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DELLA LINGUA ITALIANA
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Alessandro Manzoni

 

Libro primo

Capitolo primo

Dello stato della lingua in Italia, e degli effetti essenziali delle lingue.


Scio multis vestrum videri rem actam hodierno die agi.


T. Liv. 28, 40.

Io mi propongo di cercare in primo luogo qual sia la lingua italiana, poi quali siano i mezzi di cavarne que' vantaggi per cui questa lingua si vuole.

E nel volerla s'è d'accordo in tutta Italia; e di più s'è d'accordo nel credere che la c'è, anzi nel non dubitarne. Ma quale poi sia, è la bellezza di cinquecent'anni che se ne va disputando: non sempre con lo stesso calore, né con un'insistenza continua; ma come a intervalli di guerre vive e rumorose, e di tregue più o meno lunghe, più o meno generali. Guerre senza vittoria, e tregue senza pace; cioè senza che ne sia mai risultato l'impero certo e stabile, e, dirò così, il governo pratico di nessuna opinione.

Questo, per chi ci vuol riflettere, è indizio di due cose: che la questione è importante, e che non è ben posta. La ragione del rallentarsi ogni tanto le dispute, e alle volte parer quasi abbandonate, è la stanchezza e lo scoraggiamento che nasce dall'aver disputato a lungo inutilmente; la ragione del risorgere che fanno più vive che mai, è l'esserci sotto un punto che vuole però esser deciso.

Eppure ci son di quelli, anzi ci sono moltissimi che la chiamano questione oziosa e inconcludente; e, per conseguenza, non vogliono sentirne parlare. E non s'accorgono che sono anch'essi una cagione, indiretta, ma efficacissima, di farla rimaner questione, di perpetuar quelle dispute che trovano così inutili e, per conseguenza, dannose. Ché l'ostinarsi d'alcuni in contrari pareri, ha luogo appunto [2] più facilmente nella disattenzione de' molti; e quante questioni invecchiate e divenute in apparenza inestricabili nella discussion delle scole, non son finite, quando a qualcheduno è riuscito di trasportarle nella discussion del pubblico! finite, o col silenzio e con la dimenticanza, quando fossero oziose e inconcludenti davvero, o con una chiara e stabile soluzione, quando (come questa certamente) avessero un oggetto reale, e una relazion necessaria con una pratica importante.

Perciò noi vorremmo, se fosse possibile, tirar nella disputa questa gran classe d'indifferenti. Avendo, non per la natura dell'argomento, ma per la moltiplicità e complicazion de' sistemi, a disputar pur troppo con diversi, vorremmo poter cominciare da loro, che sono più di tutti gli altri insieme; vorremmo averli un momento per avversari, affine d'averli poi per giudici. Ché appunto perché non hanno inclinazion fissa per nessun particolare sistema, sono più atti a riconoscer la verità, solo che vogliano prendersi l'incomodo di guardarla un poco attentamente; e la verità, riconosciuta da loro, trionferebbe facilmente e per sempre di tutte le dottrine che si contrastano e si dividono il dominio che appartiene a lei sola.

Ma come venire alle prese con gente che dice: non ne vogliam sapere? Da che parte attaccarli? Con che ragione citarli in giudizio, e obbligarli a litigare? Ci sono due specie d'indifferenza: una meramente pratica, alla quale non si può chieder ragione, perché non pretende d'averne, e che, se pur dovesse rispondere, non avrebbe altro da dire, se non: cosa importa a me? Contro questa, se pur ce n'è una tale nel caso di cui si parla, non abbiamo armi di sorte veruna.

Ma non è, certamente, e grazie al cielo, quella de' molti coi quali noi speriamo di poter combattere. Se noi volessimo dimostrar loro l'importanza, la necessità della cosa; se dicessimo che, essendoci in Italia una quantità d'idiomi più o meno diversi, s'ha bisogno d'una lingua comune, per non esser ridotti, o a non aver che con pochi una agevole, piena, sicura comunion di linguaggio, o a spender la vita in imparar linguaggi; se dicessimo che questo è l'unico mezzo per noi di mettere insieme il lavoro di molte intelligenze, di partecipare immediatamente tutti del lavoro d'alcuni; che da questo avere o non avere una lingua comune dipende per noi l'essere una nazione, o una moltitudine di tribù, l'esser riuniti in una civilizzazione comune, o divisi in non so quante barbarie; troverebbero stravaganza il creder necessario di dir cose tali, e ingiuria il dirle a loro.

Non è il bisogno della cosa che negano: tutt'altro; ma bensì il bisogno della ricerca. E per qual ragione? Perché, dicono, il fatto la dimostra superflua. E poiché hanno detto questo, non posson più sfuggir con onore la lite. E' una cosa che potrà esser vera, ma che non è certamente d'immediata evidenza; che potrà esser dimostrata, ma che ha bisogno d'esserlo, quando ci sia chi la neghi. Ora, noi la neghiamo apertamente; noi pretendiamo che il fatto (chi non si contenti d'allegarlo, ma lo esamini) è appunto quello che dimostra il contrario, cioè che la ricerca è necessarissima; noi pretendiamo che gli argomenti che si possono addurre in favore del loro assunto (ci scusino, perché, volendo tirarli a litigare abbiam bisogno di stuzzicarli un pochino) non hanno fondo, ma soltanto un'apparenza superficialissima; e che essi medesimi saranno costretti di confessarli falsi, appena appena voglion guardare [3] al di là di quella prima apparenza. Il male è che, per poter confutare questi argomenti, dovremo esporli noi medesimi; giacché una tale opinione, come per lo più quelle che hanno un intento puramente negativo, si manifesta piuttosto ne' discorsi, di quello che sia sostenuta ex professo ne' libri; e quindi non sapremmo dove trovare un testo bell'e fatto, da confutare. Faremo però in coscienza tutto ciò che può dipender da noi, per non levare a quell'opinione nulla della sua forza apparente. Ecco dunque cosa ci pare che potrebbe dire uno di questi indifferenti(e chiedo, per lui e per me, il permesso di non star rigorosamente alle leggi della creanza; giacché alle volte non lasciano dir la cosa chiara; e se c'è ragione di potersene dispensare, è appunto quando si parla contro di sé, e quando si parla a un personaggio ideale, o a molti, che è tutt'uno):

– Se l'esser cinquecent'anni che si disputa pare a voi una buona ragione per continuar a disputare, servitevi: noi n'abbiamo una bonissima per starcene fuori, e per riderne, se, da una parte non fosse cosa da piangere; ed è che sono anche cinquecent'anni che, in mezzo alle dispute, indipendentemente dalle dispute, malgrado le dispute, la cosa cammina, la lingua italiana fa, senza interruzione e imperturbabilmente, il suo mestiere di lingua. Ma l'affermarlo non basta, dite voi. E che? dovrem dunque dimostrar sul serio che si scrive e si parla in Italia una lingua comune? addurre in prova le stamperie e le valige della posta? rammentarvi che voi milanesi, quando vi trovate con un italiano di qualunque altra parte d'Italia, v'intendete pure con lui, servendovi d'un mezzo che non è il linguaggio milanese, né una lingua straniera? E cosa volete? per noi profani, una lingua non è altro che un mezzo d'intendersi uomini con uomini. Ma che dico? altro che con uno alla volta! Voi vi mettete ora a scrivere un libro (il cielo ve lo perdoni, o piuttosto ve ne distolga), un libro, per cercare, dite voi, qual sia la lingua italiana, cioè (se queste parole hanno a significar qualcosa) qual sia il mezzo per intendersi tra di loro gl'italiani di tutte le parti d'Italia. E per chi lo scrivete questo libro? Per gl'italiani di tutte le parti d'Italia, e, suppongo, con la fiducia che vi devano intendere; cioè con la fiducia che sia trovato ciò che proponete loro di cercare. Non è egli un far come quello che cercava dell'asino, e c'era sopra? Vedete gli stranieri: fanno essi codeste questioni sulle lingue loro? Credo piuttosto che si maraviglino delle nostre, che non sappiano indovinare il soggetto o il pretesto, e che ci compatiscano. E non dev'egli infatti parer loro una cosa strana, che una lingua lodata, ammirata da molti di loro, e da qualcheduno anche invidiata, una lingua famosa dal primo risorgimento delle lettere, una lingua che ha rivelate all'Europa tante verità, promosse o aiutate tante mutazioni d'idee e di fatti, prodotte tante opere insignì in tanti diversi generi, si disputi, si cerchi qual sia, e nel luogo appunto dove ha fatto tutto questo, e dove, se Dio vuole, non ha cessato di vivere e di fare? In vece dunque d'accettare il vostro invito, noi vi daremo un parere. Lasciate a terra questo sasso di Sisifo, che è ricaduto già tante volte, benché spinto in su anche da braccia robuste e famose. Prendete, in questo, esempio dagli stranieri, che è un buon esempio; anzi fate come tanti italiani, i quali, senza neppur darsi per intesi di tutto codesto battagliar sulla lingua, l'adoprano [4] a trattar cose utili, interessanti, concludenti; e ottengon così il fine, del quale voi vorreste che si buttasse via il tempo a cercare il mezzo. Che se persistete nel vostro proposito, noi non possiamo se non desiderare che nessuno vi dia retta. E quando pure vi riuscisse di ridestar queste dispute, che, dopo un momento, sempre troppo lungo, di fervore, paion ora quasi sopite, non potremmo far altro che deplorare il destino singolare di questa nostra Italia, condannata, non si saprebbe dir perché, a disperdere una parte della sua attività intellettuale intorno a una questione sciolta dal fatto –.

Se questa, comunque ci sia riuscito d'esporla, è in sostanza la tesi di que' molti, siam più avanti di quel che potrebbe parere a prima vista. Non solo l'errore su cui è fondata, è facile a riconoscersi, ma insieme con l'errore c'è un elemento vero e essenziale della questione. Dimanieraché, per tirarli con noi, non abbiam che a cercare di metterli ben d'accordo con loro medesimi. Ecco dunque la nostra risposta, la quale, pur troppo, dovrà esser più lunga. Una lingua, avete detto, non è altro che un mezzo d'intendersi uomini con uomini. Siate benedetto! E' una verità volgarissima, come avete aggiunto; ma bisogna appunto principiar da queste per arrivare a buon fine. E vedete come siamo sulla medesima strada: cercando la lingua italiana, io non mi propongo di cercar altro che il mezzo d'intendersi italiani con italiani. Ma voi dite: s'intendono già. Se però volete osservare un momento cosa importi il principio, vedrete, son certo, quanto codesta applicazione sia precipitata. Ditemi, infatti: quando, nel leggere le Fourberies de Scapin, voi v'abbattete a quelle parole: Dites–moi un peu, fous, monsir l'homme, s'il ve plait, fous savoir point où l'est sti Gironte que moi cherchair; non le intendete voi come il rimanente? Direte però che siano lingua francese, o una lingua qualunque? Son sicuro che intendete ugualmente le Epistolae obscurorum virorum d'Ulrico de Hutten, o chiunque sia l'autore di quella facile e superficiale buffoneria, e le poesie maccaroniche di Teofilo Folengo, e che non vorreste chiamar, né l'une né l'altre, lingua latina, né lingua. E quando si dice a uno: voi possedete la tal lingua; e quello risponde: no, no; mi farei intendere in quella lingua, ma possederla, no; vi par egli che faccia una distinzione senza fondamento? Supponete ancora, che si trovino insieme un inglese, un tedesco, uno spagnolo, ognuno de' quali ignori la lingua degli altri due, e tutti sappiano passabilmente il francese. Potranno, con questo mezzo, discorrer tra di loro alla lunga, per degli anni a un bisogno, chiedere e dar notizie, raccontare, discutere, provare, mutar opinione su un punto, sull'altro, per le ragioni addotte in contrario; ovvero (giacché, a quel che dicono, accade alle volte anche questo) confermarsi ognuno nella sua. E noi diremo che s'intendono; ma diremo forse che possedano una lingua in comune? chiameremo lingua la somma di vocaboli francesi che possano esser saputi da quei tre, la maniera, o le maniere con cui ne accomodan molti, facendosi pure intendere, e la giunta d'anglicismi, di germanismi e di spagnolismi che v'intrecciano, e coi quali s'aiutan pure a farsi intendere? Che voglio io con questi esempi? Una cosa sola; e son certo d'averla ottenuta: far dire a voi medesimo, che il fatto generalissimo d'un intendersi, non è la prova del possedere una lingua in comune; che, se [5] ogni lingua è un mezzo d'intendersi, non ogni mezzo d'intendersi è una lingua; che si può intendersi più o meno, in gradi e in modi molto differenti, e non aver però in comune quel pieno, quel sicuro, o, senza cercar di più per ora, quello special mezzo d'intendersi, che si chiama lingua; e che, quindi, per conoscere se gl'italiani possedan di fatto una lingua in comune, e sia, per conseguenza, assunto falso e ozioso il farne ricerca, bisogna vedere, non se gl'italiani s'intendano tra di loro, ma come e quanto s'intendano. Il fatto, il fatto! m'avete detto; e, certo, non si può citare un miglior testimonio, purché sia vero, e sia quello che fa al caso. Ma quello che m'avete poi addotto, è un fatto bensì, ma non è quello che concluda. Si parla e si scrive: chi ne può dubitare? ma il fatto concludente per noi, cioè se, e parlando e scrivendo, gl'italiani s'intendan tra di loro in quel grado e in quel modo speciale che è prova del possedere una lingua in comune, rimane ancora da esaminare. E poiché avete distinti questi due modi del fatto, il parlare e lo scrivere, sarà bene esaminarli a parte, cominciando dal primo. Ma dovrem noi, per fare un tale esame, determinare anticipatamente qual sia quel grado e quel modo speciale, o, in altri termini quali siano i veri e interi effetti d'una lingua? No; poiché c'è una strada più piana e non meno sicura, per la quale si può arrivare a riconoscerli: quella de' paragoni. Se, confrontando il mezzo d'intendersi che gl'italiani possiedon di fatto in comune, con altri mezzi d'intendersi, non ideali, ma di fatto anch'essi, troviam quello mancante d'effetti che vediamo in quest'altri; e d'effetti che si manifestino, con immediata evidenza, come essenziali a una lingua, non direte più che non ci sia ragion di cercarla. Anzi voi stesso l'avete suggerito questo metodo, e somministrata la materia, citandomi il mio esempio; e quello degli stranieri. L'uno e l'altro fa molto a proposito. M'avete detto che io, milanese, quando mi trovi con altri italiani non milanesi, m'intendo con loro. C'è qui qualcosa di sottinteso, che fa molto per l'argomento, cioè che ho due mezzi diversi per intendermi, uno coi milanesi, l'altro con tutti gli altri italiani. Confrontiamo questi due mezzi, e vediamo s'io li possiedo tutt'e due in maniera di poterne ottenere gli effetti medesimi. Ma, di grazia, permettetemi di metter da parte quest'io, noioso a sentire e impicciante a ripetere, anche quando sia per tutt'altro che per vantarsi. Pur troppo dovrà tornare in campo altre volte: ora si può, anzi è utile farne di meno. Voi m'avete citato me, non come me, ma come milanese: sostituiamo all'individuo un crocchio; e contentatevi d'entrarci anche voi, e come parte, e come giudice dell'esperimento. Supponete dunque che ci troviamo cinque o sei milanesi in una casa, dove stiam discorrendo, in milanese, del più e del meno. Capita uno, e presenta un piemontese, o un veneziano, o un bolognese, o un napoletano, o un genovese; e, come vuol la creanza, si smette di parlar milanese, e si parla italiano. Dite voi se il discorso cammina come prima, dite se ci troviamo in bocca quell'abbondanza e sicurezza di termini che avevamo un momento prima; dite se non dovremo, ora servirci d'un vocabolo generico o approssimativo, dove prima s'avrebbe avuto in pronto lo speciale, il proprio; ora aiutarci con una perifrasi, e descrivere, dove prima non s'avrebbe avuto a far altro che nominare; ora tirar a indovinare, dove prima s'era certi del vocabolo che si doveva usare, anzi non ci [6] si pensava; veniva da sé; ora anche adoprar per disperati il vocabolo milanese, correggendolo con un: come si dice da noi. Cosa, del resto, che ci potrà anche accadere senza che ce n'avvediamo; e allora potrà accadere a lui, non solo di trovare strano il vocabolo, ma di non sapere cosa si sia voluto dire. E non parlo di vocaboli che esprimano cose particolari a questa parte d'Italia: già non possono esser molti; ma, molti o pochi che siano, son fuori della questione: in que' casi non si esita, non c'è ragione d'esitare, come non si esita a nominar con vocaboli arabi, chinesi, indiani, selvaggi, cose esclusivamente arabe, chinesi, indiane, selvagge. Parlo di cose che, anche senza essere stati nella parte d'Italia, di dove è quel presentato, sappiam di certo che son comuni là, come qui; cose comuni, dico, e modificazioni o relazioni di esse, ugualmente comuni e, per dir così, necessarie, inevitabili; casi giornalieri, operazioni abituali, giudizi e sentimenti, de' quali, la somiglianza delle cose umane, e la somiglianza degli animi umani, rendon la ricorrenza frequente per tutto. Che dirò di più? oggetti materiali, sia dell'arte, sia della natura; cose che vediamo ogni giorno, girando per le strade, cose che abbiamo in casa, che fanno parte della casa medesima; ordigni, arnesi, mobili, vestiti, cibi, animali, piante, cento altre cose, comuni in tutta l'Italia. Una lingua, m'avete detto (e ve ne ringrazio di nuovo), non è altro che un mezzo d'intendersi uomini con uomini. Posto ciò, vi domando se il cercare un mezzo d'intenderci italiani con italiani, uguale a quello che abbiamo d'intenderci milanesi con milanesi, napoletani con napoletani, bolognesi con bolognesi, piemontesi con piemontesi, e via discorrendo; un mezzo di dir tutti nella stessa maniera ciò che diciamo tutti, ma in non so quante maniere, sia cercare una cosa, o inutile, o che abbiamo digià. Nominar direttamente una parte soltanto delle cose che occorre di dire; e una parte di questa parte, con vocaboli noti a chi sente, come a chi parla; ma un'altra parte, con vocaboli che il contesto o l'analogia gli fa bensì intendere, ma che gli riescono strani; un'altra con vocaboli che non conosce né intende; è una cosa che, in un certo senso, si può chiamare un intendersi, come si chiama vestito anche quello che sia pieno di toppe, di buchi e di sbrani; ma vi domando se è l'intendersi di quelli che possiedono una lingua in comune. Permettetemi qui un'osservazione incidente, ma non fuori di proposito. Quante volte non si sente dire che è una vergogna (lasciando da parte l'inconveniente)che, tra civili, colte, dotte persone, si parli milanese a Milano, piemontese a Torino, bolognese a Bologna, e lo stesso si dica di tanti altri idiomi o linguaggi, o dialetti, come si vuole, più o meno sconosciuti, strani, barbari fuori d'una parte più o men circoscritta d'Italia. E perché dunque si fa? Per un capriccio? un gusto strano di far ciò che noi medesimi deploriamo, e diciamo essere una vergogna? Sarebbe strano davvero. se fosse gusto o capriccio; ma la ragione c'è benissimo; anzi l'abbiam veduta in questo momento. E è che, se noi milanesi (e dite lo stesso di tutti gl'italiani che parlano qualcheduno di quest'idiomi) volessimo smettere, ora com'ora, il milanese, cioè un mezzo d'esprimerci che possediamo interamente e davvero, per adoprarne in vece uno di cui non conosciamo che una parte, e senza neppure discerner con certezza, quanta né quale, ci troveremmo tutt'a un tratto sprovvisti, non dico soltanto d'una quantità d'espressioni vivaci, argute, energiche (che è pure una parte di lingua, e una parte più importante di quello che può parere a prima vista); ma d'una quantità di termini evidentemente e usualmente necessari al discorso; ci troveremmo sempre nella condizione in cui, come v'ho fatto osservare or ora, ci troviam qualche volta. E perciò non è da sperare che il costume di servirsi di tali idiomi (per quanto siano riconosciuti barbari da quelli stessi che li parlano, come dal resto degli italiani) cessi, né diminuisca, se non in proporzione che si possieda in comune un idioma, un linguaggio, una lingua, come volete, la quale sia atta [7] a prestar gli stessi servizi, e con la quale, milanesi, napoletani, genovesi, piemontesi, tutti coloro insomma che sono nella condizione sopra detta, si trovino aver bensì mutato il modo, ma non scemata la facoltà d'esprimersi. Ma cosa dico, non è da sperare? Come se fosse da desiderare che degli uomini s'accordino nello strano proposito di buttar via un mezzo proporzionato al bisogno, per prenderne uno, relativamente a loro, mancantissimo; e a qual bisogno? al più generale, al più frequente, anzi continuo; a quello che è legato con tutti i fatti sociali, anzi inerente alla società medesima, il discorso. Sarebbe proprio mettere il carro avanti i buoi. No, no; non è né da sperare, né da volere che questo tristo costume cessi né diminuisca, se non in proporzione che si possieda una lingua in comune. Ma per possederla, bisogna acquistarla chi non l'ha, come avete dovuto veder che ce n'è; e per acquistarla, val a dire per acquistarne tutti una, bisogna andar tutti d'accordo in riconoscerne una, e dire a una voce: l'è questa. E quando, in vece, sotto il nome di lingua, son proposte molte cose diverse; quando alcuni dicono: è questa; altri: no signore, è quest'altra; e tutti gli altri non dicon niente, vedete bene che il preliminare più necessario, è appunto quello che voi dicevate superfluo e peggio: cercare, esaminare e, se non si può far di meno, discutere qual sia questa lingua. Ma io son venuto troppo presto alla conclusione. Non già che quello che s'è detto fin qui non basti per dedurla logicamente, e con una certa evidenza subitanea. Ma la verità che si stabilisce nella mente, e ne fa sgomberare l'opinioni contrarie, e finisce a portar conseguenze pratiche, non è tanto quella che s'è riconosciuta subito, quanto quella che s'è conosciuta adagio; non tanto quella che si vede al chiarore d'un baleno, quanto quella che si considera alla luce continuata del giorno. Ed è una fortuna per la nostra discussione, che voi, adducendomi diversi argomenti, m'abbiate imposto l'obbligo d'esaminare il fatto da altrettante parti, e dato un motivo ragionevole di dimostrar più d'una volta una cosa medesima. Ed è appunto quello che si dovrà fare con l'altro confronto che m'avete proposto, cioè del fatto italiano coi fatti stranieri dello stesso genere. Ma, oltre il vantaggio che ho detto, ci troveremo anche quello di troncar la strada a una questione intempestiva. Che se volessi contentarmi. di quel primo confronto, mi si potrebbe dire: che conseguenze pretendete voi di cavarne? si tratta d'una lingua, e voi ce la paragonate con un dialetto. E per rispondere a una tale obiezione, bisognerebbe esaminare se i dialetti siano o non siano lingue; o in altri termini, se tra quelli che si chiamano dialetti, e quelle che si chiamano lingue ci sia una differenza reale, e se consista nell'essenza della cosa, o sia puramente accidentale. Questione importantissima bensì al nostro argomento, ma non da potersi trattare in questo luogo. E' vero che una tale obiezione sarebbe tanto strana, che dovrebbe parere strano anche il temerla; poiché chi la facesse, verrebbe a dire con essa, che una lingua, come l'intende, come la vuole, come se ne contenta lui, è meno d'un dialetto; e in cosa? nell'aver mezzi di significare, che è il proprio intento della lingua. Ma i sistemi [8] arbitrari non si prendon pena dell'intento della cosa: hanno il loro. Da voi specialmente poi parrebbe che non si dovesse temere un'obiezion simile, poiché l'avete esclusa implicitamente, riducendo addirittura la questione a quell'intento vero, essenziale, generalissimo, col dir che le lingue sono mezzi d'intendersi. A ogni modo, e per quanto dunque una tale obiezione sia inconcludente, sarà utile il fare un altro confronto, nel quale essa non possa neppure aver luogo; cioè un confronto del fatto su cui discutiamo, con qualche altro fatto, di quelli a cui, da tutti, in ogni occasione, e senza esitare, si dà il nome di lingue. Neque ita multae; ne pertimescas(nota 1): non abbiate, dico, paura ch'io voglia venirvi addosso con un'erudizione soverchiatrice, e farvene passare in rassegna un esercito. Ho le mie buone ragioni per contentarmi d'una sola; e, per fortuna, l'argomento non ne richiede di più. Per farci conoscere se il mezzo d'intenderci, che possediamo in comune noi italiani, produca gli effetti veri d'una lingua, una lingua in cui li troviamo e li riconosciamo, serve quanto mille. Supponete dunque che, trovandoci noi due insieme a Parigi, vogliamo profittar di quel soggiorno per impossessarci della lingua francese, e che, avendo fatta la conoscenza d'un uomo di garbo e compiacentissimo, pensiamo di farci aiutar da lui, domandandogli, a molte alla volta, le parole francesi che ci mancano, e di cui sentiamo più il bisogno. Meno l'indiscretezza, vi par egli che sia un ritrovato strano, nuovo, capriccioso? un espediente che non abbia che fare col fine d'impossessarsi d'una lingua? So che non vi pare; dunque vo avanti, e dico(altra cosa che non vi par punto strana) che il buon parigino ci dà queste parole; e (fate conto) del genere di quelle che s'è detto nell'altra ipotesi. Noi le mettiamo in carta, di mano in mano, di maniera che, alla fine, se ne fa una bella lista. Ritornati in patria, passato qualche tempo, un giorno ch'io mi trovo da voi, capita improvvisamente il nostro parigino; e, [9] dopo l'accoglienze oneste e liete, all'esibizione che gli facciamo a gara di servirlo in tutto ciò che possiamo, risponde: non mi fo pregare; anzi avevo già fatto conto su tutt'e due. E ci domanda se per caso, avremmo serbata quella tal lista. Rispondiamo di sì; ne mostra molto piacere, e dice che, volendo profittar del suo viaggio in Italia, per impossessarsi della lingua italiana, ha pensato di chiederci la pariglia, e ci prega di restituirgli in tante parole italiane quelle che ci ha date in francese. Chi deve rispondere di noi due? Credo che sia lo stesso, perché non gli possiam dare che una risposta sola; cioè che, per quanto sia il nostro desiderio di servirlo in tutto e per tutto, alcune di quelle parole gliele possiamo dare, altre no. Eh! già s'intende, risponde lui: ogni paese e, per conseguenza ogni lingua ha le sue particolarità; e ci saranno sicuramente su quella lista, delle parole di cui non avrete l'equivalente in italiano, perché non avete le cose. Vi chiedo naturalmente le parole che significano cose comuni a voi e a noi. Bisogna dirgli che, anche di queste non gliene possiam dare che alcune. Non potendo neppur passargli per la mente, che siano pretesti per schivar la fatica, e non vedendoci la materia d'uno scherzo, non sa cosa si pensare. – Come! esclama: non mi sapreste dire come si chiamino in italiano tutte queste cose, per esempio? – E ne nomina in francese una quantità di comunissime, e che sono su quella lista, cominciando da tante che vede nella stanza in cui ci troviamo. Vi sarà certamente accaduto più d'una volta di sentir qualcheduno de' nostri domandar come si chiami in italiano una cosa o un'altra, e qualchedun altro rispondere: per me, crederei che potrebbe andar bene il tal vocabolo, poiché nel tal altro, caso analogo, s'adopra il tal altro; ovvero: io direi così, con una derivazione naturalissima dal tal altro vocabolo; ovvero: c'è il vocabolo latino che, con una modificazione leggerissima, o anche tale quale, può far benissimo effetto in italiano; ovvero: perché non si potrebbe adoprare il vocabolo milanese, che suona bene, non ha una forma niente strana, e deve intenderlo facilmente anche chi non è milanese? Ma a uno straniero credo che non vi sentiate più di me, di dar delle risposte di questa sorte. Son vocaboli, e non progetti di vocaboli, che ci chiede, e crede di chiederci la cosa più semplice , più naturale di questo mondo; perché, da una parte, sa, o piuttosto sottintende che una lingua ha bensì più o meno vocaboli d'un'altra , ma che ogni lingua ha necessariamente i vocaboli significanti le cose di cui parlano giornalmente quelli che la possiedono; e dall'altra, suppone, appunto come voi, che noi due possediamo la lingua italiana. Lui non ci ha dato di queste risposte; e davvero saremmo stati freschi, col nostro desiderio d'impossessarci della lingua francese! Non ci chiede nulla di più di quello che ci ha dato, quando toccava a lui: vocaboli d'una lingua; e per lingua intende, con tutto il genere umano, una cosa che s'adopra, e non una cosa che si fa. Cioè (per non dimenticare una distinzione essenziale) si fa anche, anzi si fa continuamente; ma a pochissimo per volta, e ciò per le condizioni essenziali della cosa stessa, come vedremo altrove. Si fa, dico, continuamente, con l'entrarci di mano in mano qualche vocabolo nuovo. Ma quando si fanno questi vocaboli [10] nuovi, o per dir la cosa ne' suoi precisi termini, quando c'è egli bisogno di farli? Quando si tratti d'esprimere qualche idea nuova. Una lingua nella quale ci sia bisogno di fare, o di prendere altrove (che, riguardo alla questione presente, è lo stesso) de' vocaboli, per significar le cose delle quali si parla abitualmente, si può immaginarsi d'averla, ma presentarla a uno che ci ha fatto vedere in pratica quali siano gli effetti reali d'una lingua, non credo che n'abbiate il coraggio. C'è un'altra risposta che potrebbe facilmente esser data, o piuttosto un'altra ragion di non rispondere, che potrebbe essere addotta, se la cosa passasse tra italiani e italiani. Essendoci in quella lista molti nomi di cose comuni, famigliari e, come si dice, del vocabolario domestico, si potrebbe dire: cos'andate a cercar codeste miserie? Quando si parla di lingua, di lingua colta, s'intende una cosa fatta per servire a usi ben più alti, più vasti, più importanti. Ma anche questa (lasciando da parte, come considerazione inutile in questo luogo, che le cose delle quali voi e io non conosciamo il vocabolo italiano, non sono pur troppo di quel genere solo) anche questa è di quelle che a uno straniero non si dicono. Come dire: – cos'andate a cercare? – a chi, non sapendo, né potendo immaginarsi che significato di convenzione si possa dare in un paese al nome di lingua, e associando a questa parola le nozioni del senso comune, chiede a una lingua i vocaboli che, come lingua deve avere? Che n'abbia degli altri, per servire ad altri argomenti più scelti, sarà benissimo, anzi dev'essere. Questo, lui non lo nega punto, ma non ci pensa, perché infatti non ha ragion di pensarci. Chiede i vocaboli che, in quel momento, fanno per lui, quelli che li pare e piace, e che quella lingua, se è lingua, devo avere. Sarebbe bella che la dignità delle lingue fosse come quella del conte Ottavio, della Castalda del Goldoni, che è un troppo gran nobilone per aver del pane in casa. Sarebbe bella (per prendere un esempio, da due epoche e da due uomini, nobili in fatto di parola, quanto si possa dire) che Cicerone e Bossuet non avessero dovuto saper dire, l'uno in latino, l'altro in francese, le cose comuni, usuali, che occorreva pur loro di dire, come al comune de' loro concittadini e contemporanei. Miserie quant'uno vuole, ma cose (e lascio da parte anche qui, come considerazione ugualmente superflua, che le cose più comuni, può qualche volta venire a taglio, anzi esser necessario di nominarle, in qualunque più alto argomento) cose, ripeto, che una lingua le deve avere, e quelli che è la loro lingua, saperle. Una la quale non serva che a certi generi d'argomenti, si può, dirò anche qui, immaginarsela; non avere il coraggio di proporla direttamente a chi ce ne ha fatto vedere una vera, cioè una che serve a dire tutto ciò che occorre in fatto di dire a quelli che l'hanno. Sicché il meglio, anzi la sola cosa che possiam fare, è dire addirittura al nostro parigino i vocaboli italiani che sappiamo, e gli altri, confessargli che non li sappiamo. Non li sapete? esclama: com'è possibile? Che non le nominiate mai queste cose? Bisogna rispondergli che le nominiamo a tutto pasto.

