, disse di
farlo; e appresso al marito andò nella sala ad udire ciò che il Zima volesse
dire. Il quale, avendo col cavaliere i patti rifermati, da una parte della sala
assai lontano da ogn'uomo colla donna si pose a sedere, e così cominciò a dire:
– Valorosa donna, egli
mi pare esser certo che voi siete sì savia, che assai bene, già è gran tempo,
avete potuto comprendere a quanto amor portarvi m'abbia condotto la vostra
bellezza, la qual senza alcun fallo trapassa quella di ciascun'altra che veder
mi paresse giammai; lascio stare de' costumi laudevoli e delle virtù singolari
che in voi sono, le quali avrebbon forza di pigliare ciascuno alto animo di
qualunque uomo. E per ciò non bisogna che io vi dimostri con parole quello
essere stato il maggiore e il più fervente che mai uomo ad alcuna donna
portasse; e così senza fallo sarà mentre la mia misera vita sosterrà questi
membri, e ancor più; che', se di là come di qua s'ama, in perpetuo v'amerò. E
per questo vi potete render sicura che niuna cosa avete, qual che ella si sia o
cara o vile, che tanto vostra possiate tenere e così in ogni atto farne conto
come di me, da quanto che io mi sia, e il simigliante delle mie cose. E acciò
che voi di questo prendiate certissimo argomento, vi dico che io mi reputerei
maggior grazia che voi cosa che io far potessi che vi piacesse mi comandaste,
che io non terrei che, comandando io, tutto il mondo prestissimo m'ubbidisse.
Adunque, se così son vostro come udite che sono, non immeritamente ardirò di
porgere i prieghi miei alla vostra altezza, dalla qual sola ogni mia pace, ogni
mio bene e la mia salute venir mi puote, e non altronde; e sì come umilissimo
servidor vi priego, caro mio bene e sola speranza dell'anima mia, che nello
amoroso fuoco sperando in voi si nutrica, che la vostra benignità sia tanta e
sì ammollita la vostra passata durezza verso di me dimostrata, che vostro sono,
che io, dalla vostra pietà riconfortato, possa dire che, come per la vostra
bellezza innamorato sono, così per quella aver la vita, la quale, se à miei
prieghi l'altiero vostro animo non s'inchina, senza alcun fallo verrà meno, e
morrommi, e potrete esser detta di me micidiale. E lasciamo stare che la mia
morte non vi fosse onore, nondimeno credo che, rimordendovene alcuna volta la
conscienza, ve ne dorrebbe d'averlo fatto, e talvolta, meglio disposta, con voi
medesima direste: «Deh quanto mal feci a non aver misericordia del Zima mio! –;
e questo pentere non avendo luogo, vi sarebbe di maggior noia cagione. Per che,
acciò che ciò non avvenga, ora che sovvenir mi potete, di ciò v'incresca, e
anzi che io muoia a misericordia di me vi movete, per ciò che in voi sola il
farmi il più lieto e il più dolente uomo che viva dimora. Spero tanta essere la
vostra cortesia che non sofferrete che io per tanto e tale amore morte riceva
per guiderdone, ma con lieta risposta e piena di grazia riconforterete gli
spiriti miei, li quali spaventati tutti trieman nel vostro cospetto. E quinci
tacendo, alquante lacrime dietro a profondissimi sospiri mandate per gli occhi
fuori, cominciò ad attender quello che la gentil donna gli rispondesse. La
donna, la quale il lungo vagheggiare, l'armeggiare, le mattinate, e l'altre
cose simili a queste per amor di lei fatte dal Zima, muovere non avean potuto,
mossero le affettuose parole dette dal ferventissimo amante, e cominciò a
sentire ciò che prima mai non avea sentito, cioè che amor si fosse. E
quantunque, per seguire il comandamento fattole dal marito, tacesse, non potè
per ciò alcun sospiretto nascondere quello che volentieri, rispondendo al Zima,
avrebbe fatto manifesto.
Il Zima, avendo alquanto
atteso e veggendo che niuna risposta seguiva, si maravigliò, e poscia
s'incominciò ad accorgere dell'arte usata dal cavaliere; ma pur lei riguardando
nel viso e veggendo alcun lampeggiare d'occhi di lei verso di lui alcuna volta,
e oltre a ciò raccogliendo i sospiri li quali essa non con tutta la forza loro
del petto lasciava uscire, alcuna buona speranza prese, e da quella aiutato
prese nuovo consiglio, e cominciò in forma della donna, udendolo ella, a
rispondere a sé medesimo in cotal guisa:
– Zima mio, senza dubbio
gran tempo ha che io m'accorsi il tuo amore verso me esser grandissimo e
perfetto, e ora per le tue parole molto maggiormente il conosco, e sonne
contenta, sì come io debbo. Tutta fiata, se dura e crudele paruta ti sono, non
voglio che tu creda che io nello animo stata sia quello che nel viso mi sono
dimostrata: anzi t'ho sempre amato e avuto caro innanzi ad ogni altro uomo, ma
così m'è convenuto fare e per paura d'altrui e per servare la fama della mia
onestà. Ma ora ne viene quel tempo nel quale io ti potrò chiaramente mostrare
se io t'amo e renderti guiderdone dello amore il qual portato m'hai e mi porti;
e per ciò confortati e sta a buona speranza, per ciò che messer Francesco è per
andare in fra pochi dì a Melano per podestà, sì come tu sai, che per mio amore
donato gli hai il bel pallafreno; il quale come andato sarà, senz'alcun fallo
ti prometto sopra la mia fè e per lo buono amore il quale io ti porto, che in
fra pochi dì tu ti troverai meco e al nostro amore daremo piacevole e intero
compimento. E acciò che io non t'abbia altra volta a far parlar di questa
materia, infino ad ora quel giorno il qual tu vedrai due sciugatoi tesi alla
finestra della camera mia, la quale è sopra il nostro giardino, quella sera di
notte, guardando ben che veduto non sii, fa che per l'uscio del giardino a me
te ne venghi; tu mi troverai ivi che t'aspetterò, e insieme avrem tutta la
notte festa e piacere l'un dell'altro sì come disideriamo.
Come il Zima in persona
della donna ebbe così parlato, egli incominciò per sé a parlare e così rispose:
– Carissima donna, egli
è per soverchia letizia della vostra buona risposta sì ogni mia virtù occupata,
che appena posso a rendervi debite grazie formar la risposta; e se io pur
potessi, come io disidero, favellare, niun termine è sì lungo che mi bastasse a
pienamente potervi ringraziare come io vorrei e come a me di far si conviene; e
per ciò nella vostra discreta considerazion si rimanga a conoscer quello che io
disiderando fornir con parole non posso. Soltanto vi dico che, come imposto
m'avete, così penserò di far senza fallo; e allora forse più rassicurato di
tanto dono quanto conceduto m'avete, m'ingegnerò a mio potere di rendervi
grazie quali per me si potranno maggiori. Or qui non resta a dire al presente
altro; e però, carissima mia donna, Dio vi dea quella allegrezza e quel bene
che voi disiderate il maggiore, e a Dio v'accomando.
Per tutto questo non
disse la donna una sola parola; laonde il Zima si levò suso e verso il
cavaliere cominciò a tornare, il qual veggendolo levato, gli si fece incontro e
ridendo disse:
– Che ti pare? Hott'io
bene la promessa servata?
– Messer no, – rispose
il Zima – ché voi mi prometteste di farmi parlare colla donna vostra e voi
m'avete fatto parlar con una statua di marmo.
Questa parola piacque
molto al cavaliere, il quale, come che buona oppinione avesse della donna,
ancora ne la prese migliore, e disse:
– Omai è ben mio il
pallafreno che fu tuo.
A cui il Zima rispose:
– Messer sì; ma se io
avessi creduto trarre di questa grazia ricevuta da voi tal frutto chente tratto
n'ho, senza do mandarlavi ve l'avrei donato; e or volesse Iddio che io fatto
l'avessi, per ciò che voi avete comperato il pallafreno, e io non l'ho venduto.
Il cavaliere di questo
si rise, ed essendo fornito di pallafreno, ivi a pochi dì entrò in cammino e
verso Melano se n'andò in podesteria.
La donna, rimasa libera
nella sua casa, ripensando alle parole del Zima e all'amore il qual le portava
e al pallafreno per amor di lei donato, e veggendol da casa sua molto spesso
passare, disse seco medesima: «Che fo io? Perché perdo io la mia giovanezza?
Questi se n'è andato a Melano e non tornerà di questi sei mesi; e quando me gli
ristorerà egli giammai? quando io sarò vecchia? e oltre a questo, quando
troverò io mai un così fatto amante come è il Zima? Io son sola, né ho d'alcuna
persona paura; io non so perché io non mi prendo questo buon tempo mentre che
io posso; io non avrò sempre spazio come io ho al presente; questa cosa non
saprà mai persona, e se egli pur si dovesse risapere, si è egli meglio fare e
pentere, che starsi e pentersi. – E così seco medesima consigliata, un dì pose
due asciugatoi alla finestra del giardino, come il Zima aveva detto; li quali
il Zima vedendo, lietissimo, come la notte fu venuta, segretamente e solo se
n'andò all'uscio del giardino della donna, e quello trovò aperto, e quindi
n'andò ad un altro uscio che nella casa entrava, dove trovò la gentil donna che
l'aspettava.
La qual veggendol venire,
levataglisi incontro, con grandissima festa il ricevette; ed egli,
abbracciandola e baciandola centomilia volte, su per le scale la seguitò; e
senza alcuno indugio coricatisi, gli ultimi termini conobber d'amore. Né questa
volta, come che la prima fosse, fu però l'ultima, per ciò che, mentre il
cavalier fu a Melano, e ancor dopo la sua tornata, vi tornò con grandissimo
piacere di ciascuna delle parti il Zima molte dell'altre volte.
NOVELLA SESTA
Ricciardo Minutolo ama
la moglie di Filippello Sighinolfo, la quale sentendo gelosa, col mostrare
Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un bagno, fa
che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che con
Ricciardo è dimorata.
Niente restava più
avanti a dire ad Elissa, quando, commendata la sagacità del Zima, la reina
impose alla Fiammetta che procedesse con una. La qual tutta ridente rispose:
– Madonna, volentieri –;
e cominciò.
Alquanto è da uscire
della nostra città, la quale, come d'ogn'altra cosa è copiosa, così è
d'essempli ad ogni materia, e, come Elissa ha fatto, alquanto delle cose che
per l'altro mondo avvenute son, raccontare; e per ciò, a Napoli trapassando,
dirò come una di queste santesi, che così d'amore schife si mostrano, fosse
dallo ingegno d'un suo amante prima a sentir d'amore il frutto condotta che i
fiori avesse conosciuti; il che ad una ora a voi presterà cautela nelle cose
che possono avvenire, e daravvi diletto delle avvenute.
In Napoli, città
antichissima e forse così dilettevole, o più, come ne sia alcuna altra in
Italia, fu già un giovane per nobiltà di sangue chiaro e splendido per molte
ricchezze, il cui nome fu Ricciardo Minutolo. Il quale, non ostante che una
bellissima giovane e vaga per moglie avesse, s'innamorò d'una, la quale, secondo
l'oppinion di tutti, di gran lunga passava di bellezza tutte l'altre donne
napoletane, e fu chiamata Catella, moglie d'un giovane similmente gentile uomo,
chiamato Filippel Sighinolfo, il quale ella, onestissima, più che altra cosa
amava e aveva caro.
Amando adunque Ricciardo
Minutolo questa Catella e tutte quelle cose operando per le quali la grazia e
l'amor d'una donna si dee potere acquistare, e per tutto ciò a niuna cosa
potendo del suo disidero pervenire, quasi si disperava; e da amore o non sappiendo
o non potendo disciogliersi, né morir sapeva né gli giovava di vivere. E in
cotal disposizion dimorando, avvenne che da donne che sue parenti erano fu un
dì assai confortato che di tale amore si dovesse rimanere, per ciò che in van
si faticava, con ciò fosse cosa che Catella niuno altro bene avesse che
Filippello, del quale ella in tanta gelosia viveva, che ogni uccel che per
l'aere volava credeva gliele togliesse.
Ricciardo, udito della
gelosia di Catella, subitamente prese consiglio a' suoi piaceri e cominciò a
mostrarsi dello amor di Catella disperato, e per ciò in un'altra gentil donna
averlo posto; e per amor di lei cominciò a mostrar d'armeggiare e di giostrare
e di far tutte quelle cose le quali per Catella solea fare. Nè guari di tempo
ciò fece che quasi a tutti i napoletani, e a Catella altressì, era nell'animo
che non più Catella, ma questa seconda donna sommamente amasse; e tanto in
questo perseverò, che sì per fermo da tutti si teneva che, non ch'altri, ma
Catella lasciò una salvatichezza che con lui aveva dell'amor che portar le
solea, e dimesticamente. come vicino, andando e vegnendo il salutava come
faceva gli altri.
Ora avvenne che, essendo
il tempo caldo e molte brigate di donne e di cavalieri, secondo l'usanza dei
napoletani, andassero a diportarsi a' liti del mare e a desinarvi e a cenarvi,
Ricciardo, sappiendo Catella con sua brigata esservi andata, similmente con sua
compagnia v'andò, e nella brigata delle donne di Catella fu ricevuto,
faccendosi prima molto invitare, quasi non fosse molto vago di rimanervi. Quivi
le donne, e Catella insieme con loro, incominciarono con lui a motteggiare del
suo novello amore, del quale egli mostrandosi acceso forte, più loro di
ragionare dava materia. A lungo andare essendo l'una donna andata in qua e
l'altra in là, come si fa in que' luoghi, essendo Catella con poche rimasa
quivi dove Ricciardo era, gittò Ricciardo verso lei un motto d'un certo amore
di Filippello suo marito, per lo quale ella entrò in subita gelosia, e dentro
cominciò ad arder tutta di disidero di saper ciò che Ricciardo volesse dire. E
poi che alquanto tenuta si fu, non potendo più tenersi, pregò Ricciardo che,
per amor di quella donna la quale egli più amava, gli dovesse piacere di farla
chiara di ciò che detto aveva di Filippello.
Il quale le disse:
– Voi m'avete
scongiurato per persona, che io non oso negar cosa che voi mi domandiate; e per
ciò io son presto a dirlovi, sol che voi mi promettiate che niuna parola ne
farete mai né con lui né con altrui, se non quando per effetto vederete esser
vero quello che io vi conterò; ché, quando vogliate, v'insegnerò come vedere il
potrete.
Alla donna piacque
questo che egli addomandava, e più il credette esser vero, e giurogli di mai
non dirlo. Tirati adunque da una parte, che da altrui uditi non fossero,
Ricciardo cominciò così a dire:
– Madonna, se io
v'amassi come io già amai, io non avrei ardire di dirvi cosa che io credessi
che noiar vi dovesse; ma, per ciò che quello amore è passato, me ne curerò meno
d'aprirvi il vero d'ogni cosa. Io non so se Filippello si prese giammai onta
dello amore il quale io vi portai, o se avuto ha credenza che io mai da voi
amato fossi; ma, corne che questo sia stato o no, nella mia persona niuna cosa
ne mostrò mai. Ma ora, forse aspettando tempo quando ha creduto che io abbia
men di sospetto, mostra di volere fare a:me quello che io dubito che egli non
tema ch'io facessi a lui, cioè di volere al suo piacere avere la donna mia; e
per quello che io truovo egli l'ha da non troppo tempo in qua segretissimamente
con più ambasciate sollicitata, le quali io ho tutte da lei risapute; ed ella
ha fatte le risposte secondo che io l'ho imposto.
