Ludovico Ariosto

Ludovico Ariosto

Uno dei maggiori poeti d'Italia, nacque nel 1474 a Reggio Emilia, di famiglia patrizia.
Il padre Niccolò era capitano di quella fortezza, a nome del duca di Ferrara.
Inviso per il suo aspro governo, Niccolò venne a stabilirsi con la numerosa famiglia (dieci figlioli !) a Ferrara.
Ludovico fu messo a studiare leggi..., ma egli si ribellò a quelle 'ciance': e il padre gli concesse di dedicarsi alle lettere.
Apprese il latino e gli dolse di non poter apprendere il greco..., Orazio, il poeta dal sereno epicureismo e dall'arguta sapienza, fu dei poeti antichi quello che lo sedusse.
Ma nel 1500 gli morì il padre..., ed egli dovette lasciare da parte, almeno per il momento, gli studi diletti per darsi ad amministrare i beni della dote materna, pensare a collocare i fratelli minori, provare quelle angustie e miserie della vita, che troveranno principalmente espressione nelle "Satire" e impronteranno di ironia talvolta, amara anche il sorridente fantastico mondo dell'Orlando Furioso.
Entrò più tardi, in qualità di gentiluomo, al servizio del cardinale Ippolito d'Este, fratello del duca Alfonso I.
E fu adoperato in varie ambascerie: una volta a Roma (I509), per ottenere dal pontefice Giulio II - allora nemico ai Veneziani - aiuto contro di essi..., che furono vinti, poco dopo, sul Po.
Due altre volte andò da quel papa: per conciliarlo agli Estensi, alleati di Luigi XII di Francia (Ercole II ebbe in moglie Renata, figlia di quel re).
Giacché, prima favorevole ai Francesi contro i Veneziani, che avevano occupato terre della Chiesa, Giulio II fu poi loro avversissimo, con la lega Santa: che portò all'espulsione dei Francesi dall'Italia.
Furono missioni fallite.
Nel 1513 l'Ariosto si recò una terza volta a Roma, per felicitare il nuovo pontefice Leone X, già suo amico da cardinale.
Egli baciò il piede al Santo Padre, e il Santo Padre baciò a lui l'una e l'altra gota..., ma lasciò che il poeta - che molto si riprometteva da lui - ritornasse a mani vuote.
Gli è che i Medici (Leone era figlio di Lorenzo il Magnifico) odiavano gli Estensi..., e a lungo durò tra le due famiglie la questione della priorità.
L'uomo degli Estensi non poteva quindi piacere troppo a quel papa, che pure onorò poeti di tanto a lui minori.
Ben più confacente al carattere di Ludovico fu l'ufficio - come si sarebbe detto poi - di direttore degli spettacoli della Corte, che suggerì o impose al poeta di comporre le sue commedie.

In realtà Ludovico Ariosto non era fatto per servire, anche se si sforzava di servire del suo meglio.
Fino dal 1516, a1 cardinale Ippolito suo padrone aveva dedicato il "Furioso": e il cardinale, per tutto ringraziamento, gli aveva chiesto dove mai avesse pescato tante corbellerie.
Non si poteva essere più grossolani con il meraviglioso artista.
Un anno dopo, nominato vescovo di Budapest in Ungheria, il cardinale voleva che il suo servitore lo seguisse..., ma il servitore non lo volle seguire.
Il piccolo e incerto stipendio non doveva far di lui uno schiavo.
E poi egli era innamorato di una bella donna: Alessandra Benucci, fiorentina, vedova di Tito Strozzi: da lui incontrata a Firenze nel suo ritorno dall' ambasceria a Leone X.
E, insomma, non partì.
E il cardinale lo rimosse dal suo servizio.