Che mistero o che indovinello è codesto?, riprende: le nominate, e non sapete come si chiamino! Bisogna dirgli che i vocaboli che adopriamo per nominarle non sono quelli che vuol da noi. Come no? riprende ancora: che diavolo di vocaboli sono? Bisogna dirgli che son vocaboli milanesi. [11] M'avete detto che gli stranieri devono maravigliarsi del nostro disputare intorno alla lingua. Io credo che questo in cui siam capitati si maravigli un po' più, di trovare un fatto di questa sorte. Anzi mi pare che deva fargli cessar la maraviglia di quell'altro; perché qual cosa più naturale, più ordinaria che il disputare intorno alle cose che non camminano bene, che non producon gli effetti che dovrebbero produrre? Resta lì un momento, e poi dice: ora intendo, ma non l'avrei indovinato. Che in Milano ci sia un idioma particolare, un patois, come diciamo noi, e come n'abbiam tanti anche in Francia, non mi pare punto strano, e neppure che voi altri, essendo nati e vivendo in Milano, intendiate quest'idioma, e lo sappiate anche parlare; ma che vi mancassero i vocaboli italiani, non me lo sarei aspettato. E se mancano a voi altri, vuol dire, senza farvi un complimento, che mancano in questa parte d'Italia; giacché, se ci fossero, se ci fossero, dico, nella maniera che i vocaboli sono in tutte le lingue, cioè con l'essere usati, come diamine avreste fatto voi altri, per riuscire a ignorarli? Ma poiché la è così, vedo che, invece dell'aiuto immediato che aspettavo da voi altri, devo restringermi a chiedervi una direzione. Ditemi dunque (e questo non mi potreste rispondere che non lo sapete), ditemi dove posso farmi tradurre codesta lista in italiano, dove aver tutti gli altri vocaboli italiani ch'io possa chiedere, e che la lingua italiana deve avere; dove, per esempio, girando per le strade, entrando nelle case, e indicando le cose che vedo, e delle quali tutti parlano, possa saper come si chiamino in italiano. E per chiuder tutto in una parola, in quella che tutto comprende, ditemi dove possa trovare questa benedetta lingua italiana. Vi sentite voi di dirgli, come avete detto a me, che è una richiesta oziosa, superflua, senza scopo? Non credo. Col vostro permesso, dunque, parlo io, e gli dico: Facendoci una domanda, alla quale, contro ogni vostra aspettativa, non possiamo risponder d'accordo, voi avete decisa una nostra questione, e una questione nella quale siete giudice, senza saperlo; perché lui s'è appellato a voi, dicendomi: – domandatene gli stranieri, e sentirete –; e io v'ho accettato con tutto il cuore. Siam dunque d'accordo noi due (giacché sapete che per discordare intorno a una cosa, bisogna esser d'accordo su qualche altra) siam d'accordo nell'ammettere che c'è una lingua italiana. Ma (e qui nasce il nostro disparere) io dico che c'è gran bisogno di mettere in chiaro qual sia, o dove sia, che è tutt'uno, questa lingua: fo a lui la domanda medesima che voi ci avete fatta a tutt'e due; e lui dice che è cosa superflua, anzi irragionevole l'occuparsi di ciò, perché questa lingua noi la possediamo già, e gli effetti lo dimostrano. Ora, è appunto per aver conosciuti questi effetti, che voi ci avete fatta una tale domanda. Dico: conosciuti; perché quello che n'avete visto, è, dirò così, la mostra di tutta la pezza; e per quanto noi andassimo avanti a moltiplicare ognuno le prove della sua tesi, potremmo bensì accrescer la materia, ma non mutar la ragione del vostro giudizio. Lui potrebbe dirvi una gran quantità di vocaboli e modi di dire, che affermerebbe (e, suppongo, con tutta la ragione) esser noti e usati in tutta Italia; io, senza mai domandargli, né se molti di que' vocaboli e modi di dire siano noti e usati in tutta Italia, perché appartengono di fatto a una lingua comune, o perché siano comuni a tutti gl'idiomi d'Italia; né se molt'altri siano noti e usati in tutta Italia nella stessa maniera, o in qualche parte usati veramente da tutta la popolazione, [12] e nell'altre parti, noti solamente ad alcuni; senza, dico, imbrogliar la questione preliminare, con altre, importanti sì, ma intempestive, non farei altro che allegare un'altra gran quantità di vocaboli e modi di dire milanesi, pregandolo invano di darmi de' vocaboli corrispondenti, che sian noti e usati in tutta Italia. E s'intende sempre vocaboli e modi di dire significanti cose delle quali si parla abitualmente e inevitabilmente in tutta Italia. Ma forse non è giusto che conti per una vostra decisione espressa una parola che avete detta con tutt'altro intento, e senza sospettar che potesse esser presa per tale. Vi domando dunque formalmente se uno il quale sapesse e ignorasse del francese quelle tante cose che avete visto che noi sappiamo e ignoriamo dell'italiano, direste che possiede il francese; vi domando se, con l'esperienza che avete di codesta vostra lingua, con l'idea che avete di ciò che è necessariamente una lingua qualunque, credete che noi due, e con noi tutti quelli che possan trovarsi in una condizione uguale alla nostra, possediamo la lingua italiana; o se credete che, per possederla davvero, abbiam bisogno d'acquistarla, e, per la prima cosa, di cercarla, giacché non possiam dirvi d'accordo qual sia. Cosa vi pare che risponda? Ma forse potrete dire che, come accade spesso a chi fa delle ipotesi, io ho composta la mia nella maniera che tornava meglio al mio assunto; non già nella parte che riguarda noi altri, ché li è fatto mero; ma nel supporre molto largamente, cioè arbitrariamente, che il mio parigino ci sapesse somministrare addirittura tutti i vocaboli e modi di dire francesi, che a noi venisse in testa di chiedergli. Avete ragione: nessuno possiede tutta quanta una lingua; e quindi, per render l'ipotesi più giusta, cioè per non metter nel fatto immaginato più di quello che c'è ne' fatti reali, bisogna supporre che noi, con la smania che avevamo d'imparar parole francesi a bizzeffe, e di diversi generi, abbiam potuto domandargliene di quelle che lui abbia dovuto rispondere, come noi per l'italiano, che non le sapeva. Ma osservate, di grazia, due differenze essenzialissime tra il suo non sapere, e il nostro. La prima, che i vocaboli della lingua francese, che mancano a lui, sono vocaboli significanti cose delle quali non gli occorre di parlare, né di sentir parlare. Non ha come noi, un'altra lingua... oh! scusate: m'è scappata questa parola, non rammentandomi che è un punto in questione se il milanese e gli altri che chiamiam dialetti, siano o non siano lingue; non ha, dirò dunque, come noi, un altro mezzo col quale nomini quelle cose, e le senta nominare. Non conosce, è vero, che una parte de' vocaboli che compongon la lingua francese: possedere una lingua non è più di questo. Ma ne conosce quella parte che significa le cose delle quali parla; e possedere una lingua è questo. Ed è questo che non possiam dire d'aver noi, riguardo all'italiano: dico noi due, e tutti quelli che, come noi, non solo non sanno, ma non pretendono nemmeno di saper nominare in italiano, se non alcune delle cose che nominano abitualmente. L'altra differenza è che, dopo aver confessato di non saper que' vocaboli, il nostro parigino può aggiungere: però, giacché desiderate di saperli, [13] e ci sono di certo, poiché abbiamo le cose, li cercherò, e ve li saprò dire un'altra volta; e, con questa occasione, gli avrò imparati anch'io. Vedete voi un'altra condizion delle lingue, poter l'individuo trovare i vocaboli che mancano a lui, ma che la lingua deve avere? Condizione naturale e innata in tutte le lingue; giacché cosa son esse, se non complessi di vocaboli? e come si distinguerebbero, come ci sarebbero, se non ci fosse una maniera di trovare i vocaboli di cui ciascheduna è composta? Ecco perché al nostro straniero, il quale, per lingua francese, intende una lingua davvero, non vengono neppure in mente quegli strani ripieghi: io direi; si potrebbe dire; perché non si direbbe? Strani ripieghi davvero; giacché, lasciatemelo ripetere, è bensì cosa ragionevole l'inventare o il prendere altrove i vocaboli, quando mancano; ma quando mancano a chi? All'individuo? Bella cosa sarebbero le lingue, se tanto più uno ne fosse padrone, quanto meno le conosce; se dovessero vivere de' diversi tentativi che diversi uomini facessero, per dar loro quello che, come lingue, devon già avere. Il paragone della lingua francese, potrebbe qui dire alcuno, non fa al caso, non prova nulla, perché le nostre circostanze sono diverse. Come se la natura delle cose potesse dipendere dalle circostanze di chi se ne vuol servire! Un tal ragionamento è simile a quello di chi, dopo aver parlato d'un suo diamante, cavasse fuori un pezzetto di vetro, e dicesse: – in virtù delle mie circostanze, questo è un diamante. Il mineralogista, il gioielliere, chiunque ha pratica di gioie, vi dirà, a prima vista, che non è un diamante; ma avrà giudicato in fretta e male, perché non si sarà fatto carico delle mie circostanze –. Le vostre circostanze, gli si direbbe, possono far bensì che voi non possediate un diamante; non già che diventi tale ciò che non lo è. Ma un fatto di questa sorte, è strano anche l'immaginarlo. Non si fanno simili ragionamenti su cose materiali, e la cui essenza si riduce nell'intelletto a poche nozioni, corrispondenti a pochi e chiari e stabilmente riuniti fenomeni; dimanieraché non si può, per dir così, nominarle senza che questa loro essenza s'affacci all'intelletto, con le sue necessarie condizioni. Si fanno bensì su cose la cui essenza è un complesso non mai presente al senso, un complesso, la realtà del quale risulta da fatti sparsi e mescolati, che l'intelletto deve raccogliere e depurare, per riconoscere in qual soggetto si trovi realizzato, in quale non si trovi. E che? si potrà forse replicare: le diverse circostanze de' popoli, non portan forse delle differenze reali nelle lingue? Infine; ma non nell'essenza, non in ciò che è comune e necessario [14] a tutte, e che le fa esser lingue. E per accennare una sola di queste differenze accidentali e circostanziali, e una che ha relazione col nostro argomento, chi dubita che una lingua non possa esser più o men ricca d'un'altra? Anzi non solo questo è il fatto ordinario, ma il contrario, cioè l'esserci due lingue che abbiano il medesimo numero di vocaboli, significanti le medesime cose, sarebbe un'ipotesi assurda. E chi dubita che una tal differenza tra lingua e lingua sia cagionata da altro che da differenza di circostanze? Ma nessuna circostanza può far che sia lingua una che abbia meno vocaboli di quel che deve avere. E l'avere una lingua i vocaboli significanti le molte o poche cose di cui parlano quelli che la possiedono, non è un merito circostanziale, un privilegio accidentale di nessuna; è la condizione, la vita, l'essenza di tutte. Ricapitoliamo quel che s'è visto fin qui. Una lingua, avevate detto benissimo, non è altro che un mezzo d'intendersi. Il solo osservare che ci sono modi e gradi diversi d'intendersi, ai quali nessuno attribuisce, né vorrebbe concedere il nome di lingua, ci ha subito avvertiti che quello a cui può competere un tal nome, dev'essere un mezzo speciale, e nel modo e nel grado. Il confronto poi ci ha fatto vedere in che consista questa specialità. Abbiam visto che una lingua è un mezzo d'intendersi, uguale e, dirò così, adeguato alle cose sulle quali s'intendon di fatto quelli che la possiedono; o in termini più speciali, un complesso di vocaboli uguale alle cose nominate da essi. Verità più triviale della vostra, e che si risolve in una proposizione identica nella sostanza: una lingua è una lingua intera. Ma per ciò appunto è andar contro una verità più che triviale, negare indirettamente una proposizione identica, chiamar lingua ciò che non lo è, creder d'avere ciò che non si ha, e così levarsi da sé il primo e più indispensabil mezzo di farne acquisto, l'immaginarsi che possediamo una lingua in comune noi tutti, per quanti possiamo essere, ognuno de' quali non sa dire in italiano(dando anche per supposto che tutto ciò che gli può parere italiano, lo sia) se non una parte delle cose che dice abitualmente; noi che, se dovessimo riunirci per compilare un vocabolario italiano, accaderebbe, sa il cielo quante volte, che richiesti del vocabolo italiano significante qualcosa di cui parliamo tutti abitualmente, nessuno risponderebbe. Ecco come il parlare “italiano” che si fa in tutta Italia, dimostri che ci si possiede una lingua in comune. Vediamo ora l'altro modo, coi quale vi pare che questo si possa dimostrare ugualmente. – Si scrivono, avete detto, e si stampano, in ogni parte d'Italia, libri, in ogni genere d'argomento, che son letti e intesi in ogni parte d'Italia, e insegnano, raccontano, discutono, introducono, diffondono, confermano, bandiscono opinioni. Al pari della stampa, il carteggio mantiene in tutta Italia la più continua e la più varia comunicazion di pensieri. Le leggi, gli avvisi al pubblico, i contratti, gl'istrumenti, gli atti giudiziari, si scrivono in quella che per tutta Italia si chiama lingua italiana. Tutto vero; ma siam sempre li: che questo si faccia, non è quel che conclude; ma bensì come si faccia. Tanto è lontano che il far questo in una maniera qualunque sia l'effetto e la prova del possedere una lingua in comune, che si può fare, s'è fatto, e si fa ancora, con de' mezzi che non sono nemmeno lingue: voglio dire quelle che, con un'espressione appropriatissima, si chiaman lingue morte, cioè avanzi di lingue che [15] furono, e non sono più. Spesso, è vero, si chiamano anche lingue assolutamente; si dice, per esempio, che uno sa bene la lingua greca, la lingua latina; ma è un parlare abusivo, e che non induce equivoco per chi appena appena badi alla sostanza della cosa; come quando si dice che Napoleone fu trasportato da sant' Elena agl'Invalidi di Parigi, non si vuol certamente dire che là ci sia proprio la persona di Napoleone, con le sue facoltà, con le sue attitudini. Furono lingue, cioè (ché la questione è tutt'altro che di parole) complessi interi di vocaboli: complessi, più o meno copiosi, ma uguali alle cose nominate da coloro che le possedevano. Ciò che rimane d'ognuna non è che una quantità accidentale di vocaboli, una parte fortuita d'un tutto relativamente necessario. Ora, chi domandasse, per esempio, se non sono stati scritti più libri in latino, dacché in effetto non è più una vera lingua, che in tutto il tempo che lo fu, proporrebbe un problema insolubile bensì, per la mancanza d'un dato necessario, ma non un problema assurdo. E sarebbe tutt'altro che un paradosso il dire che, col mezzo di questa non più lingua, sono state diffuse e hanno regnato molte più verità, e molti più errori, sono stati prodotti, nelle scienze, nell'opinioni, ne' fatti, più numerosi e più gravi cambiamenti, che per mezzo d'una o d'un'altra lingua viva e colta d'Europa. Con quel latino poi sono state scritte, per più o men tempo, le leggi, in una gran parte d'Europa; con esso gli atti de' notai, e de' tribunali, le transazioni tra gli stati, con esso s'è mantenuto in buona parte il carteggio tra i dotti di varie nazioni ; con esso, in qualche stato, si trattano ancora. a voce e in iscritto, gli affari pubblici. E come mai, non essendo più lingua, ha potuto produrre tanti effetti, servire a tanti usi? In due maniere molto diverse; una delle quali non ha che fare col nostro caso; ma l'accenneremo anch'essa, e per la prima, appunto per distinguerla dall'altra, che, se non m'inganno, ci ha che far molto. Alcuni, conoscitori e, con gran ragione, innamorati della parte di lingua latina che si trova ne' libri che ci son rimasti d'un periodo del tempo in cui quella lingua fu viva, si proposero d'adoprar ne' loro scritti latini quella parte, e quella sola. E chi non sa che non pochi ci sono egregiamente riusciti? a condizione però di dir soltanto una parte delle cose che avrebbero potute dire con una lingua intera e del loro tempo, o d'alterar le cose medesime applicando ad esse de' vocaboli che ne significan dell'altre, più o meno affini, ma, in ultimo, altre; a condizione di non trattar che certi argomenti, o di non guardar che certi [16] aspetti di qualunque argomento. Condizioni, con le quali, ripeto, e malgrado le quali, uno può far prova di molta bravura; ma che non sono certamente le condizioni vere delle vere lingue. Se, passatemi un'immaginazione eteroclita, ma spiegante, se dopo che furono scritte tutte l'opere classiche dell'antichità latina, che ci rimangono, una di quelle divinità, Giove Laziale, per esempio, o il Genio del popolo romano, gli avesse detto, in un momento di capriccio: a quel tanto che c'è in quest'opere sarà ridotta la vostra lingua, e vi fo dimenticar tutto il resto; il popolo avrebbe risposto: quello che ci lasciate è, senza dubbio, una cosa magnifica; ma quello che ci portate via, è una lingua. Ma, per venire all'altra maniera, la quale ha pur troppo molta somiglianza col caso nostro, cioè con lo scrivere che si fa in tutta Italia; altri, servendosi del latino, fin che ce n'era, o fin dove lo conoscevano, supplivano al rimanente o col derivar nuovi vocaboli dal latino medesimo, o col prenderne di bell'e fatti da questo e da quell'idioma vivo, assoggettandoli alle forme grammaticali latine, che è la parte di quella lingua, rimasta più intera, e per la natura stessa della cosa, e perché l'antichità latina, la quale non pare che abbia pensato a comporre un vocabolario, ha in vece composte molte grammatiche (nota 2); e una buona parte se n'è conservata. E non c'è bisogno di dire che fu principalmente, anzi senza paragone, con questa seconda maniera, che si son prodotti i più estesi e i più importanti effetti. Ma direte voi che siano, né che siano mai stati gli effetti veri d'una lingua? Oh! appunto. Tutto quello che facevano per dare a quella non più lingua l'integrità che non aveva, tornava a scapito dell'unità, altra condizione essenziale e naturale, delle lingue. Come il latino, adoprato nella prima maniera, non era che una parte d'una lingua, così in quest'altra non diventava mai un tutto. Quelle migliaia e migliaia di vocaboli latinizzati, senza poter mai diventar latini, messi accanto a quella parte di vero latino, senza poterceli mai attaccare, formavano con esso, non un nuovo complesso, ma un ammasso; come, con l'aggiunger pezzi e pezzi a una catasta, non si rifà un albero. Ammasso soprabbondante e mancante nello stesso tempo, in quanto una cosa medesima ci si potrà trovar nominata in dieci, in venti, in cento maniere diverse, e non mai in una che sia la propria, la sua. Troppo, e non abbastanza. E infatti perché potevan pure servirsene e contentarsene? Perché avevano dell'altre lingue, cioè alcuni una, alcuni un'altra: lingue vive e vere (o idiomi, se volete), con cui partecipavano, in diverse società, alla pienezza, dirò così, d'un commercio sociale, proporzionato alle circostanze rispettive di ciascheduna di quelle diverse società. [17] Ma prima di venire a osservar quello che c'è di simile nel caso nostro, cioè come lo scrivere che si fa in tutta Italia s'allontani tanto più dall'unità d'una lingua, quanto più vuole avvicinarsi all'integrità d'una lingua, non posso lasciar di rammentarvi una cosa che basterebbe da sè a far vedere come stiamo, riguardo a questa condizione dell'unità. Basterebbero, dico, quelle stesse dispute che avete tanto a noia, e che vorreste (con gran ragione, se ne voleste anche il mezzo) veder finite. Infatti, come mai si potrebbe dire: questa è la buona lingua; no, è questa qui; anzi è quest'altra, se tutti ne scrivessero una? Che non sono solamente né principalmente questioni di stile, cioè delle diverse maniere d'adoprare i materiali d'una lingua; sono questioni intorno ai materiali medesimi. Pedanterie, caricature, trastulli da letterati, dite voi. Come vi piace; ma sono anche fatti; e i fatti sono appunto quelli che devon decidere la nostra questione. Voi non volete sentir parlare di sistemi; ma le diverse pratiche che ne risultano, bisogna pure parlarne. Si tratta di vedere se lo scrivere che si fa in tutta Italia dimostri che ci si possieda una lingua in comune: vorreste voi che tutte queste maniere, più o men diverse, di scrivere, si lasciassero fuori del conto? Ma lo volete? Si faccia pure: cosa rimane? Rimane, sento che mi rispondete, tutto lo scrivere che si fa da quelli che non si danno per intesi di tanti sistemi, di tanti legami, di tante leggi arbitrarie; da quelli (e sono certamente il maggior numero) che badano alle cose, non alle parole, cioè prendon queste per quel che sono, per un mezzo, non per un fine; e mirando a farsi intendere, sicuri di farsi intendere, dicono quello che hanno bisogno di dire, senza temer la sferza de' pedanti, né ambire i loro applausi, senza andar a cercare se i termini, che adoprano, siano o non siano permessi dal tale e dal tal altro sistema. Codesto rimane? E codesto è la lingua italiana? Ma è appunto quello che s'è fatto per tanto tempo col latino morto, con una che non era più lingua, né l'è certo ridiventata, con tutto quell'uso che se n'è potuto fare. E vogliamo anche vedere, un po' più in particolare, come si faceva? Prendiamo da quella latinità babilonesca gli statuti delle varie città d'Italia, scritti nella seconda metà, dirò così, dei medio evo. Se c'è argomento in cui si miri al sodo, è quello certamente: lì non si tratta di sbizzarrire, di far servire la materia a una forma arbitraria, di piacere ad alcuni; si tratta di prescrivere, di proibire, di permettere, di regolar le azioni e le relazioni degli uomini. Scorro dunque gli statuti di Milano e trovo la pena contro chi aliquem sgarataverit; contro chi ducat rudum vel utredinem in pasquario Sancti Ambrosii; contro i mercanti di legna che vendano a misura ligna habentia gabum vel zochum. Trovo che non possint robari nec sequestrari cuppi qui sint in tectis; che, ad traverum fluminis, tam publici, quam privati, vel alicuius rugiae....