Ma pure stamane, anzi
che io qui venissi, io trovai con la donna mia in casa una femina a stretto
consiglio, la quale io credetti incontanente che fosse ciò che ella era, per
che io chiamai la donna mia e la dimandai quello che colei di mandasse. Ella mi
disse:
– Egli è lo stimol di
Filippello, il qual tu, con fargli risposte e dargli speranza, m'hai fatto
recare addosso, e dice che del tutto vuol sapere quello che io intendo di fare,
e che egli, quando io volessi, farebbe che io potrei essere segretamente ad un
bagno in questa terra; e di questo mi prega e grava; e se non fosse che tu m'ha'fatto,
non so perchè, tener questi mercati, io me l'avrei per maniera levato di dosso
che egli mai non avrebbe guatato là dove io fossi stata –. Allora mi parve che
questi procedesse troppo innanzi e che più non fosse da sofferire, e di
dirlovi, acciò che voi conosceste che merito riceve la vostra intera fede, per
la quale io fui già presso alla morte.
E acciò che voi non
credeste queste esser parole e favole, ma il poteste, quando voglia ve ne
venisse, apertamente e vedere e toccare, io feci fare alla donna mia, a colei
che l'aspettava, questa risposta, che ella era presta d'esser domani in su la
nona, quando la gente dorme, a questo bagno; di che la femina contentissima si
partì da lei. Ora non credo io che voi crediate che io la vi mandassi; ma, se
io fossi in vostro luogo, io farei che egli vi troverrebbe me in luogo di colei
cui trovarvi si crede; e quando alquanto con lui dimorata fossi, io il farei
avvedere con cui stato fosse, e quel lo onore che a lui se ne convenisse ne gli
farei; e questo faccendo, credo sì fatta vergogna gli fia, che ad una ora la
'ngiuria che a voi e a me far vuole vendicata sarebbe.
Catella, udendo questo,
senza avere alcuna considerazione a chi era colui che gliele dicea o a' suoi
inganni, secondo il costume de' gelosi, subitamente diede fede alle parole, e
certe cose state davanti cominciò adattare a questo fatto; e di subita ira
accesa, rispose che questo farà ella certamente, non era egli sì gran fatica a
fare; e che fermamente, se egli vi venisse, ella gli farebbe sì fatta vergogna,
che sempre che egli alcuna donna vedesse gli si girerebbe per lo capo.
Ricciardo, contento di
questo e parendogli che 'l suo consiglio fosse stato buono e procedesse, con
molte altre parole la vi confermò su e fece la fede maggiore, pregandola non
dimeno che dir non dovesse giammai d'averlo udito da lui, il che ella sopra la
sua fè gli promise. La mattina seguente Ricciardo se n'andò ad una buona
femina, che quel bagno che egli aveva a Catella detto teneva, e le disse ciò
che egli intendeva di fare, e pregolla che in ciò fosse favorevole quanto
potesse. La buona femina, che molto gli era tenuta, disse di farlo volentieri e
con lui ordinò quello che a fare o a dire avesse. Aveva costei, nella casa ove
'l bagno era, una camera oscura molto, sì come quella nella quale niuna
finestra che lume rendesse rispondea. Questa, secondo l'ammaestramento di
Ricciardo, acconciò la buona femina e fecevi entro un letto, secondo che potè
il migliore, nel quale Ricciardo, come desinato ebbe, si mise e cominciò ad aspettare
Catella.
La donna, udite le
parole di Ricciardo e a quelle data più fede che non le bisognava, piena di
sdegno tornò la sera a casa, dove per avventura Filippello pieno d'altro
pensiero similmente tornò, né le fece forse quella dimestichezza che era usato
di fare. Il che ella vedendo, entrò in troppo maggior sospetto che ella non
era, seco medesima dicendo: – Veramente costui ha l'animo a quella donna con la
qual domane si crede aver piacere e diletto, ma ferma mente questo non avverrà
–; e sopra cotal pensiero, e imaginando come dir gli dovesse quando con lui
stata fosse, quasi tutta la notte dimorò. Ma che più? Venuta la nona, Catella
prese sua com pagnia e senza mutare altramente consiglio se n'andò a quel bagno
il quale Ricciardo le aveva insegnato; e quivi trovata la buona femina, la
dimandò se Filippello stato vi fosse quel dì. A cui la buona femina ammaestrata
da Ricciardo disse:
– Sete voi quella donna
che gli dovete venire a parlare?
Catella rispose:
– Sì sono.
– Adunque, – disse la
buona femina – andatevene da lui.
Catella, che cercando
andava quello che ella non avrebbe voluto trovare, fattasi alla camera menare
dove Ricciardo era, col capo coperto in quella entrò e dentro serrossi.
Ricciardo, vedendola
venire, lieto si levò in piè e, in braccio ricevutala, disse pianamente:
– Ben vegna l'anima mia.
Catella, per mostrarsi
ben d'essere altra che ella non era, abbracciò e baciò lui e fecegli la festa
grande senza dire alcuna parola, temendo, se parlasse, non fosse da lui
conosciuta.
La camera era
oscurissima, di che ciascuna delle parti era contenta; né per lungamente
dimorarvi riprendevan gli occhi più di potere. Ricciardo la condusse in su il
letto, e quivi, senza favellare in guisa che iscorger si potesse la voce, per
grandissimo spazio con maggior diletto e piacere dell'una parte che dell'altra
stettero.
Ma poi che a Catella
parve tempo di dovere il conceputo sdegno mandar fuori, così di fervente ira
accesa cominciò a parlare:
– Ahi quanto è misera la
fortuna delle donne e come è male impiegato l'amor di molte ne' mariti! Io,
misera me!, già sono otto anni, t'ho più che la mia vita amato, e tu, come io
sentito ho, tutto ardi e consumiti nello amore d'una donna strana, reo e
malvagio uom che tu se'. Or con cui ti credi tu essere stato? Tu séstato con
colei la quale otto anni t'è giaciuta a lato, tu se' stato con colei la qual
con false lusinghe tu hai, già è assai, ingannata mostrandole amore ed essendo
altrove innamorato. Io son Catella, non son la moglie di Ricciardo, traditor disleale
che tu se'; ascolta se tu riconosci la voce mia, io son ben dessa; e parmi
mille anni che noi siamo al lume, che io ti possa svergognare come m sédegno,
sozzo cane vituperato che tu se'. Ohimè, misera me! a cui ho io cotanti anni
portato cotanto amore? A questo can disleale, che, credendosi in braccio avere
una donna strana, m'ha più di carezze e d'amorevolezze fatte in questo poco di
tempo che qui stata son con lui, che in tutto l'altro rimanente che stata son
sua.
Tu sé bene oggi, can
rinnegato, stato gagliardo, che a casa ti suogli mostrare così debole e vinto e
senza possa. Ma, lodato sia Iddio, che il tuo campo, non l'altrui, hai
lavorato, come tu ti credevi. Non maraviglia che stanotte tu non mi ti
appressasti: tu aspettavi di scaricar le some altrove, e volevi giugnere molto
fresco cavaliere alla battaglia; ma, lodato sia Iddio e il mio avvedimento,
l'acqua è pur corsa all'in giù, come ella doveva. Ché non rispondi, reo uomo?
Ché non di'qualche cosa? Se'tu divenuto mutolo udendomi? In fè di Dio io non so
a che io mi tengo, che io non ti ficco le mani negli occhi e traggogliti.
Credesti molto celatamente saper fare questo tradimento; per Dio! tanto sa
altri quanto altri, non t'è venuto fatto; io t'ho avuti miglior bracchi alla
coda che tu non credevi.
Ricciardo in sé medesimo
godeva di queste parole, e senza rispondere alcuna cosa l'abbracciava e baciava
e più che mai le faceva le carezze grandi. Per che ella, seguendo il suo
parlar, diceva:
– Sì, tu mi credi ora
con tue carezze infinte lusingare, can fastidioso che tu se', e rappacificare e
racconsolare; tu se' errato; io non sarò mai di questa cosa consolata, infino a
tanto che io non te ne vitupero in presenzia di quanti parenti e amici e vicini
noi abbiamo. Or non sono io, malvagio uomo, così bella come sia la moglie di
Ricciardo Minutolo? Non son io così gentil donna? Ché non rispondi, sozzo cane?
Che ha colei più di me? Fatti in costà, non mi toccare, che tu hai troppo fatto
d'arme per oggi. Io so bene che oggi mai, poscia che tu conosci chi io sono,
che tu ciò che tu fa cessi faresti a forza; ma, se Dio mi dea la grazia sua, io
te ne farò ancor patir voglia; e non so a che io mi tengo che io non mando per
Ricciardo, il qual più che sé m'ha amata e mai non potè vantarsi che io il
guatassi pure una volta; e non so che male si fosse a farlo. Tu hai creduto
avere la moglie qui, ed è come se avuta l'avessi, in quanto per te non è
rimaso; dunque, se io avessi lui, non mi potresti con ragione biasimare.
Ora le parole furono
assai e il rammarichio della donna grande; pure alla fine Ricciardo, pensando
che, se andar ne la lasciasse con questa credenza, molto di male ne potrebbe
seguire, diliberò di palesarsi e di trarla dello inganno nel quale era; e
recatasela in braccio e presala bene sì che partire non si poteva, disse:
– Anima mia dolce, non
vi turbate; quello che io semplicemente amando aver non potei, Amor con inganno
m'ha insegnato avere, e sono il vostro Ricciardo. Il che Catella udendo e
conoscendolo alla voce, subita mente si volle gittare del letto, ma non potè;
ond'ella volle gridare; ma Ricciardo le chiuse con l'una delle mani la bocca, e
disse:
– Madonna, egli non può
oggimai essere che quello che è stato non sia pure stato, se voi gridaste tutto
il tempo della vita vostra; e se voi griderete o in alcuna maniera fa rete che
questo si senta mai per alcuna persona, due cose ne avverranno. L'una fia (di
che non poco vi dee calere) che il vostro onore e la vostra buona fama fia
guasta, per ciò che, come che voi diciate che io qui ad inganno v'abbia fatta
venire, io dirò che non sia vero, anzi vi ci abbia fatta venire per denari e
per doni che io v'abbia promessi, li quali per ciò che così compiutamente dati
non v'ho come sperava te, vi siete turbata e queste parole e questo romor ne
fate; e voi sapete che la gente è più acconcia a credere il male che il bene; e
per ciò non fia men tosto creduto a me che a voi. Appresso questo, ne seguirà
tra vostro marito e me mortal nimistà, e potrebbe sì andare la cosa che io
ucciderei altressì tosto lui, come egli me; di che mai voi non dovreste esser
poi né lieta né contenta. E per ciò, cuor del corpo mio, non vogliate ad una
ora vituperar voi e mettere in pericolo e in briga il vostro marito e me. Voi
non siete la prima, né sarete l'ultima, la quale è ingannata, né io non v'ho
ingannata per torvi il vostro, ma per soverchio amore che io vi porto e son
disposto sempre a portarvi, e ad essere vostro umilissimo servidore. E come che
sia gran tempo che io e le mie cose e ciò che io posso e vaglio vostre state sieno
e al vostro servigio, io intendo che da quinci innanzi sien più che mai. Ora,
voi siete savia nell'altre cose, e così son certo che sarete in questa.
Catella, mentre che Ricciardo diceva queste parole, piagneva forte, e come che
molto turbata fosse e molto si rammaricasse, nondimeno diede tanto luogo la
ragione alle vere parole di Ricciardo, che ella cognobbe esser possibile ad
avvenire ciò che Ricciardo diceva, e per ciò disse:
– Ricciardo, io non so
come Domeneddio mi si concederà che io possa comportare la 'ngiuria e lo
'nganno che fatto m'hai. Non voglio gridar qui, dove la mia simplicità e
soperchia gelosia mi condusse; ma di questo vivi sicuro che io non sarò mai
lieta se in un modo o in uno altro io non mi veggio vendica di ciò che fatto
m'hai; e per ciò lasciami, non mi tener più; tu hai avuto ciò che disiderato
hai, e ha'mi straziata quanto t'è piaciuto; tempo è di lasciarmi; lasciami, io
te ne priego. Ricciardo, che conosceva l'animo suo ancora troppo turbato,
s'avea posto in cuore di non lasciarla mai se la sua pace non riavesse; per
che, cominciando con dolcissime parole a raumiliarla, tanto disse e tanto pregò
e tanto scongiurò, che ella, vinta, con lui si paceficò; e di pari volontà di
ciascuno gran pezza appresso in grandissimo diletto dimorarono insieme.
E conoscendo allora la
donna quanto più saporiti fossero i baci dello amante che quegli del marito,
voltata la sua durezza in dolce amore verso Ricciardo, tenerissimamente da quel
giorno innanzi l'amò, e savissimamente operando molte volte goderono del loro
amore. Iddio faccia noi goder del nostro.
NOVELLA SETTIMA
Tedaldo, turbato con una
sua donna, si parte di Firenze; tornavi in forma di peregrino dopo alcun tempo;
parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il ma ito di lei
da morte, che lui gli era provato che aveva ucciso, e co' fratelli il pacefica;
e poi saviamente colla sua donna si gode.
Già si taceva Fiammetta
lodata da tutti, quando la reina, per non perder tempo, prestamente ad Emilia
commise il ragionare; la qual cominciò.
A me piace nella nostra
città ritornare, donde alle due passate piacque di dipartirsi, e come uno
nostro cittadino la sua donna perduta racquistasse mostrarvi.
Fu adunque in Firenze un
nobile giovane, il cui nome fu Tedaldo degli Elisei, il quale d'una donna,
monna Ermellina chiamata e moglie d'uno Aldobrandino Palermini, innamorato
oltre misura per gli suoi laudevoli costumi, meritò di godere del suo
disiderio. Al qual piacere la Fortuna, nimica de' felici, s'oppose; per ciò
che, qual che la cagion si fosse, la donna, avendo di sé a Tedaldo compiaciuto
un tempo, del tutto si tolse dal volergli più compiacere, né a non volere non
solamente alcuna sua ambasciata ascoltare ma vedere in alcuna maniera; di che
egli entrò in fiera malinconia e ispiacevole; ma sì era questo suo amor celato,
che della sua malinconia niuno credeva ciò essere la cagione.
E poiché egli in diverse
maniere si fu molto ingegnato di racquistare l'amore che senza sua colpa gli
pareva aver perduto, e ogni fatica trovando vana, a doversi dileguar del mondo,
per non far lieta colei che del suo male era cagione di vederlo consumare, si
dispose. E, presi quegli denari che aver potè, segretamente, senza far motto ad
amico o a parente, fuor che ad un suo compagno il quale ogni cosa sapea, andò
via e pervenne ad Ancona, Filippo di Sanlodeccio faccendosi chiamare; e qui vi
con un ricco mercatante accontatosi, con lui si mise per servidore e in su una
sua nave con lui insieme n'andò in Cipri. I costumi del quale e le maniere
piacquero sì al mercatante, che non solamente buon salario gli assegnò, ma il
fece in parte suo compagno, oltre a ciò gran parte de' suoi fatti mettendogli
tra le mani; li quali esso fece sì bene e con tanta sollicitudine, che esso in
pochi anni divenne buono e ricco mercatante e famoso. Nelle quali faccende,
ancora che spesso della sua crudel donna si ricordasse, e fieramente fosse da
amor trafitto e molto disiderasse di rivederla, fu di tanta constanzia che
sette anni vinse quella battaglia.
Ma avvenne che, udendo
egli un dì in Cipri cantare una canzone già da lui stata fatta, nella quale l'amore
che alla sua donna portava ed ella a lui e il piacer che di lei aveva si
raccontava, avvisando questo non dover potere essere, che ella dimenticato
l'avesse, in tanto disidero di rivederla s'accese, che, più non potendo
sofferir si dispose a tornar in Firenze. E, messa ogni sua cosa in ordine, se
ne venne con un suo fante solamente ad Ancona, dove essendo ogni sua roba
giunta, quella ne mandò a Firenze ad alcuno amico dell'ancontano suo compagno,
ed egli celatamente, in forma di peregrino che dal Sepolcro venisse, col fante
suo se ne venne appresso; e in Firenze giunti, se n'andò ad uno alberghetto di
due fratelli che vicino era alla casa della sua donna. Né prima andò in altra
parte che davanti alla casa di lei, per vederla se potesse. Ma egli vide le
finestre e le porti e ogni cosa serrata; di che egli dubitò forte che morta non
fosse o di quindi mutatasi.