Allora lo prese con sé il duca Alfonso..., il quale lo mandò come commissario nella Garfagnana, contrada allora selvaggia dell'Appennino, tra le province di Modena e di Lucca, che, contesa lungamente fra Lucchesi, Pisani, Fiorentini, si era data agli Estensi.
Governare significava molte cose: amministrare la giustizia, esigere i tributi, tenere in freno i masnadieri.
Ma non è sempre vero che i poeti manchino del senso pratico. (Eh)...
Ludovico, da Castelnuovo, governò molto onestamente e diligentemente, come pare dalle non poche lettere al duca che scrisse in quel tempo, e da quelle del duca a lui..., e più e meglio avrebbe fatto, se il duca - che non voleva inimicarsi quei nuovi sudditi - lo avesse maggiormente appoggiato.
Certo, egli andava con l'anima sempre a Ferrara.
E non gli parve vero di ritornarvi, dopo i tre anni di governo che egli considerò come esilio.
Voleva la tranquillità.
E per amore di essa rifiutò il posto, onorifico, di ambasciatore residente a Roma presso Clemente VII.

Era sui cinquanta: l'età del riposo per gli uomini, come l'Ariosto, che non hanno ambizioni.
Il poeta - che, con la modestia della sua vita, era riuscito a metter da parte qualche risparmio - comprò in contrada Mirasole una vigna, e vi costruì una casa, molto alla buona, che si conserva ancora, e nella facciata fece apporre un distico latino, che dice tutto il rammarico suo contro la non prospera fortuna, ma anche tutta la nobiltà del suo animo...

"Parva sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non Sordida, Parta meo sed tamen aere domus"

"Casa... piccola ma adatta a me, ma non obbligata ad alcuno, ma non sozza, e comperata col mio danaro".

Sposò allora la sua donna..., segretamente, per non perdere certe rendite ecclesiastiche, le quali non potevano, secondo i canoni, esser godute che da celibi.
E rimase lì, a leggere i suoi latini, a coltivare il suo orto, a correggere, per la terza volta, il suo "OrlandoFurioso".
La prima edizione era apparsa, come ho già detto, il 1516..., la seconda, con miglioramenti nella lingua e nello stile, il 1521..., ora, nel 1532, comparve la terza e definitiva edizione: con nuovi episodi, che mancavano alle prime, e che accrescevano il numero dei canti da quaranta a quarantasei.
Come il "Furioso" fu così compiuto, l'Ariosto si recò a Mantova, a presentarne copia all'imperatore Carlo V, alla cui parte erano - da quella francese - passati i duchi d'Este..., e, conseguentemente, il poeta.
L'imperatore ci teneva a mostrarsi cortese verso poeti e pittori.
A Venezia si abbassò una volta a raccogliere il pennello di Tiziano.
E' da supporre che egli accogliesse il "Furioso" con più garbo che non il cardinale.
Anzi, corse fama che l'imperatore volesse incoronare il poeta.
Ma l'incoronazione la celebrarono i posteri.
Egli morì un anno dopo quel viaggio, nel luglio del 1533.

La ingenuità, la bontà, la timidezza e la perplessità furono i caratteri dell'Ariosto intimo, come si rileva dalla biografi che di lui scrisse un quasi contemporaneo, Giambattista Piglia..., e una distrazione che ha dell'incredibile.
Amava la vita sobria. Si dilettava di agricoltura..., ma l'inesperienza in materia era grande..., seminò una volta dei capperi, e poi si accorse che erano sambuchi.
Gli piaceva l'architettura, e si doleva che non gli fosse così facile " il mutar le fabbriche come li suoi versi".
Ci è pervenuto il suo ritratto, attribuito a Tiziano.
Occhi grandi spalancati, sguardo assente: amplissima fronte: un volto - dice in un sonetto il Carducci - che "lo stupor dei gran sogni anco ritiene" - il volto di un poeta.
Ma quel poeta nato non si dette mai l'aria e la posa dell'inspirato e del genio.
Accettò la realtà con la sua prosa, con le sue esigenze e le sue asprezze.
Ora un poco brontolone, ora sorridendo rassegnato ai guai e agli errori della vita, si sentì sempre uomo tra gli uomini: non ultima causa della simpatia che irradia dalla sua opera, così vivida di splendore fantastico, così ricca di sapienza e di esperienza umana.