liceat vicino aquam ducere. Trovo le rubriche: Cde stratis sorandis; de cloacis et magoltiis removendis; de rumentariis et carbone non facíendo in civitate; de [18] officio marosseriorum; de pristinariis. Come chiameremo noi questo? Latino; non perché sia il nome che gli convenga, ma perché non ce n'è nessun altro che gli convenga di più; perché, non essendo una vera lingua, da poterne avere uno suo, bisogna pur dargli quello della lingua che contraffà: come si chiama campo di grano anche quello dove, con poco grano, ci sia una gran quantità di vecce, di loglio, di vilucchi, di rosolacci, di fioralisi, di cento altr'erbe. Latino dunque, ma latino di Milano; o forse, in parte, anche di qualche altra regione vicina; ma questo non lo fa certamente diventar più latino. Scorro altri statuti, e trovo la pena contro chi aliquem scarminaverit, contro chi imbrigaverit terram alicuius, ne laboretur, contro chi faccia danno ne' prati altrui; pena maggiore se in foeno maiatico, minore, se in foeno guaiumo. Nullus ludat ad dados, armelas, sive nuces in ecclesia Sancti Geminiani, nec pirlet in ea. Teneatur quilibet laborator seu colonus, statim messis bladis, reducere omnes bladas in pignonos. De stratis salegandis: latino anche questo, ma latino di Modena. In altri: Si quis ruperit... in fraudem creditorum... Si venditio facta fuerít in publica callega... Si nec citatus, nec procurator comparuerit pro eo, licenter possít forestari: latino di Genova. In altri: Si quis derivaverit vel extraxerit de aqua alicuius seriolae...Quod viciniae teneantur ad reparationem rízolorum. De cloacis fiendis sub terra, et foveis et andatellis removendis. De moiolis et vasís vitreis: latino di Bergamo. In altri: Dominus potestas debeat facere praeceptum de disgombrando ipsam tenutam. Contra omnes incendiarios... rectores teneantur levare rumorem. Nulla domus, turris, murus, aut aedificium aliud fiat aut construatur super podium Montis acuti... Clausurae de assitibus. Non obstante ínstrumento guarentigiae: latino di Firenze. In altri: Quid super andronis et seclariis sit statutum. Quod Potestas teneatur facere planellare omnes stratas et vias in civitate... Qualiter dugarie facte debeant manuteneri: latino di Parma. In altri: De breviariorum examinatione. Quando plures dicunt se habere ius transeundí per unam calem... Quod uxor defuncti exeat de domo, praesentata sibi dote et dímissoria, infra duos menses...salvo omni statío sibi dimisso a viro suo. Si quisfuerit stridatus quod tali et tali die compareat coram nobis... Si quis alicui maleficium aliquod vel herbariam dederit manducare vel bibere... latino di Venezia. In altri: Nisi fuerit descriptus et approbatus pro messetto... De mercedibus stellantium zochos. De maltarolis. Storarii et alii qui vendunt storia, grisolas, pezonos, pezolatos a plantis, segoltelas a vitibus, et alia huiusmodi laboreria... latino di Ferrara. In altri: De bampnis porchorum rumantium aliena prata. De aqua bealeriae non derivanda indebite. Messonerii sive messoneriae glandium non vadant, vel glandes alienas colligant. Nullus audeat exigere ab aliquo cive aliquas gerbas: latino di Torino. In altre leggi intitolate costituzioni e capitoli, trovo: Admezatores... per privatorum consensum... in posterum eligi prohibemus. Buzerios et piscium venditores... in eorum mercibus volumus esse fideles. Medicus... non contrabat societatem cum confectionariis. De non mittendo ignem in restuchiis camporum: latino di Napoli. Si quis aliquem scarpinaverit, dicono gli statuti di Pavia; strassinaverit, quelli di Bologna; sburlaverit sine, vel cum sanguinis effusione, quelli di Lodi e di Cremona; smanchaverit vel incassaverit, quelli di Padova e di Feltre; sub se summaverit, quelli d'Ivrea; si quis... cum ense, cultello, lantia, mazzaferrata... rixando vel insultum in aliquem faciendo, smigaverit, vel smigando traxerit, quelli di Novara. E che? vi sento esclamar quasi in collera: vorreste forse dire che [19] codesto sia il ritratto dello scrivere che si fa in italiano da coloro che non s'astringono a un particolare sistema? Vorreste negare che ci sia una gran quantità di vocaboli comuni, noti, famigliari in ogni parte d'Italia a chiunque abbia il più piccolo grado di coltura? vocaboli non ricercati, non affettati, ma nemmeno rozzi né spropositati, non istrani in somma per nessuno? Eh! per amor dei cielo! bisognerebbe essere, non dico di mala fede, ma pazzo, per negare un fatto così patente. Non solo non l'ho mai negato, ma l'ho espressamente asserito più volte, e profitto dell'occasione che me ne date, per asserirlo di nuovo: c'è una gran quantità di vocaboli comuni, noti, famigliari in ogni parte d'Italia a chiunque abbia il più piccolo grado di coltura. Ma quelli di cui abbiamo or ora veduto un saggio, erano appunto effetti dello scrivere in una lingua, della quale, scrittori e lettori conoscevano bensì una parte, ma una parte soltanto. Anche in quella marmaglia di codici, c'è una quantità di vocaboli identici, e affatto latini; sono anzi la maggior parte e, per dir così, il fondo; ce n'è, per quanto i vocaboli si posson distribuire in categorie distinte, delle categorie intere, o poco meno. Tutti o quasi tutti gli avverbi, le congiunzioni, le preposizioni, i pronomi, sono latini: e di più, le regole grammaticali dei latino ci sono generalmente osservate. Solamente, quando in quel loro manchevole e mutilato latino, in quella parte di lingua, non c'erano i vocaboli che facessero al caso, ricorrevano ad altro, e principalmente a vivi e particolari idiomi, cioè ognuno al suo. Nemmeno di que' codici ho preteso di presentarvi un ritratto sincero: quegli strani vocaboli non servirebbero certamente a dare un'idea giusta e generale della loro dicitura: gli ho cercati, pescati, scelti: non è tutto così; ma quel tanto basterebbe per indicare, se ce ne fosse bisogno, che non sono scritti in una lingua posseduta in comune da' loro autori; giacché, in una lingua tale, avrebbero trovato naturalmente i vocaboli uniformi per quei casi, non meno che per certi altri. Come, per esempio, adoprano concordemente i vocaboli vulnerare e percutere, così avrebbero saputo nominar con vocaboli uniformi le diverse specie di busse e di ferite, che non erano certamente frutte particolari di questa o di quella parte d'Italia. Come, all'occorrenza, sanno tutti scrivere flumen, così avrebbero avuto e adoprato tutti un vocabolo medesimo per significar ciò che gli uni nominano rugia, e gli altri bealeria, gli altri seriola. Molti di loro proibiscono d'accorrere, con armi o senza, ad rixam; ma per estendere la proibizione a quelle le quali, più che baruffe di privati, erano o diventavano in un momento, zuffe di partiti (cose frequenti a que' tempi, sia detto senza invidia, come a' nostri, sia detto senza superbia, un ballo nuovo), uno aggiunge: seu rumorem; un altro, mesclantiam; un altro, apiglanciam; un altro, stremum; un altro, storminium. In una lingua comune, il vocabolo sarebbe stato comune, così è pur troppo la cosa. E pur troppo anche l'applicazione al caso nostro è così facile, come sicura. E se mi dite che i libri sono quel genere di scritti dove una tal varietà e mescolanza d'idiomi si fa meno sentire, non esito punto a riconoscer che è vero. Ma tra le diverse cagioni di ciò, vi prego d'osservarne una che fa molto al caso nostro, e che ci condurrà, per un'altra strada, alla solita conseguenza. Ed è che, se l'uomo intraprende spesso più di quello che può [20] eseguire, spesso anche proporziona ai mezzi che ha, non solo i tentativi, non solo i desideri, ma anche i concetti: non si distende, passatemi un'espressione volgare, se non quanto il lenzolo è lungo. Così, chi, dovendo scrivere, non ha a sua disposizione che una parte di lingua, è condotto naturalmente a pensare in una parte di lingua, a circoscriver la materia al suo vocabolario. Prendendo la penna in mano, non è più, non aspira nemmeno a essere l'uomo intero, dirò così, della vita reale; è già rassegnato a dire, non quello che potrebbe, ma quello che può. E quante cose l'argomento gli avrebbe suggerite, e gli cadrebbero come dalla penna, se attingesse dalla pienezza d'una lingua intera, che non gli vengon neppure in mente, perché non ha le parole con le quali potrebbero venire! O anche gli vengono, ma è costretto a mandarle via, perché gli vengono con parole d'un idioma scomunicato, e tali da fare, in un libro italiano, una troppo curiosa figura. Così lo scrivere che si fa in tutta Italia, acquista, è vero, qualcosa dalla parte dell'unità, ma perdendo altrettanto da quella dell'integrità. Si schivano le parole che farebbero ridere, ma a patto di schivar le cose, e non di rado le più, dirò così, innate all'argomento, e aderenti all'animo; e (ciò che potrebbe parere una contraddizione, ma è pur troppo un fatto) per non dar nello strano, bisogna tenersi lontano dal naturale. Per la mia parte, giacché avete voluto cavare un argomento anche dallo scriver che fo un libro, vi so dire che m'accade ogni momento d'avere, in milanese, l'espressione la più propria, la più al caso, la più per l'appunto, e di non conoscerne alcuna equivalente. la quale sia né usata, né nota in tutta Italia. Sicché vedete che non era poi giusto il paragonarmi a quello che cercava dell'asino, e c'era sopra. Sono sull'asino; oh! questo sì; ma cerco un cavallo. Che se volete una testimonianza di molti, e concludentissima, quantunque indiretta, rammentatevi certi, non so s'io li chiami lamenti o vanti, che si sentono così spesso. Il nostro dialetto, dicono i milanesi, dicono i genovesi, dicono i piemontesi, e via discorrendo, è in mille casi ben più vivace, più espressivo, più variato della lingua; ha una ricchezza, un'energia, una finezza di termini; distingue tante gradazioni, esprime tante particolarità, che la lingua non ci arriva. Sicuro, quella che voi chiamate la lingua, quella che possedete voi, e che possiedo io; ma ciò appunto deve farvi riflettere se abbiate ragione di darle un tal nome, e di contentarvene. Del rimanente, quell'infelice preservativo non può servire in tutti i casi: ci sono, in certi argomenti, e in certi punti di qualunque argomento, delle cose che non consentono d'esser lasciate fuori, né accennate alla lontana, né stemperate in una perifrasi, o indicate con una generalità: vogliono esser nominate. E se volete vedere come, in questi casi, accada ancora qualcosa di simile a ciò che abbiam visto di quegli statuti; se, dico, volete vederne un saggio, tutto in una volta, e in una sola materia, scorrete di grazia i libri italiani che trattano d'agricoltura; e mi saprete dire in quante maniere ci troverete nominata una medesima operazione, un medesimo istrumento, un medesimo metodo, una medesima qualità, o stato, o circostanza, o vicenda di terre, di vegetabili, d'animali, un medesimo vegetabile, un medesimo animale, e via discorrendo. Troppo, dirò anche qui, e non abbastanza per una lingua. Che, in questi libri italiani, [21] come in que' latini, ci sia una gran quantità di parole identiche, sapete bene che non mi passa neppur per la mente di negarlo; ma, senza cercare come ci sian venute, né perché certe sì, e certe no, dico solamente qui, come ho detto là, che l'identiche non bastano ad attestare il possesso d'una lingua comune; bastano bensì le diverse ad accusare la mancanza. Che se da' libri passiamo a ogni altro genere di scritti, vedete bene quanto la somiglianza cresca, appunto perché i loro argomenti toccan più da vicino la vita reale, e prescrivono, dirò così, più imperiosamente le cose da nominarsi. M'avete addotte le valige della posta: non posso far meglio che addurle io a voi, aggiungendo però: non vi contentate di guardarle di fuori; ché, per molte e grosse e pigiate che possan essere, proveranno bensì che c'è in Italia un gran giro di carteggio; ma non già che ci si possieda una lingua in comune. Guardate dentro; che è uno di que' casi in cui l'immaginare vale quanto il vedere; leggete quelle lettere, spogliatele; e dite se non ci trovate, appunto come in quegli statuti, due specie di vocaboli, per quanto la seconda si può chiamare specie: una quantità d'identici, e da potersi registrare insieme in un vocabolario, come appartenenti a una medesima lingua; una quantità di diversi, a dieci, quindici, venti, per una cosa sola. M'avete addotti gli atti de' notai, le scritture private, gli avvisi al pubblico, gli editti. Paragonate dunque degl'istrumenti raccolti dalle diverse parti d'Italia, paragonate de' contratti di pigione, d'affitto, che noi milanesi chiamiamo, come sapete, investiture, con le descrizioni delle case appigionate, o de' poderi affittati, che chiamiamo consegne (e, per parentesi, mi potreste voi dire se questi termini medesimi siano usati in tutta Italia, in questo senso? e se no, quali siano i termini usati in tutta Italia, per significar cose tanto comuni?); paragonate delle scritte di matrimonio, degl'inventari di mobili, degl'indirizzi di mercanti; e ditemi se non trovate la stessa varietà, o peggio. Dite se un italiano che, viaggiando nelle diverse città d'Italia, si fermi a leggere le stampe attaccate sulle cantonate, non dovrà spesso tirare a indovinare cosa s'intenda di comprare o di vendere, d'ordinare o di proibire; dite se, prendendo l'appunto di tutti i vocaboli che gli saranno riusciti nuovi, si troverà aver raccolto de' materiali per il vocabolario, o per un guazzabuglio. Direte forse che si fa così per adattarsi all'intelligenza delle persone incolte delle diverse parti d'Italia? Se questo vi si potesse concedere, non concluderebbe nulla in favore del vostro assunto; perché, qualunque fosse la cagione dello scriver così diversamente, resterebbe sempre che ci voglion tutt'altri argomenti, che un tale scrivere, per provar che possediamo una lingua in comune. Ma, del rimanente, è cosa che non si può concedere. Non già che una tal cagione non operi anch'essa qualche volta. Chi vorrebbe negare che accada qualche volta, spesso, se vi par meglio, di mettere in una lettera, in una memoria, questa o quella parola o frase vernacola, sapendo benissimo l'italiana, ma sapendo insieme, che non sarebbe intesa da chi importa? Di questi casi n'ammetto quanti volete: resta tutta quella quantità di scritti pubblici e privati, in molti de' quali le persone idiote non ci hanno che fare, negli altri non ci han che fare, se non come parte del pubblico, e non quella certamente a cui si badi di più. In questi, [22] quella trista moltiplicità di vocaboli non ha altra cagione, e non indica altro, se non che i vocaboli comuni mancano a quelli che scrivono, come a quelli per cui scrivono. Ne dubitate ancora? Si può farne la prova quando vi piace con l'immaginazione, come poco fa, ma con ugual sicurezza. Chi può saperci dire come sia la cosa, meglio di coloro che la fanno? Domandiamone a loro, e rispondiamoci da noi; ché è una di quelle domande che hanno la risposta in corpo. Rivolgiamoci, dico, agl'italiani delle diverse parti d'Italia, che sono in questo caso; voglio dire a quelli che mettono in carta que' tanti vocaboli che sanno benissimo non esser comuni a tutta Italia, e insieme non credono, né pretendono, né sognan neppure che possan chiamarsi vocaboli italiani, per nessun altro titolo. E con una libertà che sarà da essi, non solo scusata, ma approvata; poiché si tratta d'un affare comune e importante, diciam loro, cominciando da quelli della nostra città: Ne' diversi generi di scritti che, o per professione, o all'occorrenza, v'accade di stendere, e, secondo i casi, di stampare, voi altri milanesi mettete cose tutte comuni a tutta Italia, e parole inaudite, non dico in tutto il resto d'Italia; perché so bene che il cinque, o il dieci, o il venti per cento, potranno esser comuni a qualche altro idioma d'Italia; ma inaudite nella maggior parte d'Italia, che, per la sostanza della causa, è tutt'uno; giacché questa parziale e accidentale comunione, non basta certamente a farle esser parole italiane, né in fatto, né, credo, nell'opinione o nell'immaginazione di nessuno. Voi altri piemontesi, negli scritti che v'accade ugualmente di stendere, e, secondo i casi, di stampare, nominate tutte o quasi tutte queste medesime cose, non sappiamo con quali, ma con altre parole; voi romagnoli con altre; voi genovesi con altre; voi napoletani con altre, e via discorrendo. Ora, italiani tutti ugualmente, è certo che vi deve pesar molto l'essere, non solo testimoni, ma [23] complici e mantenitori d'una così deplorabile diversità in ciò appunto che ci costituisce italiani, che ci fa essere un popolo civilizzato; voi che trovereste impertinente, anzi insensato lo straniero il quale dicesse che non c'è una lingua italiana viva e vera, vederla, che dico? farla con le vostre mani simile a ciò che una lingua morta era nelle mani de' vostri avi, in secoli che chiamate barbari; far di proposito, abitualmente, in iscritto, ciò che, in ogni lingua che lingua sia, si trova compatibile, ma fa insieme venir voglia di ridere, quando accade allo straniero o al bambino; una cosa che non ha altro nome che da scherno; giacché il mescolare co' vocaboli d'una lingua una massa di vocaboli d'altre lingue, o idiomi, o linguaggi, come uno vuole, vestendoli o mascherandoli con le forme di quella, quando la loro forma nativa paia troppo eteroclita, è appunto ciò che, dopo Merlin Cocaio, si chiama scrivere macaronico. E chi può dubitare che non vi paresse più bello il fare altrimenti, quando si potesse senza il minimo inconveniente? Ora, noi veniamo a darvene l'occasione. Per un puro esperimento accademico, come si dice, e insieme per una vostra soddisfazione, fateci il piacere di stendere un esempio di que' vari scritti, sostituendo a tutti i vocaboli particolari alle rispettive vostre province, altrettanti vocaboli comuni a tutta Italia; già s'intende per le cose che son comuni a tutta Italia. Cosa vi par che avvenga della nostra supplica? V'immaginate che riceviamo tanti belli scritti, quali li vorremmo, labii unius, et sermonum eorundem? che, passando da uno a un altro, a un altro, a un altro, abbiamo la consolazione di veder ripetuto un medesimo vocabolo per ciascheduna cosa, invece de' dieci, de' venti, de' trenta, che si scrivono e si stampano abitualmente? di gustare, almeno in un saggio, e per una volta, quell'unità che è l'effetto naturale e la vera prova del possedere una lingua in comune? Oh! appunto. Non possiam nemmeno immaginarci di ricever quegli scritti in nessuna forma; perché sarebbe assurdo e ingiurioso il supporre che quelli a cui ci saremmo rivolti, volessero tentar fino alla fine di fare una cosa che, dal bel principio, dovrebbero accorgersi di non poter fare. Anzi, che bisogno c'era d'immaginar questa prova, quando la cosa parla da sé? Infatti, non è egli vero che, se fosse a contemplazion delle persone idiote, che si scrivesse così, non si metterebbero in quegli scritti, in quelle stampe, se non i vocaboli che tali persone potessero intendere? Ora, in quegli scritti, in quelle stampe(e per prender più specialmente l'esempio da ciò che, senza esser più certo del rimanente, è più conosciuto da noi due) in quelli e in quelle di Milano, voi potete vedere una quantità di vocaboli che non sono punto dell'idioma milanese, e che i milanesi idioti non intenderebbero punto. E perché i non idioti gli adoprano? Perché quelli li conoscono: sono vocaboli di quella parte fortuita, accidentale di lingua che, come ho detto è tante volte, è diffusa per tutta Italia, cioè nota alle colte e civili persone di tutta Italia. Li conoscono, e sanno insieme, che, in quel caso, il mettere in carta il vocabolo milanese farebbe ridere de' fatti loro l'altre colte e civili persone, delle quali, non degl'idioti, hanno suggezione. Cosa singolare, del rimanente: essere schizzinosi in quella parte di lingua che si conosce, senza curarsi del resto, come se non fosse lingua ugualmente. Per me, vi confesso che ogni volta che m'accade di sentir qualcheduno citar ridendo, e facendo ridere, qualche parola o qualche frase milanese e esclusivamente milanese, che un disgraziato abbia lasciata sdrucciolare in uno scritto italiano, una, dico, di quelle che sono spropositi anche per noi, [24] non posso a meno di non rider con gli altri; ma non posso a meno di non dire nello stesso tempo tra me: con che diritto ridiamo noi d'una cosa che, in altri casi, facciamo anche noi? Forse che l'adoprare un vocabolo milanese in vece dell'italiano, è alle volte sproposito, alle volte no? O forse che alcuni spropositi soltanto sono degni di riso? Come se l'essere o non essere spropositi, e quindi ridicoli, dipendesse dalla cognizione accidentale, dalla tolleranza arbitraria di chi li sente o li legge, e non dalla misura reale e necessaria della lingua medesima! Cosa singolare, ripeto; ma conseguenza naturalissima, con tant'altre, del non riflettere che una lingua è una lingua intera. Del resto, non ho voluto dire che la suggezion degli altri sia il solo, né il principale motivo per far loro preferire i vocaboli italiani. Li preferiscono naturalmente; lo fanno per la cosa; si vergognerebbero in faccia a sé medesimi d'esser milanesi, o romagnoli, o napoletani, o bresciani, o parmigiani, o modenesi, etc., scrivendo italiano, e quando possono essere italiani; quantunque (lasciatemi notare anche quest'altra forma di quella contradizione, perché è singolare anch'essa) quantunque non vogliano sentir parlare del bisogno che hanno, e del mezzo che avrebbero d'essere italiani affatto. I vocaboli italiani, quando gli hanno, o credon d'averli, li mettono in carta ben volentieri, anzi senza deliberazione; quando mettono in vece, qui il milanese, là il genovese, là il bergamasco, là il piemontese, là il piacentino, etc., è perché non ne hanno altri, non per compassion di nessuno. E in verità, sarebbe cosa ben più strana, che avessero il vocabolo italiano, per non farne mai uso. Infatti (permettetemi di tornare un momento agli stranieri che m'avete opposti) perché, in altri paesi, non si fa lo stesso? E, per ricorrer di nuovo al paragone speciale di cui ho potuto servirmi pur troppo bene un'altra volta, perché non si fa lo stesso in Francia? Non ci son forse anche là degl'idiomi più o meno diversi da quello che si chiama il francese, e delle persone idiote, delle porzioni più o meno numerose di questa e di quella popolazione, che intendon poco il francese, o anche l'ignorano affatto? Ce n'è tanto, che, in qualche caso, s'è pensato a scrivere apposta per loro; si sono stampati, e forse si stampano ancora (ché, per quanto il numero de' francesi che sanno il francese sia cresciuto, e cresca ogni giorno, sono ancora lontani dall'esser tutti) de' catechismi in diversi dialetti di quel regno. E qui sì che si vede subito l'intento d'adattarsi all'intelligenza delle persone idiote; qui il motivo è evidente, come il mezzo è naturale: con chi non intende, o non intende bene il linguaggio che si vorrebbe adoprare, adoprar quello che lui intende bene. Ma alterar burlescamente quell'altro, seminandoci dentro de' vocaboli che son vocaboli altrove, e lì diventano spropositi da commedia, è una cosa che i francesi si guardano ben di fare; anzi non gli viene neppure in mente. E quale è, domando di nuovo, la cagione d'una tal differenza? La solita, quella da cui provengon tutte: l'essere i francesi d'accordo nel riconoscere per lingua francese una cosa medesima, e una cosa che è una lingua davvero. Questo fa che, anche nelle parti di Francia dove una porzione più o men numerosa della popolazione non conosce che un patois, non intende, o intende poco la lingua francese, quelli che scrivono, possano e vogliano dir tutto con vocaboli e frasi francesi (nota 3). Possano; perché essa, come lingua vera, le ha; non potrebbe non averle; vogliano; perché chi è mai che si diletti di [25] scrivere degli spropositi, quando conosca le parole vere della lingua in cui scrive, o, ciò che torna il medesimo, abbia il mezzo di poterle conoscere? E che? direte forse: non accade anche a de' francesi di mettere in carta, e a un bisogno, in istampa, de' vocaboli, delle frasi particolari a questo e a quell'idioma scomunicato? non è forse anche tra loro materia antica e inesausta di riso? Senza dubbio; ma sono eccezioni, non è la regola; sono spropositi di Tizio e di Sempronio, non consuetudini d'intere popolazioni, anzi della parte più colta di queste popolazioni, che è quella che scrive; ma passan tutti per spropositi, son tutti materia di riso ugualmente; non certi sì, e certi no. Quella stessa schizzinosità che noi abbiamo in alcuni casi, i francesi l'hanno, e la possono avere in ogni caso; perché, sotto il nome di lingua francese, intendono, e riconoscono concordemente una lingua vera, effettiva, cioè una lingua intera; non una quantità fortuita, arbitraria, scompagnata, di vocaboli francesi, con un supplimento, o, per meglio dire, con tanti diversi supplimenti, lì di vocaboli guasconi, lì di perigordini, lì di normanni, lì di provenzali, lì di fiamminghi, e via discorrendo. Noi, in vece, hanc veniam petimusque damusque vicissim; e così dev'essere fino a che non saremo d'accordo nel riconoscere una lingua: ché sarebbe ancora più strano il dirci a vicenda: voi altri adoprate una quantità di termini napoletani; voi altri una quantità di milanesi; voi altri una quantità di piemontesi, e via discorrendo; senza saper poi dire quali siano i termini italiani; anzi senza saper dire dove si possa trovarli. Se ne sente bene, e da qualche secolo, qualche lamento qua e là; ma a che serve? e a che può servire? E è come chi dicesse a un povero, che non sta bene l'avere un vestito tutto a toppe di vari colori. Bisognerebbe dirgli con che mezzo possa procurarsi la stoffa da farsi il vestito intero; ma è la cosa che i sistematici, e voi altri indifferenti siete d'accordo a far dimenticare: loro, mettendo la questione altrove; voi, non volendo che si metta in nessuna maniera. Ho detto, e del resto ognuno sa, che la lingua francese diventa ogni giorno più comune in Francia; e anche questo dev'essere. Chi va per la strada giusta, ogni passo mena avanti; e gli effetti buoni diventano nuove cagioni di bene. Ha, quella lingua, non so quanti idiomi da combattere; ma è contro tutti la medesima. Il terreno che quelli perdono, essa lo acquista davvero; le resistono, ma non la corrompono; va avanti più o meno in fretta, ma dove arriva, è quella. A tanti diversi vocaboli oppone per tutto il suo; non li riceve, li traduce; e lo può, perché è una lingua davvero. Non modifica quelle tante varietà, lasciandole ancora varietà, e diversificando nello stesso tempo miserabilmente sé medesima; ma a tutte sostituisce, dove può la sua unità: dove non può, potrà; perché la cosa è fattibile; l'azione, continua; il mezzo, adattato. Ma qui mi pare di sentirmi dir di nuovo che i francesi sono aiutati dalle circostanze. Aiutati? dite piuttosto spinti, dite portati, dimanieraché lo fanno, per dir così, senza avvedersene; è un riconoscimento pratico e effettivo, piuttosto che esplicito e deliberato. Ma dal confronto tra i francesi e noi, io non voglio punto inferire che questo riconoscer concordemente, pienamente, costantemente una lingua sia un loro merito particolare; bensì che è una condizion necessaria per averne una in comune, quando s'è un complesso di popolazioni aventi diversi idiomi. E voglio inferire, per conseguenza, che noi italiani bisogna, o supplire con gli aiuti della mente e [26] della volontà a quelli ch'essi hanno dalle circostanze, e per essersi presi l'incomodo di nascere, come disse, a un altro proposito uno di loro; o rinunziare alla pretensione e alla speranza d'avere anche noi in comune davvero una lingua davvero. Bisogna, dico, riconoscere per riflessione una lingua che non ci si fa riconoscer da sé, come per forza; bisogna riconoscerla pienamente, unicamente, stabilmente; e poiché i falsi sistemi e l'indifferenza son riusciti a farla, non dico sparire, ma perder di vista; per riconoscerla, bisogna cercarla; guardar dove si trovi intera chi, come noi due, non ne conosce che una parte, e una parte fortuita; accorgersi (giacché la cosa è a segno, che c'è bisogno anche di questo) accorgersi, sentire, conoscer distintamente, e creder risolutamente d'averla chi l'ha di fatto intera; questi per diffonderla, quelli per acquistarla; o, ripeto, creder d'avere una lingua in comune, quando non ne non vogliamo la condizione essenziale, il mezzo necessario; quando(trista e vergognosa, ma giusta e inevitabile conseguenza) siamo così lontani dall'averne gli effetti. Ma ecco ch'io ci son cascato un'altra volta a concludere prima del tempo, cioè senza avere esaminati altri punti importanti del fatto che m'avete opposto. Colpa del fatto medesimo, nel quale la mancanza di ciò che è essenziale al tutto si manifesta in ogni parte; come l'osservare un pezzetto qualunque d'un sasso, basta per poter dire con sicurezza che la cosa intera non è un corpo organico. Però, se l'esaminar quest'altri punti non è rigorosamente necessario per dimostrar la cosa, può servire a farla meglio conoscere, come ho detto anche quell'altra volta. Sia dunque per non concluso, e continuiamo l'analisi del fatto. Ai vocaboli più o meno esclusivamente milanesi, piemontesi, veneziani, napoletani, etc., che rendon tanto vario lo scrivere che si fa in tutta Italia, bisogna aggiungere un altro genere di varietà, voglio dire una quantità di vocaboli italiani, che ci stanno con significati, più o meno esclusivamente piemontesi, milanesi, etc. E ciò accade principalmente per cagione de' traslati e de' modi di dire composti di più vocaboli: due forme del discorso, che sono una parte importante d'ogni linguaggio. E cominciando dai traslati, qual vocabolo più italiano, per consenso certamente di qualunque sistematico, e di qualunque indifferente, che il vocabolo bosco? Eppure questo vocabolo diventa, per dir così piemontese, nella frase Pendola con cassa di bosco noce, che trovo citata, con la raccomandazion che si merita, in un opuscolo recente, come una di molte “ che si stampano a lettere cubitali ”(nota 4): piemontese, o se, per avventura non piemontese esclusivamente (giacché, chi può conoscere tutti i vocaboli che si trovano in più d'uno de' nostri idiomi?), certamente non italiano, per un consenso ugualmente generale; niente più italiano che le plancie inquadrate, le sedie di lesca, il bagnore di latta, il chiapulore, la chiapuloja, i ferroglietti, la tela fluma, i crocifissi con benedettino, la cavagna di gorino, il cebro, le cebrette, e altrettali voci, con le quali è giustamente messa in un fascio. Così, nella frase Sostra di vivi, che vi sarà probabilmente accaduto di leggere in qualche scritto, in qualche stampa, su qualche muro di Milano, il secondo nome non è punto più italiano dei primo, punto meno strano per tutti gl'itallani che non son milanesi, o, dirò anche qui, per andare al sicuro, per la maggior parte degli italiani. Poche e ovvie osservazioni generali sui traslati, applicate alle circostanze dell'Italia, basteranno per far vedere [27] che anche i casi di questa specie devono aver la loro buona parte nello scrivere che si fa in tutta Italia. Dico di questa specie, non di questa forza: più o meno strani, non fa nulla alla questione, la quale non è se le locuzioni che s'adoprano negli scritti di questa o di quella parte d'Italia, siano più o meno facili a intendersi, facciano più o meno specie nell'altre parti; ma se s'adoprino in ogni parte le medesime; che è il proprio effetto, e il vero segno del possedere una lingua in comune. Il bisogno di nuove significazioni, e la difficoltà di formare, e soprattutto di propagare voci nuove, sono due condizioni comuni ai diversi linguaggi, siano poi, o si chiamino lingue o dialetti; ché in questo particolare, non c'è tra l'une e gli altri differenza veruna, né sostanziale, né accidentale, e nemmeno apparente. Ora, i traslati sono appunto mezzi di soddisfare al bisogno, schivando la difficoltà, mezzi d'aver nuove significazioni senza nuove voci, facendo intendere una cosa col nominarne un altra, la quale abbia con essa una somiglianza, o una relazione qualunque, d'essenza, d'origine, di modo, di vicende, di causalità, d'operazione, o d'altro. A questo motivo perpetuo di traslati se n'aggiunga un altro, ugualmente perpetuo, e ugualmente noto, cioè la proprietà che i traslati hanno di poter piacere, indipendentemente dalla loro utilità, dirò così, materiale. Degl'infiniti traslati che gli uomini fanno, quali, suggeriti da circostanze singolari, o da un gusto singolare, si ferman lì; quali, soddisfacendo a un bisogno più generale (vero o immaginario, non importa, riguardo al fatto), o a un gusto più generale, passano via via in questo o in quel linguaggio; e formano, come dicevo poco fa, una parte importante d'ognuno. Importante per l'operazione che fanno, che è quella, né più né meno, de' vocaboli propri, cioè significar cose più o meno distinte, e spesso cose le più necessarie da nominarsi. E, senza esser poliglotto, ma anche senza timore d'esser contradetto dai poliglotti, aggiungo: parte importante anche per la quantità; giacché i traslati, entrati, in diversi tempi, in un linguaggio, ci s'accumulano, come i significati propri: ché le lingue sono bensì essenzialmente mutabili, ma mutabili a poco a poco, e ciò che mantengono è, in ogni momento, per la necessità stessa della cosa, molto più di ciò che perdono. Ed è appunto quella prima importanza che rende meno sensibile questa seconda: è, dico, l'attitudine acquistata dai traslati a significare immediatamente, ne' diversi casi, ciò che si vuole, e non altro, quella che li fa passare inosservati, ed è cagione che non si noti la loro moltitudine, se non ci si bada apposta. Scommetterei, per esempio, che, in tutto il durare che ha già fatto questo discorso, non è mai venuto in mente a voi, come non era venuto a me prima di questo momento, che il vocabolo il quale ne esprime il soggetto, è un traslato; scommetterei che questo vocabolo lingua, ripetuto tante volte, non ha mai destata nella vostra mente, più che nella mia, l'idea di quel pezzetto di carne che significa propriamente e direttamente. E quanti altri traslati s'accompagnano abitualmente con esso! lingua ricca, povera, dolce, aspra, dotta, colta, selvaggia, viva, morta, madre, figlia; e le famiglie delle lingue, e il fiorire, il degenerare delle lingue: vocaboli che a chi li sente e a chi li proferisce così accompagnati, non richiamano più alla mente nemmeno la relazione che gli ha fatti adoprare a un tal uso: è il senso traslato che, [28] chiamato dal contesto, si presenta addirittura e solo, con la pronta e risoluta efficacia del proprio. Ora, essendoci in ogni idioma d'Italia delle voci riconosciute da tutti per essere della lingua italiana (e ci siano nell'identica forma riconosciuta da tutti per italiana, o con differenze accessorie, e per lo più sistematiche e riducibili in classi, non importa qui punto); essendoci, dico, in ogni idioma una quantità, maggiore o minore, ma grande in ognuno, di voci riconosciute da tutti per italiane, deve accadere, e accade in effetto, che molte di queste voci abbiano ricevuto, e ritengano, in questo e in quell'idioma, qualche senso traslato che non hanno negli altri. E ciò appunto perché sono altrettanti idiomi, aventi ognuno un regno, dirò così, più o men circoscritto, una vita propria e indipendente. Di tal genere sono il piemontese bosco, per legno, e il milanese vivi, per pietre da fabbrica, che ho citati sopra. Eccovene, per rendere il saggio meno scarso, alcuni altri di questo nostro idioma. I vicini d'una casa, per significar quelli che ci stanno a pigione; le pubblicazioni de' matrimoni; il giudice e l'asta delle bilance; un vestito, un lenzolo, un tappeto di tante altezze; un uomo navigato; la penna che non lascia; la carta che sparge; l'acqua che ruggisce, quando sta per bollire; la sfera dell'orologio; l'ala del cappello; la canna del cammino; un cibo pesante; la minestra spessa o rara; un incontro d'aria; le frutte passate; il corpo d'un libro; i denti d'un coltello, o d'altro ferro tagliente; la verga da battere il grano; il cacciare degli alberi; i castelli degli alberi medesimi; i cornetti, per significare i baccelli verdi e immaturi dei fagiolo, che si colgono per cucinarli; il vino che porta l'acqua; le stoffe che si ritirano; un gioco di ferri da calze; il bruciare d'una piaga; l'attaccare delle cose viscose, e l'attaccare del fuoco; patire il freddo, il caldo, e simili, nel senso non d'un incomodo attuale, ma d'una disposizion più facile a sentirlo; curare uno, nel senso di tendergli un'insidia, o d'osservar se vada o non vada in un tal luogo, se faccia o non faccia una tal cosa, o di far di tutto per poterlo trovare; spingere una carta; ricorrere i tetti; storcere i panni, etc. etc. sono voci italiane, e significati, o esclusivamente milanesi, o certo sconosciuti nella maggior parte d'Italia. Che poi, nello scrivere che si fa in tutta Italia, devano entrare anche molte di queste significazioni esotiche a una più o meno gran parte d'Italia, è chiaro per la cagion medesima che ci fa entrare tanti vocaboli esotici e per la significazione e per la forma, dirò così, materiale: il non esserci per significar tali cose, vocaboli, né traslati né propri, che siano comuni di fatto in tutta Italia. E per esempio, se mi sapeste indicare de' vocaboli, corrispondenti a que' pochi traslati milanesi che ho citati or ora; dico vocaboli noti e ricevuti in tutta Italia, come certamente quelle cose si dicono in tutta Italia, in non so quante maniere, mi fareste un gran regalo; e, lo confesso, mi fareste anche maravigliare; perché, nato (un pezzetto fa) e vissuto in Italia, mi parrebbe strano d'esser riuscito a ignorarli finora, come ci disse quel parigino. [29] Questo che ho detto de' traslati s'applica a un di presso anche ai modi di dire che ho accennati, e che continuerò a nominar così, non conoscendo un termine più speciale e proprio ad essi soli; chi non volesse chiamarli, coi francesi, frasi fatte(nota 5). Intendo que' modi di dire composti di più vocaboli, e che hanno un loro significato particolare e determinato, come andare in collera, mettere in campo, far caso, lasciare stare, esser fuori di sé, da parte mia, vostra, sua, val a dire, in lungo e in largo, a man salva, di mano in mano, etc. etc. Il qual significato, come ognun vede, anche da questi pochi esempi, e come, del resto, ognuno sa, non risulta però sempre e necessariamente dal concorso de' vocaboli: alle volte ne risulterebbe uno diverso; alle volte nessuno. Al pari de' traslati, sono mezzi d'aver nuove significazioni, senza nuovi vocaboli; anzi alcuni sono traslati, con questa sola particolarità che trasportano ad altro il senso proprio non d'un solo vocabolo, ma d'una frase intera, come O sono intrecci di traslati, o sono ellissi, pleonasmi, o altre figure grammaticali; o complicazioni di quelli e di queste, o altro; ché l'andar dietro alla loro moltiplice e sottile varietà, sarebbe cosa lunga, e fuor di proposito. Al pari de' traslati, quando il bisogno o il genio di quelle nuove significazioni sia o diventi comune, entrano ne' linguaggi; di ritrovati e tentativi particolari che erano, passano ad esser formole comuni, usuali, solenni; fanno lo stesso ufizio che i vocaboli, dai quali non differiscono che per la materialità d'esser più, in vece d'uno, a formare il senso che si vuole. E tanta è l'identità, riguardo all'intento e all'effetto sostanziale, che spesso ciò che in una lingua s'esprime con un modo di dire, in un'altra si dice con un solo vocabolo, come il latino seducere, che corrisponde all'italiano tirar da una parte; irasci a andare in collera; decedere a dar la diritta; manifesto a sul fatto; identidem a ogni tanto, etc. etc. Anzi quella stessa differenza materiale scompare qualche volta, e de' modi di dire diventano vocaboli per ogni verso, come, in latino: animadvertere, satisfacere, manumittere, sis, agesis, hodie, tantopere, nimirum, etc.; in italiano: soprintendere, manomettere, abbastanza, addio, appena, qualunque, etc.; in francese: surfaire, bonheur, aplomb, toujours, naguère, hormis, etc. Che più? alle volte non si saprebbe discernere se siano vocaboli accompagnati e distinti, o un vocabolo solo; e in qualche lingua l'ortografia usa un segno particolare per indicar questo stato medio, o incerto, come l'ortografia francese in Rendez–vous, Qu'en dira–t–on, Va–et–vient, Contre sens, che il vocabolario di quell'accademia registra a suo luogo, col titolo di sostantivi, e con ragione, perché fanno l'operazione, e seguon le leggi della classe de' sostantivi, per quanto le lingue possono aver classi distinte di vocaboli, con operazioni e leggi distinte. Alcuni possono, a prima vista, parer piuttosto ornamenti che istrumenti del linguaggio, perché non fanno altro che dire con una certa argutezza, [30] o con una certa energia, cose che non mancano altri termini per dirle; ma chi appena ci badi vede subito che appunto quelle gradazioni di sentimenti, o varietà di giudizi intorno a una medesima cosa, quell'accennarne, o farne risaltare certe qualità, o certe relazioni, costituiscono altrettante significazioni adattate a particolari circostanze, e tanto adattate e proprie a queste, che sarebbero improprie, e riuscirebbero strane in circostanze diverse. E del resto, si può anche qui affermar senza essere in caso d'addurne le prove, e senza che ce ne sia bisogno, che, ne' linguaggi in generale, questi modi di dire servono a significar cose d'ogni sorte, e spesso le più positive e necessarie a nominarsi, al pari de' traslati, e per le medesime ragioni. E al pari de' traslati, l'attitudine da essi acquistata a significare addirittura ciò che si vuole, per quanto sia alle volte lontano da ciò che vorrebbero i vocaboli che li compongono, fa che non diano nell'occhio, e che la loro quantità non faccia colpo. Questo stesso far colpo, e questo dar nell'occhio, che mi sono usciti ora di bocca, ne sono esempi. Al pari de' traslati ancora, e ancora per le medesime ragioni, i diversi idiomi d'Italia formano modi di dire diversi con vocaboli comuni a tutta l'Italia. Anche di questi ne prenderò per saggio, e per un piccol saggio, alcuni alla rinfusa dall'idioma milanese, senza pretendere, come ho già avvertito in casi simili, che tutti siano esclusivamente milanesi; ma affermando che nessuno è, in nessun senso, comune a tutta l'Italia. Mettere in tacere; giocare a indovinare; per l'onor dell'armi; andar giù la voce; aver giù la voce; tornar su la voce; aver sempre la voce in aria; portarla fuori; portar via un raffreddore, una febbre, una sgridata, una mortificazione; alzare i piedi; mettere in netto; andar giù di strada; crescere, dimagrare, e simili, a occhi vedenti; lasciare addietro gli occhi; morire addietro; stare addietro, a uno, o a una cosa: due diversi significati; dare indietro nel mangiare; rompere i capricci; star savio, trovarci il conto; liquidi che, nel bollire, vanno di sopra; erbe che vanno in semenza; dar sotto a uno, far su uno; far giù filo, refe e simili; venire al meno; far venir giù una cosa dal cielo; andar giù col sole; parar via; perdersi via; saltar via, per una commozione improvvisa , o nel destarsi; perder l'aria; a stima; chiappare al volo; fare il passo secondo la gamba; attaccarsi di parole; il pittore gli ha fatto grazia, cioè ha fatto il ritratto più bello dell'originale; avere una pietra sullo stomaco; trovare una cosa nella polvere; non perdersi nella polvere; [31] far andare un podere in casa; esser fuori di casa; ci sta del mio onore; schiacciar l'occhio; voltar l'occhio; andar giù dal libro; a ora d'allora; armare delle pretensioni; tirar di penna; averne assai della mostra; venir le fiamme alla faccia; offrire una cosa a mezza bocca; tirare a mano; esser già di mano; Ma, per un saggio, ce n'è già più del bisogno, e voi vedete quanto sarebbe facile allungar la filastrocca. La tronco dunque per dire che, al pari de' traslati, e per la stessa ragione, deve accadere e accade che molti di tali modi di dire particolari a uno o ad alcuni idiomi, entrino nello scrivere che si fa in tutta Italia. Che se anche per questi pochi, voi sapeste darmi degli equivalenti che ci siano comuni, in qualunque maniera, mi fareste star allegro, e maravigliare, come dicevo poco fa, a proposito di quell'altro saggio.