Per che, forte pensoso,
verso la casa de' fratelli se n'andò, davanti la quale vide quattro suoi
fratelli tutti di nero vestiti, di che egli si maravigliò molto; e conoscendosi
in tanto trasfigurato e d'abito e di persona da quello che esser soleva quando
si partì, che di leggieri non potrebbe essere stato riconosciuto, sicuramente
s'accostò ad un calzolaio e domandollo perché di nero fossero vestiti costoro.
Al quale il calzolaio
rispose:
– Coloro sono di nero
vestiti, per ciò che e' non sono ancora quindici dì che un lor fratello, che di
gran tempo non c'era stato, che avea nome Tedaldo fu ucciso; e parmi intendere
che egli abbiano provato alla corte che uno che ha nome Aldobrandino Palermini,
il quale è preso, l'uccidesse, per ciò che egli voleva bene alla moglie ed
eraci tornato sconosciuto per esser con lei.
Maravigliossi forte
Tedaldo che alcuno in tanto il simigliasse, che fosse creduto lui; e della
sciagura d'Aldobrandino gli dolfe. E avendo sentito che la donna era viva e
sana, essendo già notte, pieno di vari pensieri se ne tornò all'albergo, e poi
che cenato ebbe insieme col fante suo, quasi nel più alto della casa fu messo a
dormire. E quivi, sì per li molti pensieri che lo stimolavano e sì per la
malvagità del letto e forse per la cena ch'era stata magra, essendo già la metà
della notte andata, non s'era ancor potuto Tedaldo addormentare; per che,
essendo desto, gli parve in su la mezza notte sentire d'in su il tetto della
casa scender nella casa persone, e appresso per le fessure dell'uscio della
camera vide là su venire un lume. Per che, chetamente alla fessura accostatosi,
cominciò a guardare che ciò volesse dire, e vide una giovane assai bella tener
questo lume, e verso lei venir tre uomini che del tetto quivi eran discesi; e
dopo alcuna festa insieme fattasi, disse l'un di loro alla giovane:
– Noi possiamo, lodato
sia Iddio, oggimai star sicuri, per ciò che noi sappiamo fermamente che la
morte di Tedaldo Elisei è stata provata da' fratelli addosso ad Aldobrandin
Palermini, ed egli l'ha confessata e già è scritta la sentenzia; ma ben si vuol
nondimeno tacere, per ciò che, se mai si risapesse che noi fossimo stati, noi
saremmo a quel medesimo pericolo che è Aldobrandino. E questo detto con la
donna, che forte di ciò si mostrò lieta, se ne sciesono e andarsi a dormire.
Tedaldo, udito questo,
cominciò a riguardare quanti e quali fossero gli errori che potevano cadere
nelle menti degli uomini, prima pensando a' fratelli che uno strano avevano
pianto e sepellito in luogo di lui, e appresso lo innocente per falsa
suspizione accusato, e con testimoni non veri averlo condotto a dover morire, e
oltre a ciò la cieca severità delle leggi e de' rettori, li quali assai volte,
quasi solliciti investigatori del vero, incrudelendo fanno il falso provare, e
sé ministri dicono della giustizia e di Dio, dove sono della iniquità e del
diavolo esecutori. Appresso questo alla salute d'Aldobrandino il pensier volse,
e seco ciò che a fare avesse compose. E come levato fu la mattina, lasciato il
suo fante, quando tempo gli parve, solo se n'andò verso la casa della sua
donna; e per ventura trovata la porta aperta, entrò dentro e vide la sua donna
sedere in terra in una saletta terrena che ivi era, ed era tutta piena di
lagrime e d'amaritudine, e quasi per compassione ne lagrimò, e avvicinatolesi
disse:
– Madonna, non vi
tribolate: la vostra pace è vicina.
La donna, udendo costui,
levò alto il viso e piagnendo disse:
– Buono uomo, tu mi pari
un peregrin forestiere; che sai tu di pace o di mia afflizione?
Rispose allora il
peregrino:
– Madonna, io son di
Costantinopoli e giungo testé qui mandato da Dio a convertire le vostre lagrime
in riso e di liberare da morte il vostro marito.
– Come, – disse la donna
– se tu di Costantinopoli sée giugni pur testé qui, sai tu chi mio marito o io
ci siamo? Il peregrino, da capo fattosi, tutta la istoria della angoscia
d'Aldobrandino raccontò e a lei disse chi ella era, quanto tempo stata maritata
e altre cose assai, le quali egli molto ben sapeva de' fatti suoi; di che la
donna si maravigliò forte, e avendolo per uno profeta, gli s'inginocchiò a'
piedi, per Dio pregandolo che, se per la salute d'Aldobrandino era venuto, che
egli s'avacciasse, per ciò che il tempo era brieve.
Il peregrino,
mostrandosi molto santo uomo, disse:
– Madonna, levate su e
non piagnete, e attendete bene a quello che io vi dirò, e guardatevi bene di
mai ad alcun non dirlo. Per quello che Iddio mi riveli, la tribulazione la qual
voi avete v'è per un peccato, il qual voi commetteste già, avvenuta, il quale
Domeneddio ha voluto in parte purgare con questa noia, e vuole del tutto che
per voi s'ammendi; se non, sì ricadereste in troppo maggiore affanno.
Disse allora la donna:
– Messere, io ho peccati
assai, né so qual Domeneddio più un che un altro si voglia che io m'ammendi; e
per ciò, se voi il sapete, ditelmi, e io ne farò ciò che io potrò per
ammendarlo.
– Madonna, – disse allora
il peregrino – io so bene quale egli è, né ve ne domanderò per saperlo meglio,
ma per ciò che voi medesima dicendolo n'abbiate più rimordimento. Ma vegnamo al
fatto. Ditemi, ricordavi egli che voi mai aveste alcuno amante?
La donna, udendo questo,
gittò un gran sospiro e maravigliossi forte, non credendo che mai alcuna
persona saputo l'avesse, quantunque di que' dì, che ucciso era stato colui che
per Tedaldo fu sepellito, se ne bucinasse per certe parolette non ben
saviamente usate dal compagno di Tedaldo che ciò sapea, e rispose:
– Io veggio che Iddio vi
dimostra tutti i segreti degli uomini, e per ciò io son disposta a non celarvi
i miei. Egli il è vero che nella mia giovanezza io amai sommamente lo
sventurato giovane la cui morte è apposta al mio marito; la qual morte io ho
tanto pianta, quanto dolent'è a me; per ciò che, quantunque io rigida e
salvatica verso lui mi mostrassi anzi la sua partita, né la sua parti ta, né la
sua lunga dimora, né ancora la sventurata morte me l'hanno potuto trarre del
cuore.
A cui il peregrin disse:
– Lo sventurato giovane
che fu morto non amaste voi mai, ma Tedaldo Elisei sì. Ma ditemi: qual fu la
cagione per la quale voi con lui vi turbaste? Offesevi egli giammai?
A cui la donna rispose:
– Certo no, che egli non
mi offese mai; ma la cagione del cruccio furono le parole d'un maladetto frate,
dal quale io una volta mi confessai; per ciò che, quando io gli dissi l'amore
il quale io a costui portava e la dimestichezza che io aveva seco, mi fece un
romore in capo che ancor mi spaventa, dicendomi che, se io non me ne rimanessi,
io n'andrei in bocca del diavolo nel profondo del ninferno e sarei messa nel
fuoco pennace. Di che sì fatta paura m'entrò, che io del tutto mi disposi a non
voler più la dimestichezza di lui; e per non averne cagione, né sua lettera né
sua ambasciata più volli ricevere; come che io credo, se più fosse perseverato,
come (per quello che io presuma) egli se n'andò disperato, veggendolo io
consumare come si fa la neve al sole, il mio duro proponimento si sarebbe
piegato, per ciò che niun disidero al mondo maggiore avea.
Disse allora il
peregrino:
– Madonna, questo è sol
quel peccato che ora vi tribola. Io so fermamente che Tedaldo non vi fece forza
alcuna; quando voi di lui v'innamoraste, di vostra propria volontà il faceste,
piacendovi egli; e, come voi medesima voleste, a voi venne e usò la vostra
dimestichezza, nella quale e con parole e con fatti tanta di piacevolezza gli
mostraste che, se egli prima v'amava, in ben mille doppi faceste l'amor
raddoppiare. E se così fu (che so che fu), qual cagion vi dovea poter muovere a
torglivi così rigidamente? Queste cose si volean pensare innanzi tratto, e se
credevate dovervene, come di mal far, pentere, non farle. Così, come egli divenne
vostro, così diveniste voi sua. Che egli non fosse vostro potavate voi fare ad
ogni vostro piacere, sì come del vostro, ma il voler tor voi a lui, che sua
eravate, questa era ruberia e sconvenevole cosa, dove sua volontà stata non
fosse.
Or voi dovete sapere che
io son frate, e per ciò li loro costumi io conosco tutti; e se io ne parlo
alquanto largo ad utilità di voi, non mi si disdice come farebbe ad un altro,
ed egli mi piace di parlarne, acciò che per innanzi meglio li conosciate che
per addietro non pare che abbiate fatto.
Furon già i frati
santissimi e valenti uomini, ma quegli che oggi frati si chiamano e così
vogliono esser tenuti, niuna altra cosa hanno di frate se non la cappa, né
quella altressì è di frate, per ciò che, dove dagl'inventori de' frati furono
ordinate strette e misere e di grossi panni e dimostratrici dello animo, il
quale le temporali cose disprezzate avea quando il corpo in così vile abito
avviluppava, essi oggi le fanno larghe e doppie e lucide e di finissimi panni,
e quelle in forma hanno recate leggiadria e pontificale, in tanto che
paoneggiar con esse nelle chiese e nelle piazze, come con le loro robe i
secolari fanno, non si vergognano; e quale col giacchio il pescatore d'occupare
nel fiume molti pesci ad un tratto, così costoro colle fimbrie ampissime
avvolgendosi, molte pinzochere, molte vedove, molte altre sciocche femine e
uomini d'avvilupparvi sotto s'ingegnano, ed è lor maggior sollicitudine che
d'altro esercizio. E per ciò, acciò ch'io più vero parli, non le cappe de'
frati hanno costoro, ma solamente i colori delle cappe. E dove gli antichi la
salute disideravan degli uomini, quegli d'oggi disiderano le femine e le
ricchezze; e tutto il loro studio hanno posto e pongono in ispaventare con
romori e con dipinture le menti delli sciocchi e in mostrare che con limosine i
peccati si purghino e colle messe, acciò che a loro, che per viltà, non per
divozione, sono rifuggiti a farsi frati, e per non durar fatica, porti questi
il pane, colui mandi il vino, quello altro faccia la pietanza per l'anima de'
lor passati.
E certo egli è il vero
che le elimosine e le orazion purgano i peccati; ma se coloro che le fanno
vedessero a cui le fanno o il conoscessero, più tosto o a sé il guarderieno o
dinanzi ad altrettanti porci il gitterieno. E per ciò che essi conoscono,
quanti meno sono i possessori d'una gran ricchezza, tanto più stanno ad agio,
ogn'uno con romori e con ispaventamenti s'ingegna di rimuovere altrui da quello
a che esso di rimaner solo disidera. Essi sgridano contra gli uomini la
lussuria, acciò che, rimovendosene gli sgridati, agli sgridatori rimangano le
femine; essi dannan l'usura e i malvagi guadagni, acciò che, fatti restitutori
di quegli, si possano fare le cappe più larghe, procacciare i vescovadi e
l'altre prelature maggiori, di ciò che mostrato hanno dover menare a perdizione
chi l'avesse.
E quando di queste cose
e di molte altre che sconce fanno ripresi sono, l'avere risposto: – Fate quello
che noi diciamo e non quello che noi facciamo –, estimano che sia degno scaricamento
d'ogni grave peso, quasi più alle pecore sia possibile l'esser costanti e di
ferro che a' pastori. E quanti sien quegli a' quali essi fanno cotal risposta,
che non la intendono per lo modo che essi la dicono, gran parte di loro il
sanno.
Vogliono gli odierni
frati che voi facciate quello che dicono, cioè che voi empiate loro le borse di
denari, fidiate loro i vostri segreti, serviate castità, siate pazienti,
perdoniate le 'ngiurie, guardiatevi del maldire, cose tutte buone, tutte
oneste, tutte sante; ma questo perché? Perché essi possano fare quello che, se
i secolari faranno, essi fare non potranno. Chi non sa che senza denari la
poltroneria non può durare? Se tu ne' tuoi diletti spenderai i denari, il frate
non potrà poltroneggiare nell'ordine; se tu andrai alle femine dattorno, i
frati non avranno lor luogo; se tu non sarai paziente o perdonator d'ingiurie,
il frate non ardirà di venirti a casa a contaminare la tua famiglia. Perché vo
io dietro ad ogni cosa? Essi s'accusano quante volte nel cospetto
degl'intendenti fanno quella scusa. Perché non si stanno eglino innanzi a casa,
se astinenti e santi non si credono potere essere? O se pure a questo dar si
vogliono, perché non seguitano quella altra santa parola dello Evangelio: – In
cominciò Cristo a fare e ad insegnare –? Facciano in prima essi, poi ammaestrin
gli altri. Io n'ho de' miei dì mille veduti vagheggiatori, amatori, visitatori,
non solamente delle donne secolari, ma de' monisteri; e pur di quegli che
maggior romor fanno in su i pergami. A quegli adunque così fatti andrem dietro?
Chi 'l fa, fa quel ch'e'vuole, ma Iddio sa se egli fa saviamente. Ma, posto pur
che in questo sia da concedere ciò che il frate che vi sgridò vi disse, cioè
che gravissima colpa sia rompere la matrimonial fede, non è molto maggiore il
rubare uno uomo? Non è molto maggiore l'ucciderlo o il mandarlo in essilio
tapinando per lo mondo? Questo concederà ciascuno. L'usare la dimestichezza
d'uno uomo una donna è peccato naturale; il rubarlo o l'ucciderlo o il discacciarlo
da malvagità di mente procede. Che voi rubaste Tedaldo già di sopra v'è
dimostrato, togliendoli voi, che sua di vostra spontanea volontà eravate
divenuta. Appresso dico che, in quanto in voi fu, voi l'uccideste, per ciò che
per voi non rimase, mostrandovi ogn'ora più crudele, che egli non s'uccidesse
colle sue mani; e la legge vuole che colui che è cagione del male che si fa sia
in quella medesima colpa che colui che 'l fa. E che voi del suo essilio e dello
essere andato tapin per lo mondo sette anni non siate cagione, questo non si
può negare. Sì che molto maggiore peccato avete commesso in qualunque s'è l'una
di queste tre cose dette, che nella sua dimestichezza non commettavate. Ma
veggiamo: forse che Tedaldo meritò queste cose? Certo non fece: voi medesima
già confessato l'avete; senza che io so che egli più che sé v'ama.
Niuna cosa fu mai tanto
onorata, tanto esaltata, tanto magnificata quanto eravate voi sopra ogn'altra
donna da lui, se in parte si trovava dove onestamente e senza generar sospetto
di voi potea favellare. Ogni suo bene, ogni suo onore, ogni sua libertà, tutta
nelle vostre mani era da lui rimessa. Non era egli nobile giovane? Non era egli
tra gli altri suoi cittadin bello? Non era egli valoroso in quelle cose che a'
giovani s'appartengono? Non amato? Non avuto caro? Non volentier veduto da
ogn'uomo? Né di questo direte di no.