Le Opere

Orlando Furioso , (1532)

Poema rinascimentale, con la sua fortuna, a stampa (1516, 1521, 1532), e con le lodi per la strofa ariostesca, l’ottava, dalla complessa e raffinata struttura narrativa, che sarà celebrata come “l’ottava d’oro”, amplifica l’eco artistica di uno splendido momento della corte estense (Il poema è formato da 46 Canti, ogni canto diviso in ottave- strofe di otto versi endecasillabi, con l’accento sulla decima sillaba. Lo schema metrico, cioè l’ordine delle rime è “A-B_A-B_A-B_C-C”: le prime sei sono rime alternate, le ultime due sono baciate).

Nel Furioso, il grande Ludovico Ariosto, con potente forza immaginativa e ricchezza d’invenzione, esalta la gloria estense, quella presente e quella eroica degli avi: solo la grande poesia può assicurare, con la “fama”, l’eternità storica dei prìncipi. L’opera è dedicata al figlio del duca Ercole I d’Este, il cardinale Ippolito al servizio del quale il poeta lavorava.

La lingua “ferrarese”, non la toscana né quella veneziana, s’impone per qualche anno in Italia. La prima edizione dell’Orlando Furioso è del 1516, la terza del 1532, poco prima della morte del poeta. La differenza sta nello stile e soprattutto nella lingua, in quanto nell’ultima stampa sono state tolte le espressioni emiliane e gli elementi dialettali, sostituiti con i vincenti modelli toscani, sulla lezione del grande Pietro Bembo. Con l’Ariosto, in pratica, la toscanità comincia ad imporsi anche nell’Italia settentrionale.

E’ un poema cavalleresco, in quanto la materia narrativa è tratta dalla tradizione epico-cavalleresca (cantàri, chanson de geste, romanzo cortese), tradizione questa ripresa dall’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo. Le fonti del poema vanno ricercate anche nei capolavori classici quali Iliade ed Eneide (ad esempio, la pazzia d’Orlando ricorda l’ira di Achille).

I personaggi sono i prodi cavalieri, “paladini” del re Carlo Magno, “imperator romano”, cioè nobili, di sicuro valore militare che vivono nel “palatium” imperiale, cioè alla sua corte. Ai cavalieri sono attribuiti grandi ideali come fede, amore per la patria, fedeltà, obbedienza agli ordini superiori, disponibilità a compiere imprese epiche, e doti di cortesia congiunte a nobiltà d’animo. Il cavaliere, forte e audace, subisce però umanissime disavventure amorose.

Accanto alle vicende principali, si snodano e s’intrecciano mille altre storie e avvenimenti, con cavalieri cristiani e saraceni, maghi, negromanti, corsari, orche, magici cavalli alati come l’Ippogrifo, incantesimi e magie, amori folli, castelli incantati, duelli, con sfide a singolar tenzone, sullo sfondo della guerra fra l’esercito dei Mori (i Saraceni, gli Arabi) e quello di Carlo Magno.

L’Ariosto riprende il poema del Boiardo laddove questi l’aveva lasciato, quando Carlo Magno, preoccupato delle rivalità che Angelica accende tra i cavalieri cristiani, sottraendoli così alla difesa di Parigi assediata dai Saraceni, la affida al duca Namo di Baviera, perché la custodisca, promettendola a chi, fra Orlando e Rinaldo, si distinguerà meglio nella battaglia imminente. Ma Angelica, approfittando della confusione che segue alla sconfitta dei cristiani, fugge, sicché i cavalieri ricominciano a cercarla, imbattendosi in varie avventure.