Non vorrei che mi domandaste se molti, e di que' traslati, e di questi modi di dire milanesi, non siano belli perché dovrei rispondervi che non si tratta di vedere se, in fatto di lingua, ci siano in Italia delle belle varietà, ma se ci sia quell'unità che costituisce una lingua. Sicuro che molti di que' traslati e di que' modi di dire che ho citati, e molt'altri ancora che sarebbe facile citare, sono belli, vivi, spieganti; ma questo non è un privilegio del milanese; è il dono di tutti i linguaggi. E se per trovar quali siano le locuzioni italiane, si dovesse decidere quali siano le più belle tra quelle che s'adoprano in Italia, non vedo, né quando, né come questo potrebbe esser deciso, né soprattutto da chi; vedo bene che il solo pensar che si fa a questa qualità di belle, basterebbe per fare indovinare a chi non avesse mezzo di riconoscere il fatto, che le comuni non ci sono. E, cosa singolare a prima vista, ma che, riflettendoci, si trova naturalissima, a questo bello o non bello vanno a pensare ugualmente molti che, in fatto di lingua, pensano tutt'al contrario di voi; cioè molti che, per biasimar le tante locuzioni milanesi, bolognesi, piemontesi, napoletane, etc. che si cacciano, o che piuttosto regnano in iscritti italiani, le chiamano rozze, deformi, fango, sudiciume. Eh per amor del cielo! gl'idiomi non son composti di sudiciumi, ma di vocaboli, i quali, fuori di casa loro, stanno male certamente, ma non per altro se non perché non hanno più la qualità di [32] vocaboli. Non sono sudiciumi; sono molte maniere di significare una cosa medesima: li è il male. E tanto queste critiche, come quelle lodi vengono da una cagion medesima, dal non proporsi, né gli uni né gli altri, una lingua davvero, dal non pensar che l'essenza e la virtù d'una lingua non è d'aver locuzioni belle, ma locuzioni sue. Voglio io dir con questo, che non si possa ragionevolmente trovar più bella una locuzione d'un'altra? Tutt'altro; e non mi meraviglio punto se sento, per esempio, un francese dire che la tal locuzione provenzale, o normanna, o limosina è, o non è, bella; mi maraviglierei bensì se lo sentissi cercare in questo la ragione d'adoperarla, o no, scrivendo in francese. Troverete de' contadini che disputano se il tale o il tal altro prete abbia, o non abbia, una bella voce per cantar la messa; ma cosa direste se li sentiste dibatter questo punto per rispondere a chi domanda qual sia il loro curato I traslati e i modi di dire non sono i soli che producono effetti di quel genere; ma l'argomento non richiede un'analisi intera e minuta; e bastano l'osservazioni fatte su quelli per far vedere come anche ciò che pur c'è di comune diventi materia del particolare; l'uniforme, del vario; il noto, dello strano; e come, con un tristo compenso, mentre in tanti casi diciamo la cosa medesima con parole diverse, in altri casi diciamo cose diverse con la medesima parola. Salvo sempre il ripiego di lasciar fuori le cose, o di farle intendere con qualche perifrasi, o d'accennarle con termini generici, in vece di nominarle; e salvo due altri che, come passo a dimostrar brevemente. sono bensì ugualmente ripieghi per schivare i vocaboli d'un particolare idioma, cioè un genere di varietà. Alle volte dunque, cioè molte volte, la locuzione comune, conosciuta e adoprata in tutta Italia per significare una tal cosa, non si trova, per la ragion semplicissima che la non c'è; e la locuzion milanese, o piemontese, o bolognese, etc. ha un marchio tanto distinto, e per dir così, un viso tanto milanese, piemontese, bolognese, etc., che non s'ha proprio coraggio di metterla in uno scritto italiano, e principalmente in uno scritto che deva girar per le mani di molti, o andare in istampa sotto gli occhi del pubblico. E allora s'è nell'impiccio di doversene procurare una altrimenti. E, di grazia, lasciatemi fare ancora qualche osservazione su quest'impiccio; perché è strano davvero. Non saper come fare per dire una cosa che si dice ogni momento! Pensarci sopra, come se si trattasse di nominare una macchina che si fosse inventata allora, una qualità, una relazione, un effetto che s'osservasse per la prima volta, d'esprimere un'idea nuova qualunque! Ma se l'impiccio è strano, più strano è il trovarlo naturale, e il volerlo, come si fa. Ché, se a uno che si lamenta d'essere in un tale impiccio, io dico: – di cosa diamine vi tormentate tanto? E è una locuzione che vi bisogna? Ma le locuzioni si trovano nelle lingue: dove altro si troverebbero? E voi scrivete in una lingua: in che altro scrivereste? E [33] in una lingua viva, s'intende; e la locuzione è di quelle che una lingua viva deve avere. Principiate dunque dal metter bene in chiaro nella vostra testa qual sia la lingua in cui scrivete; e poi cercate in essa la locuzione che vi bisogna –, se, dico, gli fo un discorso di questa sorte, si maraviglia molto di me, dice che son questioni inutili, ricerche oziose, divertimenti di letterati. Gli pare una cosa molto più semplice, più sensata, più da uomo di mondo il dover rompersi la testa per trovar la maniera d'esprimere cose comunissime. Non vi par di vedere un uomo tutto affaccendato a fare un grimaldello, e che compatisca un altro il quale gli dice: guardate che ci dev'esser la chiave? Ma che dico? c'è qualcosa d'ancora più strano; ed è che colui al quale io facessi quel discorso, avrebbe una bonissima ragione da oppormi. – V'intendo benissimo, potrebbe dirmi: vedo dove volete andar a finire; so quale sarebbe la lingua che, secondo voi, troverei esser la lingua italiana; e ammetto anche che ci troverei la locuzione di cui ho bisogno. Ma che, se adoprandola mi facessi rider dietro? se a quelli per cui devo scrivere principalmente, riuscisse ugualmente strana, o anche più strana di quella disgraziata locuzione milanese, o piemontese, o napoletana, o bergamasca, che voglio schivare? – E, per dir la verità, mi chiuderebbe la bocca, perché, pur troppo, è così. La locuzione della lingua in cui si scrive, la locuzione propria, unica, necessaria, può far ridere, esclamare, urlare, dove essa non è conosciuta in fatto, e quando la lingua non è conosciuta in principio. E però sono impicci, dai quali uno non può uscir solo: è uno di que' casi in cui è più difficile ottenere il poco che il molto. L'unico mezzo d'uscirne è d'uscirne tutti insieme, col riconoscere in comune questa lingua, per poter poi chi la sa, adoprarla in qualunque parte d'Italia, senza paura, e così farla conoscere agli altri... Ma questo è di nuovo concludere; e ora si tratta di vedere quello che si fa, non quello che si potrebbe e dovrebbe fare. Cosa si fa dunque, ne' casi in questione? Si ricorre, come ho detto, a uno di due espedienti. Cominciamo dal più nobile: si crea, cioè si deriva un nuovo vocabolo da qualcheduno de' vocaboli italiani che son conosciuti e riconosciuti per tali in tutta Italia; si cava un nome da un verbo, o un verbo da un nome; o, con una desinenza nota, si dà un nuovo senso a una radice nota anch'essa; que' mezzi, insomma, che i linguaggi aventi inflessioni (cioè quasi tutti) somministrano, per far con materiali vecchi formole nuove. E diciam tutto: molte volte un tale espediente non serve per una volta sola, e per chi il primo l'ha messo in opera. Altri che posson trovarsi nello stesso bisogno, e nello stesso impiccio, profittano del ritrovato: s'accetta ben volentieri un mezzo di nominare in iscritto una cosa necessaria, senza far ridere. La locuzione fa fortuna, e, di scritto in scritto, [34] diventa a poco a poco comune. Ma intendiamoci: comune in tutta Italia? Oh! questo no. Come si crea a Milano, così si crea a Bologna, si crea a Parma, si crea a Napoli, si crea a Torino, a Genova, a Venezia, a Modena, a Bergamo, a Messina, a Faenza, insomma in tutte quelle parti d'Italia, dove nasce questo strano e tristo caso di mancar di locuzioni per nominare in iscritto cose notissime. E mi sapreste dire una ragione per cui si deva riuscire a crear per tutto nella stessa maniera? o una ragione per cui una di queste creazioni deva prevalere a tutte l'altre, scacciarle ognuna dal suo posto, e regnar sola in Italia? L'altro ripiego è di prendere le locuzioni di cui s'ha bisogno, da altre lingue; o morte, cioè quasi sempre la latina; o vive, cioè quasi sempre la francese. Certi dicono: la nostra lingua è figlia della latina; cosa c'è di più naturale, che il provvedere a' bisogni della figlia con le ricchezze della madre? e non è anche un espediente più degno, più da nazione colta, che l'andar mendicando locuzioni barbare? Cert'altri dicono: le locuzioni francesi sono notissime appunto alle persone colte, che son quelle che leggono; cosa c'è di più naturale, che l'adoprar locuzioni notissime? cosa di più irragionevole, che l'andar ripescando locuzioni pedantesche? Gli uni a levante, gli altri a ponente; ma d'accordo nel non riflettere che quando s'è nella strana condizione di disputare sul dove si devano prendere locuzioni per dire in iscritto ciò che si dice abitualmente parlando, non è questa o quella locuzione, è una lingua che bisogna cercare. E vedete: questo creare nuove locuzioni, o prenderne di bell'e fatte da altre lingue, sono pure mezzi naturalissimi e opportunissimi di supplire ai nuovi bisogni d'una lingua; mezzi che que' medesimi, i quali ne parlano come se li condannassero assolutamente, sono costretti, quando la questione sia posta in termini precisi, a riconoscerne in principio la ragionevolezza, la necessità, e a dire che non intendono condannarne se non l'abuso; mezzi infatti praticati universalmente, e coi quali le lingue s'arricchiscono e crescono in effetto. E perché dunque, in questi nostri casi, tali mezzi non producono un tale effetto? Perché manca quella condizione che i bisogni sian nuovi. Le lingue non s'arricchiscono, non crescono col provvedere a bisogni vecchi: a questi hanno già provveduto, appunto perché son lingue. Esse, per servirmi in parte della bella similitudine d'Orazio, acquistano nuove locuzioni, come gli alberi mettono nuove foglie; ma se uno vi venisse a parlare d'una quercia vecchia di qualche secolo, la quale comincia a formare degli strati legnosi intorno alla midolla, non intendereste altro se non che costui sogna una quercia che non ha l'organismo d'un albero. Se possedessimo davvero una lingua insieme, non ci sarebbe bisogno di procurarci tali locuzioni: le avremmo; sarebbero quella lingua medesima. La stessa ragione per cui nasce, ora qua ora là, questo singolare bisogno di ricorrere a ritrovati particolari per nominar cose da gran tempo comuni, fa che que' ritrovati rimangano uno qua e l'altro là; o se, per qualche accidente, uno s'estende un po' fuori del suo cantuccio, nessuno però divenga veramente comune. Così, oltre i diversi mali, abbiamo anche [35] i diversi rimedi, i quali, riguardo all'intento e all'effetto d'una lingua, che è d'avere le stesse locuzioni per significar le stesse cose, son mali ugualmente. Ricapitoliamo, per concluder finalmente davvero. Princìpi e teorie diverse che producono naturalmente e direttamente diverse pratiche; mancanza d'ogni principio e d'ogni teoria, che produce indirettamente, ma non meno naturalmente, pratiche diverse; una mescolanza di locuzioni uniformi e di varie, voglio dire un certo numero di cose, nominate in tutti gli scritti d'Italia con termini identici, altre con dieci, venti, trenta diversi, come se delle cose che c'è bisogno di nominare e che si nominan di fatti, l'avere un nome fosse un privilegio d'alcune, e l'altre dovessero prenderne a imprestito, dove uno, dove un altro, da chi uno, da chi un altro; e non già poche di queste varietà, né accidentali, e temporarie, e che dopo un po' di conflitto, finiscano col prevaler d'una di esse, come ce n'è in tutte le lingue; ma un visibilio, e stabili, abituali; e oltre di questo che si vede, quello che non si può vedere, cioè quello che la mancanza di termini fa lasciar di scrivere, e anche di pensare quando si scrive; sono questi gli effetti d'una lingua? E a chi, in un tale stato di cose, vi propone di cercar qual sia, dove sia intera questa lingua italiana, voi opponete, cosa? il fatto! E dite: non si scrive già in tutta Italia? In un gran, coro di cantanti, che, ora vanno d'accordo, ora stonano a maraviglia uno chiede un momento d'udienza, e dice: – fratelli miei, questa che noi cantiamo insieme, è una musica di certo; giacché non può essere a caso che, andiam in parte d'accordo; ma ci sono, di certo ugualmente, molti di noi che non la sanno bene; perché, come l'accomodiamo tutti insieme non è più una musica. lo per il primo; ché vi so dire che mi mancano spesso note e battute, e mi trovo al bivio, o di farle di mia testa, tirando a indovinare, o di lasciarle fuori, per troppa e giusta paura di farle false. Vorrei dunque impararla bene questa musica; e poiché il fine comune è di cantarla insieme, vorrei che l'imparassero anche gli altri che sono nel mio caso. E a proposito, dov'è questa benedetta musica? chi ce l'ha tutt'intera? –; e voi gli date sulla voce, e dite: – cosa venite a disturbare, e a far perder tempo, con domande così fuor di proposito? Non vi basta il fatto? non cantiamo già tutti insieme? Avanti! – Ma cos'ho fatto io ora? Tutto questo discutere intorno allo scriver che si fa in tutta Italia, non era in sostanza, una cosa superflua? Non avevo io già risposto indirettamente, ma perentoriamente ai vostri argomenti su questo fatto, discutendone un altro, cioè il parlare che si fa in tutta Italia? Non v'avevo io allora dimostrato, o piuttosto fattovi osservare, e con l'esempio di ciò che accade tra italiani e italiani, e col paragone degli stranieri, che a voi e a me, e a tutti quelli che sono nella stessa condizione di noi, mancano, per gli usi del discorso, una quantità di locuzioni italiane, [36] che dovremmo avere se possedessimo questa lingua in comune? E quando s'è visto che mancano, non s'è visto tutto? Se non le abbiamo per parlare, come le avremmo per scrivere? Che le troveremmo nel calamaio? Non ho io fatto come chi, dopo avere osservato che uno cammina male, e che ciò avviene perché gli manca una gamba, si mettesse a far dell'esperienze e de' ragionamenti, per dimostrare che quella gamba gli manca anche per ballare? E infatti, non m'è egli accaduto spesso di ripetere sott'altra forma i medesimi argomenti? anzi qualche volta con le medesime parole? E è vero; ma cosa volete? que' benedetti sistemi me talia cogunt: facendo due di ciò che è uno, m'obbligano a dir due volte le medesime cose. E mi ci obbligano anche con voi che protestate di non aver sistema; perché, come ho già osservato, i sistemi, quando sono accreditati e vecchi, non operano solo sulle menti di quelli che gli adottano, ma di quelli ancora che, ripudiandoli non vogliono adottar altro che il niente. S'io dunque mi fossi voluto contentare di quella prima dimostrazione tutta relativa al parlare, mi si sarebbe potuto dire, e voi medesimo, voi che pur m'avete detto che il fine d'una lingua non è altro che d'intendersi uomini con uomini, m'avreste potuto dire che, trattandosi della lingua che deve servire a un'intera nazione, la question principale, la questione importante è di lingua scritta, e ch'io mi fermavo alla lingua parlata. A suo tempo, non ci vorrà, spero, molto a dimostrare, anzi si troverà dimostrato da sé, che queste espressioni lingua scritta, lingua parlata, naturalmente improprie, divengon poi assolutamente e importantemente false, quando con esse s'intenda, come s'intende in fatti, significar davvero due cose diverse, e non due forme d'una cosa medesima; espressioni false, né più né meno che se, leggendo per esempio in una vita di Socrate, queste parole: “abbiam visto Socrate filosofo; vediamo ora Socrate uomo”, s'intendesse proprio due Socrati, uno de' quali avesse potuto esser filosofo, senza esser uomo. Ma per arrivare a questa dimostrazione, bisogna aver osservato quali siano le cause efficienti delle lingue; e finora non s'è trattato che de' loro effetti. L'obiezione sarebbe dunque stata importuna, e il meglio, o il men male, era di prevenirla, esaminando, come se ce ne fosse bisogno, anche i fatti relativi allo scrivere. E, a costo di qualche ripetizione, n'abbiam però ricavato il vantaggio di conoscer più pienamente e distintamente, che noi non possediamo una lingua in comune: vero vantaggio, se una tal conoscenza, levandoci un'illusione, ci fa volere una realtà, che è in poter nostro d'acquistare. Esaminando il fatto, relativamente al parlare, avevamo confrontata quella che voi chiamate lingua italiana, cioè quella che è [37] diffusa in tutta Italia, con una lingua viva, e trovato che è ben lontana dal produrne gli effetti veri e essenziali; esaminando di nuovo il fatto medesimo relativamente allo scrivere, l'abbiamo paragonata con una lingua morta, e trovato che questa ha potuto produrre tutti quelli che essa produce. Ma se gli effetti sono simili, c'è, grazie al cielo una differenza capitale nelle cose. Nel caso del latino, il difetto sostanziale, la mancanza d'integrità, era nel latino medesimo; cioè nel suo non esser più altro che una lingua morta; nel caso presente, è in noi, non nella cosa. Quella che è diffusa, più o men comune, identica in tutta Italia, è bensì una parte soltanto d'una lingua, come parte d'una lingua è il latino che ci rimane: qui è la trista somiglianza. Ma questo latino, e qui è la consolante differenza, è parte d'una lingua morta, d'un tutto perito per tutti, e per sempre; quella che è diffusa in Italia, è parte d'una lingua viva e che, per conseguenza, dev'essere intera in qualche luogo. Ed è la lingua ch'io vi propongo di cercare insieme, voi e io e tutti quelli che, come noi, non la possiedono intera. Anzi, dopo quello che abbiam visto, posso oramai dirvi francamente che dovete cercarla, se non volete ridurvi a dire, o una cosa che, con gran ragione, vi parrebbe falsa e strana, o una cosa che, con gran ragione, vi parrebbe vergognosa: o che non c'è una lingua italiana; o che non v'importa nulla che gl'italiani arrivino o non arrivino a posseder di fatto questa lingua in comune. O dire, ripeto, che non c'è una lingua italiana, e che noi avevam torto tutt'e due di dar tal cosa per supposta. E infatti, per qual ragione la davam per supposta? E è forse una verità di prima evidenza, un fatto necessario? Nessuno vorrà dir questo sproposito. O la davam per supposta, perché ci piacerebbe che fosse? perché l'abbiam sentita dire? perché non temevamo d'esser contradetti l'uno dall'altro, né da nessuno? Spropositi anche questi. L'abbiam supposta perché la credevamo una realtà: voi una, io un'altra; ma una realtà tutt'e due. Ora, la vostra è scomparsa. Cercando la lingua italiana dove voi me l'avevate indicata, ne' fatti dove dicevate che si fa manifestamente vedere, abbiam trovato tutt'altro che i veri effetti d'una lingua, e per conseguenza non ci abbiam trovato una lingua. Dunque, o un'altra, o nessuna. E se persistete nel creder che la c'è, e nel volerla, dovete riconoscere che è necessario cercarla. O dire che non v'importa nulla che gl'italiani arrivino o non arrivino a posseder davvero una lingua in comune. Oramai voi non potete rimanere nella vostra prima indifferenza: cadere in un' [38] altra, cioè in quella indifferenza meramente pratica, e che nasce dal disprezzo della cosa, sì; ma tenervi in quella indifferenza sistematica, e che pretendeva fondarsi sulle ragioni della cosa medesima, no. Che l'intento sia ottenuto, che il fatto pratico della lingua cammini in Italia come presso le nazioni dove cammina bene, con la sola differenza del disputar che si fa da noi, differenza che sarebbe inesplicabile davvero, se fosse la sola; che la ricerca sia superflua, e la questione oziosa; voi, il quale avete ammesso, anzi proposto il fatto per criterio dell'inutilità o del bisogno della ricerca, voi non lo potete più dire. Era, scusatemi, una terribile incoerenza, una troppo lunga distrazione, a mantenervi nella quale ebbero non poca parte que' sistemi dai quali vi professate così indipendente, e quelle dispute che giudicate così impotenti.

Son quelli e queste che, impadronendosi del nome, hanno potentemente servito a farvi perder di vista la cosa. Sentendo gridare: lingua! lingua! e sentendo insieme che si trattava (parlo dei più, e di quelli che fecero più rumore, ed ebbero più seguito) non d'una lingua semplicemente, ma della bella lingua, del fiore d'una lingua, d'una lingua tutta oro, d'una veneranda favella; non d'una lingua che deve servire per ogni cosa e a tutti, ma ad alcuni d'un gusto più squisito, e d'un accorgimento più fino, per alcuni usi più scelti; sentendo parlar di ricerche erudite, di questioni astruse sull'origine di questa lingua (dico astruse per evitare una questione intempestiva, e dando per supposto che siano questioni solubili, che l'origini delle lingue si trovino, che ci sia nelle lingue un momento il quale si possa chiamare origine) avete preso per la question medesima ciò che non era in fatti altro che un andare fuori. E perché tali ricerche non riuscivano a nulla di positivo e di pratico, avete creduto sempre più, che ogni ricerca fosse oziosa; perché altri facevano della questione della lingua una questione storica, dimenticavate sempre più, che è una questione attuale di sua natura; perché la restringevano a un intento letterario, non volevate vedere l'intento generale che essa non solo ha, ma non può non avere; intento, nel quale certamente è compresa anche la letteratura, che è una parte importantissima dell'umano discorso, ma per ciò appunto suppone una lingua. E per richiamarvi alla question del tutto, che è la vera, e che in fondo è la vostra, s'è dovuto venire alle cose più famigliari, alla pratica della vita comune. Il profano son io, come vedete; e il letterato, per ricacciarvele tutte in gola, sareste voi. E queste dispute che desiderate con gran ragione di veder finite, non potete oramai ragionevolmente pretendere, né sperare, e nemmeno desiderare che finiscano senza una soluzione, senza che un'opinion positiva, e che sia la vera, prevalga a tutte l'altre nel sentimento comune degl'Italiani. E è con l'uno, non col nessuno, che si vincono i molti; ed è una cosa, non dico impossibile, ma, grazie al cielo, difficilissima e da non temersi, che tutti gl'italiani si rassegnino a non venire [39] in chiaro qual sia la lingua italiana. Come un consenso generale intorno a una lingua, espresso o tacito che sia, previene il bisogno della ricerca, così la mancanza del consenso la rende necessaria. Le dispute sono i tristi effetti del disparere, ma sono anche sforzi per arrivare all'unanimità: sono la febbre che accusa la malattia, ma che attesta insieme la vita. L'unica uscita dunque per chi volesse a ogni costo sottrarsi dal prender parte a questa ricerca, sarebbe di dire: – Cos'importa a me di lingua o di non lingua, d'Italia o di non Italia? Non possediamo davvero una lingua in comune? Non mi son mai accorto che questo m'impedisce di divertirmi. Non si vede negli scritti italiani quella integrità e omogeneità di lingua, che dà il mezzo di dir tutto ciò che occorre, e tutti con gli stessi vocaboli? Gran disgrazia per uno che legge bensì, perché anche questo è un mezzo di divertirsi, ma che, e anche per quella vostra ragione, se volete, non legge altro che libri stranieri! E è una miseria, una vergogna, il non saper dire, in una che si osi chiamar lingua, le cose che si dicono ogni giorno, ogni momento? C'è qualcosa di peggio: l'esaminare, il discutere, il pensare –. Ma un tal linguaggio è troppo alieno dal vostro; e sarebbe un'impertinenza l'attribuirvelo. Osserviam dunque piuttosto, che questa indifferenza medesima, se pur ce n'è una tale, potrà bensì non prender parte alla ricerca della lingua, ma non potrà, trovata, e riconosciuta che questa sia (e lo sarà se voi lo volete) non parteciparne gli effetti. Non è egli vero che, i più svogliati in questa materia sanno pure più o meno d'italiano? e perché? perché c'è in effetto, per qualunque mezzo ci sia, una parte di lingua italiana diffusa in tutta Italia, dimanieraché, non la potrebbero schivare, se volessero. Fate che una lingua, vera lingua, cioè intera e una, sia riconosciuta unanimente da coloro che voglion pure una lingua italiana; fate, per conseguenza, che questi lavorin d'accordo a diffonderla, ognuno secondo i suoi mezzi e le sue circostanze; e vedrete come arriverà anche a questi che dicono: cos'importa a me? Anzi non ci sarà di certo più nessuno che lo dica, né che lo pensi. E è una svogliatezza accidentale, cagionata e mantenuta dal non vedere uno scopo unico, chiaro, utile; una svogliatezza pronta a cessare, per quanto paia radicata anzi a cambiarsi in attività, quando lo veda. Potrà egli rimaner qualche italiano (parlo di quelli che avrebbero i mezzi e il tempo d'occuparsi di ciò) a cui non nasca il desiderio, il bisogno d'imparare i vocaboli italiani per significar le cose che dice abitualmente, quando veda che per italiano s'intenda comunemente e d'accordo, una lingua che abbia que' vocaboli? No, no: [40] se pure è possibile qualcosa che s'avvicini o somigli a quel grado, a quel genere d'indifferenza che ho accennato poco fa (ché quel linguaggio formare, e quegli espressi sentimenti, sarebbe un'ingiustizia e una stravaganza l'attribuirli al più svogliato tra gli svogliati, non che a voi) se, dico, posson pure esserci di quelli, non che pensino così, ma che facciano come se pensassero così, è soltanto perché e finché non si presenta loro la cosa che abbia, e l'attitudine a dar ciò che il bisogno richiede, e un consenso prevalente. Per opera poi di quelli che hanno il comodo d'occuparsi di ciò, la lingua potrà arrivare anche a quelli che non potrebbero occuparsene da sé, e che sono, senza paragone, il maggior numero. – Ma fino a che segno potrà propagarsi anche tra loro? E è egli ragionevole il credere, lo sperare che, coi mezzi opportuni, con un lavoro concorde, e col tempo, la lingua italiana arrivi a esser veramente universale in Italia, diventi comune a ogni classe di persone, in ogni parte d'Italia? – Questa sì che sarebbe una questione oziosa. Che il tutto si possa o non si possa ottenere, è lo stesso, quando, e per ottenere il tutto, e per ottener quel tanto che si possa, il mezzo è lo stesso, quando, e per arrivare e per andare avanti, e per tutti, e per alcuni, la strada è una sola. Perché ognuno che non possiede la lingua italiana possa acquistarne quel tanto che le sue circostanze permetteranno, bisogna che a tutti sia proposta, sotto il nome di lingua italiana, una cosa medesima, dico una, nella quale si trovi, e ciò che occorre abitualmente di dire a tutti, e ciò che occorre più ordinariamente di dire ad alcuni, ma che, in qualche caso, può occorrere a chi si sia: il comune e l'elevato, l'usuale e il dotto, il domestico e il tecnico; ché una lingua (di paesi civilizzati, s'intende) è un complesso di tutto ciò. Quando voi, che volete pure delle scole, e le volete in ogni parte d'Italia, e volete per i figli degli artigiani e de' contadini, come per quelli de' benestanti, abbiate pensato al come avere, per l'uso di quelle scole, un vocabolario italiano che insegni a dire in una maniera sola ciò che tutti gli artigiani, e ciò che tutti i contadini d'Italia dicono in cento maniere, non so se arriverete a far che tutti gli artigiani e i contadini d'Italia intendano l'italiano e lo parlino; so che si sarà per quella strada; e so insieme che, col provvedere ai casi loro, si sarà provveduto anche ai vostri e ai miei, perché ciò che fa più specialmente per loro non lo potete trovare se non in una lingua vera e intera; e in una lingua intera ci sarà anche ciò che può far più specialmente per noi, e che ci manca: senza contare quanto possa far per noi anche quello. Quando le colte persone di tutta Italia possiedano in comune questa lingua intera, a segno di poterla adoprare abitualmente, esclusivamente, uniformemente, parlando, come scrivendo, non so fino a che segno essa potrà, anche per questa strada, propagarsi via via alle men colte, alle più incolte; so che sarebbe assurdo e contro ogni esperienza il dire che non si propagherà punto; e so insieme che non c'è bisogno di questo intento per desiderare che le colte persone di tutta Italia possiedano in comune una lingua intera. E ho forse troppo dimostrato che, siccome, per possederla, è necessario l'essere, o espressamente o tacitamente, ma realmente d'accordo in riconoscerla, così il non esser noi punto d'accordo in questo c'impone la necessità di cercarla. Ora, qual metodo si dovrà egli tenere in questa ricerca? Quello, se non m'inganno, che ho già accennato più e più volte, che ho anzi procurato di tener fin qui, e che, essendo richiesto dalla cosa, è anche indicato dalle parole medesime che la [41] esprimono: Lingua Italiana. Noi dobbiam cercare una cosa che abbia le condizioni essenziali a tutte le lingue, per cui si possa dirla lingua, e che abbia insieme delle condizioni particolari, per cui si possa dirla la lingua italiana. Dobbiamo quindi principiar dal vedere, in astratto e in genere, quali siano quelle condizioni essenziali, per poterle applicare al soggetto, e esser certi che quella che chiameremo lingua italiana, sia, prima di tutto, una lingua; come chi vuol provare qual sia la chiave d'un tal uscio, o d'una tal cassetta, bada, prima di tutto, di prendere una chiave, e non un pezzetto di ferro qualunque. E se vi paresse che questo sia un andar per le lunghe, pensate, di grazia, che ciò che è veramente lungo è il disputar per cinquecent'anni, e trovarsi ancora da capo; e che ciò non è venuto da altro che dall'esser saltati a piè pari nella question particolare, senza aver prima sciolta, né posta chiaramente la question generale “ Se quelli che disputano non vanno intesi su cosa disputino, non è più possibile il discuter con fondamento, né il venirne a fine ”, come dice la prima nostra epigrafe. Perché alle diverse cose che hanno preteso d'esser la lingua italiana, allegando, quale un titolo, quale un altro, non s'è pensato a domandar se avevano il primo di tutti i titoli, le condizioni essenziali, necessarie, costitutive d'ogni lingua, tante cose che non le hanno punto hanno potuto e possono vivere e contendersi il regno; e la sola che le ha, rimaner confusa e alle prese perpetuamente con esse, e non di rado al disotto di tutte. E è una lingua che vogliamo? principiam dal vedere cosa sia una lingua. Del resto, una parte di questa strada l'abbiamo già fatta, quasi senza avvedercene. Le condizioni essenziali delle lingue possono e devono esser cercate, e negli effetti necessari, e nelle cause efficienti di esse, in ciò che fanno e in ciò che le fa essere; e l'esame della vostra tesi ci ha data l'occasione di far la prima ricerca. Riman da vedere le cagioni: pur troppo la parte più lunga, e nella quale si dovrà ancora mettere in campo e discutere e dimostrare verità trivialissime; ma ne sarò scusato, se dalla discussione medesima risulterà che tutti gl'imbrogli nascono dal ragionar come se quelle non ci fossero. Messo poi in chiaro il concetto generale di lingua, l'applicazione al caso particolare sarà tanto facile quanto sicura, perché, tra le cose che pretendono d'esser la lingua italiana, ce n'è talmente una sola la quale sia una vera lingua, che non ci sarà da esitar punto. Esamineremo quindi le più comuni e accreditate obiezioni; e con ciò che si sarà dimostrato, e dell'essenza delle lingue in genere, e del fatto particolare, avremo, se non m'inganno, non tanto a scioglierle, quanto a osservare come siano già implicitamente sciolte. Esamineremo finalmente le diverse cose che contendono il possesso alla vera lingua italiana; e anche qui speriamo che non sarà difficile il dimostrare che nessuna risponde al concetto essenziale di lingua, cioè che nessuna dà, né potrà mai dare gli effetti veri d'una lingua, perché nessuna ha la causa efficiente d'una lingua. Principi generali; riconoscimento del fatto particolare; confutazione dell'obiezioni, tale sarà l'argomento di questo primo libro. Nel secondo s'esamineranno i diversi sistemi. Nel terzo si tratterà de' mezzi atti a propagar le lingue, e da impiegarsi, per conseguenza, a rendere, per quanto sia possibile, comune di fatto in tutta Italia quella che avremo dimostrato essere la lingua italiana. E sarà, indirettamente, una nuova dimostrazione; giacché, per discernere le cose reali dalle fantastiche, non c'è niente di meglio che metterle, dirò così, al lavoro insieme. Nel lavoro di diffondere quella vera lingua, vedremo bensì e pur troppo difficoltà materiali da vincere, ostacoli esterni da superare; ma in quell'altre cose, l'impossibilità di cavarne un metodo coerente, una materia certa del lavoro medesimo. Dopo aver veduto che non promettono ciò che è proprio d'una lingua, vedremo anche che non hanno nemmeno i mezzi di ridurre in atto ciò che promettono. Ne efficit quidem quod vult, come disse, parlando della fisica d'Epicuro, il tutt'altro che volgare filosofo, citato poco fa(nota 6).

Capitolo secondo

Qual sia la causa efficiente delle lingue, e in primo luogo, riguardo ai vocaboli.


Rem dico omnibus notam, et nunc nemini notam. Nempe sic se habent mortalium corda: quo scimus cum necesse non est, in necessitate nescimus.

S. Bern. De Considerat. II,I.


[42] Ciò che la prima e più leggiera osservazione fa vedere a chi si sia in qual si sia lingua, come materia propria d'ognuna, sono de' vocaboli, e delle forme grammaticali applicate ad essi, e che sono comunemente chiamate regole. Abbiamo quindi nella materia stessa una distinzione, non già perfetta e assoluta, ma che basta al bisogno della nostra ricerca; giacché, se i vocaboli e le regole non sono cose totalmente separabili nel fatto concreto, ha però ognuna di esse un'essenza sua propria, per la quale può esser considerata astrattamente e da sé. E su questa natural distinzione è fondata quella de' mezzi che s'adoprano per rappresentare qualunque lingua nel suo complesso, per quanto è fattibile: voglio dire, il vocabolario e la grammatica. Cercando quindi I.o cosa siano i vocaboli, 2.o in virtù di che ogni lingua abbia que' tali e tanti che ha; e facendo poi la stessa ricerca intorno alle loro regole verremo, se la ricerca sarà stata esatta, a aver trovato qual sia e l'essenza e la causa efficiente di qualunque lingua; e per conseguenza quali devano essere le condizioni essenziali di quella che cerchiamo. I vocaboli sono stati più volte, non so s'io dica definiti o chiamati: Segni dell'idee. Ma, a volerla prendere per definizione, questa peccherebbe di troppa generalità, potendo un tale ufizio esser fatto da tutt'altre cose, come sono i gesti, gli atti del viso, e anche de' simboli inanimati. Crederei che l'essenza de' vocaboli possa esser bastantemente specificata col definirli: Suoni vocali, a cui è annesso un significato. Non aggiungo: d'idee, perché ciò è compreso nel termine di significato; non si potendo significar cosa veruna , se non alla mente, né alla mente, se non per mezzo dell'idee. E ho detto, suoni; perché, quantunque i vocaboli possano esser rappresentati per mezzo della scrittura, questa non fa altro in ciò, se non rappresentare i suoni medesimi: per la qual cosa i caratteri furono molto acconciamente chiamati: Segni di segni(nota7). Che gli scritti possano avere e abbiano, come molte altre cose, una parte occasionale, più o meno grande, nel modificar le lingue in più maniere, non c'è dubbio. Ma qui si tratta di ciò che le fa essere: che è, se piace al cielo, la prima e indispensabile condizione perché possano esser modificate in qual si sia maniera. Ora, che la scrittura abbia una parte necessaria nel far essere le lingue, è una cosa che non potrebbe nemmeno esser pensata direttamente e avvertitamente; quantunque molti abbiano ragionato come se la pensassero. C'è egli alcuno il quale voglia dire che l'uso de' vocaboli sia venuto per mezzo d'un istrumento materiale, qual è la scrittura? alcuno il quale metta in dubbio che l'invenzione della scrittura sia posteriore al linguaggio? E quella o quelle che si parlavano prima di quell'invenzione, quelle che si parlano attualmente dove non è ancora conosciuta, c'è egli alcuno che le chiami altrimenti che lingue? I viaggiatori europei, che ne raccolgono de' vocaboli, e li mettono in carta per la prima volta, li fanno forse con questo diventar vocaboli? E cos'erano prima? E la cosa di cui questi vocaboli erano già una parte, principia forse da quel momento a diventare una lingua? E questo applicare indifferentemente lo stesso nome alle colte e alle selvagge, alle moderne e all'antiche, a quelle che si sono trovate, scoprendo delle nove regioni, e a quelle che si suppone, con tutta ragione, doverci essere per tutto dove ci siano degli uomini, non è egli un riconoscere un qualcosa di comune a tutte, che le fa essere ugualmente, e indipendentemente dalla scrittura, come da ogn'altra circostanza che possa servire a modificarle? [43] Avremo a ritornare e a fermarci anche troppo su questo punto, quando si dovrà dimostrare che gli scritti non possono mai essere né una materia, né un mezzo sufficiente a costituire una lingua. Qui bastava l'osservare che la scrittura non appartiene all'essenza delle lingue; e render così ragione del non avergli data parte veruna nella definizione del vocabolo. Anzi era in certa maniera necessario; giacché, in grazia della confusione portata tra di noi dalle teorie arbitrarie in tutti i concetti relativi alla lingua, il silenzio poteva parere omissione. Passando ora al secondo quesito, per ciò che riguarda i vocaboli, In virtù di che una lingua qualunque ha que' tali e tanti che ha? O, in altri termini, qual è la causa efficiente, per cui tali e tanti suoni orali siano vocaboli della tale o della tal altra lingua? “Dico una cosa che nessuno ignora, e che, all'occorrenza, nessuno sa”: questa causa efficiente è l'Uso: quell'Uso che da tanto tempo è chiamato il maestro, il giudice supremo, il legislatore, l'arbitro, il signore, fino il tiranno delle lingue; mentre, non so se da altrettanto tempo, ma certo da molto, e al presente più che mai, s'attribuisce a tutt'altre cose un'efficacia independente dalla sua, superiore alla sua, e non di rado da que' medesimi che gli danno di que' titoli così magnifichi: mentre, dico, tutt'altre cose si propongono e s'allegano per decidere quali siano o non siano vocaboli d'una lingua. E questo ci avverte che, per quanto la verità che abbiamo espressa o piuttosto ripetuta, sia implicitamente conosciuta e confessata, non basta enunciarla per poter procedere senza timore di contradizioni, a dedurne le conseguenze che fanno al caso; ma bisogna entrare negli argomenti che possano metterla in una maggiore e, dirò così, più particolarizzata evidenza. Che nelle lingue ci siano de' vocaboli per la sola forza dell'Uso (molti o pochi, non importa), pare che deva esser concesso senza difficoltà. Può anzi parere strano il richiedere solamente qualcosa per quello che è proclamato arbitro e signore del tutto. Se alcuno poi avesse difficoltà a concedere anche questo, basterebbe appellarne alla sua propria esperienza, e domandargli se di tutti i vocaboli che riconosce come appartenenti senza dubbio a una lingua, saprebbe addurre una ragione speciale e indipendente dall'Uso, per cui lo siano. E siccome non si può supporre che alcun uomo sensato, dando appena un'occhiata ai fatti d'una lingua, voglia accettare un tale impegno, e meno ancora affermare che una cosa simile deva potersi fare in qualsivoglia lingua; così rimane evidente che, riguardo almeno a alcuni vocaboli, l'Uso è, per sé, e indipendentemente da ogni altra ragione, una ragion sufficiente per poter dire che siano vocaboli d'una lingua, che è quanto dire una causa sufficiente per far che ci siano. Ora, se s'ammette che l'Uso possa essere, e sia di fatto, causa efficiente dell'essere alcuni vocaboli in una lingua, ne viene di conseguenza, che l'Uso è l'unica e universale causa efficiente di tutti i vocaboli di tutte le lingue: cioè, e si noti bene, non già la causa che li fa esser vocaboli semplicemente e in genere, ma quella che li fa esser rispettivamente vocaboli della tale e della tal altra lingua. [44] E la ragione, facile a vedersi , appena ci si badi, ma pur troppo facile anche a perdersi di vista, è che, per una necessità logica, questa causa efficiente dev'essere una sola. Infatti, se fossero di più; o si troverebbero sempre e infallibilmente d'accordo tra di loro; e ciò non potrebbe avvenire se non in virtù d'un'altra causa superiore dalla quale dipendessero tutte, e la quale sarebbe in ultimo la vera e definitiva causa; o potrebbero trovarsi opposte, e operatrici d'effetti opposti; e ci vorrebbe una ragione che determinasse, per ogni caso, quale di esse dovesse prevalere; e in questa ragione si dovrebbe, da capo, cercare la vera e unica causa efficiente.

La necessità d'una unica causa si può anche dimostrare con quest'altro breve argomento. I vocaboli d'una lingua qualunque, dissimili tra di loro di molte e diverse maniere, hanno però qualcosa d'identico, che è appunto l'appartenere a quella lingua. Ora, una qualità identica non può trovarsi in diversi individui, se non per effetto d'una causa identica, cioè unica.