Adunque come, per detto
d'un fraticello pazzo bestiale e invidioso, poteste voi alcun proponimento
crudele pigliare contro a lui? Io non so che errore s'è quello delle donne, le
quali gli uomini schifano e prezzangli poco; dove esse, pensando a quello che
elle sono e quanta e qual sia la nobiltà da Dio oltre ad ogn'altro animale data
all'uomo, si dovrebbon gloriare quando da alcuno amate sono, e colui aver
sommamente caro e con ogni sollicitudine ingegnarsi di compiacergli, acciò che
da amarla non si rimovesse giammai. Il che come voi faceste, mossa dalle parole
d'un frate, il qual per certo doveva esser alcun brodaiuolo manicator di torte,
voi il vi sapete; e forse disiderava egli di porre sé in quello luogo, onde
egli s'ingegnava di cacciar altrui.
Questo peccato adunque è
quello, che la divina giustizia, la quale con giusta bilancia tutte le sue
operazion mena ad effetto, non ha voluto lasciare impunito; e così come voi
senza ragione v'ingegnaste di tor voi medesima a Tedaldo, così il vostro marito
senza ragione per Tedaldo è stato ed è ancora in pericolo, e voi in
tribulazione. Dalla quale se liberata esser volete, quello che a voi conviene
promettere e molto maggiormente fare, è questo: se mai avviene che Tedaldo dal
suo lungo sbandeggiamento qui torni, la vostra grazia, il vostro amore, la
vostra benivolenzia e dimestichezza gli rendiate e in quello stato il ripognate
nel quale era avanti che voi scioccamente credeste al matto frate.
Aveva il peregrino le
sue parole finite, quando la donna, che attentissimamente le raccoglieva, per
ciò che verissime le parevan le sue ragoni, e sé per certo per quel peccato, a
lui udendol dire, estimava tribolata, disse:
– Amico di Dio, assai
conosco vere le cose le quali ragionate, e in gran parte per la vostra
dimostrazione conosco chi sieno i frati, infino ad ora da me tutti santi
tenuti; e senza dubbio conosco il mio difetto essere stato grande in ciò che
contro a Tedaldo adoperai, e se per me si potesse, volentieri l'amenderei nella
maniera che detta avete; ma questo come si può fare? Tedaldo non ci potrà mai
tornare; egli è morto; e per ciò quello che non si dee poter fare non so perché
bisogni che io il vi prometta.
A cui il peregrin disse:
– Madonna, Tedaldo non è
punto morto, per quello che Iddio mi dimostri, ma è vivo e sano e in buono
stato, se egli la vostra grazia avesse.
Disse allora la donna:
– Guardate che voi
diciate; io il vidi morto davanti alla mia porta di più punte di coltello, ed
ebbilo in queste braccia e di molte mie lagrime gli bagnai il morto viso, le
quali forse furon cagione di farne parlare quel cotanto che parlato se n'è
disonestamente.
Allora disse il
peregrino:
– Madonna, che che voi
vi diciate, io v'accerto che Tedaldo è vivo; e, dove voi quello prometter
vogliate per doverlo attenere, io spero che voi il vedrete tosto.
La donna allora disse:
– Questo fo io e farò
volentieri; né cosa potrebbe avvenire che simile letizia mi fosse, che sarebbe
il vedere il mio marito libero senza danno e Tedaldo vivo.
Parve allora a Tedaldo
tempo di palesarsi e di confor tare la donna con più certa speranza del suo
marito, e disse:
– Madonna, acciò che io
vi consoli del vostro marito, un gran segreto mi vi convien dimostrare, il
quale guarderete che per la vita vostra voi mai non manifestiate.
Essi erano in parte
assai remota e soli, somma confidenzia avendo la donna presa della santità che
nel peregrino le pareva che fosse; per che Tedaldo, tratto fuori uno anello
guardato da lui con somma diligenza, il quale la donna gli avea donato l'ultima
notte che con lei era stato, e mostrando gliele disse:
– Madonna, conoscete voi
questo?
Come la donna il vide,
così il riconobbe, e disse:
– Messer sì, io il donai
già a Tedaldo.
Il peregrino allora,
levatosi in piè e prestamente la schiavina gittatasi di dosso e di capo il
cappello, e fiorentino parlando disse:
– E me conoscete voi?
Quando la donna il vide,
conoscendo lui esser Tedaldo, tutta stordì, così di lui temendo come de' morti
corpi, se poi veduti andare come vivi, si teme; e non come Tedaldo venuto di
Cipri a riceverlo gli si fece incontro, ma come Tedaldo dalla sepoltura quivi
tornato fosse, fuggir si volle temendo.
A cui Tedaldo disse:
– Madonna, non dubitate,
io sono il vostro Tedaldo vivo e sano, e mai né mori'né fu'morto? che che voi e
i miei fratelli si credano.
La donna, rassicurata
alquanto e tenendo la sua voce e alquanto più riguardatolo e seco affermando
che per certo egli era Tedaldo, piagnendo gli si gittò al collo e baciollo,
dicendo:
– Tedaldo mio dolce, tu
sii il ben tornato.
Tedaldo, baciata e
abbracciata lei, disse:
– Madonna, egli non è or
tempo da fare più strette accoglienze; io voglio andare a fare che Aldobrandino
vi sia sano e salvo renduto, della qual cosa spero che avanti che doman sia
sera voi udirete novelle che vi piaceranno; sì veramente, se io l'ho buone,
come io credo, della sua salute, io voglio stanotte poter venir da voi e
contarlevi per più agio che al presente non posso.
E rimessasi la schiavina
e 'l cappello, baciata un'altra volta la donna e con buona speranza
riconfortatala, da lei si partì e colà se n'andò dove Aldobrandino in prigione
era, più di paura della soprastante morte pensoso che di speranza di futura
salute; e quasi in guisa di confortatore col piacere dei prigionieri a lui se
n'entrò, e postosi con lui a sedere, gli disse:
– Aldobrandino, io sono
un tuo amico a te mandato da Dio per la tua salute, al quale per la tua
innocenzia è di te venuta pietà; e per ciò, se a reverenza di lui un picciol
dono che io ti domanderò conceder mi vuoli, senza alcun fallo avanti che doman
sia sera, dove tu la sentenzia della morte attendi, quella della tua
assoluzione udirai.
A cui Aldobrandin
rispose:
– Valente uomo, poi che
tu della mia salute sésollicito, come che io non ti conosca né mi ricordi mai
più averti veduto, amico dei essere come tu di'. E nel vero il peccato per lo
quale uom dice che io debbo essere a morte giudicato, io nol commisi giammai;
assai degli altri ho già fatti, li quali forse a que sto condotto m'hanno. Ma
così ti dico a reverenza di Dio, se egli ha al presente misericordia di me,
ogni gran cosa, non che una picciola, farei volentieri, non che io promettessi;
e però quello che ti piace addomanda, ché senza fallo, ov'egli avvenga che io
scampi, io lo serverò fermamente.
Il peregrino allora
disse:
– Quello che io voglio
niun'altra cosa è se non che tu perdoni a' quattro fratelli di Tedaldo l'averti
a questo punto condotto, te credendo nella morte del lor fratello esser
colpevole, e abbigli per fratelli e per amici, dove essi di questo ti dimandin
perdono.
A cui Aldobrandin
rispose:
– Non sa quanto dolce
cosa si sia la vendetta, né con quanto ardor si disideri, se non chi riceve
l'offese; ma tuttavia, acciò che Iddio alla mia salute intenda, volentieri loro
perdonerò e ora loro perdono; e se io quinci esco vivo e scampo, in ciò fare
quella maniera terrò che a grado ti fia.
Questo piacque al
peregrino, e senza volergli dire altro, sommamente il pregò che di buon cuore
stesse, ché per certo che, avanti che il seguente giorno finisse, egli udirebbe
novella certissima della sua salute. E da lui partitosi, se n'andò alla
signoria, e in segreto ad un cavaliere che quella tenea disse così:
– Signor mio, ciascun
dee volentieri faticarsi in far che la verità delle cose si conosca, e
massimamente coloro che tengono il luogo che voi tenete, acciò che coloro non
portino le pene che non hanno il peccato commesso e i peccatori sien puniti. La
qual cosa acciò che avvenga, in onor di voi e in male di chi meritato l'ha, io
son qui venuto a voi. Come voi sapete, voi avete rigidamente contro Aldobrandin
Palermini proceduto, e parvi aver trovato per vero lui essere stato quello che
Tedaldo Elisei uccise, e siete per condannarlo; il che è certissimamente falso,
sì come io credo avanti che mezza notte sia, dandovi gli ucciditori di quel
giovane nelle mani, avervi mostrato.
Il valoroso uomo, al
quale d'Aldobrandino increscea, volentier diede orecchi alle parole del
peregrino; e molte cose da lui sopra ciò ragionate, per sua introduzione in su
'l primo sonno i due fratelli albergatori e il lor fante a man salva prese; e
lor volendo, per rinvenire come stata fosse la cosa, porre al martorio, nol
soffersero, ma ciascun per sé e poi tutti insieme apertamente confessarono sé
essere stati coloro che Tedaldo Elisei ucciso aveano, non conoscendolo.
Domandati della cagione, dissero per ciò che egli alla moglie dell'un di loro,
non essendovi essi nello albergo, aveva molta noia data e volutola sforzare a
fare il voler suo.
Il peregrino, questo
avendo saputo, con licenzia del gentile uomo si partì, e occultamente alla casa
di madonna Ermellina se ne venne, e lei sola, essendo ogn'altro della casa
andato a dormire, trovò che l'aspettava, parimente disiderosa d'udire buone
novelle del marito e di riconciliarsi pienamente col suo Tedaldo. Alla qual
venuto, con lieto viso disse:
– Carissima donna mia,
rallegrati, ché per certo tu riavrai domane qui sano e salvo il tuo
Aldobrandino –; e per darle di ciò più intera credenza, ciò che fatto avea
pienamente le raccontò.
La donna di due così
fatti accidenti e così subiti, cioè di riaver Tedaldo vivo, il quale veramente
credeva aver pianto morto, e di veder libero dal pericolo Aldobrandino, il
quale fra pochi dì si credeva dover piagner morto, tanto lieta quanto altra ne
fosse mai, affettuosamente abbracciò e baciò il suo Tedaldo; e andatisene
insieme al letto, di buon volere fecero graziosa e lieta pace, l'un dell'altro
prendendo dilettosa gioia.
E come il giorno
s'appressò, Tedaldo levatosi, avendo già alla donna mostrato ciò che fare
intendeva e da capo pregatola che occultissimo fosse, pure in abito peregrino
si uscì del la casa della donna, per dovere, quando ora fosse, attendere a'
fatti d'Aldobrandino.
La signoria, venuto il
giorno, e parendole piena informazione avere dell'opera, prestamente
Aldobrandino liberò, e pochi dì appresso a' malfattori, dove commesso avevan
l'omicidio, fece tagliar la testa. Essendo adunque libero Aldobrandino, con
gran letizia di lui e della sua donna e di tutti i suoi amici e parenti, e
conoscendo manifestamente ciò essere per opera del peregrino avvenuto, lui alla
lor casa condussero per tanto quanto nella città gli piacesse di stare; e quivi
di fargli onore e festa non si potevano veder sazi, e spezialmente la donna,
che sapeva a cui farlosi. Ma parendogli dopo alcun dì tempo di dovere i
fratelli riducere a concordia con Aldobrandino, li quali esso sentiva non
solamente per lo suo scampo scornati, ma armati per tema, domandò ad
Aldobrandino la promessa. Aldobrandino liberamente rispose sé essere
apparecchiato. A cui il peregrino fece per lo seguente dì apprestare un bel
convito, nel quale gli disse che voleva che egli co' suoi parenti e colle sue
donne ricevesse i quattro fratelli e le lor donne, aggiugnendo che esso
medesimo andrebbe incontanente ad invitargli alla sua pace e al suo convito da
sua parte. Ed essendo Aldobrandino di quanto al peregrino piaceva contento il
peregrino tantosto n'andò a' quattro fratelli, e con loro assai delle parole
che intorno a tal materia si richiedeano usate, al fine con ragioni
irrepugnabili assai agevolmente gli condusse a dovere, domandando perdono,
l'amistà d'Aldobrandino racquistare; e questo fatto, loro e le lor donne a
dover desinare la seguente mattina con Aldobrandino gl'invitò; ed essi
liberamente, della sua fè sicurati, tennero lo 'nvito.
La mattina adunque
seguente, in su l'ora del mangiare, primieramente i quattro fratelli di
Tedaldo, così vestiti di nero come erano, con alquanti loro amici vennero a
casa Aldobrandino, che gli attendeva; e quivi, davanti a tutti coloro che a
fare lor compagnia erano stati da Aldobrandino invitati, gittate l'armi in terra,
nelle mani d'Aldobrandino si rimisero, perdonanza domandando di ciò che contro
a lui avevano adoperato.
Aldobrandino lagrimando
pietosamente gli ricevette; e tutti baciandogli in bocca, con poche parole
spacciandosi, ogni ingiuria ricevuta rimise. Appresso costoro le sirocchie e le
mogli loro, tutte di bruno vestite, vennero, e da madonna Ermellina e
dall'altre donne graziosamente ricevute furono. Ed essendo stati magnificamente
serviti nel convito gli uomini parimente e le donne, né avendo avuto in quello
cosa alcuna altro che laudevole, se non una, la taciturnità stata per lo fresco
dolore rappresentato ne' vestimenti oscuri de' parenti di Tedaldo (per la qual
cosa da alquanti il diviso e lo 'nvito del peregrino era stato biasimato ed
egli se n'era accorto), come seco disposto avea, venuto il tempo da torla via,
si levò in piè, mangiando ancora gli altri le frutte, e disse:
– Niuna cosa è mancata a
questo convito a doverlo far lieto, se non Tedaldo; il quale, poi che avendolo
avuto continuamente con voi non lo avete conosciuto, io il vi voglio mostrare.
E di dosso gittatasi la
schiavina e ogni abito peregrino, in una giubba di zendado verde rimase, e non
senza grandissima maraviglia di tutti guatato e riconosciuto fu lungamente,
avanti che alcun s'arrischiasse a credere ch'el fosse desso. Il che Tedaldo
vedendo, assai de' lor parentadi, delle cose tra loro avvenute, de' suoi
accidenti raccontò. Per che i frategli e gli altri uomini, tutti di lagrime
d'allegrezza pieni, ad abbracciare il corsero, e il simigliante appresso fecer
le donne, così le non parenti come le parenti, fuor che monna Ermellina.
Il che Aldobrandino
veggendo disse:
– Che è questo,
Ermellina? Come non fai tu, come l'altre donne, festa a Tedaldo?
A cui, udenti tutti, la
donna rispose:
– Niuna ce n'è che più
volentieri gli abbia fatto festa e faccia, che farei io, sì come colei che più
gli è tenuta che al cuna altra, considerato che per le sue opere io t'abbia
riavuto; ma le disoneste parole dette ne' dì che noi piagnemmo colui che noi
credevam Tedaldo, me ne fanno stare.
A cui Aldobrandin disse:
– Va via, credi tu che
io creda agli abbaiatori? Esso, procacciando la mia salute, assai bene
dimostrato ha quello essere stato falso, senza che io mai nol credetti; tosto
leva su, va abbraccialo.
La donna, che altro non
desiderava, non fu lenta in questo ad ubbidire il marito; per che, levatasi,
come l'altre avevan fatto, così ella abbracciandolo gli fece lieta festa.
Questa liberalità d'Aldobrandino piacque molto ai fratelli di Tedaldo, e a
ciascuno uomo e donna che quivi era; e ogni rugginuzza, che fosse nata nelle
menti d'alcuni dalle parole state, per que sto si tolse via.
Fatta adunque da ciascun
festa a Tedaldo, esso medesimo stracciò li vestimenti neri in dosso a' fratelli
e i bruni alle sirocchie e alle cognate; e volle che quivi altri vestimenti si
facessero venire. Li quali poi che rivestiti furono, canti e balli e altri
sollazzi vi si fecero assai; per la qual cosa il convito, che tacito principio
avuto avea, ebbe sonoro fine. E con grandissima allegrezza, così come eran,
tutti a casa di Tedaldo n'andarono, e quivi la sera cenarono; e più giorni
appresso, questa maniera tegnendo, la festa continuarono.