Le principali linee narrative del poema sono tre: 1) la battaglia intorno a Parigi, che poi si sposta in Africa e si conclude con la vittoria dei Cristiani (l’eroe è Orlando). Nella Francia di Carlo Magno invasa dai Mori capeggiati da Agramante e Marsilio, la fuga di Angelica dal campo cristiano genera infiniti episodi, finché a Parigi si svolge la battaglia finale vinta dai cristiani del Regno di Francia; 2) le avventure di Angelica che, fuggita dal duca Namo al quale era stata affidata, viene inseguita dai cavalieri cristiani e saraceni, invaghiti di lei. Angelica però sceglierà di sposare un giovane oscuro soldato saraceno, Medoro, ferito in battaglia e da lei curato. Orlando, accortosi del fatto, impazzisce dal dolore e distrugge, percorrendo Francia e Spagna, tutto ciò che gli si para davanti, finché il cavaliere cristiano Astolfo, salito con l’Ippogrifo sulla Luna, vi trova, ben imbottigliato in ampolle, tutto il senno smarrito dagli uomini sulla Terra; prende dunque Astolfo il proprio senno e quello del “matto” paladino che, legato e obbligato ad annusarlo, riacquista la ragione. Orlando così può tornare a combattere contro i Saraceni, determinando la loro definitiva sconfitta. 3) La storia avvincente di Orlando viene spesso interrotta dal poeta con l’inserimento del terzo percorso narrativo: l’amore di Bradamante, sorella del cavaliere cristiano Rinaldo, per l’eroe saraceno Ruggero. Bradamante, dopo una serie di fantastiche avventure, riesce a sposare Ruggero, che intanto si è fatto cristiano. Il poema infatti si chiude con la vittoria in duello di Ruggero contro il saraceno Rodomonte. Da questa coppia (Bradamante e Ruggero), sia il Boiardo sia l’Ariosto fanno discendere gli Estensi.

Dopo aver delineato alcuni elementi fondamentali del capolavoro ariostesco, resta da evidenziare una sua qualità sostanziale che non dobbiamo dimenticare: il Furioso, come sostiene Lanfranco Caretti, insigne studioso dell’Ariosto, è un’opera rinascimentale. L’uomo rinascimentale, come il cavaliere medievale, è dotato di animo nobile, cortesia, coraggio, desiderio di primeggiare nelle guerre per la difesa della fede cristiana, ma esso è anche, attento a motivi ben diversi, come “il libero e spregiudicato giuoco degli affetti, la schietta affermazione della vita, la piena rivalutazione dell’intelletto, la soppressione d’ogni residuo di mentalità metafisica, formalistica e dogmatica, la riduzione della magia e dell’astrologia nell’ordine della natura, l’amore sentito come principio conservatore dell’esistenza”. Il Furioso, “tutt’altra cosa dall’unità medievale, immobile e con un centro prestabilito”, rappresenta ormai “un’opera che solo lo scrittore, in quanto uomo dell’arte, può realizzare, interpretando e rappresentando la vita degli uomini…soggetti agli impulsi esterni e spesso anche vittime” (L. Caretti, Ludovico Ariosto, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, Garzanti, Milano 2001, vol. III). Un impegno quasi trentennale: l’Ariosto ha “dato mano, a partire dal 1504, al Furioso” e l’ultima edizione del poema è del 1532.

Maria Alberta Faggioli Saletti

Satire

Tra il 1517 e 1525 Ariosto scrisse 7 satire in forma di lettere in versi a amici e parenti, che furono pubblicate dopo la sua morte. Ha come modello le Satire di Orazio, il che permetteva di toccare vari argomenti senza un ordine, infatti Orazio usava la satira come libera conversazione su argomenti diversi con spunti autobiografici. Ariosto è molto vicino  all’ideale di vita quieta e modesta ma indipendente da ogni servitù di Orazio. Nei capitoli delle satire usa la forma delle terzine dantesche. Argomenti delle satire: I) indirizzata al fratello Alessandro, dove spiega le ragioni il rifiuto di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria; II) per il fratello Galasso, contiene una critica alla corte papale; III) dedicata al cugino Annibale, spiega la sua condizione di poeta in autonomia dalla corte; IV) a Malaguzzi, dove descrive la nostalgia della sua città e della sua donna; V) a Annibale, spiega i vantaggi e gli svantaggi della vita matrimoniale e da consigli sulla scelta della moglie; VI) a Pietro Bembo, dove chiede consigli per l’educazione del figlio Virginio; VII) a Bonaventura Pistofilo, spiega il rifiuto di andare a Roma come ambasciatore volendo rimanere a Ferrara. La struttura segue il modello di Orazio, quella della chiacchierata senza connessioni, mescolando riflessioni e autobiografia. Troviamo una struttura dialogica, il poeta dialogo con se stesso, coni destinatari, con altri interlocutori, creando un intreccio di voci. I temi centrali sono la condizione dell’intellettuale cortigiano con i suoi limiti alla libertà, l’aspirazione a una vita quieta, le attività pratiche del suo ruolo (ambasciatore), la follia degli uomini. L’atteggiamento è ironico e raramente polemico, è tollerante con gli uomini capendone la loro pazzia, ha una visione pessimistica della vita e di quel tempo. Lo stile e il ritmo  è colloquiale in prosa e spesso disadorno. Le Satire sono la chiave per capire il Furioso, in quanto si trova l’atteggiamento riflessivo e ironico sulla realtà, che nel Furioso è la caratteristica principale.