E è poi una cosa ugualmente facile a vedersi, che, di tutte l'altre che s'allegano, in vece dell'Uso, come cause atte a fare che de' vocaboli appartengano a una lingua, non ce n'è alcuna che abbia neppur l'apparenza d'una tale universalità. E del resto, non ce n'è neppure alcuna a cui venga attribuita. Per provare che un vocabolo o un certo numero di vocaboli appartengano a una lingua, s'allegherà, in un caso, l'analogia; in altri casi, o la derivazione da altri vocaboli della lingua medesima, o d'una che abbia il privilegio di somministrargliene, come lingua madre; o l'essere stati usati dal tale o da tali scrittori; o il fare un ufizio utile, esprimendo un concetto non ancora significato da alcun altro vocabolo di queste o qualità o circostanze de' vocaboli s'attribuisce la ragione di causa universale, applicabile a tutti i casi: e questo, perché una cosa tanto contradittoria con sé stessa, e tanto opposta ai fatti più manifesti, non potrebbe venire in mente a nessuno. E nondimeno se n'allega ora una ora l'altra, come causa speciale, applicabile a certi casi, perché non si riflette che quella ragione d'universalità, che manca a tutte, è una condizione essenziale a costituire in tal materia quella che sia vera causa efficiente. Sarà per ciò cosa più che opportuna il dimostrare direttamente che nessuna di esse è tale; e a questo fine basterà l'osservare che possono trovarsi, o una, o molte, o tutte insieme in un vocabolo, senza che, per questo, possa dirsi vocabolo d'una lingua. Quando il Malherbe, nel suo scrittoio, metteva in carta queste parole: Il ne faut pas se fier aux caresses du monde; elles sont trompeuses et, s'il faut user de ce mot, insidieuses(nota 8), questo vocabolo insidieux aveva, da quel momento tutte le qualità che ha al presente. Era preso da quella lingua dalla quale è venuta nella maggior parte la francese; aveva una forma analoga a quella d'una classe di vocaboli francesi, e della classe opportuna; esprimeva un concetto che, pur troppo, può nascere non così di rado il bisogno d'esprimerlo. Ma era, per questo, un vocabolo della lingua francese? o lo faceva diventar tale, ipso facto, l'essere inventato da un illustre poeta, qual era il Malherbe? Bel vocabolo della lingua francese sarebbe stato un vocabolo ignorato da tutti i francesi, meno uno, il quale era ben lontano [45] dal pretendere che fosse tale, poiché chiedeva licenza e, in certo modo, scusa d'usarlo! Lo divenne poi: ma quando? Quando fu accettato dall'Uso, al quale l'illustre poeta lo proponeva garbatamente, con quel chieder licenza. Gianluigi de Balzac (prendo volentieri esempi dalla Francia, perché in quel paese la lingua non è in litigio; e ciò perché ci regnano nella pratica i princìpi che cerchiamo d'esporre) Gianluigi de Balzac, parlando del vocabolo ambitionner, disse: Se non è francese quest'anno, lo sarà l'anno venturo(nota 9). Che fu quanto dire: qualità per esser francese, non gliene mancano: gli manca bensì ciò che può farlo esser tale, cioè l'Uso; ma questo verrà, anzi è per la strada. Il Marmontel piange molti vocaboli già usati in francese, e poi trascurati o rifiutati, o, per dir così, degradati dal capriccio dell'Uso(nota 10). E adduce diverse ragioni per dimostrare che tornava conto di conservarli, e che tornerebbe conto di riammetterli. Uno, per esempio, è un verbo caduto in disuso, senza che se ne veda un bon motivo, mentre un suo participio è rimasto nell'uso. Un altro, o degli altri sono radicali lasciati perire, mentre qualche loro derivato è pieno di vita; o viceversa. A qualche altro vocabolo è stata sostituita una frase, a danno della brevità e dell'energia; e cose simili. Soprattutto poi, e quasi per tutti, adduce la ragione più importante, cioè l'esprimere che facevano un loro concetto proprio, o una modificazione, una sfumatura, una, dirò così, varietà di concetto, che verrebbe in taglio benissimo, e che la lingua non ha più il mezzo d'esprimere. Si crede,     dice,
di non aver perso che de' sinonimi; e non è così. Lamenti, che potevano esser giustissimi; ma i quali, appunto per ciò, attestano che, per far che de' vocaboli siano o non siano in una lingua, l'arbitrio dell'Uso è efficace, e esclusivamente efficace, anche quando abbia torto. Molti di que' vocaboli sono stati registrati nell'ultima edizione del Vocabolario dell'Accademia francese (1835). E citare quel vocabolario è lo stesso che citar l'Uso contemporaneo della lingua francese; per quanto, ripeto, ciò si possa dire d'un vocabolario. O fortunatos nimium!(nota 11). E avremo più tardi l'occasione di vedere che la cagione per cui i francesi hanno un così eccellente vocabolario, fa anche che n'abbiano poco bisogno. Ecco alcuni di que' vocaboli: aventureux, émoi, brandir, calamiteux, populeux, opportun simuler, verbo, del quale non rimaneva allora nell'Uso che il participio simulé. Era certamente una cosa desiderabile che tornassero a vivere nella lingua francese; ma questa cosa non c'era altro che l'Uso, che la potesse fare.

Il Rollin aveva già espresso lo stesso dispiacere e lo stesso desiderio, riguardo alla stessa lingua, e in termini che giova riferire. Perché mai,     dice,
non arricchirla a poco a poco di nove espressioni eccellenti, che i nostri antichi autori, o anche i popoli vicini, ci potrebbero somministrare?(nota 12). Chi trovasse contraddittorio il chiamare espressioni nove quelle d'autori antichi, e strano il mandarle del pari con altre di popoli vicini, cioè di lingue straniere, farebbe vedere di non aver un'idea chiara [46] cosa. Che de' vocaboli siano stati altre volte in una lingua, è un fatto che riguarda la storia di essa; ma altro è la storia di una lingua, altro è il suo essere in un dato momento. Confondere queste due cose sarebbe ( e pur troppo, in certi casi, è) come se nel descrivere lo stato attuale della popolazione d'un paese, si volesse mettere in conto gli uomini che ci sono vissuti, cioè que' tanti di cui si potesse aver notizia. I vocaboli che sono usciti da una lingua, e quelli che non ci sono mai entrati, ne sono ugualmente fuori; e è quindi affatto conforme alla verità della cosa il chiamarli ugualmente novi, quando vengano proposti a una nova accettazione dell'Uso. Que' termini caddero naturalmente dalla penna al Rollin, perché parlava d'una lingua davvero, con l'idea d'una lingua davvero.

E probabilmente non s'avvide nemmeno dell'antitesi verbale, appunto perché non pensava che alla congruenza de' concetti.

Ma che? si dirà forse: tutte quelle qualità, relazioni e circostanze de' vocaboli, le quali creano tra di essi delle differenze tanto importanti, quanto manifeste, non s'avranno a contar per nulla? Non avranno nessun valore, nessuna applicabilità alla pratica? Ne hanno una, senza dubbio: anzi sarà utile il veder quale; giacché il riconoscere ciò che una cosa può fare è un aiuto, e spesso efficacissimo, a riconoscere più chiaramente ciò che non può. O piuttosto s'è già veduto un saggio dell'uno e dell'altro, ne' fatti citati dianzi.

S'è veduto, cioè, che tutte quelle qualità, relazioni e circostanze de' vocaboli, mentre sono, per sé, assolutamente impotenti a far che nessuno di essi appartenga a una lingua, possono essere motivi che determinino l'Uso a farceli entrare, con l'accettarli. Uno de' più potenti, e che ottiene quasi sempre l'effetto, è il bisogno che nasca di nominare con un novo vocabolo un cosa nova. I nomi, per esempio, che gl'inventori impongono a delle macchine, a degli istrumenti, a delle scoperte qualunque, che facciano parlar subito e molto di sé sono per lo più accettati, senza contrasto, dall'Uso, in qualunque maniera siano formati, e quantunque, alle volte, bastantemente eterocliti. Ma i vocaboli che non hanno, come questi, il doppio vantaggio, e di fare un ufizio divenuto necessario, e d'avere, dirò così, per interprete immediato il fatto medesimo che vogliono significare; e non si raccomandano che per un grado e un genere qualunque d'utilità, e insieme devono farsi la strada da sé, hanno certamente bisogno d'altri o di maggiori aiuti per esser proposti all'Uso, con probabilità di riuscita. La prima difficoltà per i vocaboli novi è quella d'essere intesi, che è anche la prima condizione per poter essere accettati. E a diminuire, o anche a levar di mezzo questa difficoltà, nessun espediente è più pronto e più efficace, della derivazione da altri vocaboli della stessa lingua, e insieme dell'analogia: l'una, che, per mezzo della somiglianza [47] con una radice già nota, indica una relazione in genere; l'altra che, con una somiglianza d'inflessione, indica la relazione speciale che si vuol render presente al pensiero. I vocaboli che sono stati altre volte in una lingua, e quelli che si derivano da una da cui essa sia venuta in gran parte, hanno spesso questo medesimo vantaggio, di trovarci delle somiglianze, come già preparate, e di radici e d'inflessioni. E, anche quando ciò non sia, hanno l'altro vantaggio, d'essere o già noti, o immediatamente intesi da un certo numero di persone, e d'esser quindi più facilmente accettati da quelle: e è, per dir così, un avviamento verso l'Uso, il quale non si forma che per mezzo d'un numero crescente, sia in fretta, sia a poco a poco, d'accettazioni particolari. Gli scritti poi hanno, in una maniera speciale, un vantaggio di questo genere, in quanto possono proporre, o direttamente o indirettamente, de' vocaboli e avviarli così verso l'Uso, dove potranno anche entrare , se vorrà lui: si volet usus.

E per la stessa ragione che tali qualità, relazioni e circostanze sono o motivi o mezzi, che possono render più facile e più probabile per de' vocaboli l'accettazione dell'Uso, sono anche norme, non già uniche, ma bone, secondo i casi, per chi voglia proporre all'Uso un novo vocabolo, o aiutar, per la parte sua, a diffonderne uno da qualchedun altro. Ecco dove e fin dove sono applicabili. L'Uso poi ne fa valere, a suo arbitrio, quando l'uno, quando l'altro; o anche li rende tutti sterili e inefficaci, col solo fare il sordo. Tutti, ripeto, o motivi o mezzi; nessuno, causa efficiente. Che se questa distinzione paresse a qualcheduno più speculativa, che altro, voglia fermarcisi sopra un momento, e non potrà non vedere di quanta importanza sia, riguardo alla pratica. Si tratta di sapere se, per lingua, si deva intendere una collezione di fatti, o un caos di possibili; cioè una cosa attuale, effettiva, trovabile, o no. Infatti, come mai si potrebbe trovare una lingua, quando, per riconoscere i suoi elementi, i vocaboli che la compongono, si cerchi in essi, non la causa che li faccia essere, ma una o un altra o un'altra ragione che li potrebbe far essere? Di qui i sistemi arbitrari, e le dispute interminabili. E cosa ci può esser di più pratico, e più tristamente pratico, che il disputare per cinquecent'anni (e fosse finita lì) che è venuto per questa confusione? Gli esempi e le prove pur troppo non ci mancheranno, quando verremo a applicare queste considerazioni al fatto speciale della lingua italiana. Del resto, le qualità e relazioni e circostanze di cui s'è parlato, come non hanno per sé la virtù d'appropriare [48] nessun vocabolo a nessuna lingua, così non sono, a gran prezzo, né i soli motivi che possano determinar l'Uso a far quest'effetto, né è alcuno di essi un motivo necessario a ciò. Dico anche qui una cosa notissima, ma necessaria a dirsi, perché troppo spesso dimenticata. L'Uso può accettare de' vocaboli, non solo derivati, ma presi tali quali da una lingua qualunque, e aventi delle forme tutt'altro che analoghe a quelle della lingua dove li fa entrare. Tali sono in francese i vocaboli e altri modi di idre prettamente latini, Récépissé, Alibi, Agenda, Humus, Criterium, Maximum, Album, Minimum, Ad libitum, In extremis, Ipso facto, Ad rem, Ad patres, Nec plus ultra; e i vocaboli e i modi di dire italiani, Imbroglio, Incognito, Mezzo termine, Bravo, Aviso, Villa, Andante, Allegro, Crescendo registrati, come francesi, e con tutta ragione, nel Vocabolario di quell'Accademia.

Accade anche qualche volta, che, prendendo un vocabolo da un'altra lingua, uno lo storpi, non conoscendolo bene, e senza renderlo con ciò più analogo alla sua; e che questa storpiatura, che sarebbe un goffo sproposito nella lingua da cui è presa, diventi un vocabolo proprio nell'altra. Cosa che può parere strana a chi non pensi che le più nobili lingue neo – latine, come l'italiana, la francese, la spagnola, la portoghese, furono formate, come l'altre, rimaste, più o meno, rozze e oscure, di solecismi e di barbarismi latini, e spesso anche di dizioni che avevano tutt'e due queste qualità. Di questo genere sono, per esempio, in francese, mezzo tinto, che è un barbarismo italiano un concetti, che sarebbe in italiano un solecismo, come in spagnolo un merinos.

Il bisogno, o un'utilità, un'opportunità qualunque di significare i concetti stati associati a que' vocaboli, bastò a farli passare, in più o meno tempo, nell'uso del francese, in quella forma ch'erano stati messi in campo la prima volta da chi sa chi. E l'esser passati nell'Uso bastò, come doveva bastare, all'Accademia francese per registrarli nel suo vocabolario. Che più? De' vocaboli messi in campo senza alcun motivo ragionevole, nemmeno in apparenza, e per una qualche vanità sciocca, come, verbigrazia, quella di prendere i vocaboli da una lingua straniera, non per altro che perché sono stranieri, possono esser ricevuti dall'Uso, e entrar così davvero nella lingua in cui sono stati ficcati fuor di proposito, e rimanerci con lo stesso titolo di tutti gli altri che ne fanno parte. Ne citerò un esempio, o piuttosto alcuni esempi in uno. Ci sono due Dialoghi del secondo e più celebre Enrico Stefano, contro la moda di lardellare il francese d'italianismi, ch'era invalsa alla corte di Caterina de Medici(nota 13); quella sciagurata che, come italiana, introdusse, per la prima volta, la perfidia e la crudeltà tra de' partiti così leali e misericordiosi; in una corte tutta candore e amor del prossimo; in un paese, dove, da Clodoveo [49] fino a lei, tutti i potenti e tutti i vogliosi del potere non avevano lasciato altro che esempi segnalati e commoventi, di bona fede e di mansuetudine. I dialoghi, come dialoghi, sono freddi e scipiti, malgrado i frizzi e gl'improperi contro l'Italia, de' quali sono sparsi, secondo un'usanza tanto equa e tanto sapiente, che non è ancora smessa totalmente. Sono però curiosi per la materia. C'è messo in scena, col nome di philausone, un cortigiano che fa uno sfoggio strano di que' barbarismi; e, col nome di celtophile, un francese della stampa antica, il quale se ne maraviglia, se ne fa beffe, e oppone alla più parte di essi un vocabolo francese, o anche più d'uno, che esprimeva il concetto medesimo. Ora, in quel pazzo gergo del cortigiano, insieme con s'allegrer, s'imbattre e capiter en un lieu, piller patience, garbe, usance, mescoler, goffe, volte, accoustumance cattive, ringratier, baster l'anime, aller à space, de bonne voglie, leggiadrement, discoste, e altra roba simile, strana in francese ora come allora, e come probabilmente in perpetuo, si trova manquement, grade, misère, nel senso di cosa di poco valore; accomoder, nel senso di maltrattare; s'accomoder d'une chose, nel senso di prendersela, o di gradirla; caprice, réussir, cavalerie, embuscade, à l'impreviste, e altre locuzioni che l'autore, in persona di celtophile, trova strane né più né meno di quell'altre, e che ora sono francesi quanto si possa desiderare. E poteva aver ragione, o riguardo a alcune, o anche riguardo a tutte, nel dissuader l'Uso dall'accettarle; ma poiché l'Uso le ha accettate, chi è che pensi a chiedere un'altra ragione, per riconoscerle come francesi? O piuttosto, chi è che pensi a chiederne una ragione? Tra quegl'italianismi ce n'è anche qualcheduno d'una specie più strana, e della quale s'è fatto un cenno dianzi; cioè cavati da un vocabolo italiano mal inteso per ignoranza. E qui, anche il personaggio appassionato per gl'italianismi, è d'accordo nel biasimare e nel deridere. Racconta lui medesimo che, avendo un cortigiano usato l'italianismo disgracié, nel senso di malheureux, uno che, passando, aveva sentito quella sola parola, s'immaginò che fosse stata adoprata a significare uno caduto in disgrazia del principe; e tutto contento d'un così bell'acquisto, non ebbe pace finché non trovò altri con cui farsene bello. E ne dovette trovar di quelli che ne trovarono anche loro degl'altri, poiché quel vocabolo, e in quel senso, ora è francese, che nulla più. E chi si mettesse in mente di fargli eccezione, per questo suo esser venuto da un barbarismo, per mezzo d'uno sproposito, farebbe come chi allegasse l'illegittimità della nascita d'un uomo per dimostrare che non appartenga al genere umano. O piuttosto, dirò anche qui, è strano anche l'immaginarsi un tal caso; giacché, dove per lingua s'intende una lingua, non viene in mente a nessuno di fare eccezioni di questa sorte. [50] Ma l'escludere, ad arbitrio, de' vocaboli dalle lingue, e introdurcene de' novi, ad arbitrio ugualmente, non sono, a un pezzo, né le principali, né le più importanti operazioni dell'Uso, come potrebbe forse parere a prima vista. Considerate con un po' più d'attenzione, compariscono, come sono, operazioni secondarie e accidentali; operazioni che non si compiscono se non in un tratto di tempo, alle volte lungo, e, durante il quale, l'Uso rimane diviso finché uno de' due vocaboli non prevalga definitivamente sull'altro. Operazioni, finalmente, che non si fanno, se non in una parte, e in una piccola parte, per volta; giacché, se sarebbe strano il supporre che un uomo solo possa smettere simultaneamente una gran parte de' vocaboli di cui si serve abitualmente, e prenderne de' novi in luogo di quelli; tanto più strano sarebbe il supporre che una cosa simile possa esser fatta da molti insieme (nota 14). La grande operazione dell'Uso, l'operazione essenziale, permanente e omogenea, quella che fa viver le lingue, è al contrario, quella di mantenere; e di mantenere incomparabilmente più di quello che, in ogni momento, possa andarsi mutando, come s'è accennato dianzi. Infatti, quando si nominano lingue in genere, ciò che si presenta naturalmente al pensiero di chi parla e di chi sente, sono altrettanti complessi, altrettante masse, dirò così, di vocaboli coesistenti in un dato momento; come quando si parla di corpi viventi, si pensa a degli aggregati di parti attualmente aderenti in forza d'uno stesso principio vitale, facendo astrazione da ciò che que' corpi vanno e perdendo e acquistando in ogni momento della loro vita. La causa che mantiene continuamente nelle lingue, fin che vivono, questa gran quantità di vocaboli, non è, ripeto, se non quella medesima che ne fa uscire alcuni, e entrarcene degli altri, cioè l'Uso; non c'essendo nessuno di que' vocaboli che abbia una sua ragion d'essere, necessaria e perpetua; nessuno che non possa essere scambiato da un altro. Quantità, del resto, e come ognuno sa, diversa nelle diverse lingue; per cui alcune si chiamano lingue ricche, e altre lingue povere, cioè aventi bensì delle qualità diverse, che le fanno distinguere con aggiunti diversi, ma una medesima essenza, che le fa comprendere sotto lo stesso nome. [51] Un'altra facoltà dell'Uso, non essenziale, come questa, alla vita delle lingue, ma naturale, e molto importante ne' suoi effetti, è quella d'arricchirle di nove significazioni, senza l'aiuto di novi vocaboli, e col solo mezzo di nove appropriazioni di vocaboli già usati. Queste appropriazioni si fanno principalmente per mezzo de' traslati e d'una classe d'idiotismi. Sarà facile il dimostrare, tanto in quelli, come in questi, l'arbitrio sempre efficace, e unicamente efficace, dell'Uso. Il traslato consiste nell'applicare a una locuzione un significato diverso da un significato già annesso a quella; ma che abbia con questo significato anteriore una somiglianza parziale qualunque; per mezzo della quale il concetto che si vuol comunicare sia suscitato nella mente di chi ascolta, o di chi legge (nota 15). E data nell'uomo questa facoltà (che è un fatto) di raggiungere un concetto per mezzo d'un altro, qualche volta stranamente lontano, è naturale che, avendo a significare de' concetti novi, si ricorra volentieri a un tale espediente, e si faccia uso di materiali già preparati e alla mano, piuttosto che affrontar la difficoltà di stampar de' vocaboli novi, e quella di farli gradire, e qualche volta di farli intendere. Quindi, de' traslati se ne fanno ogni giorno da diverse persone; alcuni o molti de' quali servono, o bene o male per quella volta, o sono ripetuti qualche altra, e si fermano lì. Ma, come ognuno sa, ci sono in ciascheduna lingua de' traslati che, dal non esser altro che ritrovati particolari di Dio sa chi, sono passati a far parte di essa; e, per intendere il significato de' quali, non c'è punto bisogno d'avvertire la relazione che abbia col significato anteriore: basta saper la lingua medesima. Anzi, le più volte, per non dir, quasi sempre, questa relazione non vien neppure in mente da sé; e per esempio, non sarebbe punto strano il supporre che il vocabolo lingua, già tante volte ripetuto in questo scritto, non abbia destata nella mente d'alcuno de' suoi pazienti lettori l'idea di quel pezzetto di carne, dal quale, per un traslato bastantemente ardito, anzi con una successione di traslati, gli venne quest'altra significazione. E quant'altri traslati s'accompagnano abitualmente con questo! Lingua viva, morta, madre, figlia, ricca, povera, dolce, aspra, colta, selvaggia e le famiglie delle lingue, e il fiorire e il degenerare delle lingue: traslati che, come tanti e tant'altri, producono addirittura il loro effetto, fanno intendere, senza nulla d'intermediario, ciò che vogliono esprimere, né più né meno di quello che possano fare i vocaboli medesimi, applicati al significato che si chiama comunemente proprio. Ho detto che i traslati sono una parte delle diverse lingue: s'aggiunga che ne sono una parte importantissima, e per la quantità e per la qualità. Chi vuol farsene un'idea non ha altro che a ripassar nella sua mente de' vocaboli, presi a caso, d'una lingua qualunque, o per far di più, in minor tempo, e senza fatica, scorrere un vocabolario fatto bene d'una di esse; e vedrà subito di che gran numero di significazioni, e di quante significazioni, parte utilissime, parte diventate necessarie, rimarrebbe priva, se se n'avessero a levare i traslati. E, senza dubbio, il loro numero e la loro importanza variano nelle varie lingue; ma [52] che devano essere e l'uno e l'altra relativamente considerabili, in tutte, basta a farlo ragionevolmente presumere la generalità del bisogno e l'opportunità del mezzo. Ora, è una cosa fin troppo evidente, che la causa per cui tali e tali traslati, e non tali e tali altri siano dizioni solenni, parte effettiva d'una lingua, non è altro che l'Uso. Perché, cosa sono se non fatti che, come i vocaboli, non hanno in sé nessuna ragion necessaria del loro essere? Alcuni, in qualunque maniera ciò sia avvenuto, sono comuni a più d'una lingua; altri si trovano in una sola; in alcuni la somiglianza col significato anteriore è ovvia, manifesta al primo sguardo; in altri è così debole, o accessoria o riposta, da parere strano che uno sia andato a ricavar di là il mezzo d'una nova significazione, e più strano ancora, che sia stato accettato come tale. Ma, tra i più comuni a varie lingue, come tra quelli che sono d'una sola; tra i più naturali, come tra quelli che possano parere più forzati, ce n'è egli uno di cui si possa dire: questo traslato doveva entrare necessariamente nella tal lingua, o nelle tali lingue, e ci deve necessariamente rimanere? La denominazione d'idiotismo è stata, e è ancora qualche volta, usata in diversi significati, che non importa qui di specificare. Basterà indicare che, per idiotismi, noi intendiamo, con qualcheduno de' più recenti e de' più reputati grammatici: Locuzioni appartenenti a una lingua, quantunque opposte a una, o a più d'una, sua consuetudine. L'idiotismo può trovarsi, tanto ne' vocaboli semplici, quanto in locuzioni composte di più vocaboli. Noi non abbiamo qui a parlare, che di questa seconda classe, o, in altri termini, di quelle locuzioni composte di più vocaboli, e che hanno una loro forma determinata, e un senso ugualmente determinato, il quale però non resulterebbe naturalmente dal concorso de' vocaboli medesimi. Dobbiamo, anche in questo caso, premettere un'osservazione che s'è già fatta in un altro, e che s'avrà a fare in altri ancora; cioè che queste locuzioni non formano una classe costituita in tutto di caratteri esclusivamente suoi, e quindi affatto distinta e separabile nella pratica da ogn'altra. Alcune ricadono in parte nella categoria di cui abbiamo finito ora di parlare, essendo in parte formate da traslati, anzi da gruppi e intrecci di traslati. Altre cadono, in parte ugualmente, in un'altra categoria della quale s'avrà a trattare or ora; in quanto c'entrano e figure e licenze grammaticali, non di rado stranissime. In altre, le anomalie lessicologiche e grammaticali si riuniscono, o, piuttosto, si confondono insieme, da doverci studiar sopra molto, o anche inutilmente, per distinguerle. Noi qui, astraendo dai diversi modi di tali locuzioni, non contempliamo in tutte altro che la loro essenza generica e comune, di composizioni di vocaboli contrarie a delle consuetudini ordinarie delle rispettive lingue, e alle quali sono nondimeno appropriate, con tutto quell'effetto che si possa desiderare, delle nove e speciali significazioni. D'un tal genere (per venire agli esempi che è la più spiccia) sono, in italiano (nota 16), le locuzioni: Far caso d'una cosa o d'una persona; Far alto e basso; Dar sulla voce; A man salva; Star con le mani in mano; Fare [53] amicizia; Far di meno; Far fortuna; Far vela; Non aver che fare (detto per significare inferiorità); Mettere in campo; Passar sotto silenzio; Esser fuori di sé; Andarne di mezzo; Non veder l'ora; Dormirci su; Fuori di mano; Di punto in bianco; A tutta questa classe di locuzioni si possono applicare, a un dipresso, l'osservazioni fatte dianzi sui traslati. Sono anch'esse una parte delle lingue, dove fanno lo stesso ufizio de' vocaboli, cioè quello di significare de' concetti; salva la differenza affatto materiale, d'esser questi indivisi, e quelle formate di parti distinte. E questo effetto di significare, lo producono anch'esse immediatamente; si fanno intendere addirittura da ognuno che conosca la lingua a cui appartengono, senza che ci sia bisogno di ricavare analiticamente il loro significato dalla relazione che possano aver tra di loro i vocaboli che le compongono; anzi senza che l'accozzo, alle volte singolarissimo, di tali vocaboli faccia specie, né dia punto nell'occhio. Questo stesso Fare specie e questo Dar nell'occhio, che mi sono caduti ora dalla penna, ne possono essere esempi, quantunque non de' più notabili certamente. E tanto queste locuzioni fanno lo stesso ufizio de' vocaboli, che, non di rado, una lingua non ha altro che una di esse, per dire ciò che un'altra lingua dice con un vocabolo solo. Così, in italiano e in francese, non si possono tradurre se non per mezzo di locuzioni composte i vocaboli seducere, per tirar da una parte; decedere, per dar la diritta; Manifesto; Nuspiam; Identidem; Diluculo, e un bon numero d'altri. Anzi non pochi vocaboli, non sono altro che locuzioni di questo genere, trasformate, cioè composizioni di vocaboli i quali, con l'aiuto di troncamenti e d'altre alterazioni, hanno potuto, dirò così, far presa e rassodarsi insieme. Tali sono in latino alcuni de' citati dianzi, e Animadvertere; Perdere; Interficere; Usuvenire; Sis; Agesis; Tantopere; Hodie; in italiano, Soprintendere; Soprammano; Addio; Appunto; in francese: Surfaire; Bonheur; Aplomb; Toujours; Naguère; Hormis; Embompoint; con un lungo eccetera, per ciascheduna di queste lingue e per la latina principalmente. E come anche s'è detto de' traslati, si può dire ugualmente di queste, locuzioni, che sono, non solo una parte delle lingue, ma una parte importante, e per la qualità e per la quantità. Siccome alcune, o molte di esse, può parere, a prima vista, che non facciano altro che esprimere con un'energia particolare, o con una faceta argutezza, con un ardimento curioso, de' concetti che non manchino altri termini per significarli in una maniera più piana; così furono e sono spesso ancora riguardate come ornamenti, piuttosto che istrumenti del linguaggio. Ma chi appena ci badi, vede subito, che appunto quelle gradazioni di sentimenti, quelle modificazioni di giudizi, quella varietà d'aspetti, costituiscono altrettante significazioni, esprimono diversi, dirò così, momenti [54] dell'animo, relativi a delle circostanze diverse; dimanieraché una locuzione medesima che conviene perfettamente a certune, riuscirebbe impropria, o anche sconvenientissima, chi l'applicasse a cert'altre. E, del resto, come non c'è ragione veruna per cui non si possano, con locuzioni di questo genere, significare de' concetti di qualunque genere, così ce ne possono essere in qualunque linguaggio, e ce ne sono certamente in alcuni, di quelle che significano cose affatto serie, cose le più positive, e che occorre di nominare in qualunque argomento. Chi ne volesse degli esempi, non ha che a scorrere un momento con la mente in una lingua che conosca; e se ne possono vedere alcuni anche in quelle poche che abbiamo citate dianzi, a un altro fine. E quali lingue (non affermo, ma domando con sicurezza) non rimarrebbero grandemente impoverite, anzi stranamente mutilate, se avessero a perdere tutti i mezzi di significazione, di questo genere? E anche d'alcune di queste locuzioni si può dire che sono, in una certa maniera, comuni a più d'una lingua; cioè in quanto sono in questa e in quella composte di vocaboli di significato equivalente. Così, sono locuzioni francesi, C'est fait de moi, de vous, etc.; Pour suivre son droit; Dormir sur les deux oreilles; Faire grâce, nel senso di dispensare, di risparmiare, com'erano locuzioni latine, Actum est de me, de eo, etc.; Jus suum persequi; In utramque aurem dormire; Gratiam facere; Tradotte letteralmente in italiano, per esempio, queste locuzioni non formerebbero certamente altrettante locuzioni italiane. Così, sono locuzioni italiane, Far man bassa; sono locuzioni francesi, Faire main basse; Composizioni di vocaboli, che, in altre lingue, non formerebbero che de' barbarismi. Anzi è senza dubbio, e per ragioni facili a pensarsi, il caso più frequente, che un medesimo concetto sia espresso in diverse lingue per mezzo di locuzioni di tal genere, ma composte in una maniera diversa. Così, Nihil morari aliquid voleva, in latino, dir lo stesso che, in italiano, Non saper che fare d'una cosa; così Verbis meis, e Da parte mia; Somnum non vidisse, e Non aver chiuso occhio; Caeca die, e A credenza; Oculata die, e A contanti; In altri casi gli elementi sono simili, e diversissimo il senso. Il Faire envie de' Francesi è tutt'altro che l'Invidiam facere de' Latini, che significava Eccitar odio contro alcuno; Être dans l'attente è tutt'altro che In expectatione esse, che significava Farsi aspettare. Altre locuzioni di questo genere, identiche in più d'una lingua per il significato, non hanno, nella forma, se non qualche piccola diversità: come l'esserci o non esserci qualche particella, o una piuttosto che un'altra; uno piuttosto che un altro, o modo o tempo, o numero, una piuttosto che un'altra collocazione degli stessissimi vocaboli. E è per esempio locuzione italiana, mostrare [55] a dito, e non al dito; è locuzione francese, Montrer au doigt, e non à doigt. Così, Venire alle mani, e En venir aux mains; S'io fossi in voi, e Si j'étais que de vous; Cadere in piedi, e Tomber sur ses pieds; A viva voce, e De vive voix; Nel core dell'inverno, e Au coeur de l'hiver; A quattr'occhi, e Entre quatre yeux; Tra poco, e Dans peu; Oggi a otto, e D'aujourd'hui en huit; Differenze simili passano anche tra delle locuzioni composte, d'una lingua medesima; e dall'essere o non essere rigorosamente osservate, da chi parla o scrive, dipende molte volte che la locuzione sia quella che corrisponda all'intento, o un'altra che significhi tutt'altro; dipende molt'altre volte, che sia o una locuzione o uno sproposito. Eccone, per saggio, alcuni esempi che ci vengono suggeriti dalle locuzioni che abbiamo citate dianzi: Montrer au doigt vuol dire una cosa; Montrer du doigt ne vuoi dire un'altra molto diversa; senza che nella forza propria delle due diverse preposizioni, o articoli che si voglia dire, si trovi nulla che possa determinare piuttosto l'uno che l'altro di que' due significati. La ragione è sempre quella: si dice così. Quali siano state le circostanze e i motivi che hanno potuto far nascere le diverse locuzioni d'un tal genere, di qualcheduno si può sapere, d'altre s'ignora, d'altre si congettura, d'altre si disputa. Ma per conoscere quali di esse siano, o non siano, in una, o in più d'una lingua, non importa di saper nulla di tutto questo; poiché nessuna delle circostanze, né de' motivi più favorevoli poteva necessitar quest'effetto, come nessuna delle ragioni contrarie poté impedirlo. E oramai possiamo dire d'aver dimostrato all'evidenza, che ciò che fa essere nelle lingue i rispettivi vocaboli, sia col significato che si chiama proprio, sia con uno traslato, sia considerati ognuno da sé, sia aggregati in locuzioni speciali, non è altro che l'Uso. Non lo diciamo però, per vantarci: tutt'altro. Vediamo benissimo a cosa si riduca ciò che abbiamo fatto; e siamo i primi a dirlo. Abbiamo, non già messo, ma rimesso in campo un principio conosciuto, riconosciuto, confessato, ricantato da secoli. E per dimostrarne la verità pratica (cosa che poteva parer superflua) abbiamo addotti de' fatti, non già pescati nel fondo delle lingue, ma raccattati a galla, senz'altra fatica, per dir così, che di stender le mani. Ma, come s'è già accennato, non si tratta qui di dir delle cose nove, bensì di dire le cose necessarie a formare il vero concetto dell'essenza delle lingue. E quando si verrà alla questione speciale della lingua italiana, si vedrà chiaramente che i falsi concetti, a cagion de' quali è stata ed è ancora tanto intralciata, sono venuti principalmente dal non tener conto di quel principio tanto noto, e di que' fatti tanto triviali. Passeremo intanto alla seconda ricerca annunciata nel principio del presente capitolo.

Capitolo terzo

Quale sia la causa efficiente delle lingue, riguardo alle regole grammaticali.


Haec, quae dico, cogitatione inter se differunt, re quidem copulata sunt.