Li fiorentini più giorni
quasi come un uomo risuscitato e maravigliosa cosa riguardaron Tedaldo; e a
molti, e a' fratelli ancora, n'era un cotal dubbio debole nell'animo se fosse
desso o no, e nol credevano ancor fermamente, né forse avrebber fatto a pezza,
se un caso avvenuto non fosse che fe' lor chiaro chi fosse stato l'ucciso; il
quale fu questo.
Passavano un giorno
fanti di Lunigiana davanti a casa loro, e vedendo Tedaldo gli si fecero
sirocchie dicendo:
– Ben possa stare
Faziuolo.
A'quali Tedaldo in
presenzia de' fratelli rispose:
– Voi m'avete colto in
iscambio.
Costoro, udendol
parlare, si vergognarono, e chiesongli perdono dicendo:
– In verità che voi
risomigliate, più che uomo che noi vedessimo mai risomigliare un altro, un
nostro compagno, il quale si chiama Faziuolo da Pontremoli, che venne, forse
quindici dì o poco più fa, qua, né mai potemmo poi sapere che di lui si fosse.
Bene è vero che noi ci maravigliavamo dello abito, per ciò che esso era, sì
come noi siamo, masnadiere.
Il maggior fratel di
Tedaldo, udendo questo, si fece innanzi e domandò di che fosse stato vestito
quel Faziuolo. Costoro il dissero, e trovossi appunto così essere stato come
costor dicevano; di che, tra per questi e per gli altri segni, riconosciuto fu colui
che era stato ucciso essere stato Faziuolo e non Tedaldo; laonde il sospetto di
lui uscì a' fratelli e a ciascun altro.
Tedaldo adunque, tornato
ricchissimo, perseverò nel suo amare, e, senza più turbarsi la donna,
discretamente operando, lungamente goderon del loro amore. Iddio faccia noi
goder del nostro.
NOVELLA OTTAVA
Ferondo, mangiata certa
polvere, è sotterrato per morto; e dall'abate, che la moglie di lui si gode,
tratto della sepoltura, è messo in prigione e fattogli credere che egli è in purgatoro;
e poi risuscitato, per suo nutrica un figliuolo dello abate nella moglie di lui
generato.
Venuta era la fine della
lunga novella d'Emilia, non per ciò dispiaciuta ad alcuno per la sua lunghezza,
ma da tutti tenuto che brievemente narrata fosse stata, avendo rispetto alla
quantità e alla varietà de' casi in essa raccontati; per che la reina, alla
Lauretta con un sol cenno mostrato il suo disio, le diè cagione di così
cominciare. Carissime donne, a me si para davanti a doversi far raccontare una
verità che ha, troppo più che di quello che ella fu, di menzogna sembianza, e
quella nella mente m'ha ritornata l'avere udito un per un altro essere stato
pianto e sepellito. Dico adunque come un vivo per morto sepellito fosse, e come
poi per risuscitato, e non per vivo, egli stesso e molti altri lui credessero
essere della sepoltura uscito, colui di ciò essendo per santo adorato che come
colpevole ne dovea più tosto essere condannato. Fu adunque in Toscana una
badia, e ancora è, posta, sì come noi ne veggiam molte, in luogo non troppo
frequentato dagli uomini, nella quale fu fatto abate un monaco, il quale in
ogni cosa era santissimo fuor che nell'opera delle femine; e questo sapeva sì
cautamente fare che quasi niuno, non che il sapesse, ma né suspicava, per che
santissimo e giusto era tenuto in ogni cosa. Ora avvenne che, essendosi molto
collo abate dimesticato un ricchissimo villano, il quale avea nome Ferondo,
uomo materiale e grosso senza modo (né per altro la sua dimestichezza piaceva
allo abate, se non per alcune recreazioni le quali talvolta pigliava delle sue
simplicità), e in questa dimestichezza s'accorse l'abate Ferondo avere una
bellissima donna per moglie, della quale esso sì ferventemente s'innamorò che
ad altro non pensava né dì né notte. Ma udendo che, quantunque Ferondo fosse in
ogni altra cosa semplice e dissipito, in amare questa sua moglie e guardarla
bene era savissimo, quasi se ne disperava. Ma pure, come molto avveduto, recò a
tanto Ferondo, che egli insieme colla sua donna a prendere alcuno diporto nel
giardino della badia venivano alcuna volta; e quivi con loro della beatitudine
di vita etterna e di santissime opere di molti uomini e donne passate ragionava
modestissimamente loro, tanto che alla donna venne disidero di confessarsi da lui
e chiesene la licenzia da Ferondo ed ebbela.
Venuta adunque a
confessarsi la donna allo abate, con grandissimo piacer di lui e a piè
postaglisi a sedere, anzi che adire altro venisse, incominciò:
– Messere, se Iddio
m'avesse dato marito o non me lo avesse dato, forse mi sarebbe agevole co'
vostri ammaestramenti d'entrare nel cammino che ragionato n'avete che mena
altrui a vita etterna; ma io, considerato chi è Ferondo e la sua stultizia, mi
posso dir vedova, e pur maritata sono, in quanto, vivendo esso, altro marito
aver non posso; ed egli, così matto come egli è, senza alcuna cagione è sì
fuori d'ogni misura geloso di me, che io, per questo, altro che in tribulazione
e in mala ventura con lui viver non posso. Per la qual cosa, prima che io ad
altra confession venga, quanto più posso umilmente vi priego che sopra questo
vi piaccia darmi alcun consiglio, per ciò che, se quinci non comincia la
cagione del mio ben potere adoperare, il confessarmi o altro bene fare poco mi
gioverà.
Questo ragionamento con
gran piacere toccò l'animo dello abate, e parvegli che la fortuna gli avesse al
suo maggior disidero aperta la via, e disse:
– Figliuola mia, io
credo che gran noia sia ad una bella e dilicata donna, come voi siete, aver per
marito un mentecatto, ma molto maggiore la credo essere l'avere un geloso; per
che, avendo voi e l'uno e l'altro, agevolmente ciò che della vostra
tribolazione dite vi credo. Ma a questo, brievemente parlando, niuno né
consiglio né rimedio veggo fuor che uno, il quale è che Ferondo di questa
gelosia si guarisca. La medicina da guarirlo so io troppo ben fare, purché a
voi dea il cuore di segreto temere ciò che io vi ragionerò.
La donna disse:
– Padre mio, di ciò non
dubitate, per ciò che io mi lascierei innanzi morire che io cosa dicessi ad
altrui che voi mi diceste che io non dicessi; ma come si potrà far questo?
Rispose l'abate:
– Se noi vogliamo che
egli guarisca, di necessità convien che egli vada in purgatoro.
– E come, – disse la
donna – vi potrà egli andare vivendo? Disse l'abate:
– Egli convien
ch'e'muoia, e così v'andrà; e quando tanta pena avrà sofferta che egli di
questa sua gelosia sarà gastigato, noi con certe orazioni pregheremo Iddio che
in questa vita il ritorni, ed egli il farà.
– Adunque, – disse la
donna – debbo io rimaner vedova?
– Sì, – rispose l'abate
– per un certo tempo, nel quale vi converrà molto ben guardare che voi ad
altrui non vi lasciate rimaritare, per ciò che Iddio l'avrebbe per male, e,
tornandoci Ferondo, vi converrebbe a lui tornare, e sarebbe più geloso che mai.
La donna disse:
– Purché egli di questa
mala ventura guarisca, che egli non mi convenga sempre stare in prigione, io
son contenta; fate come vi piace.
Disse allora l'abate:
– E io il farò; ma che
guiderdon debbo io aver da voi di così fatto servigio?
– Padre mio, – disse la
donna – ciò che vi piace, purché io possa; ma che puote una mia pari, che ad un
così fatto uomo, come voi siete, sia convenevole?
A cui l'abate disse:
– Madonna, voi potete
non meno adoperar per me che sia quello che io mi metto a far per voi; per ciò
che, sì come io mi dispongo a far quello che vostro bene e vostra consolazion
dee essere, così voi potete far quello che fia salute e scampo della vita mia.
Disse allora la donna:
– Se così è, io sono
apparecchiata.
– Adunque, – disse
l'abate – mi donerete voi il vostro amore e faretemi contento di voi, per la
quale io ardo tutto e mi consumo.
La donna, udendo questo,
tutta sbigottita rispose:
– Ohimè, padre mio, che
è ciò che voi domandate? Io mi credeva che voi foste un santo; or conviensi
egli a' santi uomini di richieder le donne, che a lor vanno per consiglio, di
così fatte cose?
A cui l'abate disse:
– Anima mia bella, non
vi maravigliate, ché per questo la santità non diventa minore, per ciò che ella
dimora nell'anima e quello che io vi domando è peccato del corpo. Ma, che che
si sia, tanta forza ha avuta la vostra vaga bellezza, che amore mi costrigne a
così fare. E dicovi che voi della vostra bellezza più che altra donna gloriar
vi potete, pensando che ella piaccia a' santi, che sono usi di vedere quelle
del cielo. E oltre a questo, come che io sia abate, io sono uomo come gli
altri, e, come voi vedete, io non sono ancor vecchio. E non vi dee questo esser
grave a dover fare, anzi il dovete disiderare, per ciò che, mentre che Ferondo
starà in purgatoro, io vi darò, faccendovi la notte compagnia, quella
consolazion che vi dovrebbe dare egli; né mai di questo persona niuna
s'accorgerà, credendo ciascun di me quello, e più, che voi poco avante ne
credevate. Non rifiutate la grazia che Iddio vi manda, ché assai sono di quelle
che quello disiderano che voi potete avere, e avrete, se savia crederete al mio
consiglio. Oltre a questo, io ho di belli gioielli e di cari, li quali io non
intendo che d'altra persona sieno che vostri. Fate adunque, dolce speranza mia,
per me quello che io fo per voi volentieri.
La donna teneva il viso
basso, né sapeva come negarlo, e il concedergliele non le pareva far bene; per
che l'abate, veggendola averlo ascoltato e dare indugio alla risposta, parendo
gliele avere già mezza convertita, con molte altre parole alle prime
continuandosi, avanti che egli ristesse l'ebbe nel capo messo che questo fosse
ben fatto; per che essa vergognosamente disse sé essere apparecchiata ad ogni
suo comando, ma prima non potere che Ferondo andato fosse in purgatoro. A cui
l'abate contentissimo disse:
– E noi faremo che egli
v'andrà incontanente; farete pure che domane o l'altro dì egli qua con meco se
ne venga a dimorare –; e detto questo, postole celatamente in mano un
bellissimo anello, la licenziò. La donna lieta del dono e attendendo d'aver
degli altri, alle compagne tornata, maravigliose cose cominciò a raccontare
della santità dello abate e con loro a casa se ne tornò. Ivi a pochi dì Ferondo
se n'andò alla badia, il quale come l'abate vide, così s'avvisò di mandarlo in
purgatoro. E ritrovata una polvere di maravigliosa virtù, la quale nelle parti
di Levante avuta avea da un gran principe, il quale affermava quella solersi
usare per lo Veglio della Montagna, quando alcun voleva dormendo mandare nel
suo paradiso o trarlone, e che ella, più e men data, senza alcuna lesione
faceva per sì fatta maniera più e men dormire colui che la prendeva, che,
mentre la sua virtù durava, alcuno non avrebbe mai detto colui in sé aver vita;
e di questa tanta presane che a fare dormir tre giorni sufficiente fosse, e in
un bicchier di vino non ben chiaro, ancora nella sua cella, senza avvedersene
Ferondo, gliele diè bere, e lui appresso menò nel chiostro, e con più altri de'
suoi monaci di lui cominciarono e delle sue sciocchezze a pigliar diletto. Il
quale non durò guari che, lavorando la polvere, a costui venne un sonno subito
e fiero nella testa, tale che stando ancora in piè s'addormentò e addormentato
cadde.
L'abate, mostrando di
turbarsi dello accidente, fattolo scignere e fatta recare acqua fredda e
gittargliele nel viso, e molti suoi altri argomenti fatti fare, quasi da alcuna
fumosità di stomaco o d'altro che occupato l'avesse gli volesse la smarrita
vita e 'l sentimento rivocare; veggendo l'abate e' monaci che per tutto questo
egli non si risentiva, toccandogli il polso e niun sentimento trovandogli,
tutti per constante ebbero ch'e'fosse morto; per che, mandatolo a dire alla moglie
e a' parenti di lui, tutti quivi prestamente vennero, e avendolo la moglie
colle sue parenti alquanto pianto, così vestito come era il fece l'abate
mettere in uno avello.
La donna si tornò a
casa, e da un piccol fanciullin che di lui aveva disse che non intendeva
partirsi giammai; e così, rimasasi nella casa, il figliuolo e la ricchezza, che
stata era di Ferondo, cominciò a governare.
L'abate con un monaco
bolognese, di cui egli molto si confidava e che quel dì quivi da Bologna era
venuto, levatosi la notte tacitamente, Ferondo trassero della sepoltura, e lui
in una tomba, nella quale alcun lume non si vedea e che per prigione de' monaci
che fallissero era stata fatta, nel portarono; e trattigli i suoi vestimenti e
a guisa di monaco vestitolo, sopra un fascio di paglia il posero e lasciaronlo
stare tanto ch'egli si risentisse. In questo mezzo il monaco bolognese, dallo
abate informato di quello che avesse a fare, senza saperne alcuna altra persona
niuna cosa, cominciò ad attender che Ferondo si risentisse.
L'abate il dì seguente
con alcun de' suoi monaci per modo di visitazion se n'andò a casa della donna,
la quale di nero vestita e tribolata trovò, e confortatala alquanto, pianamente
la richiese della promessa. La donna, veggendosi libera e senza lo 'mpaccio di
Ferondo o d'altrui, avendogli veduto in dito un altro bello anello, disse che
era apparecchiata; e con lui compose che la seguente notte v'andasse.
Per che, venuta la
notte, l'abate, travestito de' panni di Ferondo e dal suo monaco accompagnato,
v'andò e con lei infino al matutino con grandissimo diletto e piacere si
giacque, e poi si ritornò alla badia, quel camino per così fatto servigio
faccendo assai sovente; e da alcuni e nello andare e nel tornare alcuna volta
essendo scontrato, fu creduto che fosse Ferondo che andasse per quella contrada
penitenza faccendo; e poi molte novelle tra la gente grossa della villa
contatone, e alla moglie ancora, che ben sapeva ciò che era, più volte fu
detto. Il monaco bolognese, risentito Ferondo e quivi trovandosi senza saper
dove si fosse, entrato dentro con una voce orribile, con certe verghe in mano,
presolo, gli diede una gran battitura.
Ferondo, piangendo e
gridando, non faceva altro che domandare:
– Dove sono io?
A cui il monaco rispose:
– Tu sé in purgatoro.
– Come! – disse Ferondo
– dunque sono io morto?
Disse il monaco:
– Mai sì –; per che
Ferondo sé stesso e la sua donna e 'l suo figliuolo cominciò a piagnere, le più
nuove cose del mondo dicendo.
Al quale il monaco portò
alquanto da mangiare e da bere. Il che veggendo Ferondo, disse:
– O mangiano i morti?
Disse il monaco:
– Sì; e questo che io ti
reco è ciò che la donna, che fu tua, mandò stamane alla chiesa a far dir messe
per l'anima tua, il che Domeneddio vuole che qui rappresentato ti sia.
Disse allora Ferondo:
– Domine, dalle il buono
anno. Io le voleva ben gran bene anzi che io morissi, tanto che io me la teneva
tutta notte in braccio e non faceva altro che baciarla e anche faceva altro
quando voglia me ne veniva.