"Io desidero intendere da voi"

"Perc’ho molto bisogno, più che voglia"

"Poi che, Annibale, intendere vuoi come"

"Il vigesimo giorno di febraio"

"Da tutti li altri amici, Annibale, odo"

"Bembo, io vorrei, come è il commun disio"

"Pistofilo, tu scrivi che, se appresso"

Commedie

Si occupò di teatro, allestendo gli spettacoli per la festa di corte, utilizzando per i testi le traduzioni dei testi comici latini, successivamente elaborò due commedie la Cassaria e i Suppositi, per soddisfare le richieste del pubblico, si ispirò a Plauto, mirando all’intrattenimento, scegliendo però la prosa. Le sue due prime commedie a schema platina parlano del conflitto tra i giovani e i vecchi che li ostacolano, i servi aiutano i giovani e a ciò si aggiunge il motivo dell’industria boccacciana. La trama è complicata ma ha sempre un lieto fine. La scena è collocata in ambienti borghesi e cittadini. La Cassaria si svolge in una città greca ed è caratterizzata dalle trovate astute dei servi. I Suppositi si fondano su scambi di persona ed equivoci, con la novità che la scena è Ferrara. Dopo queste commedie lasciò la prosa per il verso. Nel 1520 inviò a Papa Leone X il Negromante, dove al centro della vicenda troviamo un mago imbroglione (Ariosto ironizza sulle credenze irrazionali della magia). Un’altra commedia fu la Lena, di carattere realistico, dove insiste sul tema amoroso di due giovani e sul tema dell’interesse economico della ruffiana (la Lena). Troviamo molti riferimenti a Ferrara con satire sulla disonestà e sulla corruzione. Abbozzò un’altra commedia, gli Studenti, ambientata nel mondo universitario, ma rimase interrotta, e dopo la sua morte fu ripresa e completata dal fratello Gabriele e il figlio Virginio. Ariosto ritornò sulle due commedie iniziali riscrivendoli in versi. Accanto ai testi teatrali può essere collocato la cicalata in prosa, l’Erbolario, che tratta di un ciarlatano che esalta la virtù magiche delle sue erbe.

Le liriche latine e le rime vogari

La lirica latina di Ariosto risale alla giovinezza, sono 67 componimenti tra il 1494 e il 1503, non furono mai raccolti in forma organica né pubblicati. In questi si rivela la formazione umanistica di Ariosto con i modelli di Orazio, Catullo, Virgilio e Ovidio. L’autore però mantiene un’intonazione realistica, come denuncia della durezza quotidiana e l’aspirazione all’otium. Le rime volgari non sono mai state raccolte organicamente e pubblicate solo dopo la sua morte. Troviamo anche componimenti di occasione legati ad avvenimenti contemporanei come il funerale di Eleonora d’Aragona. In molte rime si ritrova il tema amoroso e la figura dell’amata Alessandra, giungendo quasi a produrre un canzoniere per lei. Compose anche dei capitoli, componimento in terzine dantesche di una certa ampiezza, con argomenti variamenti mescolati di carattere morale o politico con riferimenti autobiografici, usa un tono colloquiale e un linguaggio medio. L’Obezzeide, è un frammento di un poema epico, composto per esaltare la casa d’Este ma interrotto per la composizione del Furioso.

Altre opere

 

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