Cic.tusc.IV, II


[56] Che ci siano, in questa e in quella lingua, delle regole grammaticali di mera convenzione, e perciò mutabili ad arbitrio d'una nova convenzione; non c'è, credo, chi lo neghi. Ma è insieme un'opinione ricevuta da molti, e si può dir prevalente, che ci siano anche alcune regole grammaticali independenti da ogni convenzione arbitraria, inerenti al linguaggio medesimo, e quindi comuni, per necessità, a tutte le lingue. Per vedere se questo sia, bisogna, prima di tutto, cercare cosa siano le regole grammaticali. E è intento universale e necessario del linguaggio il significare le cose che la mente concepisce. Ora, la mente concepisce de' modi diversi in una cosa medesima, e delle relazioni diverse tra due o più cose. E perciò il linguaggio, oltre i mezzi di significar le cose, considerate solamente nella loro essenza, ha anche de' mezzi per significare, ne' diversi casi, i modi e le relazioni che la mente contempli nelle cose nominate. Il complesso di questi mezzi è ciò che si chiama regole grammaticali. E qui siamo condotti a riconoscere, di mezzo e al di là d'alcune differenze secondarie, un'identità importantissima, anzi essenziale, tra i vocaboli e le regole grammaticali. Sono ugualmente mezzi di significazione o, in altri termini, sono segni ugualmente. Identità d'intento e d'effetto, che ci sarebbe non meno, quand'anche i vocaboli e le regole grammaticali formassero due categorie totalmente distinte e separate, ognuna delle quali esercitasse unicamente e esclusivamente un ufizio suo proprio: il che non è, come avremo or ora occasione di vedere. E identità che costituisce ne' diversi elementi del linguaggio quell'unità, che è la condizione essenziale d'ogni scienza. E è, del resto, una cosa facile a riconoscersi anche dal semplice bon senso, che, non essendo il linguaggio altro che significazione, tutti i suoi mezzi immediati non possono esser altro che segni. E da questa natura de' segni, comune alle regole grammaticali e ai vocaboli, si potrebbe già concludere legittimamente che quelle sono anch'esse arbitrarie tutte quante, né più né meno di questi. Per segno, infatti, s'intende una cosa qualunque la quale serva a indicarne un'altra, per mezzo d'una relazione, o che abbia naturalmente con essa, o che sia stata stabilita da una convenzione. Di qui la nota distinzione de' segni, in naturali e artifiziali. Ora, non c'è, per la natura stessa dell'essere, cosa veruna, la quale non abbia una relazione naturale, o non ne possa ricevere una artifiziale, se non con un'altra unica cosa. Dal che viene per conseguenza, che, per indicare una cosa qualunque, siano ugualmente possibili più segni; in altri termini, che non ce ne sia alcuno necessario. E di qui poi il bisogno d'un arbitrio che determini tali e tali segni a tali e tali intenti, dove la natura della cosa richieda che i segni siano determinati. Tale è il caso delle lingue, le quali, come s'è detto, e occorrerà altre volte di ripetere, sono composte, non di ciò che potrebbero avere, ma di ciò che hanno in effetto; [57] e nelle quali l'Uso è il solo che possa esercitar con effetto un tale indispensabile arbitrio. Quindi la grammatica (compilata o no, non fa nulla) d'una lingua qualunque non è né può esser altro che il complesso di que' tali e tanti segni grammaticali che le siano stati appropriati dal suo Uso particolare. Ma le dimostrazioni a priori non sono ordinariamente le più efficaci in fatto a stabilire nelle menti delle verità contrastate, e a abbattere degli errori accreditati; perché contengono bensì la ragione dell'une e la confutazione degli altri, ma in germe solamente. Gioverà perciò metter la cosa in una più immediata evidenza, con l'osservazione analitica del fatto.

Chi dicesse, per esempio: Dubbiosi certi sono ripari pericoli, pronunzierebbe una sequela di vocaboli, non esprimerebbe un concetto. Per qual ragione? Per mancanza appunto di segni grammaticali. Non che in que' vocaboli, non ce ne sia punto; giacché cos'altro sono l'inflessioni significanti pluralità, che si possono riconoscere in tutti, con più o meno d'incertezza? Ce n'è dunque, ma non abbastanza.

S'esprime invece un concetto, si forma una proposizione, dicendo: Certi ripari sono più dubbiosi de' pericoli.

E questo diverso effetto è prodotto evidentemente dall'aggiunta d'alcuni vocaboli, e da una diversa collocazione de' vocaboli: due altri mezzi coi quali il linguaggio e modifica i vocaboli e li connette tra di loro. Il vocabolo più modifica l'altro, dubbiosi, dandogli una forza comparativa; e insieme mette, per dir così, l'addentellato d'una relazione con un qualcosa a cui quella qualità verrà attribuita in un grado minore; e il vocabolo dei compisce questa relazione, indicando in pericoli l'altro termine del paragone. La collocazione poi de' vocaboli ha una parte essenziale nel produrre l'effetto; e, per esempio, non s'intenderebbe che il più fosse destinato a modificare dubbiosi, se ci fosse di mezzo un nome; né che il dei dovesse riferirsi direttamente a pericoli, se non lo precedesse, o se, anche qui, non ci fosse un nome di mezzo.

E anche adempiendo queste condizioni, non riuscirebbe certamente a esprimere un concetto chi volesse collocare i vocaboli proprio nell'ordine del primo esempio, e dicesse: Più dubbiosi certi sono ripari de' pericoli.

Ma i mezzi che vediamo qui aver prodotto degli effetti così essenziali, sono forse i soli che li possano produrre? No, davvero; perché senza quegli aiuti s'esprime perfettamente in un'altra lingua il concetto medesimo, dicendo: Graviora quaedam sunt remedia periculis (nota 17).

Qui tutti quegli effetti sono prodotti per mezzo d'alcune inflessioni di vocaboli. E è l'inflessione or in graviora, che modifica il senso di quest'aggiunto, dandogli una forza comparativa; è l'altra inflessione, per dir così, d'inflessione (a), e la relativa di remedia, che indicano essere quel vocabolo un aggiunto di questo; il quale viene così indicato come il primo termine del paragone; è l'inflessione di quaedam che lo manifesta per un altro aggiunto di quel rame medesimo; è finalmente l'inflessione di periculis, che, segnando questo vocabolo come l'altro termine del paragone, compisce il concetto. E l'esser tali note indivise da' vocaboli, fa che la mente possa e distinguere e accozzare le loro diverse relazioni, quantunque siano sparpagliati, in quella maniera. E lo potrebbero essere, con effetto uguale, e senza storpiatura, in molte altre maniere; anzi in quasi tutte le cento venti combinazioni, di cui è capace quel numero di vocaboli. In questo breve confronto abbiamo visti in atto i tre mezzi de' quali il [58] linguaggio si serve, sia per modificare il significato de' vocaboli, sia per indicare delle relazioni tra le cose significate da essi. E questi mezzi sono: I.o altri vocaboli; 2.o Inflessioni di vocaboli; 3.o Collocazione de' vocaboli (nota 18). E abbiamo trovato che ognuno di questi mezzi fa bensì un effetto essenziale, ma nessuno un effetto di cui fosse capace lui solo. Ora, è forse questo un fatto straordinario, un caso d'eccezione? Tutt'altro; non è che un saggio d'un fatto estesissimo, e d'un possibile indefinitamente esteso: sono effetti particolari d'una causa generale, cioè della possibilità di significare con più d'un mezzo i modi e le relazioni dell'idee.

I.o > Non è, di certo, per una virtù particolare de' vocaboli più e dei, che essi fanno l'ufizio di modificare e di connettere; è perché tutti i modi e tutte le relazioni d'idee possono, di loro natura, esser considerate nella loro essenza e in astratto, independentemente da ogni applicazione ad altri oggetti, e possono quindi esser significati da de' vocaboli, che siano, per dir così i loro nomi. E, con l'associar tali vocaboli agli altri di cui si vogliano indicare o modi o relazioni, o l'uno e l'altro, il linguaggio può supplire a qualunque inflessione; se può chiamarsi supplire il servirsi d'un mezzo piuttosto che d'un altro, quando siano tutt'e due adattati all'intento. Lo può, dico, fino a far di meno di tutte quante l'inflessione. E quantunque l'essere, o no, una tale estrema possibilità realizzata in uno o più fatti, non possa, né aggiungere né levar nulla alla sua evidenza intrinseca; non sarà qui inutile il vedere come il più notabile di tali fatti, poiché appartiene a una lingua estesissima e coltivata da gran tempo, sia esposto e particolarizzato in una celebre grammatica di quella lingua. I vocaboli chinesi, presi separatamente, sono tutti invariabili nella loro forma; non ammettono nessuna inflessione, nessun cambiamento, né nella pronunzia, né nella scrittura. Le relazioni de' nomi, le modificazioni de' tempi e delle persone de' verbi, le relazioni di tempo e di luogo, la natura delle proposizioni positive, ottative, condizionali, o si deducono dalla posizione de' vocaboli, o s'indicano con de' vocaboli separati, che si scrivono con caratteri distinti, o prima o dopo il tema del nome o del verbo (nota 19).

2.o E non è certamente neppure per una qualche attitudine speciale de' vocaboli latini della frase citata, che in essi gli opportuni effetti grammaticali sono in vece ottenuti per mezzo d'inflessione. E è per un'attitudine intrinseca dell'idee, e per un'attitudine corrispondente de' vocaboli in genere: cioè perché l'idee possono esser concepite dalla mente come aventi certi modi e certe relazioni; e i vocaboli sono capaci di ricevere delle alterazioni alle quali venga annesso il significato di modi e di relazioni (nota 20).

[59] 3.o La Costruzione de' vocaboli non è, per verità un mezzo di cui le lingue possano far di meno; ma non lascia per questo d'esser soggetta del pari all'arbitrio dell'Uso, in quanto è anch'essa capace di forme diverse e tutte ugualmente efficaci. E senza addurne altre prove, basterà rammentare le due denominazioni solenni tra i grammatici, e generalmente note, di Costruzione diretta, e Costruzione inversa: denominazioni che denotano due fatti positivi e materialmente diversi; siano poi, o non siano, le più proprie a specificare le loro vere essenze; e sia, o non sia fondata l'ipotesi implicata in esse, che l'uno di questi modi corrisponda a un ordine necessario del pensiero. E è dunque dimostrato, anche col fatto, che ogni effetto grammaticale può essere ottenuto con mezzi diversi; e che, per conseguenza, l'applicazione d'uno piuttosto che d'un altro di essi, dipende da un arbitrio. Ma ad ammettere una conclusione così evidente, fa ostacolo, nelle menti di molti, l'opinione che l'Analogia, per una sua virtù propria, produca nelle lingue degli effetti necessari, e quindi independenti da qualunque arbitrio. Opinione, del resto, che non è, in generale, fondata su de' ragionamenti, né giusti, né falsi e molto meno sull'osservazione de' fatti; anzi non so se dagli scrittori, o moderni, o antichi di cui rimanga notizia, sia stata enunciata in termini espressi e formali, fuorché da uno solo: il rinomato grammatico Beauzée; del quale esamineremo più tardi gli asserti su questo proposito. Ma è stata, e è spesso ancora, involta in frasi, quanto magnifiche, altrettanto indeterminate; le quali però, o vogliono attribuire all'Analogia una tale virtù, o non vogliono dir nulla. Più spesso ancora, questa virtù è sottintesa addirittura, e serve come di tacita premessa a una quantità dì giudizi speciali, né più né meno che se fosse una verità di prima evidenza. Che se questo concetto, o piuttosto questi concetti, così vaghi, ambigui, sfuggevoli, non sono mai riusciti, né potrebbero riuscire, a costituirsi in corpo di dottrina, e a prender la forma, nemmeno apparente, di sistema, e a somministrare alla pratica una norma coerente, hanno però la trista forza d'impedire il pieno e tranquillo riconoscimento del principio fondamentale in questa materia; cioè dell'esser l'Uso l'arbitro supremo, la sola causa efficiente delle lingue, in ogni loro parte. La qual forza deve naturalmente esser più operante ne' paesi in cui, come pur troppo nel nostro, non è unanimemente riconosciuta una lingua; giacché, dove il fatto è controverso e, per conseguenza, debole, ogni cosa, sto per dire, che alleghi un titolo per prendere il suo posto, trova facilmente favore. Importa quindi, e per l'integrità dell'argomento, e più ancora per le nostre particolari circostanze, l'esaminar questo punto; il che passiamo a fare nel capitolo seguente.

Capitolo quarto

Se l'Analogia produca degli effetti necessari nelle lingue, riguardo alla parte grammaticale.


Incerta haec si tu postules Ratione certa facere, nihilo plus agas, Quam si des operam ut cum ratione insanias.

Terent.fun.I, I.


[60] Abbiamo già toccata di passaggio la questione dell'Analogia, dove si trattò de' vocaboli; qui cercheremo di dimostrare che, riguardo ai mezzi grammaticali, cioè, e all'Inflessioni, e a' Vocaboli che fanno un ufizio grammaticale, e alla Costruzione, l'Analogia, lungi dal produrre nelle lingue alcun effetto necessario, non opera se non dove e fin dove l'Uso lo vuole. Nella qual discussione troveremo anche, se non m'inganno, l'opportunità di trattar la questione più in generale, e di mettere in chiaro l'impotenza dell'Analogia a dare alle lingue legge veruna. E se occorre, avvertiamo che, per Analogia, non intendiamo altro che ciò che intendono quelli che tengono l'opinione opposta: cioè l'applicazione de' medesimi mezzi esteriori e, dirò così, materiali del linguaggio, a de' medesimi intenti del pensiero.

Essendo poi questa una questione di mero fatto, dovremo prender le nostre prove da de' fatti e, come per tutto, da de' fatti manifesti, e di lingue non controverse.

E, per quelli a cui paressero per l'appunto troppo manifesti, ci sia permesso d'addurre, per nostra scusa, ciò che disse, in un tutt'altro argomento, ma in circostanze simili, un celebre scrittore francese. Non s'impermalisca il lettore contro certe verità che parranno tanto evidenti, da non meritare che se ne faccia espressa menzione..... Potrei far vedere, se francasse la spesa, che le proposizioni che possono parer più evidenti sono state contraddette tutte. E, del resto, m'è accaduto più volte d'osservare che quelli i quali ostentano un gran disprezzo per tali verità, e dicono: Chi non le sa codeste cose? sono per l'appunto quelli che operano e parlano come se le ignorassero affatto. Sbagliano il punto vero d'una questione, e trovano triviale ciò che lo mette in chiaro (nota 21). Il vantaggio che verrà al lettore e a noi, da quest'eccesso d'evidenza, sarà di non aver bisogno di citare altro che una piccolissima parte de' moltissimi fatti che verrebbero in taglio.

Principiando dunque dall'inflessioni, quelle che si vedono ne' vocaboli francesi, comptant, Passant, Voyant, Salissant, Baigneur dovrebbero, per una delle più estese e solenni analogie di quella lingua, comunicare a que' vocaboli un senso, o attivo o neutro, e farli significare, in ogni caso, Che conta, Che passa, Che vede, Che insudicia, Che bagna E cosa risponderebbe un francese a chi, per questa ragione pretendesse che non siano locuzioni francesi, quanto si possa dire, Argent comptant, per Danaro contato o da contarsi; Chemin passant per Strada dove passa molta gente; Etoffe voyante, per Stoffa che attira la vista; Couleur salissante, per Colore che s'insudicia facilmente; baigneur, per chi prende de' bagni? Lo stesso si dica d'altre locuzioni, che hanno in vece un significato attivo, mentre dell'altre analogie, non meno estese e solenni, ne indicherebbero uno passivo; come Homme sensible, per Uomo che sente molto; Bruit effroyable, per Fracasso da fare spavento; Contribuable, per Chi ha a pagar le contribuzioni. Così, o piuttosto con uno stravolgimento di senso, non affatto simile, ma ugualmente opposto all'Analogia, le locuzioni, Diner prié, Habit habillé, in quella medesima lingua, dicesse, per esempio: Apporte y une attention sérieuse; Parle en à lui–même; Va il à Londres? Le dira on encore? Puisse il y trouver remède! non farebb'altro che adoprare que' modi di verbi nelle forme indicate, dirò anche qui, da analogie estese e solenni; e contuttociò farebbe altrettanti solecismi ridicoli. Un'autorità superiore alla ragione dell'Analogia ha voluto [61] che, in questi casi, fosse francese, e esclusivamente francese il dire, Aportes–y; Parles–en; Va–t–il? Le dira–t–on? Puisse–t–il. E il motivo che ha evidentemente determinata quest'autorità, cioè l'Uso, a una tal variazione, fu quello d'evitare de' suoni ingrati all'orecchio, e meno facili alla pronunzia. Così un motivo affatto materiale e estraneo agl'intenti razionali del linguaggio, poté, in questi, come in molt'altri casi, rendere impotente quella gran ragione dell'analogia. Cosa osservata, già quindici secoli fa, da un celebre grammatico, che disse: Ricordiamoci che l'eufonia ha qualche volta più potere sulle dizioni, che l'Analogia e la norma de' precetti (nota 22). Si dirà forse che l'eufonia medesima viene così a costituire dell'altre analogie? Sarebbe un novo argomento contro la virtù generale attribuita all'analogia, di dar legge al linguaggio; giacché due analogie che fanno, per dir così, a rubarsi le dizioni, e vogliono, o piuttosto vorrebbero, cose diverse in un medesimo caso, non che essere applicazioni d'una medesima legge, fanno, se ci si passa quest'espressione, una disanalogia. Ma del resto, farebbe male i suoi conti chi, fidandosi di quella nova analogia, dicesse: Apportes à cela une attention sérieuse; Parles en liberté; Il va–t–à Rome; On le dira–t–encore; Dieu veuille qu'il puisse–t–y trouver remède. Quell'autorità più forte dell'Analogia non le permette, in questi, come in tant'altri casi, d'esser coerente a sé stessa. Cosa osservata anch'essa da un altro celebre e più antico scrittore, che disse: Ricordiamoci che sull'Analogia non si può far conto in tutti i casi, perché, in molti, la si fa contro da sé(nota 23). E disse ricordiamoci, anche lui; perché sono cose che non si possono ignorare, ma dimenticarle al bisogno, eccome! Era, certo, una dell'Analogie più manifeste, più utili, e più facili a esser messa in atto, quella della lingua latina, che applicava a una gran parte de' verbi di significato attivo, e a un'altra gran parte de' verbi di significato passivo, due differenti forme di desinenze. Ma ho detto “ una gran parte ”, perché quest'Analogia non ebbe mai, per quello che si può sapere di quella lingua, un'applicazione generale. E sarebbe stata una negazione, meno importante (ma sempre negazione) della supposta legge generale d'Analogia, se più o meno di questi verbi fossero rimasti privi delle loro rispettive divise; ma accadde qualcosa di più notabile; cioè che in molti di que' verbi le divise furono [62] applicate alla rovescia, cioè annettendo quelle del passivo a de' verbi di significato manifestamente attivo, ai quali i grammatici diedero poi il nome di deponenti. Fatto, il quale non che cessare per la virtù dell'Analogia, s'andò, col tempo, estendendo, e (ciò che può parere ancor più singolare) per lo più nel senso opposto all'Analogia medesima. Così i verbi Opino, Tuto, Arbitro, Contemplo, Consolo, Opitulo(nota 4), e altri, del tempo di Livio Andronico, di Nevio, d'Ennio, di Pacuvio, erano, al tempo più florido di quella lingua, diventati, Opinor, Tutor, Arbitror, etc. Altri, in vece, e da quello che pare, in minor numero, ricevettero la trasformazione opposta, come, Caveor, Copulor, Manducor, Gliscor, Significor, diventati Caveo, Copulo, etc.(nota 5).

Del resto l'avvicinarsi in parte all'Analogia, o lo scostarsene, non importano punto alla questione, la quale riguarda sempre il tutto d'una lingua; e in que' due generi di fatti non si può vedere ugualmente che un vagare contraddittorio tra due forme d'intento, non solo diverso, ma opposto: quel combattere dell'Analogia contro sé stessa, che disse così bene Quintiliano.

Abbiamo già forse abusato, del permesso chiesto da principio, di citare un piccol numero di questi notissimi e trivialissimi fatti: e non s'è ancora toccato che la parte che riguarda l'inflessioni. Cercheremo, per compenso, d'esser brevissimi, in quelle che riguardano i vocaboli, dirò così, grammaticali, e la Costruzione. E per far più presto, prenderemo gli esempi degli uni e dell'altra, da una stessa specie di dizioni. Nel capitolo antecedente, s'è addotta, per un altro fine, la differenza che corre tra le due locuzioni identiche quanto al senso, l'una italiana, l'altra francese, A viva voce, e De vive voix. Ora, è egli forse per una legge d'analogia della lingua francese, che in questa sua locuzione è adoprata la preposizione de, in vece della preposizione A usata nella locuzione italiana? No, di certo; poiché questa seconda preposizione è usata nell'altra locuzione francese, A haute voix. E è forse per un'altra legge d'analogia, relativa alla Costruzione, che, in queste due locuzioni, gli aggettivi vive e haute precedono il sostantivo? Neppure; poiché accade il contrario nella locuzione A voix basse; e farebbe ugualmente un solecismo, e chi, per ubbidire a un'Analogia, dicesse A voix haute; e chi, per ubbidire a un'altra, dicesse A basse voix. Fatti, ripeto, notissimi e trivialissimi; ma, aggiungo di novo, concludentissimi, poiché sono nelle lingue con tanta certezza, e con tanta autorità, quanto ciò che ci si possa trovare di più analogico; dimanieraché uno il quale conoscesse tutti i fatti d'una lingua, meno uno solo, l'Analogia [63] non gli darebbe il mezzo di trovarlo. Potrebbe quel fatto ugualmente, o esser conforme a un'Analogia, o far parte d'un numero d'eccezioni, o essere un'eccezione lui solo: potrebbe ciò che fosse chiesto dall'Analogia essere in fatto un solecismo; ciò che le fosse contrario essere in fatto una proprietà di lingua. E chi non ha osservato, o avuta occasione d'osservare, che una bona parte degli errori che i bambini commettono in fatto di lingua, viene dall'andar dietro a una qualche analogia? Lo stesso accade a quelli che sono principianti in una lingua straniera, perché sono infatti, riguardo ad essa, nella stessa condizione che i bambini riguardo alla loro nativa. Ma che? non era, di certo un principiante nella lingua greca l'uomo che, confessando in una sua lettera a Attico, d'avere sbagliata la desinenza del nome d'una popolazione greca, si scusò col dire: M'aveva ingannato l'Analogia(nota 26). Che se ogni lingua, per quanta varietà, anzi opposizione possa trovarsi ne' suoi elementi, ha pure un'unità di fatto, in virtù della quale è, e si distingue dall'altre, e può avere un nome suo proprio, ci dev'essere, di necessità in tutte, come già s'è detto, una causa efficiente, suprema, unica, che di quegli elementi, e omogenei e eterogenei, possa fare un tutto medesimo; una causa che, non essendo legata a nessun intento speciale e opposto ad altri intenti; non avendo, per dir così, preso nessun impegno, possa voler le cose più opposte, senza contradire a sé stessa; e che avendo, in vece, una relazione medesima con tutti i fatti d'una lingua qualunque, sia propria a dar la ragione di tutti ugualmente. Aver accennate queste qualità, è lo stesso che aver nominato l'Uso. E dopo tutto ciò, ci sarà egli bisogno d'esaminare ciò che possa essere stato addotto in sostegno dell'opinione contraria, sul punto speciale dell'Analogia? Riguardo alla ragion dialettica, non ci par davvero; ma può esser richiesto, o almeno consigliato, da una ragione di prudenza; stante che potrà parere a alcuni, o forse a molti, che, senza questo esame, la dimostrazione non sia compita. Ma, come abbiamo accennato, la parte più difficile dell'impresa sarebbe quella di ridurre a una forma positiva qualunque un'opinione così vaga, ambigua, sfuggevole, per farne materia di discussione, se non ce ne somministrasse un mezzo il Beauzée citato dianzi. Ecco dunque, letteralmente tradotte le parole con cui ha espressa quell'opinione, e creduto di dimostrarne il fondamento. L'Analogia prende dall'Uso, in ogni lingua, i primi esempi che deve imitare. Non c'essendo alcun legame necessario tra gli elementi fisici della parola, e le parti puramente intellettuali e astratte del pensiero; e, d'altra parte, essendo il linguaggio l'istrumento comune della sociabilità, appartiene alla moltitudine lo scegliere a piacer suo i primi vocaboli, fissarne il senso e determinarne le forme significative, sia riguardo alla specie, sia alla sintassi... Ecco il vero fondamento dell'Uso; ecco ciò che lo rende necessario, imprescrittibile, legittimo; e qui l'Analogia non ci ha che fare, poiché non c'è alcun paragone. Ma siccome il linguaggio diverrebbe impraticabile in poco tempo, per la soprabbondanza degli elementi, se tutto fosse [64] abbandonato alle decisioni fortuite d'una cieca moltitudine; siccome, d'altra parte, il linguaggio dev'essere l'istrumento della ragione, per esser più solidamente e più efficacemente l'istrumento della sociabilità; così è giusto e necessario che la ragione venga in soccorso dell'Uso; e è con l'imitazione costante delle prime decisioni dell'Uso, comparate con ciascheduna delle circostanze che ne furono l'occasione, che la ragione, secondando e fortificando l'Uso medesimo, adatta il linguaggio a' suoi propri intenti, lo rende accessibile alle memorie più ingrate, e praticabile all'intelligenze più rozze. Ecco il vero titolo che fonda l'autorità dell'Analogia; autorità ugualmente necessaria, ugualmente imprescrittibile, ugualmente legittima(nota 27).

Non ho certamente voluto dire che, dalle parole del Beauzée intorno all'Analogia, si potesse ricavare, più che d'altronde, un senso preciso e coerente; ma bensì qualche affermazione aperta e risoluta abbastanza per dar materia a un esame. E, del resto, l'ambiguità e le contradizioni medesime serviranno a far vedere a che sia stato ridotto, per sostenere una tal tesi, il solo, se non m'inganna la mia ignoranza, che l'abbia sostenuta ex–professo, e, certo non il meno reputato di quegli scrittori che furono, e sono ancora generalmente chiamati grammatici filosofi. Ci sarebbe molto che dire su que' primi vocaboli e quelle prime decisioni, che suppongono, senza la minima prova, una formazione successiva del linguaggio, in una, non si sa quale, né quando, né come venuta moltitudine, e danno francamente per risoluta la questione dell'origine del linguaggio medesimo, e insieme quella dell'origine dell'umanità, intimamente legata con essa(nota 28): questioni importantissime, ma tanto estranee, quanto superiori alla nostra, la quale non riguarda che de' fatti riconoscibili per mezzo dell'esperienza. Per restringerci dunque a questa noteremo che il Beauzée fonda qui l'autorità dell'Analogia, non già sull'osservazione di ciò che essa operi in fatto nelle lingue; ma su un argomento a priori: metodo, non so se più biasimato o praticato, al suo tempo, e dalle medesime persone. E l'argomento è, che il linguaggio diverrebbe, in poco tempo, impraticabile, se la ragione, per mezzo dell'imitazione costante delle prime decisioni dell'Uso, non l'adattasse a' suoi propri intenti. Ora quest'argomento va a terra, al primo confrontarlo con due fatti, tanto perentori, quanto manifesti. Uno, che l'asserita imitazione costante delle prime decisioni dell'Uso, non esiste nelle lingue; e se un'affermazione così generale paresse arrischiata (che non credo), si può dire con sicurezza, che in molte non esiste, e segnatamente nelle più colte e illustri; e, alla nostra questione negativa, [65] ne basterebbe anche una sola. L'altro fatto è che, con tutto ciò, le lingue sono accessibili alle memorie più ingrate, e praticabili all'intelligenze più rozze, e adattate agl'intenti propri della ragione, proporzionatamente all'esercizio, più o meno esteso della ragione, in diversi tempi e in diversi luoghi, e (cosa della quale non par che il Beauzée si sia fatto carico) proporzionatamente ai limiti e all'imperfezione della ragione medesima.

Il diritto dell'Uso,     prosegue e ricapitola il Beauzée,
è, I. o di somministrare i primi esempi, dietro i quali l'Analogia deve procedere; 2. o di confermarne le decisioni con la sua autorità: il diritto dell'Analogia è, I. o d'estendere, per mezzo di regole generali, applicabili a tutti i casi simili, le prime decisioni dell'Uso.

La parola diritto, qui dove si tratta d'un mero fatto, cioè se l'Analogia produca nelle lingue l'imitazione costante delle prime decisioni dell'Uso, come l'autore ha affermato più sopra, e come ripete qui, in uguali termini; quella parola, dico, muta di pianta la questione. A ciò che l'Analogia faccia, il Beauzée sostituisce ciò che, secondo lui, le competa. Avremo tra poco a fare qualche osservazione meno succinta su questa confusione di due questioni, che è il fondamento di tutta l'argomentazione del Beauzée, e di tutte l'altre simili con le quali si vuole attribuire all'Analogia la forza di causa efficiente. Vediamo intanto gli altri diritti che le assegna.

2. o di dirigere, dietro questo principio, le produzioni dell'Uso... Dall'inesattezza de' concetti viene naturalmente l'inesattezza dell'espressioni: e se ne può veder qui un esempio notabile. Cosa si può intendere, infatti, per le produzioni dell'Uso? Senza cercare qui, che non è tempo ancora, presso di chi sia l'Uso, tutti sono d'accordo nell'attribuirgli, o espressamente, o per sottinteso, un'azione collettiva. Ora, una produzione di segni, sia lessicologici, sia grammaticali, non si potrebbe supporre avvenuta per mezzo d'un'azione collettiva, se non in una di due maniere: o per una convenzione espressa, o perché quelli presso i quali fosse l'Uso, si fossero incontrati, a caso, a inventare i medesimi segni, in un momento medesimo: supposizioni assurde, l'una e l'altra. L'Uso, in fatto di lingue, non produce nulla; accetta o non accetta; e, quand'abbia accettato, mantiene o abbandona: il produrre novi segni è opera d'individui. La questione, messa così su una base ragionevole, si riduce a cercare come l'Analogia possa dirigere l'accettazione dell'Uso. E è fuor di dubbio che l'essere un novo segno formato secondo una o un'altra analogia, rende più facile e quindi [66] più probabile quell'accettazione, come già s'è avuto a dire nel capitolo antecedente. Ma la rende certa, necessaria? La questione è sempre lì; come la risposta è sempre la stessa. Potrà essere, come anche s'è detto là, un motivo; non mai una causa efficiente. E se, per porre in forma d'ipotesi un fatto già dimostrato, e che non aveva bisogno d'esserlo; se l'Uso si determina in contrario, per un altro motivo, per esempio l'eufonia, dove se ne va l'allegato diritto dell'Analogia? Di questo il Beauzée non si fa caso; ma, seguendo, anche qui, il metodo de' sistemi arbitrari, che è quello di mutar le questioni, in vece di sciogliere le difficoltà, mette in campo un novo diritto; e è d'impedire e di fermare i traviamenti dell'Uso, di protestare     (réclamer)
altamente contro la sua tirannia, se s'ostina a abbandonare le vie luminose e semplici della ragione, per smarrirsi ne' sentieri oscuri e intricati del capriccio. Non è dunque vero che, per adattare il linguaggio a' suoi propri intenti la ragione adopri l'imitazione costante delle prime decisioni dell'Uso; poiché, se fosse così, non ci sarebbero, né traviamenti, né tirannia, né abbandono delle vie della ragione medesima, né capriccio, né, per conseguenza, motivo alcuno di protestare. Noteremo poi di passaggio un'altra contradizione più diretta (e non sarà l'ultima) di questo scrittore: conseguenza, come tutte, del contrasto creato nella sua mente, tra un diritto supposto, e de' fatti reali. Qui parla della tirannia dell'Uso: in un altro luogo, dove considera i suoi effetti, senza esser disturbato da quella larva di diritto, dice: l'Uso non è il tiranno delle lingue;     e aggiunge:
è il loro legislatore naturale, necessario e esclusivo(nota 29). Non si poteva dire, né di più, né meglio; giacché, se i legislatori (per continuar la metafora) fossero molti, ciò che sarebbe richiesto dalla ragione dell'uno, potrebb'essere, e sarebbe frequentemente, abusivo, secondo la ragione d'un altro: mentre le lingue (come s'è già detto, e converrà ripetere dell'altre volte) per esser une, che è quanto dire, per essere, devono avere una ragione unica, applicabile a ogni loro parte, come è per l'appunto l'Uso; del quale dice, e anche qui con troppa ragione, nella sua più celebre opera lo scrittore medesimo, Ciò che è fissato dall'Uso, non è mai contrario all'Uso, né, per conseguenza, abusivo(nota 30). Proposizione, alla quale non si può opporre altro che la troppa evidenza; mentre chi dicesse che ciò che è secondo l'Analogia non può esser contrario all'Analogia, anderebbe in vece contro l'evidenza.

Se l'autorità dell'Uso,     prosegue il Beauzée, nell'articolo che stiamo esaminando,
è nelle mani della moltitudine; alla quale si deve aver de' riguardi, quella dell'Analogia è nelle mani de' letterati, e soprattutto de' maestri dell'arte. Queste due autorità, stavo per dire queste due potenze, lungi dal nocersi a vicenda, e dall'essere incompatibili tra di loro, [67] si danno mano reciprocamente; e dal loro concorso, quando l'una e l'altra rimangano scrupolosamente ne' loro confini, viene nelle lingue la correzione, la nitidezza, la luce.