E poi, gran voglia
avendone, cominciò a mangiare e a bere; e non parendogli il vino troppo buono,
disse:
– Domine, falla trista,
ché ella non diede al prete del vino della botte di lungo il muro.
Ma poi che mangiato
ebbe, il monaco da capo il riprese e con quelle medesime verghe gli diede una
gran battitura. A cui Ferondo, avendo gridato assai, disse:
– Deh. questo perché mi
fai tu?
Disse il monaco:
– Per ciò che così ha
comandato Domeneddio che ogni dì due volte ti sia fatto.
– E per che cagione? –
disse Ferondo.
Disse il monaco:
– Perché tu fosti
geloso, avendo la miglior donna che fosse nelle tue contrade per moglie.
– Ohimè, – disse Ferondo
– tu di'vero, e la più dolce; ella era più melata che 'l confetto, ma io non
sapeva che Domeneddio avesse per male che l'uomo fosse geloso, ché io non sarei
stato.
Disse il monaco:
– Di questo ti dovevi tu
avvedere mentre eri di là, e ammendartene; e se egli avviene che tu mai vi
torni, fa che tu abbi sì a mente quello che io fo ora, che tu non sii mai più
geloso.
Disse Ferondo:
– O ritornavi mai chi
muore?
Disse il monaco:
– Sì, chi Dio vuole.
– Oh, – disse Ferondo –
se io vi torno mai, io sarò il miglior marito del mondo; mai non la batterò,
mai non le dirò villania, se non del vino che ella ci ha mandato stamane, e
anche non ci ha mandato candela niuna, ed emmi convenuto mangiare al buio.
Disse il monaco:
– Sì fece bene, ma elle
arsero alle messe.
– Oh, – disse Ferondo –
tu dirai vero; e per certo se io vi torno, io la lascerò fare ciò che ella
vorrà. Ma dimmi chi sétu che questo mi fai?
Disse il monaco:
– Io sono anche morto, e
fui di Sardigna, e perché io lodai già molto ad un mio signore l'esser geloso,
sono stato dannato da Dio a questa pena, che io ti debba dare mangiare e bere e
queste battiture, infino a tanto che Iddio di libererà altro di te e di me.
Disse Ferondo:
– Non c'è egli più
persona che noi due?
Disse il monaco:
– Sì, a migliaia, ma tu
non gli puoi né vedere né udire, se non come essi te.
Disse allora Ferondo:
– O quanto siam noi di
lungi dalle nostre contrade?
– Ohioh! – disse il
monaco – sevvi di lungi delle miglia più di ben la cacheremo.
– Gnaffe! cotesto è bene
assai; – disse Ferondo – e per quel che mi paia, noi dovremmo essere fuor del
mondo, tanta ci ha.
Ora in così fatti
ragionamenti e in simili, con mangiare e con battiture, fu tenuto Ferondo da
dieci mesi in fra li quali assai sovente l'abate bene avventurosamente visitò
la bella donna e con lei si diede il più bel tempo del mondo.
Ma, come avvengono le
sventure, la donna ingravidò, e prestamente accortasene, il disse all'abate;
per che ad amenduni parve che senza indugio Ferondo fosse da dovere essere di
purgatoro rivocato a vita e che a lei si tornasse, ed ella di lui dicesse che
gravida fosse.
L'abate adunque la
seguente notte fece con una voce contraffatta chiamar Ferondo nella prigione, e
dirgli:
- Ferondo, confortati,
ché a Dio piace che tu torni al mondo; dove tornato, tu avrai un figliuolo
della tua donna, il quale farai che tu nomini Benedetto, per ciò che per gli
prieghi del tuo santo abate e della tua donna e per amor di san Benedetto ti fa
questa grazia.
Ferondo, udendo questo,
fu forte lieto e disse:
– Ben mi piace. Dio gli
dea il buono anno a messer Domeneddio e allo abate e a san Benedetto e alla
moglie mia caciata, melata, dolciata.
L'abate, fattogli dare
nel vino che egli gli mandava di quella polvere tanta che forse quattro ora il
facesse dormire, rimessigli i panni suoi, insieme col monaco suo tacitamente il
tornarono nello avello nel quale era stato sepellito. La mattina in sul far del
giorno Ferondo si risentì e vide per alcuno pertugio dello avello lume, il
quale egli veduto non avea ben dieci mesi: per che, parendogli esser vivo,
cominciò a gridare: – Apritemi, apritemi – ed egli stesso a pontar col capo nel
coperchio dello avello sì forte, che ismossolo, per ciò che poca ismovitura
avea, lo 'ncominciava a mandar via; quando i monaci, che detto avean matutino,
corson colà e conobbero la voce di Ferondo e viderlo già del monimento uscir
fuori; di che, spaventati tutti per la novità del fatto, cominciarono a fuggire
e allo abate n'andarono.
Il quale, sembianti
faccendo di levarsi d'orazione, disse:
– Figliuoli, non abbiate
paura, prendete la croce e l'acqua santa e appresso di me venite, e veggiamo
ciò che la potenzia di Dio ne vuol mostrare –; e così fece.
Era Ferondo tutto
pallido, come colui che tanto tempo era stato senza vedere il cielo, fuor dello
avello uscito. Il quale, come vide l'abate, così gli corse a' piedi e disse:
– Padre mio, le vostre
orazioni, secondo che revelato mi fu, e quelle di san Benedetto e della mia
donna, m'hanno delle pene del purgatoro tratto e tornato in vita, di che io
priego Iddio che vi dea il buono anno e le buone calendi, oggi e tuttavia.
L'abate disse:
– Lodata sia la potenza
di Dio. Va dunque, figliuolo, poscia che Iddio t'ha qui rimandato, e consola la
tua donna, la qual sempre, poi che tu di questa vita passasti, è stata in
lagrime, e sii da quinci innanzi amico e servidore di Dio.
Disse Ferondo:
– Messere, egli m'è ben
detto così; lasciate far pur me, ché come io la troverò, così la bacerò, tanto
bene le voglio. L'abate rimaso co' monaci suoi, mostrò d'avere di questa cosa
una grande ammirazione, e fecene divotamente cantare il Miserere.
Ferondo tornò nella sua
villa, dove chiunque il vedeva fuggiva, come far si suole delle orribili cose,
ma egli, richiamandogli, affermava sé essere risuscitato. La moglie similmente
aveva di lui paura.
Ma poi che la gente
alquanto si fu rassicurata con lui e videro che egli era vivo, domandandolo di
molte cose, quasi savio ritornato, a tutti rispondeva e diceva loro novelle
dell'anime de' parenti loro, e faceva da sé medesimo le più belle favole del
mondo de' fatti purgatoro, e in pien popolo raccontò la revelazione statagli
fatta per la bocca del Ragnolo Braghiello avanti che risuscitasse. Per la qual
cosa in casa colla moglie tornatosi e in possessione rientrato de' suoi beni,
la 'ngravidò al suo parere, e per ventura venne che a convenevole tempo,
secondo l'oppinione degli sciocchi che credono la femina nove mesi appunto
portare i figliuoli, la donna partorì un figliuol maschio, il qual fu chiamato
Benedetto Ferondi.
La tornata di Ferondo e
le sue parole, credendo quasi ogn'uomo che risuscitato fosse, acrebbero senza
fine la fama della santità dello abate. E Ferondo, che per la sua gelosia molte
battiture ricevute avea, sì come di quella guerito, secondo la promessa dello
abate fatta alla donna, più geloso non fu per innanzi; di che la donna
contenta, onestamente, come soleva, con lui si visse, sì veramente che, quando
acconciamente poteva, volentieri col santo abate si ritrovava, il quale bene e
diligentemente ne' suoi maggior bisogni servita l'avea.
NOVELLA NONA
Giletta di Nerbona
guerisce il re di Francia d'una fistola; domanda per marito Beltramo di
Rossiglione, il quale, contra sua voglia sposatala, a Firenze se ne va per
isdegno, dove vagheggiando una giovane, in persona di lei Giletta giacque con
lui ed ebbene due figliuoli; per che egli poi, avutola cara, per moglie la
tenne.
Restava, non volendo il
suo privilegio rompere a Dioneo, solamente a dire alla reina, con ciò fosse
cosa che già finita fosse la novella di Lauretta. Per la qual cosa essa, senza
aspettar d'essere sollicitata da' suoi, così tutta vaga cominciò a parlare.
Chi dirà novella omai
che bella paia, avendo quella di Lauretta udita? Certo vantaggio ne fu che ella
non fu la primiera, ché poche poi dell'altre ne sarebbon piaciute, e così spero
che avverrà di quelle che per questa giornata sono a raccontare. Ma pure,
chente che ella si sia, quella che alla proposta materia m'occorre vi conterò.
Nel reame di Francia fu un gentile uomo, il quale chiamato fu Isnardo, conte di
Rossiglione, il quale, per ciò che poco sano era, sempre appresso di sé teneva
un medico, chiamato maestro Gerardo di Nerbona. Aveva il detto conte un suo
figliuol piccolo senza più, chiamato Beltramo, il quale era bellissimo e
piacevole, e con lui altri fanciulli della sua età s'allevavano, tra' quali era
una fanciulla del detto medico, chiamata Giletta; la quale infinito amore e
oltre al convenevole della tenera età fervente pose a questo Beltramo. Al
quale, morto il conte e lui nelle mani del re lasciato, ne convenne andare a
Parigi; di che la giovinetta fieramente rimase sconsolata; e non guari
appresso, essendosi il padre di lei morto, se onesta cagione avesse potuta
avere, volentieri a Parigi per veder Beltramo sarebbe andata; ma essendo molto
guardata, per ciò che ricca e sola era rimasa, onesta via non vedea.
Ed essendo ella già
d'età da marito, non avendo mai potuto Beltramo dimenticare, molti, a' quali i
suoi parenti l'avevan voluta maritare, rifiutati n'avea senza la cagion
dimostrare.
Ora avvenne che, ardendo
ella dello amor di Beltramo più che mai, per ciò che bellissimo giovane udiva
ch'era divenuto, le venne sentita una novella, come al re di Francia, per una
nascenza che avuta avea nel petto ed era male stata curata, gli era rimasa una
fistola, la quale di grandissima noia e di grandissima angoscia gli era, né s'era
ancor potuto trovar medico, come che molti se ne fossero esperimentati, che di
ciò l'avesse potuto guerire, ma tutti l'avean peggiorato, per la qual cosa il
re, disperatosene, più d'alcun non voleva né consiglio né aiuto. Di che la
giovane fu oltremodo contenta, e pensossi non solamente per questo aver
ligittima cagione d'andar a Parigi, ma, se quella infermità fosse che ella
credeva, leggiermente poterle venir fatto d'aver Beltram per marito. Laonde, sì
come colei che già dal padre aveva assai cose apprese, fatta sua polvere di
certe erbe utili a quella infermità che avvisava che fosse, montò a cavallo e a
Parigi n'andò. Né prima altro fece che ella s'ingegnò di veder Beltramo; e
appresso nel cospetto del re venuta, di grazia chiese che la sua infermità gli
mostrasse. Il re veggendola bella giovane e avvenente, non gliele seppe
disdire, e mostrogliele. Come costei l'ebbe veduta, così incontanente si
confortò di doverlo guerire, e disse:
– Monsignore, quando vi
piaccia, senza alcuna noia o fatica di voi, io ho speranza in Dio d'avervi in
otto giorni di questa infermità renduto sano.
Il re si fece in sé
medesimo beffe delle parole di costei dicendo:
– Quello che i maggiori
medici del mondo non hanno potuto né saputo, una giovane femina come il
potrebbe sapere? –
Ringraziolla adunque
della sua buona volontà e rispose che proposto avea seco di più consiglio di
medico non seguire.
A cui la giovane disse:
– Monsignore, voi
schifate la mia arte, perché giovane e femina sono; ma io vi ricordo che io non
medico colla mia scienzia, anzi collo aiuto d'lddio e colla scienzia del
maestro Gerardo nerbonese, il quale mio padre fu e famoso medico mentre visse.
Il re allora disse seco:
– Forse m'è costei mandata da Dio; perché non pruovo io ciò che ella sa fare,
poi dice senza noia di me in picciol tempo guerirmi? – E accordatosi di
provarlo, disse:
– Damigella, e se voi
non ci guerite, faccendoci rompere il nostro proponimento, che volete voi che
ve ne segua?
– Monsignore, – rispose
la giovane – fatemi guardare; e se io infra otto giorni non vi guerisco, fatemi
bruciare; ma se io vi guerisco, che merito me ne seguirà?
A cui il re rispose:
– Voi ne parete ancor
senza marito; se ciò farete, noi vi mariteremo bene e altamente.
Al quale la giovane
disse:
– Monsignore, veramente
mi piace che voi mi maritiate, ma io voglio un marito tale quale io vi
domanderò, senza dovervi domandare alcun de' vostri figliuoli o della casa
reale.
Il re tantosto le
promise di farlo.
La giovane cominciò la
sua medicina, e in brieve anzi il termine l'ebbe condotto a sanità. Di che il
re, guerito sentendosi, disse:
– Damigella, voi avete
ben guadagnato il marito.
A cui ella rispose:
– Adunque, monsignore,
ho io guadagnato Beltramo di Rossiglione, il quale infino nella mia puerizia io
cominciai ad amare e ho poi sempre sommamente amato.
Gran cosa parve al re
dovergliele dare; ma, poi che promesso l'avea, non volendo della sua fè
mancare, se 'l fece chiamare e sì gli disse:
– Beltramo, voi siete
omai grande e fornito. Noi vogliamo che voi torniate a governare il vostro
contado e con voi ne meniate una damigella, la qual noi v'abbiamo per moglie
data.
Disse Beltramo:
– E chi è la damigella,
monsignore?
A cui il re rispose:
– Ella è colei la qual
n'ha con le sue medicine sanità renduta.
Beltramo, il quale la
conosceva e veduta l'avea, quantunque molto bella gli paresse, conoscendo lei
non esser di legnaggio che alla sua nobiltà bene stesse, tutto sdegnoso disse:
– Monsignore, dunque mi
volete voi dar medica per mogliere? Già a Dio non piaccia che io sì fatta
femina prenda giammai.
A cui il re disse:
– Dunque volete voi che
noi vegniamo meno di nostra fede, la qual noi per riaver sanità donammo alla
damigella, che voi in guiderdon di ciò domandò per marito?
– Monsignore, – disse
Beltramo – voi mi potete torre quant'io tengo, e donarmi, sì come vostro uomo,
a chi vi piace; ma di questo vi rendo sicuro che mai io non sarò di tal
maritaggio contento.
– Sì sarete, – disse il
re – per ciò che la damigella è bella e savia e amavi molto; per che speriamo
che molto più lieta vita con lei avrete che con una donna di più alto legnaggio
non avreste.
Beltramo si tacque, e il
re fece fare l'apparecchio grande per la festa delle nozze. E venuto il giorno
a ciò determinato, quantunque Beltramo mal volentieri il facesse, nella
presenzia del re la damigella sposò, che più che sé l'amava. E questo fatto,
come colui che seco già pensato avea quello che far dovesse, dicendo che al suo
contado tornar si voleva e quivi consumare il matrimonio, chiese commiato al
re; e montato a cavallo, non nel suo contado se n'andò, ma se ne venne in
Toscana. E saputo che i fiorentini guerreggiavano co' sanesi, ad essere in lor
favore si dispose; dove, lietamente ricevuto e con onore, fatto di certa
quantità di gente capitano e da loro avendo buona provisione, al loro servigio
si rimase e fu buon tempo.
La novella sposa, poco
contenta di tal ventura, sperando di doverlo, per suo bene operare, rivocare al
suo contado, se ne venne a Rossiglione, dove da tutti come lor donna fu
ricevuta. Quivi trovando ella, per lo lungo tempo che senza conte stato v'era,
ogni cosa guasta e scapestrata, sì come savia donna, con gran diligenzia e
sollicitudine ogni cosa rimise in ordine; di che i suggetti si contentaron
molto e lei ebbero molto cara e poserle grande amore, forte biasimando il conte
di ciò ch'egli di lei non si contentava.