Non occorre di far molti ragionamenti su quelle parti fatte così arbitrariamente: l'Uso alla moltitudine, e l'Analogia ai letterati; come se questi fossero fuori dell'Uso; e come se le lingue, che certamente furono prima de' letterati, non avessero potuto, fino all'apparir di costoro, avere dell'analogie: altra supposizione assurda per sé, e smentita, se ne facesse bisogno, dal fatto vivo di tante lingue, che non hanno, né letterati, né lettere, nemmeno quelle dell'alfabeto; e non mancano di forme grammaticali, anzi ne hanno anche di molto complicate, e artifiziose. Sono, come dicevo, supposizioni in aria, le quali non prendono una certa quale apparenza di cose verosimili, se non a patto di rimanere nella sfera della più remota e nuda astrazione; e, al primo accostarle ai fatti, svaniscono. Quello poi delle due autorità, o potenze, è un errore vecchio. Già un grammatico latino della fine del IV.o, o del principio del V.o secolo, aveva detto, quasi ne' medesimi termini; e senza addurne, nemmeno lui, ragione veruna: L'Uso è pari all'Analogia, non in ragione, ma in forza(nota 31). Due forze pari, operanti in virtù di due principi opposti, e una delle quali, quando non sono d'accordo, dovrà però vincer l'altra, perché ne segua un effetto, è un accozzo di parole contradittorie. E non ci rimedia punto la condizione aggiunta dal Beauzée, che ciascheduna di quelle autorità, o potenze, rimanga ne' suoi limiti. E è anch'essa una di quelle frasi che, avendo un senso ragionevole e opportuno in alcuni casi, può parer che l'abbiano anche in casi molto diversi: a patto però di non ce lo cercare. Infatti, se cerchiamo quali siano i confini indicati per questo caso dal Beauzée, non ne troveremo altri che quella stranamente fantastica distinzione, tra una moltitudine a cui appartiene di scegliere i primi vocaboli, e alcuni ai quali appartiene l'estendere con delle regole generali, applicabili a tutti i casi simili le prime decisioni dell'Uso. Venendo poi all'applicazione, è una cosa singolarissima il vedere a che riduca il Beauzée gli effetti pratici di quest'autorità o potenza, alla quale, parlandone in astratto, ne attribuisce di così generali. Li riduce, in questo articolo medesimo, a somministrare delle decisioni per i casi ne' quali l'Uso è incerto e diviso. E in un altro, dice in termini anche più espressivi: Si badi che non pretendo d'autorizzare i ragionamenti analogici, se non in due circostanze; cioè quando l'Uso è dubbio, e quando è diviso. Fuori di lì, credo che sia un andar contro il principio fondamentale di tutte le lingue l'opporre all'Uso generale i ragionamenti analogici, anche più verosimili e plausibili(nota 32). Ottimamente; ma siamo lontani dall'imitazione costante di tutte le prime decisioni dell'Uso, e dal diritto d'estenderle, per mezzo di regole generali applicabili a tutti i casi simili. [68] Ma queste medesime poche decisioni (per toccare, anche qui, il solo punto essenziale) sono poi efficaci per sé? No, di certo; giacché bisogna ripeter continuamente ciò che è continuamente dimenticato. Sono proposte, e nulla più; e come tali le dà il Beauzée medesimo, d'accordo in questo col fatto, ma non con sé. E, per vedere quanto tempo possano rimaner senza effetto, serva d'esempio una che fa il Beauzée, in questo luogo stesso. Adduce delle ragioni d'Analogia, per le quali, in francese, s'abbia a dire piuttosto Je vas, che Je vais, e Je peux che Je puis. Ora, l'ultima edizione del Vocabolario dell'Accademia francese, pubblicata nel 1835, cioè mezzo secolo circa dalla morte del Beauzée, registra, e l'uno e l'altro, come usati ugualmente. E chi sa in qual altra dell'edizioni avvenire, quell'Accademia, che, come fu detto molto bene, è il segretario dell'Uso, avrà a registrare una sola di quelle due forme, per ciascheduno de' due verbi, o anche se questo caso verrà mai? Se le contradizioni che abbiamo dovute notare fossero effetto dell'ignoranza o della sbadataggine d'uno scrittore, sarebbe un lavoro inconcludente, anzi puerile, l'andarle pescando. Ma siccome vengono da un vizio intrinseco dell'assunto, crediamo che il metterle in luce possa servire a rischiarar la materia; e quindi chiediamo il permesso di far qualche osservazione sopra qualche altro luogo, dove, volendo l'autor medesimo venire a un'applicazione pratica del suo supposto principio, n'escono, diciamolo pure, novi assurdi, e insieme compariscono le medesime contradizioni, in una forma in parte diversa. L'Analogia,     dice,
è il lume delle lingue, perché, riducendo a de' principi generali tutti i casi simili, fa sparire tutte quell'eccezioni ridicole che stancano la memoria senza illuminar la mente, che intralciano a ogni passo l'andamento spedito e semplice della ragione, che seminano per tutto le strane bizzarrie dell'incoerenza, le moleste perplessità del dubbio, l'insidiose incertezze dell'equivoco, e gli spauracchi di tante difficoltà ammassate sull'entrata delle lingue, [69] come per impedirne l'accesso(nota 33). Quali siano quest'eccezioni che l'Analogia fa sparire, l'autore non lo dice qui: enumera bensì, in termini generalissimi e figurati, una quantità d'inconvenienti che dice prodotti da esse; ma della loro essenza, nulla; se non che le chiama ridicole: qualificazione che, certo, non può dare alcun lume per riconoscerle. Ma, per fortuna, ne adduce alcune in un altro luogo, dove dice anche da chi siano state, secondo lui, immaginate. E è certo,     dice nell'articolo Irrégulier dello stesso Dizionario,
che la comune de' grammatici immagina molte più irregolarità nelle lingue, di quello che ce ne siano. E che, per Irregolarità, intenda lo stesso che per Eccezioni, è chiaro per sé; e si vede anche dalla definizione che dà di quel primo vocabolo, ne' seguenti termini: Le parole declinabili, le di cui variazioni sono esattamente simili alle variazioni corrispondenti d'un paradigma comune, sono regolari; le parole, le di cui variazioni non imitano esattamente quelle del paradigma comune sono irregolari; dimanieraché la serie delle variazioni del paradigma dev'esser riguardata come una regola esemplare, l'esatta imitazione della quale costituisce la Regolarità, e l'alterazione della quale è ciò che si chiama Irregolarità. Ecco ora un esempio che adduce della viziosa consuetudine che attribuisce a' grammatici, d'immaginare dell'irregolarità a capriccio. Vedete,     dice,
la Minerva del Sanzio     (Lib.1, Cap.9)
: ci troverete una quantità di nomi che passano per esser d'un genere nel singolare, e d'un altro nel plurale, e che non hanno quest'apparenza d'irregolarità, se non per essere stati altre volte usati ne' due generi(nota 34). Come se l'indicar l'origine d'un'irregolarità fosse un farla sparire! Come se la memoria d'un fatto antecedente potesse cambiare in semplice apparenza la realtà d'un fatto attuale! In verità è lo stesso (ci si passi questa similitudine) che se, per provare che uno zoppo non è zoppo, s'allegasse che i suoi genitori erano diritti. Passano per essere! E cosa dunque intendeva il Beauzée per esser davvero? E a qual genere di paradigmi dovevano i grammatici assegnarli, per poterli trattare da nomi regolari, come il Beauzée voleva che fossero? A quello del maschile, o a quello del femminile, quando non erano l'imitazione esatta, né dell'uno né dell'altro? Non potevano dunque altro che farne una classe a parte, cioè una di quelle che vanno sotto la denominazione generica d'irregolari. Certo, il Beauzée medesimo, all'atto pratico, non avrebbe potuto dar loro un altro consiglio; ma preoccupato dalla sua avversione sistematica a quella parola, accettò in furia l'assurda critica del Sanzio, che favoriva la sua inclinazione. E, del rimanente, cos'era poi quella regolarità d'altre volte, in virtù della quale un'irregolarità attuale dovesse esser guardata come solo apparente? Nomi usati ne' due generi, maschile e femminile. Regolarità codesta? Regolarità materiale, se si vuole,; ma era forse d'una regolarità di questo genere che intendeva parlare il Beauzée? Tutt'altro, anzi non era tanto impegnato a trovare [70] nelle lingue quella sua regolarità estrinseca, se non perché supponeva che avesse a essere l'espressione naturale d'un ordine necessario del pensiero; e non per altro la faceva consistere nell'imitazione esatta di diversi distinti paradigmi, se non perché dava per inteso che ciascheduno di questi avesse a corrispondere a una classe speciale e distinta d'idee. Ora, nel caso in questione, c'era bensì, cioè c'era stata un'imitazione esatta, ma di che? Non d'un solo paradigma (come avrebbe richiesto l'unità ideale della cosa significata dal nome), ma di due. Il rimedio è peggior del male; o, certo, si può dubitare qual sia più contrario a una corrispondenza del linguaggio con l'idee, o un nome mezzo in una forma e mezzo in un'altra, o un nome avente due forme diverse, e significanti due qualità opposte, e che non si possono trovare insieme in un soggetto medesimo.

Che se, in vece di cercare argomenti per negare un'irregolarità, o piuttosto una, anzi due incongruenze tanto evidenti, avessero pensato a cercare il come siano potute avvenire, avrebbero veduto immediatamente quanto la cosa sia facile a spiegarsi. Quelle forme grammaticali chiamate generi, e destinate a significar diversità di sesso, erano in quella lingua, come in altre, appropriate non di rado a de' nomi di cose che non hanno sesso; e non c'è quindi punto da maravigliarsi che a de' fatti senza ragione non corrisponda una regola ragionata e costante; che un arbitrio alteri e confonda ciò che fu stabilito da un altro arbitro. Ecco cosa si trova risalendo all'origine di quella veramente immaginata regolarità.

E il Beauzée, in un altro luogo, dove guardava semplicemente la cosa, venne a dire a un dipresso il medesimo, in altri termini: Si possono trovare degli eterogenei     (come que' nomi sono denominati da' grammatici)
in tutte le lingue che ammettono la distinzione de' generi; la sola instabilità dell'Uso basta per farceli entrare(nota 35). Non si può dir meglio. Però, anche nell'articolo citato da principio, dove attribuisce all'Analogia la virtù di fare sparire eccezioni, è come costretto a confessare che la non riesce a farle sparir tutte. Ma (cosa non può lo spirito di sistema, anche in un uomo tutt'altro che privo di bon senso e di dottrina!) dovendo riconoscere che la generalità del suo supposto principio non si può dimostrare, lo fa, con de' termini che la suppongono dimostrata. Se l'Analogia,     dice,
lascia sussistere qualche eccezione apparente, non si creda facilmente che la legge generale sia violata(nota 36). E, certo, se l'eccezioni che il Beauzée accenna in astratto, non sono altro che apparenti, non possono servire d'argomento contro la sua tesi; ma la questione è per l'appunto se siano solamente apparenti. Certo ancora, se quella sua è una legge generale, non si deve credere, né facilmente, né a rilento, che sia violata: cosa che implica contradizione; giacché s'intende bensì che possano esser violate le leggi positive, l'esecuzione delle quali dipenda da una o più volontà; ma una legge nel senso traslato in cui il vocabolo è adoprato qui dall'autore, cioè nel senso d'un resultato necessario d'una data natura e disposizione di cose, ammettere che possa esser violata, è lo stesso che dargli il nome di legge, e negargliene nello stesso tempo l'essenza. Ma se ci sono, come ci sono nella maniera più evidente che si possa pensare, dell'eccezioni reali, cioè delle parole, le di cui variazioni non imitino esattamente quelle d'un paradigma comune, si dovrà credere, non solo facilmente, ma senza la minima esitazione, senza bisogno di fare altre ricerche, né riflessioni, che quella supposta e gratuitamente affermata legge generale non c'è; e che, tanto quest'espressione, quanto quella d'eccezioni apparenti, non sono altro che petizioni di principio. E s'osservi che il Beauzée, non si sentendo di negare espressamente che ci siano de' fatti reali opposti a quella sua legge generale si contenta di chiedere che ciò non si creda facilmente; con che viene a ammettere che ci possano essere, e che, per conseguenza la supposta legge non sia generale. [72] Ma l'eccezioni (o irregolarità, come anche le chiamano) non sono i soli fatti contrari alla legge d'Analogia predicata dal Beauzée: un'osservazione più diligente fa scoprire un'opposizione ad essa, meno apparente, ma non meno reale, in altri fatti, che sono generalmente riguardati come regolarissimi. Cos'erano, per esempio, e cosa sono, riguardo a quell'Analogia, le diverse declinazioni de' nomi, e le diverse coniugazioni de' verbi, che si trovano in più lingue, e morte e vive, e delle più colte e illustri? Non eccezioni; ma perché? Perché non c'è in quelle lingue un paradigma unico per tutti i nomi, e uno per tutti i verbi; che è quanto dire che non c'è quella regola esemplare, l'esatta imitazione della quale, secondo il Beauzée, costituisce la regolarità. Non c'è quindi propriamente irregolarità in questi casi; ma, ciò che torna al medesimo, se non è anche di più, ci manca il fondamento, il mezzo necessario della regolarità. E, cosa singolare! chi fece questa giusta e sagace osservazione non fu alcuno di que' grammatici tanto inclinati, secondo il Beauzée, a sognare delle irregolarità: fu lui medesimo. Il primo desiderio dell'Analogia,     dice,
sarebbe stato, che tutti i verbi procedessero nella stessa maniera     (il che si può dire ugualmente de' nomi);
ma, avendo l'Uso, per motivo d'eufonia, o d'altro, portate delle diversità nelle forme, essa ebbe la cura di riunire almeno, come sotto una stessa insegna que' verbi, le di cui forme fossero simili(nota 37). Ecco, di novo, quell'Analogia che doveva estendere a tutti i casi simili le immaginate prime decisioni dell'Uso, eccola ridotta a un almeno, a riunire sotto una stessa insegna, o meglio sotto diverse insegne que' tanti che l'Uso ha voluto che avessero delle forme simili. Eccola, negli altri casi, ridotta al solo desiderare, che equivale a non fare. Ma le lingue sono cose di fatto; e perciò l'Uso, che ne è la vera e sola causa efficiente, non desidera nulla, ma opera; anzi non è altro che operazione. La causa di quelle tante e così strane contradizioni è, come abbiamo accennato sopra, il confondere due questioni affatto diverse, l'una pratica e l'altra speculativa: la questione di quali siano le lingue, e una questione di quali devano essere, secondo un tipo ideato a priori. E perché il conoscere le cagioni degli errori è un mezzo di riconoscerli più chiaramente per tali, non sarà, credo, inutile il vedere il come questo sia potuto nascere. E è una tendenza della mente umana, quella di cercare ne' fatti che abbiano qualche speciale somiglianza tra di loro, un ordine, una legge che li governi tutti: tendenza ragionevolissima e nobilissima, poiché [73] il ritrovamento di ciascheduna di queste leggi è un progresso verso la perfezione dell'intendere. Ma, come tante e tante cose bone, questa tendenza porta con sé il suo pericolo; ed è che si creda troppo presto d'aver trovato, e che si corra a prendere per legge necessaria d'un genere intero di fatti qualcosa di comune che si veda in molti di essi. Il che accade tanto più facilmente quando, tra le qualità comuni a questo maggiore o minore numero di fatti, ci sia anche quella d'un medesimo intento, e d'un effetto corrispondente. E tale, per l'appunto è il caso in questione. Ci sono infatti nelle lingue diverse analogie, estese a un numero, più o men grande di vocaboli o di frasi, e appropriata a significare una medesimezza di modi e di relazioni in oggetti d'essenze diverse e anche opposte. E l'intento è così ragionevole, l'effetto così manifesto; par di vederci una conformità simmetrica del linguaggio col pensiero, un'imitazione, e come una rappresentazione realizzata, di vari aspetti di questo; che ne può nascere facilmente una repugnanza a credere che un tale resultato abbia a esser solamente parziale e accidentale, e possa esser limitato e interrotto dall'arbitrio umano. Quindi, nelle menti de' molti che non si propongono la questione, se non per accidente e di fuga, l'opinione vaga quanto si possa dire, ma altrettanto sicura e fissa, d'un'autorità generale e efficace dell'Analogia sulle lingue: voglio dire, dell'Analogia, quale è definita dal Beauzée, e intesa da loro, se anche non conoscano la definizione del Beauzée; giacché quell'opinione viene ugualmente, e in lui e in loro, da una stessa origine, cioè dalla tendenza a generalizzare un fatto particolare. E questi non vanno soggetti a contradirsi; perché non fanno altro che ripetere, in termini più o meno simili, la stessa tesi nuda e in astratto, o anche applicarla, come criterio pratico, a un qualche caso staccato, dicendo semplicemente: l'Analogia, o la grammatica, o la ragione, o la filosofia (giacché usano spesso tali denominazioni come sinonime) vuol così; senza spiegarsi se si deva intendere o che la cosa sia così in fatto, o che dovrebbe ragionevolmente esser così.

Ma al Beauzée, che si proponeva di ragionare e di dimostrare, e doveva, per conseguenza, svolgere, più o meno, quella sintesi confusa e contradittoria, e metterla, o tanto o quanto, alle prese co' fatti, non era possibile di mantenercisi così fermo e costante; in quella maniera che, sopra una rama frondosa, ma sottile e gracile, un uccello potrà bensì posarsi un momento, per riprender subito il suo volo; ma, punto che ci si voglia fermare a far qualche gorgheggio, se la sente piegar sotto, e è costretto a staccarsene. Quindi quel mettere in campo una legge generale, per riconoscer subito che, in effetto, potrà non esser generale; un diritto d'impedire, per attaccarci subito quello di protestare, che importa il non aver [74] impedito. E quindi anche il proporre la cosa con dell'espressioni dubbiose e restrittive, che attestano insieme il desiderio e il timore d'affermarla risolutamente. Se ne veda un esempio singolare nella proposizione seguente: C'è forse un metodo di studiar la grammatica, che farebbe trovar per tutto o quasi per tutto le tracce dell'Analogia(nota 38). Chi non vede che il forse e il quasi sono estorti da quel timore e da quel desiderio? Ma che? potrà dire un qualcheduno: Non è forse qualche volta, anzi spesso, una cosa ragionevole il dubitare e, per conseguenza, il contentarsi d'esprimere il dubbio?– Pur troppo; ma quando? quando il dubbio nasca dall'oscurità relativa della cosa (dico relativa, perché le cose non sono punto oscure in sé stesse; siamo noi uomini, che abbiamo la vista corta); quando, per esempio, non si riesca a riconoscere sufficientemente i fatti sui quali deva cadere il giudizio; non quando il dubbio provenga dal non poter conciliare de' fatti notissimi, quali sono l'eccezioni in questione, con un preteso principio smentito da essi. E, per lasciar da una parte tant'altre osservazioni a cui darebbe occasione il passo citato, chi non vede che tanto queste esitazioni, come quelle aperte contradizioni, e i paralogismi, gli equivochi, di cui abbiamo veduto un saggio in que' diversi articoli del Beauzée, non ci sarebbero entrati in nessuna maniera, se alla questione di ciò che faccia l'Analogia nelle lingue, non avesse mescolata una questione di ciò che la ci deva fare. Non c'innoltreremo qui a indagar più a fondo quali siano i suoi fondamenti logici; avendo, credo, detto più di quello che basti per escluderla. Il che era necessario per nettare, dirò così, da ogni elemento estraneo l'unica e vera questione per chi cerchi ciò che costituisca le lingue, cioè la questione del fatto. Che se avessimo tralasciato di toccar qui questo punto, si sarebbe dovuto fare in un luogo molto meno opportuno; giacché, quando si verrà alla questione pratica della lingua italiana, troveremo spesso addotta come criterio del fatto l'autorità dell'Analogia; e non basterebbe il negarla asciuttamente, per quanto fosse gratuitamente asserita. Prima di concludere, non sarà forse inutile il notare la parte che possa aver avuta nell'accreditare quel concetto, una cagione avvezza a far simili scherzi; cioè l'ambiguità e quindi l'abuso delle parole. E intendo specialmente della parola “ Regole ”. Come osservò un ingegnoso e riflessivo scrittor francese del secolo scorso, il P. Buffier, quando una consuetudine grammaticale s'estende alla maggior parte dell'espressioni d'una lingua, vien riguardata come una regola; e quindi i casi che se ne staccano sono comunemente chiamati irregolari. “Ma”     aggiunge con acuto bon senso,
“ se si guarda alla cosa si vede che l'eccezioni sono anch'esse tante regole, le quali prescrivono di non seguirne, [75] in certi casi, una più estesa”(nota 39). Ed ecco, se non m'inganno, il come quella parola, nella sua applicazione ai fatti grammaticali, ha potuto acquistare il valore abusivo notato dal Buffier. Regola, nel senso più astratto, significa una maniera prestabilita d'operare; tanto se questa maniera sia o imposta, o convenuta per una scelta arbitraria, quanto se sia richiesta da una ragione intrinseca della cosa. E applicata nel primo di questi significati alle diverse consuetudini grammaticali, una tale denominazione, non si può dire abusiva; essendo quelle consuetudini altrettante maniere prestabilire, nelle diverse lingue, per esprimere diversi concetti; e divenendo, per conseguenza, altrettante condizioni per adoprar quelle lingue nelle forme usitate, riguardo alla parte grammaticale, e quindi altrettante regole, relativamente a un fine da ottenersi. Ho detto, non abusiva, sempreché s'intenda di tutte quelle consuetudini; giacché, o simili, o dissimili che siano, la qualità, l'attitudine che può farle chiamar regole, è perfettamente la stessa in tutte. Ma, siccome le consuetudini grammaticali che s'estendono a un maggior numero di casi, sono naturalmente le più apparenti; siccome sono quelle a cui si dà il primo luogo nelle grammatiche, essendo il mezzo più comodo per rappresentare in breve una gran parte di esse; così fu facile il passare a chiamarle, come per eccellenza, le Regole; che, secondo la forza propria dell'espressione, è quanto dire, le sole o le vere regole. Fu un nominare un tutto per una parte; cioè una specie notissima del traslato che si chiama sineddoche; e che, come accade spesso de' traslati, può trasformarsi in errore. E è e rimane un traslato quando serve (comunque ciò avvenga) a far pensare non il tutto che si nomina, ma la parte che si vuole; come quando si dice che uno è appassionato per i fiori, ognuno intende che non si vuol parlare di tutti i fiori, ma d'una parte scelta di essi, e che ce n'è una gran quantità di cui quel tale non si cura punto. Di traslato si muta in errore, e in errore che può esser fecondissimo d'altri errori, quando, come nel caso nostro, l'espressione si prende nel senso proprio, cioè nel senso del tutto, al quale è appropriata direttamente. I termini abusivi poi ne tirano naturalmente de' simili a loro: così la denominazione d'eccezioni applicata ai casi che sono in minor numero, [76] vuol inferire tacitamente, che siano d'una natura diversa da quelli del numero maggiore; mentre la differenza non è per l'appunto, che nel numero. Così il termine d'irregolari induce l'idea di qualcosa di disordinato. Due denominazioni, del resto, affatto moderne nel linguaggio grammaticale; giacché i grammatici antichi, contentandosi più cautamente di qualificare il fatto, usavano a quell'intento le denominazioni d'Anomali e d'Eterocliti, le quali non importano altro che diversità. Chi dicesse, cosa non impossibile, che queste sono questioni di parole, risponderemmo che, dove c'è abuso di parole, bisogna proprio esaminare il valore delle parole; meno che si credesse miglior partito il prendere una cosa per un'altra; che è l'effetto naturale, anzi l'essenza medesima dell'abuso delle parole.

Il Beauzée termina il suo articolo sull'Analogia, col citare, come molto sensata, questa sentenza della Biblioteca Grammaticale Compendiata di M. Changeux: La grammatica non è che un compendio delle Analogie; e le analogie sono una grammatica partirolarizzata (détaillée). La proposizione diverrà conforme al vero, se si dica: La grammatica è un compendio d'analogie e di disanalogie; e l'Analogie sono una parte, ma nulla più che una parte, della grammatica. Noi, per non ripetere con parole nostre la conclusione che abbiamo già dovuta esprimere più volte, e nel presente e nell'antecedente capitolo, ci serviremo anche qui d'alcune di quelle che il Beauzée medesimo dettava in que' momenti, che una preoccupazione sistematica non storceva il suo retto senso, né gli faceva dimenticare ciò che aveva pur dovuto ricavare dalla sua lunga e, non di rado, sagace osservazione de' fatti grammaticali. Tutto è Uso nelle lingue: il materiale e la significazione de' vocaboli, l'analogia e l'anomalia delle desinenze, la servitù o la libertà delle costruzioni, il purismo o il barbarismo de' complessi(nota 40).

Chiuderò queste osservazioni sul punto dell'Analogia con una che, per chi voglia riflettere, potrebbe forse supplire a tutte. L'analogie dell'idee tra di loro sono incomparabilmente, anzi inescogitabilmente, più numerose e più varie di quelle che de' segni materiali e convenzionali possano aver tra loro. E questo basta perché un'intera e consentanea analogia non possa essere attuata nel linguaggio.

Prima però di terminare la discussione intorno alla questione più generale dell'arbitrio dell'Uso, sarà bene il prevenire due altre obiezioni. Potrà, in primo luogo parere ad alcuni che l'attribuirgli quell'arbitrio supremo e universale sulle lingue, sia lo stesso che attribuirgli un potere senza limiti. A questo conto, diranno, si dovrà credere che l'Uso possa adottare, per esempio, una declinazione diversa per ciascheduno de' nomi e de' verbi che siano in una lingua, e di quelli che ci possano entrare di mano in mano; si dovrà credere che possa, con l'aiuto dell'inflessioni, segnar delle relazioni tra due vocaboli, tra i quali si trovino cento altri vocaboli, e via discorrendo.

Per escludere una così strana interpretazione, basterà osservare cosa importi qui la parola arbitrio. L'arbitrio umano quando è applicato all'azione (come appunto in questo caso), è condizionato, da una parte, alla natura delle cose, sulle quali e con le quali opera; e dall'altra ai limiti del potere umano. [77] Non è la facoltà di far tutte le cose che possano cader nell'immaginazione; ma la facoltà di fare una scelta tra due o più cose possibili all'uomo. Dipendere una cosa dall'arbitrio d'alcuno non vuol dunque dir altro, se non che essa può essere effettuata con diversi mezzi, i quali siano in poter suo. L'Uso può, come s'è veduto, e come ognuno vede, adottare più o meno inflessioni, in vece d'altri mezzi adattati allo stesso intento; ma proporzionatamente alle forze comuni della memoria. Può scegliere tra diverse sintassi; ma in quanto nessuna ecceda il potere della mente umana, di riferire un oggetto a un altro, attraverso d'altri oggetti, senza sviarsi né confondersi. Può tutto quello che vuole, perché non vuole se non quello che può. L'immaginazione e i disegni dell'uomo possono urtare nell'impossibile; ma l'Uso, non essendo, come s'è detto, altro che operazione, s'esercita necessariamente dentro il possibile.

Qualchedun altro dirà: Se l'Uso è l'arbitro supremo delle lingue, se tutto ciò che non è ammesso dall'Uso non è d'una lingua, sarà dunque tenuto ognuno che parli o che scriva, a uniformarsi ad esso; non sarà lecito di scostarsene in nessun punto; non s'avrà la libertà, il diritto, di formare un vocabolo novo quando ce ne sia il bisogno. Qui, come abbiamo visto in un altro caso, si confondono due questioni: una di ciò che costituisca una lingua; l'altra del come convenga adoprarla. Importa quindi non poco il distinguerle, per escludere quella che è estranea all'argomento, cioè la seconda; tanto più che serve potentemente a imbrogliare e snaturar l'altra, come avremo a vedere in pratica, quando si tratterà l'argomento speciale della lingua italiana. E, per escluderla, bisogna metterla in chiaro; cosa, per fortuna, che non richiederà di molte parole.

Lasciando perciò da una parte i termini di lecito e illecito, di permesso e di proibito, di libertà e di diritto (traslati enfatici, non boni qui ad altro che a condur fuori di strada) diremo che è una cosa affatto ragionevole il seguir l'Uso, e parlando e scrivendo; poiché è il mezzo il più pronto e immediato d'intendersi tra di loro quelli che possedono una stessa lingua; e perché, così facendo, si concorre, ognuno per la sua parte, a mantenere copioso e certo, il più che sia possibile, questo mezzo prezioso; mentre, facendo il contrario, ne resulta naturalmente il contrario, cioè che il mezzo diventa scarso in proporzione de' casi ne' quali alla concordia succede un conflitto. Ma, per quanto quella regola sia ragionevole, sarebbe contro ogni ragione il volerla estendere ai casi dove non è applicabile, e cambiare il mezzo in ostacolo; il voler cioè che, dove l'uso manca non si possa ricorrere a un altro mezzo. In questo caso (posto sempre che ci sia un giusto motivo di voler un segno che l'Uso non somministra), diventa ragionevole un'altra cosa, cioè il formare un segno nuovo (lessicologico o grammaticale, qui è tutt'uno), [78] sia derivandolo da qualche segno usato, sia prendendolo da un'altra lingua, o morta o viva, sia in qualunque altra maniera per cui, attese le circostanze, riesca meno strano, sia più facilmente inteso. Ciò non è andar contro l'Uso, ma al di là; è anzi un mezzo indiretto, ma l'unico mezzo d'arricchirlo, proponendogli delle locuzioni che, come sono parse o necessarie o opportune all'inventore, possano parer tali a alcuni altri, e poi ai più, e forse a tutti. E è con questo mezzo che le lingue, e le più colte principalmente, hanno ricevuto a poco a poco, nel corso di secoli, un accrescimento tanto considerabile e importante, come si vede. Per non, essere tacciati d'omissione, e d'una omissione che potrebbe parer grave, dobbiamo aggiungere che, in qualche caso, può essere una cosa ragionevole anche l'andar direttamente contro l'Uso, adoprando un segno novo in vece d'uno, anche usatissimo. Così il Voltaire, in vece della locuzione Cul–de–sac, generalmente, anzi unicamente usata al suo tempo, si serviva del vocabolo impasse, che diceva essere altre volte stato francese: vero o non vero che fosse, non fa nulla; certo allora era affatto sconosciuto. E all'esempio univa il consiglio, non cessando di proporre, e al pubblico in stampa, e agli amici per lettere, e, senza dubbio, anche a voce, lo sfratto della locuzione dominante, e l'accettazione della nuova. E non si può dire che, in questo caso, operasse senza ragione; non solamente perché quello che proponeva era un miglioramento (ché un tal motivo, da sé, sarebbe stato lontano dal bastare); ma perché era un miglioramento solo; e che perciò doveva bensì far nascere un conflitto, ma ristretto a una minimissima parte della lingua, e tale da non poter certamente cagionare in essa nessuna sensibile perturbazione. Contuttociò, ne' molti anni che visse il Voltaire, dopo aver assunta quell'impresa, non poté vedere neppur il principio della riuscita; tanto è difficile il mutare, e anche l'intaccare la consuetudine concorde che regna nelle vere lingue! E ora, dopo un secolo, l'impasse è entrata nella lingua francese, senza però averne ancora scacciata la locuzione antecedente. E è uno di que' doppioni che vengono e durano più o meno nelle lingue, perché le lingue, e sono mutabili per essenza e non possono mutarsi tutt'a un tratto; nemmeno in una piccola parte. E il Vocabolario dell'Accademia francese, fedele rappresentante dell'Uso, tanto ne' pochissimi casi dove è diviso, come ne' casi incomparabilmente più numerosi, dove è concorde, ha registrati nell'ultima edizione tutt'e due i vocaboli.

Concludiamo che, dall'esser l'Uso l'unica causa efficiente, l'unico arbitro delle lingue, non ne vien punto che si deva limitarsi e attenersi, in tutto e per tutto, ai mezzi che l'Uso somministra. Sono, come dicevamo, due questioni diverse; legate, è vero, l'una con l'altra; ma in quanto la seconda è relativa e subordinata alla prima; non si potendo, né accrescere, né mutare, se non ciò che è. La prima, in vece, è, di sua natura, anteriore all'altra, e indipendente da essa. Sicché, se alcuno ha qualcosa di novo e d'utile a dire sulla maniera d'accrescere e anche di mutar le lingue, fin dove si può, lo dica, ma a suo luogo; e non intrometta una tale questione dove si tratti di ciò che faccia essere le lingue; che sarebbe proprio un levarsi il mezzo di trattar ragionevolmente e l'una e l'altra.

Nel capitolo seguente faremo l'ultimo passo che rimane per arrivare finalmente alla questione speciale della lingua italiana.

Appendice IIa al capitolo III

Se ci siano de' vocaboli necessariamente indeclinabili.


[A] Indeclinabile, presso i grammatici latini, dai quali una tal denominazione è venuta ai moderni, non pare che volesse significare altro che un fatto particolare di quella lingua; cioè che, nell'Uso di essa, certe classi di vocaboli (o, come si chiamano, Parti dell'Orazione o del Discorso)(nota 41), al contrario di cert'altre, mantenevano sempre una stessa forma. Del resto, in uno solo de' loro trattati venuti fino a noi, cioè nell'Arte Grammatica di Diomede, quel fatto è enunciato in termini generali, e riguardo alla lingua latina, s'intende. Le Parti dell'Orazione,     dice questo scrittore,
sono otto: nome, pronome, verbo, participio, avverbio, congiunzione, preposizione, interiezione.

Delle quali, le prime quattro sono declinabili, l'altre indeclinabili(nota 42). Gli altri non notano questa differenza se non parzialmente, dando il titolo d'indeclinabile a una o a un'altra di quest'ultime parti: nessuno a tutte. E nulla indica che, né quel grammatico, né quest'altri volessero con quella denominazione, alludere a qualcosa di necessario, d'universale, d'inerente alla natura stessa del linguaggio. Intendevano di notare de' fatti, come portava il loro assunto di grammatici particolari e pratici; non pensavano punto a stabilire un principio.

Ma alcuni autori moderni, applicando a quel termine un senso universale e assoluto, vollero che certe classi di vocaboli, siano invariabili di loro natura, per l'essenza stessa di ciò che significano; e che, per conseguenza, lo siano in tutte le lingue.

Il primo che, senza esprimer la cosa in termini così formali e circostanziati, credette di trovare in quel fatto una causa intrinseca e universale, fu, se non m'inganno, [B] G. C. Scaligero. Essendoci,     dice,
delle Parti     (della proposizione)
che ricevono dell'inflessioni, e dell'altre che mantengono sempre una stessa forma, diremo ora quali di loro abbiano quella disposizione, e il perché; dopo aver indagate le ragioni e le necessità dell'inflessione medesima. Enumerate poi queste ragioni, e esposto come, secondo lui, convengano rispettivamente alle prime quattro Parti, dice dell'altre, che, essendo semplici note e legami della proposizione non poterono ricevere nessuna mutazione, come non ne riceve il legame delle cose medesime. Se, per esempio, Cesare è in guerra con Catone, non si può a questa mutua ostilità     (significata dal vocabolo Con)
attaccare nessuna nota, né di persona, né di numero, né d'altro che cagioni alcuna variazione. Così s'escludono le Congiunzioni, le Preposizioni, l'Interiezioni, poiché, anch'esse, non sono altro che nude e semplici note della cosa. Propone poi, e scioglie, una difficoltà, riguardo all'Avverbio; e lo mette, con gli altri, tra gl'indeclinabili(nota 43).

Sarà forse parso fuor di luogo, nell'esame d'un'opinione recente, il citare un libro messo già da un pezzo, fuor de' concerti, e noto a pochissimi. Ma non abbiamo creduto inutile il farne questa menzione, perché l'argomento fondamentale dell'opinione recente è in sostanza, e solamente con qualche varietà di termini, quello stesso dello Scaligero; come vedremo.

Tra gli scrittori di Grammatica detta generale o filosofica, due principalmente hanno sostenuta quell'opinione: il Beauzée e il C. de Tracy.

Una semplice occhiata,     dice il primo,
che si dia alle differenti specie di vocaboli, e all'unanimità degli Usi di tutte le lingue a questo riguardo     (Tutte le lingue! Era fare un po' troppo a confidenza co' fatti),
conduce naturalmente a dividerle in due classi caratterizzate da delle differenze puramente materiali, ma nondimeno essenziali; e sono la declinabilità e l'indeclinabilità.

La prima classe comprende tutte le specie de' vocaboli che, nella maggior parte delle lingue, ricevono dell'inflessioni destinate a indicare i diversi aspetti, sotto i quali l'ordine analitico presenta l'idea principale del loro significato: quindi i vocaboli declinabili sono i nomi, i pronomi, gli aggettivi e i verbi.