Avendo la donna tutto
racconcio il paese, per due cavalieri al conte il significò, pregandolo che, se
per lei stesse di non venire al suo contado, gliele significasse, ed ella per
compiacergli si partirebbe. Alli quali esso durissimo disse:
– Di questo faccia ella
il piacer suo; io per me vi tornerò allora ad esser con lei che ella questo
anello avrà in dito, e in braccio figliuol di me acquistato.
Egli aveva l'anello
assai caro, né mai da sé il partiva, per alcuna virtù che stato gli era dato ad
intendere ch'egli avea.
I cavalieri intesero la
dura condizione posta nelle due quasi impossibili cose; e veggendo che per loro
parole dal suo proponimento nol potevan rimovere, si tornarono alla donna e la
sua risposta le raccontarono. La quale, dolorosa molto, dopo lungo pensiero
diliberò di voler sapere se quelle due cose potesser venir fatt'e dove, acciò
che per conseguente il marito suo riavesse. E avendo quello che far dovesse
avvisato, ragunati una parte de' maggiori e de' migliori uomini del suo
contado, loro assai ordinatamente e con pietose parole raccontò ciò che già
fatto avea per amor del conte, e mostrò quello che di ciò seguiva; e
ultimamente disse che sua intenzion non era che per la sua dimora quivi il
conte stesse in perpetuo essilio, anzi intendeva di consumare il rimanente
della sua vita in peregrinaggi e in servigi misericordiosi per la salute
dell'anima sua; e pregogli che la guardia e il governo del contado prendessero
e al conte significassero lei avergli vacua ed espedita lasciata la
possessione, e dileguatasi con intenzione di mai in Rossiglione non tornare.
Quivi, mentre ella parlava, furon lagrime sparte assai dai buoni uomini e a lei
porti molti prieghi che le piacesse di mutar consiglio e di rimanere; ma niente
montarono. Essa, accomandati loro a Dio, con un suo cugino e con una sua
cameriera in abito di peregrini, ben forniti a denari e care gioie, senza
sapere alcuno ove ella s'andasse, entrò in cammino, né mai ristette sì fu in
Firenze; e quivi per avventura arrivata in uno alberghetto, il quale una buona
donna vedova teneva, pianamente a guisa di povera peregrina si stava,
disiderosa di sentire novelle del suo signore.
Avvenne adunque che il
seguente dì ella vide davanti allo albergo passare Beltramo a cavallo con sua
compagnia, il quale quantunque ella molto ben conoscesse, nondimeno domandò la
buona donna dello albergo chi egli fosse. A cui l'albergatrice rispose:
– Questi è un gentile
uom forestiere, il quale si chiama il conte Beltramo, piacevole e cortese e
molto amato in questa città; ed è il più innamorato uom del mondo d'una nostra
vicina, la quale è gentil femina, ma è povera. Vero è che onestissima giovane
è, e per povertà non si marita ancora, ma con una sua madre, savissima e buona
donna, si sta; e forse, se questa sua madre non fosse, avrebbe ella già fatto
di quello che a questo conte fosse piaciuto.
La contessa, queste
parole intendendo, raccolse bene; e più tritamente essaminando vegnendo ogni
particularità, e bene ogni cosa compresa fermò il suo consiglio; e apparata la
casa e 'l nome della donna e della sua figliuola dal conte amata, un giorno
tacitamente in abito peregrino là se n'andò; e la donna e la sua figliuola
trovate assai poveramente, salutatele, disse alla donna, quando le piacesse, le
volea parlare.
La gentil donna,
levatasi, disse che apparecchiata era d'udirla; ed entratesene sole in una sua
camera e postesi a sedere, cominciò la contessa:
– Madonna, e' mi pare
che voi siate delle nimiche della fortuna, come sono io; ma, dove voi voleste,
per avventura voi potreste voi e me consolare.
La donna rispose che
niuna cosa disiderava quanto di consolarsi onestamente.
Seguì la contessa:
– A me bisogna la vostra
fede, nella quale se io mi rimetto e voi m'ingannaste, voi guastereste i vostri
fatti e i miei.
– Sicuramente, – disse
la gentil donna – ogni cosa che vi piace mi dite, ché mai da me non vi
troverete ingannata.
Allora la contessa,
cominciatasi dar suo primo innamoramento, chi ell'era e ciò che intervenuto
l'era infino a quel giorno le raccontò per sì fatta maniera, che la gentil
donna, dando fede alle sue parole, sì come quella che già in parte udite
l'aveva da altrui, cominciò di lei ad aver compassione. E la contessa, i suoi
casi raccontati, seguì:
– Udite adunque avete
tra l'altre mie noie quali sieno quelle due cose che aver mi convien, se io
voglio avere il mio marito, le quali niuna altra persona conosco che far me le
possa aver, se non voi, se quello è vero che io intendo, cioè che 'l conte mio
marito sommamente ami vostra figliuola.
A cui la gentil donna
disse:
– Madonna, se il conte
ama mia figliuola io nol so, ma egli ne fa gran sembianti; ma che poss'io per
ciò in questo adoperare che voi disiderate?
– Madonna, – rispose la
contessa – io il vi dirò; ma primieramente vi voglio mostrar quello che io
voglio che ve ne segua, dove voi mi serviate. Io veggio vostra figliuola bella
e grande da marito, e per quello che io abbia inteso e comprender mi paia, il
non aver ben da maritarla ve la fa guardare in casa. Io intendo che, in merito
del servigio che mi farete, di darle prestamente de' miei denari quella dote
che voi medesima a maritarla onorevolmente stimerete che sia convenevole.
Alla donna, sì come
bisognosa, piacque la profferta, ma tuttavia, avendo l'animo gentil, disse:
– Madonna, ditemi quello
che io posso per voi operare, e, se egli sarà onesto a me, io il farò
volentieri, e voi appresso farete quello che vi piacerà.
Disse allora la
contessa:
– A me bisogna che voi,
per alcuna persona di cui voi vi fidiate, facciate al conte mio marito dire che
vostra figliuola sia presta a fare ogni suo piacere, dove ella possa esser
certa che egli così l'ami come dimostra; il che ella non crederà mai, se egli
non le manda l'anello il quale egli porta in mano e che ella ha udito ch'egli
ama cotanto; il quale se egli 'l vi manda, voi 'l mi donerete. E appresso gli
manderete a dire vostra figliuola essere apparecchiata di fare il piacer suo, e
qui il farete occultamente venire e nascosamente me in iscambio di vostra
figliuola gli metterete al lato. Forse mi farà Iddio grazia d'ingravidare; e
così appresso, avendo il suo anello in dito e il figliuolo in braccio da lui
generato, io il racquisterò e con lui dimorerò come moglie dee dimorar con
marito, essendone voi stata cagione.
Gran cosa parve questa
alla gentil donna, temendo non forse biasimo ne seguisse alla figliuola; ma pur
pensando che onesta cosa era il dare opera che la buona donna riavesse il suo
marito e che essa ad onesto fine a far ciò si mettea, nella sua buona e onesta
affezion confidandosi, non solamente di farlo promise alla contessa, ma infra
pochi giorni con segreta cautela, secondo l'ordine dato da lei, ed ebbe
l'anello (quantunque gravetto paresse al conte) e lei in iscambio della
figliuola a giacer col conte maestrevolmente mise.
Ne' quali primi
congiugnimenti affettuosissimamente dal conte cercati, come fu piacer di Dio,
la donna ingravidò in due figliuoli maschi, come il parto al suo tempo venuto
fece manifesto. Né solamente d'una volta contentò la gentil donna la contessa
degli abbracciamenti del marito, ma molte, sì segretamente operando, che mai
parola non se ne seppe; credendosi sempre il conte non con la moglie, ma con
colei la quale egli amava essere stato. A cui, quando a partir si venia la
mattina, avea parecchi belle e care gioie donate, le quali tutte diligentemente
la contessa guardava.
La quale, sentendosi
gravida, non volle più la gentil donna gravare di tal servigio, ma le disse:
– Madonna, la Dio mercé
e la vostra, io ho ciò che io disiderava, e per ciò tempo è che per me si
faccia quello che v'aggraderà, acciò che io poi me ne vada.
La gentil donna le disse
che, se ella aveva cosa che l'aggradisse, che le piaceva; ma che ciò ella non
avea fatto per alcuna speranza di guiderdone, ma perché le pareva doverlo fare
a voler ben fare. A cui la contessa disse:
– Madonna, questo mi
piace bene, e così d'altra parte io non intendo di donarvi quello che voi mi
domanderete per guiderdone, ma per far bene, ché mi pare che si debba così
fare.
La gentil donna allora,
da necessità costretta, con grandissima vergogna cento lire le domandò per
maritar la figliuola. La contessa, cognoscendo la sua vergogna e udendo la sua
cortese domanda, le ne donò cinquecento e tanti belli e cari gioielli, che
valevano per avventura altrettanto; di che la gentil donna vie più che
contenta, quelle grazie che maggiori potè alla contessa rendè, la quale da lei
partitasi se ne tornò allo albergo.
La gentil donna, per
torre materia a Beltramo di più né mandare né venire a casa sua, insieme con la
figliuola se n'andò in contado a casa di suoi parenti; e Beltramo ivi a poco
tempo da' suoi uomini richiamato, a casa sua, udendo che la contessa s'era
dileguata, se ne tornò. La contessa, sentendo lui di Firenze partito e tornato
nel suo contado, fu contenta assai, e tanto in Firenze dimorò che 'l tempo del
parto venne, e partorì due figliuoli maschi simigliantissimi al padre loro, e
quegli fe' dilingentemente nudrire. E quando tempo le parve, in cammino
messasi, senza essere da alcuna persona conosciuta con essi a Monpolier se ne
venne; e quivi più giorni riposata, e del conte e dove fosse avendo spiato, e
sentendo lui il dì d'Ognissanti in Rossiglione dover fare una gran festa di
donne e di cavalieri, pure in forma di peregrina, come usata n'era, là se
n'andò.
E sentendo le donne e'
cavaleri nel palagio del conte adunati per dovere andare a tavola, senza mutare
abito, con questi suoi figlioletti in braccio salita in su la sala, tra uomo e
uomo là se n'andò dove il conte vide, e gittataglisi a' piedi disse piagnendo:
– Signor mio, io sono la
tua sventurata sposa, la quale, per lasciar te tornare e stare in casa tua, lungamente
andata son tapinando. Io ti richieggo per Dio che le condizioni postemi per li
due cavalieri che io ti mandai, tu le mi osservi; ed ecco nelle mie braccia non
un sol figliuol di te, ma due, ed ecco qui il tuo anello. Tempo è adunque che
io debba da te, sì come moglie esser ricevuta secondo la tua promessa.
Il conte, udendo questo,
tutto misvenne, e riconobbe l'anello e i figliuoli ancora, sì simili erano a
lui; ma pur disse:
– Come può questo essere
intervenuto?
La contessa, con gran
meraviglia del conte e di tutti gli altri che presenti erano, ordinatamente ciò
che stato era, e come, raccontò. Per la qual cosa il conte, conoscendo lei dire
il vero e veggendo la sua perseveranza e il suo senno e appresso due così
be'figlioletti; e per servar quello che promesso avea e per compiacere a tutti
i suoi uomini e alle donne, che tutti pregavano che lei come sua ligittima
sposa dovesse omai raccogliere e onorare, pose giù la sua ostinata gravezza e
in piè fece levar la contessa, e lei abbracciò e baciò e per sua ligittima
moglie riconobbe, e quegli per suoi figliuoli. E fattala di vestimenti a lei
convenevoli rivestire, con grandissimo piacere di quanti ve n'erano e di tutti
gli altri suoi vassalli che ciò sentirono, fece, non solamente tutto quel dì ma
più altri grandissima festa; e da quel dì innanzi, lei sempre come sua sposa e
moglie onorando, l'amò e sommamente ebbe cara.
NOVELLA DECIMA
Alibech diviene romita,
a cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in inferno; poi, quindi
tolta, diventa moglie di Neerbale.
Dioneo, che
diligentemente la novella della reina ascoltata avea, sentendo che finita era e
che a lui solo restava il dire, senza comandamento aspettare, sorridendo
cominciò a dire.
Graziose donne, voi non
udiste forse mai dire come il diavolo si rimetta in inferno; e per ciò, senza
partirmi guari dallo effetto che voi tutto questo dì ragionato avete, io il vi
vo' dire; forse ancora ne potrete guadagnare l'anima avendolo apparato, e
potrete anche conoscere che, quantunque Amore i lieti palagi e le morbide
camere più volentieri che le povere capanne abiti, non è egli per ciò che
alcuna volta esso fra'folti boschi e fra le rigide alpi e nelle diserte
spelunche non faccia le sue forze sentire; il perché comprender si può alla sua
potenza essere ogni cosa suggetta.
Adunque, venendo al
fatto, dico che nella città di Capsa in Barberia fu già un ricchissimo uomo, il
quale tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella e gentilesca,
il cui nome fu Alibech. La quale, non essendo cristiana e udendo a molti
cristiani che nella città erano molto commendare la cristiana fede e il servire
a Dio, un dì ne domandò alcuno in che maniera e con meno impedimento a Dio si
potesse servire. Il quale le rispose che coloro meglio a Dio servivano che più
delle cose del mondo fuggivano, come coloro facevano che nelle solitudini de'
diserti di Tebaida andati se n'erano.
La giovane, che
semplicissima era e d'età forse di quattordici anni, non da ordinato disidero
ma da un cotal fanciullesco appetito mossa, senza altro farne ad al cuna
persona sentire, la seguente mattina ad andar verso il diserto di Tebaida
nascosamente tutta sola si mise; e con gran fatica di lei, durando l'appetito,
dopo alcun dì a quelle solitudini pervenne; e veduta di lontano una casetta, a
quella n'andò, dove un santo uomo trovò sopra l'uscio, il quale,
maravigliandosi di quivi vederla, la domandò quello che ella andasse cercando.
La quale rispose, che, spirata da Dio andava cercando d'essere al suo servigio,
e ancora chi le 'nsegnasse come servire gli si conveniva.
Il valente uomo,
veggendola giovane e assai bella, temendo non il demonio, se egli la ritenesse,
lo 'ngannasse, le commendò la sua buona disposizione; e dandole alquanto da
mangiare radici d'erbe e pomi salvatichi e datteri e bere acqua, le disse:
– Figliuola mia, non
guari lontan di qui è un santo uomo, il quale di ciò che tu vai cercando è
molto migliore maestro che io non sono; a lui te n'andrai –; e misela nella
via.
Ed ella, pervenuta a lui
e avute da lui queste medesime parole, andata più avanti, pervenne alla cella
d'uno romito giovane, assai divota persona e buona, il cui nome era Rustico, e
quella dimanda gli fece che agli altri aveva fatta. Il quale, per volere fare
della sua fermezza una gran pruova, non come gli altri la mandò via o più
avanti, ma seco la ritenne nella sua cella; e venuta la notte, un lettuccio di
frondi di palma le fece da una parte e sopra quello le disse si riposasse.
Questo fatto, non preser
guari d'indugio le tentazioni a dar battaglia alle forze di costui; il quale,
trovandosi di gran lunga ingannato da quelle, senza troppi assalti voltò le
spalle e rendessi per vinto; e lasciati stare dall'una delle parti i pensier
santi e l'orazioni e le discipline, a recarsi per la memoria la giovinezza e la
bellezza di costei 'ncominciò, e oltre a questo a pensar che via e che modo
egli dovesse con lei tenere, acciò che essa non s'accorgesse lui come uomo
dissoluto pervenire a quello che egli di lei disiderava. E tentato
primieramente con certe domande, lei non aver mai uomo conosciuto conobbe e
così essere semplice come parea; per che s'avvisò come, sotto spezie di servire
a Dio, lei dovesse recare a' suoi piaceri. E primieramente con molte parole le
mostrò quanto il diavolo fosse nemico di Domeneddio; e appresso le diede ad
intendere che quello servigio che più si poteva far grato a Dio si era
rimettere il diavolo in inferno, nel quale Domeneddio l'aveva dannato. La
giovinetta il domandò, come questo si facesse. Alla quale Rustico disse:
– Tu il saprai tosto, e
perciò farai quello che a me far vedrai –; e cominciossi a spogliare quegli
pochi vestimenti che aveva, e rimase tutto ignudo, e così ancora fece la
fanciulla, e posesi ginocchione a guisa che adorar volesse e dirimpetto a sé
fece star lei.
E così stando, essendo
Rustico più che mai nel suo disidero acceso per lo vederla così bella, venne la
resurrezion della carne, la quale riguardando Alibech e maravigliatasi, disse:
– Rustico, quella che
cosa è che io ti veggio che così si pigne in fuori, e non l'ho io?
– O figliuola mia, –
disse Rustico – questo è il diavolo di che io t'ho parlato. E vedi tu? ora egli
mi dà grandissima molestia, tanta che io appena la posso sofferire.
Allora disse la giovane:
– Oh lodato sia Iddio,
ché io veggio che io sto meglio che non stai tu, ché io non ho cotesto diavolo
io.
Disse Rustico:
– Tu di'vero, ma tu hai
un'altra cosa che non la ho io, e haila in iscambio di questo.
Disse Alibech: – O che?
A cui Rustico disse:
– Hai il ninferno; e
dicoti che io mi credo che Iddio t'abbia qui mandata per la salute della anima
mia, per ciò che se questo diavolo pur mi darà questa noia, ove tu vogli aver
di me tanta pietà e sofferire che io in inferno il rimetta, tu mi darai
grandissima consolazione e a Dio farai grandissimo piacere e servigio, se tu
per quello fare in queste parti venuta sé, che tu di'.
La giovane di buona fede
rispose:
– O padre mio, poscia
che io ho il ninferno, sia pure quando vi piacerà.
Disse allora Rustico:
– Figliuola mia,
benedetta sia tu; andiamo dunque, e rimettiamlovi sì che egli poscia mi lasci
stare.
E così detto, menata la
giovane sopra uno de' loro letticelli, le 'nsegnò come star si dovesse a dovere
incarcerare quel maladetto da Dio.
La giovane, che mai più
non aveva in inferno messo diavolo alcuno, per la prima volta sentì un poco di
noia, per che ella disse a Rustico:
– Per certo, padre mio,
mala cosa dee essere questo diavolo, e veramente nimico di Dio, ché ancora al
ninferno, non che altrui, duole quando egli v'è dentro rimesso.
Disse Rustico:
– Figliuola, egli non
avverrà sempre così.
E per fare che questo
non avvenisse, da sei volte, anzi che di su il letticel si movessero, ve 'l
rimisero, tanto che per quella volta gli trasser sì la superbia del capo, che
egli si stette volentieri in pace.
Ma, ritornatagli poi nel
seguente tempo più volte, e la giovane ubbidiente sempre a trargliele si
disponesse, avvenne che il giuoco le cominciò a piacere, e cominciò a dire a
Rustico:
– Ben veggio che il ver
dicevano que' valentuomini in Capsa, che il servire a Dio era così dolce cosa;
e per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra ne facessi che di tanto
diletto e piacer mi fosse, quanto è il rimetter il diavolo in inferno; e per
ciò io giudico ogn'altra persona, che ad altro che a servire a Dio attende,
essere una bestia.
Per la qual cosa essa
spesse volte andava a Rustico, e gli dicea:
– Padre mio, io son qui
venuta per servire a Dio e non per istare oziosa; andiamo a rimettere il
diavolo in inferno.
La qual cosa faccendo,
diceva ella alcuna volta:
– Rustico, io non so
perché il diavolo si fugga del ninferno; ché, s'egli vi stesse così volentieri
come il ninferno il riceve e tiene, egli non se ne uscirebbe mai.
Così adunque invitando
spesso la giovane Rustico e al servigio di Dio confortandolo, sì la bambagia
del farsetto tratta gli avea, che egli a tal ora sentiva freddo che un altro
sarebbe sudato; e per ciò egli incominciò a dire alla giovane che il diavolo
non era da gastigare né da rimettere in inferno se non quando egli per superbia
levasse il capo: – E noi per la grazia di Dio l'abbiamo sì sgannato, che egli
priega Iddio di starsi in pace –; e così alquanto impose di silenzio alla
giovane.
La qual, poi che vide
che Rustico più non la richiedeva a dovere il diavolo rimettere in inferno, gli
disse un giorno:
– Rustico, se il diavolo
tuo è gastigato e più non ti dà noia, me il mio ninferno non lascia stare; per
che tu farai bene che tu col tuo diavolo aiuti attutare la rabbia al mio
ninferno, com'io col mio ninferno ho aiutato a trarre la superbia al tuo
diavolo.
Rustico, che di radici
d'erba e d'acqua vivea, poteva male rispondere alle poste; e dissele che troppi
diavoli vorrebbono essere a potere il ninferno attutare, ma che egli ne farebbe
ciò che per lui si potesse; e così alcuna volta le sodisfaceva, ma sì era di
rado, che altro non era che gittare una fava in bocca al leone; di che la
giovane, non parendole tanto servire a Dio quanto voleva, mormorava anzi che
no.
Ma, mentre che tra il
diavolo di Rustico e il ninferno d'Alibech era, per troppo disiderio e per men
potere, questa quistione, avvenne che un fuoco s'apprese in Capsa, il quale
nella propria casa arse il padre d'Alibech con quanti figliuoli e altra
famiglia avea; per la qual cosa Alibech d'ogni suo bene rimase erede. Laonde un
giovane chiamato Neerbale, avendo in cortesia tutte le sue facultà spese,
sentendo costei esser viva, messosi a cercarla e ritrovatala avanti che la
corte i beni stati del padre, sì come d'uomo senza erede morto, occupasse, con
gran piacere di Rustico e contra al volere di lei la rimenò in Capsa e per
moglie la prese, e con lei insieme del gran patrimonio divenne erede. Ma,
essendo ella domandata dalle donne di che nel diserto servisse a Dio, non
essendo ancor Neerbale giaciuto con lei, rispose che il serviva di rimettere il
diavolo in inferno, e che Neerbale aveva fatto gran peccato d'averla tolta da
così fatto servigio. Le donne domandarono:
- Come si rimette il
diavolo in inferno?
La giovane, tra con
parole e con atti, il mostrò loro. Di che esse fecero sì gran risa che ancor
ridono, e dissono:
– Non ti dar malinconia,
figliuola, no, ché egli si fa bene anche qua; Neerbale ne servirà bene con esso
teco Domeneddio.
Poi l'una all'altra per
la città ridicendolo, vi ridussono in volgar motto che il più piacevol servigio
che a Dio si facesse era il rimettere il diavolo in inferno; il qual motto
passato di qua da mare ancora dura.
E per ciò voi, giovani
donne, alle quali la grazia di Dio bisogna, apparate a rimettere il diavolo in
inferno, per ciò che egli è forte a grado a Dio e piacer delle parti, e molto
bene ne può nascere e seguire.
CONCLUSIONE
Mille fiate o più aveva
la novella di Dioneo a rider mosse l'oneste donne, tali e sì fatte loro parevan
le sue parole. Per che, venuto egli al conchiuder di quella, conoscendo la
reina che il termine della sua signoria era venuto, levatasi la laurea di capo,
quella assai piacevolmente pose sopra la testa a Filostrato, e disse:
– Tosto ci avvedremo se
il lupo saprà meglio guidare le pecore, che le pecore abbiano i lupi guidati.
Filostrato, udendo
questo, disse ridendo:
– Se mi fosse stato
creduto, i lupi avrebbono alle pecore insegnato rimettere il diavolo in
inferno, non peggio che Rustico facesse ad Alibech, e perciò non ne chiamate
lupi, dove voi state pecore non siete; tuttavia, secondo che conceduto mi fia,
io reggerò il regno commesso. A cui Neifile rispose:
– Odi, Filostrato, voi
avreste, volendo a noi insegnare, potuto apparar senno, come apparò Masetto da
Lamporecchio dalle monache e riavere la favella a tale ora che l'ossa senza
maestro avrebbono apparato a sufolare. Filostrato, conoscendo che falci si
trovavano non meno che egli avesse strali, lasciato stare il motteggiare, a
darsi al governo del regno commesso cominciò. E, fattosi il siniscalco
chiamare, a che punto le cose fossero tutte volle sentire; e oltre a questo,
secondo che avviso che bene stesse e che dovesse sodisfare alla compagnia, per
quanto la sua signoria dovea durare, discretamente ordinò; e quindi alle donne
rivolto, disse:
– Amorose donne, per la
mia disavventura, poscia che io ben da mal conobbi, sempre per la bellezza
d'alcuna di voi stato sono ad Amor suggetto, né l'essere umile né l'essere
ubbidiente né il seguirlo in ciò che per me s'è conosciuto alla seconda in
tutti i suoi costumi, m'è valuto, ch'io prima per altro abbandonato e poi non
sia sempre di male in peggio andato, e così credo che io andrò di qui alla
morte; e per ciò non d'altra materia domane mi piace che si ragioni se non di
quella che a' miei fatti è più conforme, cioè di coloro li cui amori ebbero
infelice fine, per ciò che io a lungo andar l'aspetto infelicissimo, né per
altro il nome, per lo quale voi mi chiamate, da tale che seppe ben che si dire
mi fu imposto – e così detto, in piè levatosi, per infino all'ora della cena
licenziò ciascuno. Era sì bello il giardino e sì dilettevole, che alcuno non vi
fu che eleggesse di quello uscire per più piacere altrove dover sentire. Anzi,
non faccendo il sol già tiepido alcuna noia a seguire, i cavriuoli e i conigli
e gli altri animali che erano per quello e che a lor sedenti forse cento volte
per mezzo lor saltando eran venuti a dar noia, si dierono alcune a seguitare.
Dioneo e la Fiammetta cominciarono a cantare di Messer Guiglielmo e della Dama
del Vergiù; Filomena e Panfilo si diedono a giucare a scacchi; e così chi una
cosa e chi altra faccendo, fuggendosi il tempo, l'ora della cena appena
aspettata sopravvenne; per che, messe le tavole d'intorno alla bella fonte,
quivi con grandissimo diletto cenaron la sera. Filostrato, per non uscir del
camin tenuto da quelle che reine avanti a lui erano state, come levate furono
le tavole, così comandò che la Lauretta una danza prendesse e dicesse una
canzone. La qual disse:
– Signor mio, delle
altrui canzoni io non so, né delle mie alcuna n'ho alla mente che sia assai
convenevole a così lieta brigata; se voi di quelle che io ho volete, io ne dirò
volentieri.
Alla quale il re disse:
– Niuna tua cosa
potrebbe essere altro che bella e piacevole; e per ciò tale qual tu l'hai,
cotale la di'.
Lauretta allora con voce
assai soave, ma con maniera alquanto pietosa, rispondendo l'altre, cominciò
così:
Niuna sconsolata
da dolersi ha quant'io,
che 'nvan sospiro,
lassa!, innamorata
Colui che muove il cielo
e ogni stella,
mi fece a suo diletto
vaga, leggiadra,
graziosa e bella,
per dar qua giù ad
ogn'alto intelletto
alcun segno di quella
biltà, che sempre a lui
sta nel cospetto:
e il mortal difetto,
come mal conosciuta,
non m'aggradisce, anzi
m'ha dispregiata.
Già fu chi m'ebbe cara,
e volentieri
giovinetta mi prese
nelle sue braccia e
dentro a' suoi pensieri
e de' miei occhi tututto
s'accese;
e 'l tempo, che leggieri
sen vola, tutto in
vagheggiarmi spese;
e io, come cortese,
di me il feci degno;
ma or ne son, dolente a
me!, privata.
Femmisi innanzi poi
presuntuoso
un giovinetto fiero,
sé nobil reputando e
valoroso,
e presa tienmi, e con
falso pensiero
divenuto è geloso;
laond'io, lassa!, quasi
mi dispero,
cognoscendo per vero,
per ben di molti al
mondo
venuta, da uno essere
occupata.
Io maladico la mia
isventura,
quando, per mutar vesta,
sì dissi mai; sì bella
nella oscura
mi vidi già e lieta,
dove in questa
io meno vita dura,
vie men che prima
reputata onesta
O dolorosa festa,
morta foss'io avanti
che io t'avessi in tal
caso provata!
O caro amante, del qual
prima fui
più che altra contenta,
che or nel ciel
sédavanti a Colui
che ne creò, deh pietoso
diventa
di me, che per altrui
te obliar non posso; fa
ch'io senta
che quella fiamma spenta
non sia, che per me
t'arse,
e costà su m'impetra la
tornata.
Qui fece fine la
Lauretta alla sua canzone, la quale notata da tutti, diversamente da diversi fu
intesa; ed ebbevi di quegli che intender vollono alla melanese, che fosse
meglio un buon porco che una bella tosa. Altri furono di più sublime e migliore
e più vero intelletto, del quale al presente recitare non accade.
Il re, dopo questa, su
l'erba e 'n su'fiori avendo fatti molti doppieri accendere, ne fece più altre
cantare infin che già ogni stella a cader cominciò che salia. Per che, ora parendogli
da dormire, comandò che con la buona notte ciascuno alla sua camera si
tornasse.
Finisce la terza
giornata del Decameron.
Incomincia la quarta
giornata nella quale, sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro
li cui amori ebbero infelice fine.
GIORNATA QUARTA
INTRODUZIONE
Carissime donne, sì per
le parole de' savi uomini udite e sì per le cose da me molte volte e vedute e
lette, estimava io che lo 'mpetuoso vento e ardente della invidia non dovesse
percuotere se non l'alte torri o le più levate cime degli alberi; ma io mi
truovo dalla mia estimazione ingannato. Per ciò che, fuggendo io e sempre
essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto di questo rabbioso spirito, non
solamente pe' piani, ma ancora per le profondissime valli tacito e nascoso mi
sono ingegnato d'andare. Il che assai manifesto può apparire a chi le presenti
novellette riguarda, le quali, non solamente in fiorentin volgare e in prosa
scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso
quanto il più possono. Né per tutto ciò l'essere da cotal vento fieramente
scrollato, anzi presso che diradicato e tutto da' morsi della invidia esser
lacerato, non ho potuto cessare. Per che assai manifestamente posso comprendere
quel lo esser vero che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza
invidia nelle cose presenti.
Sono adunque, discrete
donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi
piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi
e di consolarvi, e alcuni han detto peggio, di commendarvi, come io fo. Altri,
più maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia età non sta
bene l'andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer
loro. E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei più
saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra
voi.
E son di quegli ancora
che, più dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei più
discretamente a pensare dond'io dovessi aver del pane che dietro a queste
frasche andarmi pascendo di vento. E certi altri in altra guisa essere state le
cose da me raccontate che come io le vi porgo, s'ingegnano, in detrimento della
mia fatica, di dimostrare.
Adunque da cotanti e da così fatti soffiamenti, da così atroci denti, da così aguti, valorose donne, mentre io ne' vostri servigi milito, sono sospinto, molestato e infino nel vivo trafitto. Le quali cose io con piacevole animo, sallo Iddio, ascolto e intendo; e quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie forze; anzi, senza rispondere quanto si converrebbe, con alcuna leggiera risposta tormegli dagli orecchi, e questo far senza indugio. Per ciò che, se già, non essendo io ancora al terzo della lo mia fatica venuto, essi sono molti e molto presummono, io avviso che avanti che io pervenissi alla fine essi potrebbono in guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta alcuna repulsa, che con