La seconda classe comprende le specie di vocaboli che, in qualunque lingua     (e questo singolarissimo asserto, lo troveremo ripetuto più volte da quest'autore e dall'altro sopra nominato),
mantengono nel discorso una forma immutabile, perché l'idea principale del loro significato c'è sempre contemplata sotto un medesimo aspetto; quindi i vocaboli indeclinabili sono le preposizioni, gli avverbi, le congiunzioni e l'interiezioni(nota 44). [C] S'osservi prima di tutto, che, in quest'argomento, le parti sono fatte alla rovescia; poiché ne' vocaboli che non mutano forma, non c'è idea principale: c'è un'idea sola, o semplice o composta che sia. Ed è in vece ne' vocaboli inflessi, che si può distinguere, per mezzo dell'astrazione, un'idea, alla quale convenga il nome di principale, perché si trova in tutti, accompagnata da diverse idee accessorie che sono indicate dalle diverse inflessioni. Per prenderne un esempio dalla lingua latina, cosa ricca d'inflessioni, nelle dizioni: Domini, Domino, Dominis, etc. l'idea principale è signore; in Tui, Tibi, è Persona a cui si parla; in Sapientis, Sapientem, Sapientibus, etc. è sapiente; in Amas, Amabo, Amavissem, Amarent, è amare. Se non fosse così, l'inflessioni che modificano materialmente questi e qualunque altro vocabolo, non avrebbero senso veruno. Quindi la permanenza dell'idee principali in diversi vocaboli, non che rendere impossibili l'inflessioni, è ciò che le rende possibili. E l'inflessioni non fanno altro che aggiungere a' vocaboli de' novi significati, o di modi o di relazioni, che potrebbero essere espressi ugualmente dall'accompagnamento d'altri vocaboli, lasciando nella sua invariata forma quello che esprime l'idea principale, come s'è dovuto provare nel Capitolo II.o E basterebbe che la cosa fosse possibile; ma s'osservi di più, che è anche un fatto; poiché, senza riparlar qui delle lingue che non hanno inflessioni, ci sono, anche in lingue inflesse, più o meno vocaboli appartenenti a qualcheduno delle quattro prime classi, i quali mantengono sempre una stessa forma. Tali sono, per esempio, i vocaboli latini: nefas, aliquot, i vocaboli italiani: città, virtù, i vocaboli francesi: Temps, Corps, I modi e le relazioni che occorra d'aggiungere all'idee significate da essi, s'indicano col mezzo d'altri vocaboli.

Bisogna dunque addurre altre ragioni che questa d'un'idea principale, per poter logicamente stabilire che i vocaboli dell'ultime quattro classi siano, di loro natura, necessariamente invariabili.

E se n'adduce infatti un'altra, quantunque non tutt'altra; ed è quella messa in campo dallo Scaligero, citata dianzi; cioè che, riguardo a' nomi e agli altri vocaboli delle quattro prime classi, ci sono de' motivi per alterarne la forma; quali sono, per esempio, quello d'indicare unità o pluralità degli oggetti significati, o differenze di quantità, di persona, di tempo, o altro: motivi tutti che provengono dall'attitudini degli oggetti significati, da' nomi, da' pronomi, dagli aggettivi e da' verbi, e che non hanno luogo riguardo agli oggetti significati dall'altre quattro classi.

Quand'anche ciò fosse vero in tutto e per tutto (il che non è), non [D] proverebbe altro, senonché l'inflessioni sono inutili a queste classi di vocaboli. Ora, chi vorrebbe mai dire che ciò che è inutile sia, per ciò solo, impossibile? O chi è che, al solo scorrer col pensiero per le lingue più colte e illustri tra quelle che hanno inflessioni, non gliene vengano subito avanti, non solo d'inutili, ma d'assurde? Cosa ci può esser di più ridicolo,     dice il C. de Tracy medesimo,
che il dare il genere femminile o maschile al nome d'una cosa che non è capace, né dell'uno, né dell'altro? o il dare uno di questi, o il neutro, tanto al maschio, quanto alla femmina d'una stessa specie d'animali? Questo è certamente un ficcar nelle lingue delle difficoltà affatto inutili(nota 45). Noi vediamo in questi casi, che, in mancanza di motivi ragionevoli, la sola imitazione, anche dov'è meno a proposito, può essere un motivo sufficiente; e che l'analogia, se non serve, a un bon pezzo, a far dare delle forme simili a tutti i casi simili, può servire in vece a farle dare a de' casi, non solo diversi, ma opposti.

E siccome la questione è di mera possibilità, così basterebbe questo a scioglierla, mostrando che la declinazione è possibile, del pari che nelle altre classi, anche negli avverbi, nelle congiunzioni, nelle preposizioni e nell'interiezioni. Ma vedremo, per di più, che de' vocaboli di tutte queste classi, o furono, o sono ancora declinati, sia per il motivo addotto ora, sia per degli altri più opportuni, e, in qualche caso, per que' medesimi che hanno fatte usare le declinazioni nell'altre classi; in nessun caso poi, con effetti tanto strani, quanto quelli che si sono veduti dianzi accadere ne' nomi.

Prima però d'entrare in questo esame, dobbiamo avvertire il lettore di due cose. Una, che adopreremo promiscuamente, e per delle convenienze secondarie, le denominazioni di Declinazione, d'Inflessione, di Variazione, intendendo ugualmente per ciascheduna di loro un'alterazione qualunque, fatta a un vocabolo, sia nella fine, sia nel principio, sia nel corpo del vocabolo stesso.

L'altra, che, de' vocaboli che prenderemo in esempio ci potrà accader qualche volta di metterne, con alcuni grammatici, un qualcheduno in una classe, mentre degli altri lo mettono in un'altra. Ma col far ciò, noi non pretendiamo punto di decidere tali questioni, e non n'abbiamo bisogno; perché i vocaboli che allegheremo, se i grammatici non sono tutti d'accordo sulla classe speciale a cui appartengano, lo sono nell'ascriverli al genere de' pretesi indeclinabili.

Del resto, crediamo che, le più volte, tali questioni siano insolubili, perché derivate da una supposizione affatto arbitraria, cioè che tutti i vocaboli di tutte le lingue siano naturalmente e necessariamente divisi e scompartiti in tante classi diverse, o Parti dell'orazione, ciascheduna delle quali sia esclusivamente propria a significare una data modalità degli oggetti del pensiero, o, come dicono, a fare una funzione speciale e distinta.

Ho detto supposizione, perché nessuno, ch'io sappia, ha mai dimostrata una cosa simile; anzi non credo che alcuno l'abbia asserita formalmente e con termini generali, meno il Beauzée che disse: Ogni vocabolo appartiene a una classe(nota 46); e ancora più espressamente: Ogni vocabolo individuale è una Parte distinta dell'orazione(nota 47). Sicché, [E] quand'anche fosse trovata, nell'ordine ideale, una distinzione in classi, di quelle modalità (perché il dirla trovata sarebbe temerario, mentre, ne' diversi sistemi, queste classi hanno variato di numero dalle' due alle dodici almeno, e nessuna classificazione è ancora ammessa generalmente) non ne verrebbe punto la conseguenza, che a tali classi d'idee dovessero corrispondere altrettante classi separate di vocaboli. Ma, di più, il fatto attesta il contrario, essendo una cosa e manifesta e notata comunemente dai grammatici, che de' vocaboli fanno, secondo diverse circostanze, più d'una delle funzioni attribuite a ciascheduna classe. E questo fatto, il quale pare che dovesse prevenire o almeno troncare le controversie di quel genere, fu in vece l'occasione di farle durare; perché ognuna delle parti ci trova una ragione plausibile per collocare questo o quel vocabolo nella classe che gli par meglio; nessuna ci può trovare una ragione assoluta e esclusiva. Il miglior mezzo di farle cessare sarà una grammatica veramente filosofica, la quale, in vece di supporre nel fatto delle lingue una simmetria arbitraria, cerchi, nella natura dell'oggetto della mente, e nella condizione imperfetta e necessariamente limitata del linguaggio, la spiegazione del fatto qual è; val a dire di quella molteplice attitudine di diversi vocaboli. Il campo della quale ricerca deve naturalmente essersi allargato con la cognizione più diffusa e più intima di lingue altre volte o ignorate in Europa, o studiate da pochissimi, e con intenti più pratici che filosofici. Si veda, per un esempio, ciò che dice d'una di queste il celebre sinologo già citato: Molti vocaboli chinesi possono essere adoprati successivamente, come sostantivi, come aggettivi, come verbi, e qualche volta anche come particelle(nota 48).

Ma per il nostro piccolo assunto basta l'aver osservato che quelle controversie gli sono indifferenti, e l'aver così rimosse dell'obiezioni che potevano dar disturbo nell'esame, che passiamo a fare, delle suddette classi di vocaboli, relativamente alla loro asserita indeclinabilità.

Della Preposizione Il Beauzée dichiara essenzialmente indeclinabile la Preposizione, perché la relazione che essa esprime tra un termine antecedente e uno conseguente, è inalterabilmente la stessa, in qualunque caso. E aggiunge che, in fatti, è indeclinabile in tutte le lingue(nota 49).

Il C. de Tracy adduce lo stesso motivo, e afferma ugualmente l'universalità del fatto. Un nome,     dice,
ha differenti desinenze per esprimere le variazioni che gli sono proprie; un aggettivo ne ha per segnare la sua relazione col nome al quale è unito. Ma una preposizione che non è più unita al termine antecedente, che al conseguente, che non è esclusivamente connessa, né con l'uno, né con l'altro, che non serve se non a esprimere la loro relazione, e a essere una dell'idee componenti l'idea totale resultante dal loro complesso, una preposizione, dico, non è capace di declinazione. E infatti le sono indeclinabili in tutte le lingue: e qui principia la classe de' vocaboli invariabili. Quelli [F] che sono tali, lo sono, come vedremo, per una medesima causa; e per ciò sono i medesimi     (vuol dire di certo, riguardo all'indeclinabilità)
in tutte le lingue(nota 50).

Applicando qui l'osservazione generale fatta di sopra, diremo che il non esserci i tali o i tali altri motivi per declinare le preposizioni, non porta punto che non siano capaci di declinazione. Cosa impedisce che si varii una preposizione per segnare (inutilmente, oziosamente, fuor di proposito, quanto si vuole)la sua concordanza con uno de' suoi termini? E se, d'un possibile tanto evidente, occorre citar un qualche esempio, cosa sono, in sostanza, i vocaboli Al o Allo, Ai o Agli, Alla, Alle, Del, Della etc. Sul, Sulla,etc. se non declinazioni delle preposizioni A,Di,Su? Non fanno queste variazioni un ufizio simile a quello de' casi della lingua latina, anzi un ufizio identico in quanto al numero e al genere? Lo stesso si può vedere ne' vocaboli francesi Du, Des, vere declinazioni della preposizione de; lo stesso, meno la variazione del plurale, e con di più quella del caso, i vocaboli tedeschi zum, Zur, declinazioni dative, l'una maschile e neutra, l'altra femminile, della preposizione zu (A); e ne' vocaboli im, Ins, declinazioni, l'una del dativo maschile e neutro, l'altra dell'accusativo neutro, della preposizione in (In). E se si vuole un esempio di preposizione declinata in genere, numero e caso, ce lo somministra la preposizione ecce della lingua latina.

eccum Dinacium eius puerum(nota 51). Eccos treis numos habes(nota 52).

Mater tua ecca heic intus(nota 53). Sed eccam heram video(nota 54). Duas ergo heic intus eccas Bacchides(nota 55).

Il Beauzée, nella Grammatica Generale(nota 56), aveva registrata tra le Preposizioni francesi la dizione excepté, la quale chi vorrebbe dire che sia indeclinabile? Ma, nell'articolo préposition della più volte citata Enciclopedia, la levò da quella classe, perché, dice, excepté è il participio passivo del verbo Excepter. Con questo argomento, tutto quell'apparato filosofico della premessa fondamentale, va a finire in una questione di parole. Infatti, la Preposizione, secondo quella premessa, è indeclinabile per ciò solo che esprime una relazione, sempre la stessa, tra un termine antecedente e uno conseguente. Ora è manifesto che, in una serie particolare di casi, la dizione excepté fa quest'ufizio, né più né meno che tutte l'altre riconosciute senza contrasto per Preposizioni. E quindi, riguardo alla cosa, non importa nulla il nome che gli si voglia dare: è un vocabolo declinabile, che fa un ufizio preteso incompatibile con la declinazione.

Il C. de Tracy, mantenendo, in que' casi, al vocabolo il nome di Preposizione, afferma che allora sia indeclinabile. quantunque,     dice,
Excepté sia spesse volte un participio, pure, nel caso presente, non ne fa più l'ufizio: non cambia più il genere, fa una parte nova, in conseguenza della quale, è necessariamente indeclinabile(nota 57). E qui si vede quanto un'opinione sistematica possa far dimenticare, per un momento, i fatti più manifesti; giacché quel vocabolo, quando fa l'ufizio in questione, è bensì indeclinato in una categoria di casi, ma è declinato in un'altra; e, come si dice, per esempio, Excepté les femmes, Excepté les enfants, si dice: Les femmes exceptées, Les enfants exceptés; e sarebbe solecismo il dire altrimenti. E non occorre notare espressamente, che l'essere il vocabolo o prima o dopo il nome o i nomi, non ne cambia per nulla l'ufizio.

Dell'Avverbio [G] E è quasi inutile l'osservare,     dice il C. de Tracy,
che gli avverbi, non essendo, né nomi, né vocaboli che si riferiscano direttamente a un nome, ma non servendo ad altro che a esprimere una circostanza fissa e determinata del significato d'un aggettivo o d'un verbo, sono necessariamente indeclinabili. Difatti lo sono in tutte le lingue. Un avverbio a cui si facesse una variazione, diverrebbe un altro avverbio, un altro vocabolo(nota 58). E in un altro luogo, chiama l'avverbio un segno invariabile, l'estensione del quale non è capace, né d'aumento, né di diminuzione(nota 59).

Qui non si può dir altro, se non che la preoccupazione fece fuggir della memoria del celebre autore il fatto notissimo delle variazioni che ricevono, in più d'una lingua, molti avverbi, e che servono per l'appunto a significare un'estensione del concetto che esprimono nel modo positivo. Tali sono i segni del comparativo e del superlativo in latino, come Verius, Verissime, dal positivo vere; e il segno del superlativo in italiano, come benissimo, da bene. E quand'anche non ce ne fosse esempio veruno, il solo esser molti avverbi derivati da degli aggettivi (cosa notata anche dallo stesso autore), basterebbe a dimostrare, non dico la possibilità, ma la naturalezza di tali variazioni. In italiano poi ne ricevono anche dell'altre, ugualmente destinate a significare aumento o diminuzione del concetto, come Benino, Benone. Altre variazioni servono a significare altre modificazioni dell'idea principale, o qualche diversità di circostanze. Cosi, nelle dizioni Lì, Là, l'idea principale e comune è l'indicazione d'un luogo; le variazioni significano la vicinanza o la lontananza del luogo indicato. E parimenti le variazioni tra qui e qua, tra costì e costà, segnano delle diversità di circostanze che non importa di specificare. E lo stesso si può vedere nelle dizioni latine Hic, Hac, Huc, come in Illic, Illac, Illuc, etc.

Il dire che un avverbio a cui si facesse una variazione, diverrebbe un altro avverbio, un altro vocabolo, è una proposizione equivoca; e, de' due sensi che presenta, uno è erroneo, l'altro, inconcludente. Erroneo, se s'intende che l'avverbio declinato esprimerebbe un'essenza diversa, tanto riguardo all'idea principale, quanto a dell'altre accessorie; inconcludente, se s'intende che esprimerebbe un'idea non identica in tutto e per tutto a quella espressa dall'avverbio positivo; giacché ciò è comune a tutti i vocaboli declinati; anzi è l'effetto naturale e voluto delle loro variazioni. Quelle, per esempio, che si vedono in latino tra Recte, Rectius, Rectissime in italiano tra rettamente e rettissimamente, producono [H] lo stesso stessissimo effetto di quello che delle variazioni omogenee producono, tra le dizioni latine, Rectus, Rectior, Rectissimus, tra l'italiane, Retto, Rettissimo: cioè l'effetto di significare delle diversità di grado in una medesima qualità. Quindi, o si dovrà dire (e chi lo vorrà dire?) che queste dizioni siano altrettanti diversi aggettivi, o si dovrà riconoscere che l'altre sono avverbi declinati.

S'intende poi da sé che, oltre le variazioni originate dall'intento suddetto, gli avverbi, come ogn'altra sorte di vocaboli, ne possono ricevere in fatto di quelle che non abbiano alcun intento utile. N'abbiamo un saggio in diverse variazioni applicato agli avverbi italiani, Tanto, Quanto, Poco, Molto, Troppo, Proprio, non per altra ragione, se non perché, facendo queste stesse dizioni, anche l'ufizio d'aggettivi, l'abitudine di declinarle in que' casi, affine d'indicare a quali nomi si riferiscano, bastò a farle declinare anche come avverbi. Eccone alcuni esempi: Tanta poca gente. Rimase tanta contenta. Essendo tanti pochi. Quanta gran cagione. Molti pochi ne ritornarono. Città molta piena di paura. I pochi onesti costumi.

Troppi larghi patti. Cena troppa delicata. E è propria quella. Ma qui mi sento dar sulla voce, e gridare che questi sono spropositi, storpiature del volgo, solecismi indegni d'esser citati come esempi.

“Pace, austeri intelletti”(nota 60). Se questi siano o non siano solecismi, è, come tutte le questioni di grammatica positiva, una questione di mero fatto, estranea totalmente alla nostra, che è di mera possibilità; a provar la quale, se ce ne fosse bisogno, i solecismi servirebbero né più né meno delle proprietà. E gli abbiamo presi, senza fatica, da un maggior numero che ne portano Bartoli(nota 61), il Cinonio(nota 62), e il P. Cesari(nota 63), che gli hanno raccolti dagli scritti di Giovanni e Filippo Villani, del Boccaccio, di Vincenzo Borghini, de' Deputati al Decamerone, dell'Ariosto. Sottosopra non si può dire che fosse proprio volgo; ma, come ho detto, ciò non fa nulla.

Della Congiunzione [I] Per provare che la Congiunzione è della classe de' vocaboli invariabili,     il C. de Tracy allega che essa
non è, né un nome, né un vocabolo che s'unisca direttamente a un nome in particolare, del quale possa seguire le variazioni(nota 64).

il solito scambio del superfluo con l'impossibile: la solita supposizione arbitraria, che l'inflessioni non possano aver luogo, se non per certe cagioni prestabilite.

Un esempio del contrario si può vedere nelle dizioni Col, Coi, vere declinazioni di con. Uno più notabile, perché più ricco e più vario, [L] lo trovo riferito dal Beauzée, al quale era stato obiettato. L'autore d'una Descrizione storica della Lapponia svedese,     dice il Beauzée,
pretende che le congiunzioni, in lingua lappona, esprimano, con le loro desinenze, le persone e i numeri. Per esempio, dice, ickan significa quantunque; ickam, quantunque io; icka, quantunque tu; ickebe, quantunque noi, etc.: attie, affinché; attiam, affinché io; attiebe, affinché noi, etc.

Cita poi il Beauzée dell'altre dizioni della medesima lingua, le quali, nella descrizione medesima, si danno per preposizioni declinate: Lusa, verso; lusam, verso di me; lusad, verso di te; lusas, verso di sé; lusamech verso di noi, etc.

[M] Non ci sarà, di certo, nessun uomo libero da pregiudizi in questa materia, il quale non riconosca qui delle Preposizioni e delle Congiunzioni manifestamente declinate, riguardo alle persone e ai numeri, quanto i verbi. Ma quid non mortalia pectora cogis, o terribile spirito di sistema? Per impugnare una cosa tanto evidente, il Beauzée adduce che Sono Vocaboli contratti. Ne' tre primi esempi,     dice in prova di ciò,
si trovano alla fine della Preposizione le lettere m, d, s, che sono l'iniziali de' tre pronomi mon (io), ton (tu), son (egli, sé)..... e le stesse lettere si trovano negli esempi seguenti, con dell'aggiunte che formano il plurale.     E conclude:
E è dunque da presumersi che lo stesso sia di quelle Congiunzioni che esprimono delle relazioni personali e numeriche(nota 65).

Mettiamo pure che siano vocaboli contratti, e nella maniera che dice il Beauzée; giacché, da una parte, la cosa è possibile, e dall'altra, è affatto inconcludente, perché il come i vocaboli siano stati formati, è una ricerca estranea alla questione presente, che è, quali siano nella forma nella quale si prendono a considerare.

Le declinazioni sono in fatto variazioni parziali di diverse serie di vocaboli, appropriata a significare diversi, o modi, o relazioni d'un'idea principale identica in ciascheduna di tali serie: l'unione e, per dir così, l'agglutinazione d'altri vocaboli, o interi, o più o meno contratti, più o meno alterati, è certamente uno de' mezzi con cui si possono formare delle declinazioni; ma quando sono formate, sono declinazioni; e il vocabolo di cui fanno parte, è, se si vuol adattar le parole alle cose, un vocabolo declinato. Lusam, Lusad, Lusas, non sono forse vocaboli uni e interi? E se (ciò che non sarebbe punto una cosa nova) i pronomi della lingua lappona mon, ton, son, fossero stati disusati, surrogati da altri, e affatto dimenticati, che argomento ci sarebbe per negare la declinazione tanto patente di quelle preposizioni? Forse la possibilità generica, che fossero in origine vocaboli contratti? Ma a quel modo, non ci sarebbe più il mezzo di riconoscere una declinazione in nessun caso; perché quella possibilità ci sarebbe in tutti.

Facciamo anche una supposizione più capricciosa, ma non meno concludente: che quelle declinazioni non fossero state che un'invenzione d'un capo ameno, per mettere in impiccio il Beauzée. E è facile vedere che basterebbero ugualmente a dimostrar falsa la sua tesi. Infatti, ciò che lui impugnava direttamente non era che quelle declinazioni fossero attuate in qualche lingua (a questo non pensava nemmeno); ma che fossero attuabili assolutamente; e il mostrarle attuate in un esempio, era, riguardo alla tesi, una prova di fatto.

In grazia dell'autorità del Beauzée, ci si permetta di citare un altro fatto stato affermato come positivo, ma certamente possibile. Il Castelvetro vuole che il futuro de' verbi italiani sia composto dall'infinito di ciascheduno di essi, e dal presente del verbo Avere, appiccicato alla fine; come Scriver–ò, ài, à, anno; emo, smozzicato da Avemo; ete da Avete. E osserva che, siccome nella prima persona del verbo Avere si trovano presso gli scrittori antichi le forme aggio e abbo, così ci si trovano anche nelle desinenze del futuro degli altri verbi(nota 66).

E se la cosa, come è, ripeto, possibile, venisse anche confermata da qualche fatto più provante; se, per esempio, si trovasse in manoscritti più antichi di quelli che ora si conoscono, il verbo Avere usato abitualmente in forma d'ausiliare, per indicare il futuro (come è in tedesco il verbo werden); verrebb'egli in mente ad alcuno che le dizioni del futuro si dovessero riguardare, non più come aventi una declinazione, ma come altrettante parole staccate, e non formanti, né una serie tra di loro, né una parte della serie de' rispettivi verbi? Non sarebbe possibile, come abbiamo già dovuto osservare altrove, nessun giudizio logico sui fatti d'una lingua qualunque, se, in vece d'osservare in loro stessi qual sia la loro essenza, s'avesse a cercarla in fatti anteriori. Vocaboli contratti è un'espressione che può, senza dubbio, avere il suo luogo nella storia d'una lingua; ma che, nel caso presente, non è bona ad altro che a mutar la questione.

Dell'Interiezione [N] Per Interiezione s'intende comunemente un genere di locuzioni significanti affetti dell'animo; e si sottintende “attualmente sentiti”; giacché gli affetti medesimi vengono significati anche da tutt'altre locuzioni; ma come semplicemente pensati.

Ecco ora l'argomento che il Beauzée cava da questa nozione, per dimostrare l'indeclinabilità di tali locuzioni.

L'Interiezioni sono espressioni di sentimento, dettate dalla natura, e dipendenti dalla costituzione fisica dell'organo della parola. La stessa specie di sentimento deve dunque operare in una stessa macchina lo stesso moto organico, e produrre costantemente lo stesso vocabolo sotto la stessa forma. Di qui l'indeclinabilità essenziale dell'Interiezioni(nota 67).

Noi crediamo che il lettore ci dispensi dall'entrar nel merito di questo argomento; e è forse già troppo l'osservare che, secondo una tale dottrina l'Interiezioni dovrebbero esser sempre le stesse, per tutti gli uomini e, per conseguenza, in tutte le lingue.

Il C. de Tracy include l'Interiezioni in una classe più vasta, a cagione d'una loro qualità notata già, come ci fa sapere Prisciano, dai grammatici latini anteriori a quelli di cui ci rimangono gli scritti; ed è che, ogni Interiezione equivale a una proposizione intera. E fu questa,     dice lo stesso grammatico,
la cagione per cui quegli antichi ne fecero una Parte dell'orazione, a differenza de' Greci, che la mettevano nella classe degli avverbi(nota 68). Tra i moderni poi, la stessa osservazione fu rimessa in campo da G. C. Scaligero(nota 69) e dal Vossio(nota 70), il quale cita il luogo di Prisciano, e non so se da alcun altro fino al Buffier, che ci mette per condizione che l'interiezioni siano accompagnate da certi gesti o da de' toni di voce: condizione che non concorda col fatto(nota 71).

Vediamo ora le conseguenze che il C. de Tracy cava da questa qualità dell'Interiezioni, per metterle in una nova classe, e per dichiararle indeclinabili. Senza voler né criticare, né cambiare una tale denominazione     (Interiezioni)
, colloco in questa prima classe tutti i vocaboli che formano da sé un'intera proposizione. Ci s'hanno quindi a comprendere, non solo tutte l'interiezioni propriamente dette; ma anche molti vocaboli che si chiamano particelle e avverbi, come Sì e No, e molt'altri.

Per riconoscere se un vocabolo è di questo genere, basta vedere se forma da sé un senso finito e compito. Così il vocabolo No è di questo genere, perché significa, Non voglio codesto, Non credo codesto; e non lo è il vocabolo Non (ne), perché non ha alcun significato, se non va unito a un verbo modificato da lui(nota 72).

[O] E già anche il Buffier aveva creduto bene di riunire questi, e altri vocaboli e frasi, all'Interiezioni, sotto la denominazione di termini di supplimento. Ecco come s'esprime, in seguito al passo citato dianzi. I monosillabi Sì e No sono supplimenti che equivalgono manifestamente a una proposizione intera; poiché, se a chi domanda: dite voi questo? si rispondeo No, è chiaro che è quanto dire: dico codesto, o non dico codesto.

[P] L'esempio però non quadra; perché, tra que' vocaboli e l'Interiezioni, corre una differenza essenziale; in quanto queste bastano veramente da sé a rappresentare una proposizione intera, mentre i primi si riferiscono necessariamente a un'altra proposizione, e, senza di ciò, non avrebbero nel discorso alcun significato, nulla più che il ne addotto in esempio dal C. de Tracy.

[Q] E non è quindi per essere d'una natura speciale, che i vocaboli si e no rappresentano, in que' casi un'intera proposizione; è per un'ellissi usitatissima e comune a tant'altre sorti di vocaboli, e che potrebb'esserlo a tutti. dio, per esempio, significherà, Dio ha creato il mondo, in risposta a chi domandi chi abbia creato il mondo; bene significherà, Sto bene, in risposta a Come state? pochi significherà, Erano pochi, in risposta a Quanti erano? aspettare significherà, Il miglior partito, secondo me, è quello d'aspettare, in risposta a Qual è, secondo voi, il miglior partito? e via discorrendo.

L'osservazione de' due scrittori francesi era già stata fatta da un antico grammatico latino; il quale però accenna anche delle dizioni che possono realmente star da sé. Ogni vocabolo,     dice,
acquista il nome di proposizione, quando esprime un senso compito, come fanno spesso le dizioni imperative e responsive; per esempio, se, a chi domandi qual sia il maggior bene della vita, si risponda, l'onestà (Honestas)(nota 73).

E è vero degl'imperativi. Guarda, Taci, Ascolta, danno da sé un senso compito, quanto ahi e Oh! C'è però, anche per questi, un grand'ostacolo a metterli nella classe proposta dal C. de Tracy; e è che bisognerebbe staccarli da quella de' verbi: cosa, alla quale non avrebbe, di certo, voluto consentir lui medesimo.

Ma stavo per dimenticare che qui non si tratta di classificazioni. Qualunque siano i vocaboli che possano esprimere una proposizione, vediamo dunque con quale argomento il C. de Tracy induca da ciò la loro indeclinabilità. Le interiezioni...., esprimendo una proposizione intera, essendo isolate, independenti, senza relazione, con nessun altro vocabolo, sono, per ciò stesso, invariabili. Se un'interiezione varia, esprime un altro senso, un'altra interiezione, e non una modificazione della prima(nota 74). Abbiamo già trovata una simile conclusione, a proposito dell'Avverbio; e dobbiamo quindi ripeter qui la distinzione che abbiamo fatta in quel caso. L'Interiezione variata esprimerà un altro senso, riguardo a una circostanza accessoria; e sarà sempre la stessa Interiezione, in quanto esprima, in tutte le sue variazioni, un'idea principale, come fanno, per l'appunto tutti i vocaboli declinati. Cosi Ohimè! e i disusati Oitè! Oisè! erano, e potrebbero esser sempre declinazioni di persona, come quelle de' verbi. E se si vuol proprio chiamarle tre diverse Interiezioni, si faccia pure; e noi, per continuare questa bella discussione di parole, diremo, con la stessa ragione, che Amo, Ami, Ama, sono tre diversi verbi.

Così Lasso! Lassa! Così il francese Las! che il vocabolario dì quell'Accademia registra, come usato ancora in certi casi, e lasse, usato nel secolo XIII(nota 75). E se tornasse qui in campo l'altra questione di parole che abbiamo già incontrata dove si trattò della Preposizione; se si dicesse, cioè, che le due dizioni citate in ultimo non possono esser contate tra l'Interiezioni, perché sono in effetto aggettivi, faremmo osservar di novo, quanto sia fuor di ragione il voler che de' vocaboli siano indeclinabili per la natura dei loro ufizio, mentre l'ufizio medesimo può esser fatto, e si fa, da de' vocaboli e declinabili e declinati.

Prima di chiudere queste osservazioni sull'indeclinabilità attribuita all'Interiezioni, e a quegli altri vocaboli, crediamo che non sarà fuor di proposito l'esaminare un'opinione del celebre scrittore nominato dianzi, sull'origine delle declinazioni. Dopo il passo citato da noi nell'ultima nota, e nel quale asserisce che il linguaggio [R] è principiato con delle grida più o meno articolate, che si sono chiamate interiezioni, con alcuni vocaboli, la più parte monosillabi, formati il più delle volte per onomatopea.....     soggiunge:
Come avrem noi a riguardare tutte quelle sillabe che sono state aggiunte successivamente ai segni originari che formano tutti i derivati, e coi qual mezzo, gli uni e gli altri sono diventati, secondo il bisogno, de' verbi, degli aggettivi, degli avverbi, etc? Per me, dichiaro che le riguardo come vere preposizioni
.

Non faremo alcuna osservazione sul modo con cui l'autore suppone che ciò sia avvenuto; giacché non abbiamo bisogno d'entrare in un tale esame, per poter affermare, con sicurezza, che quella proposizione, nella sua generalità, è non solo arbitraria, ma contradetta dal fatto. Che de' vocaboli attaccati a degli altri vocaboli possano aver formati, e casi di nomi e coniugazioni di verbi, sarebbe assurdo il negarlo. Ma, affermando che tutte le declinazioni siano state formate in questa maniera, l'autore n'ha dimenticate di quelle che non si potrebbero, senza cadere in un altro assurdo, riguardare come agglutinazioni d'altri vocaboli. Tali sono, per esempio, in alcuni verbi latini, que' raddoppiamenti o della prima o dell'ultima sillaba, intera o tronca, identica o alterata, che indicano il passato; come posco, poposci; Disco, didici; Curro, cucurri; Fallo, fefelli; Pungo, pupugi; Credo, credidi; Perdo, perdidi. Chi potrebbe credere che tutte quelle sillabe, e tant'altre di verbi che sono in un caso simile, fossero preposizioni o altro, state appiccicate ciascheduna, in capo o in coda, al verbo con cui avessero quella somiglianza di suono? E non dico, più strano, perché non mi par possibile; ma strano quanto si possa dire sarebbe il pensare la stessa cosa di que' cambiamenti di vocali, non a un'estremità, ma nel corpo del vocabolo, coi quali la lingua tedesca segna ugualmente, il passato (imperfetto o perfetto) di molti verbi; come, Ich bitte, io prego, Ich bat, pregavo, pregai; Ich bleibe, rimango, ich blieb, rimanevo, rimasi; Ich verliere, perdo, Ich verlor, perdevo, persi; Ich trage, porto, Ich trug, portavo, portai. Così, le variazioni di simil genere, con le quali quella lingua segna in più nomi e aggettivi, il numero, il genere, il comparativo; come Garten, giardino, Gärten, giardini; Wagen, carro, Wägen, carri; Bruder, fratello, Brüdern, fratelli; Vogel, uccello, Vögeln, uccelli; Gut, bono, Güte, bona; Schwarz, nero; Schwärzer, più nero; Scbwärzeste, nerissimo. E il lettore mi dice, di certo, che basta questo saggio.

La preoccupazione per quell'immaginata storia dell'invenzione del linguaggio fece qui perder di vista al C. de Tracy l'attitudine evidente del linguaggio, a significar de' modi e delle relazioni [S] d'idee, col modificar direttamente i vocaboli che le rappresentano: attitudine da non esser trascurata dal grammatico filosofo; poiché, unita a quell'altra che produce l'effetto medesimo con l'attaccare insieme diversi vocaboli, serve a far conoscere compitamente, e quindi più sinceramente, la corrispondenza del linguaggio col pensiero in questa parte. Infatti, quelle due attitudini del linguaggio non sono altro che la conseguenza, l'attuazione estrinseca della doppia attitudine del pensiero, sia a contemplare in astratto i modi e le relazioni possibili delle cose, e associarne poi rispettivamente, con una seconda operazione, l'idee opportune all'idea di questa e di quella cosa; sia a intuirle direttamente con essa. Ed è appunto su quella possibilità connaturale al linguaggio, di produrre con diversi mezzi l'effetto medesimo, che abbiamo creduto di poter dimostrare nel capitolo a cui è annessa quest'appendice, l'efficacia, e la necessità dell'arbitrio dell'Uso nell'adoprare o non adoprare, ne' diversi casi, l'Inflessioni, o Declinazioni, o Variazioni, che qui, come s'è avvertito sopra, vengono a significare una stessa cosa.

Ma, come il lettore ha potuto osservare, le preoccupazioni dell'autore, nel fatto dell'Interiezione, furono due. Volle, per certi motivi, che l'Interiezioni fossero indeclinabili; e volle, per altri motivi, che tutte le declinazioni non fossero altro che Interiezioni declinate.

La contradizione è forte; ma non c'è da maravigliarsi che sia potuta nascere da una supposta storia dell'origine del linguaggio, e da una legge del linguaggio, ugualmente supposta.

D'una restrizione e d'una necessità, imposte arbitrariamente alla Declinazione.

Dobbiamo anche qui contradire al C. de Tracy: cosa che abbiamo sempre fatta finora con dispiacere, e contro voglia; ma qui, in certa maniera, più del solito, perché è il solo che, su questi punti, troviamo per avversario.

Ecco ciò che afferma sul primo di questi punti. Quando si pronuncia il nome d'un essere qualunque, si può voler dire se s'intende applicarlo attualmente a uno o a più oggetti della stessa specie; e è ciò che si chiama determinarne il numero; e se questi oggetti son maschi o femmine, o né l'uno né l'altro ; e è ciò che costituisce il genere. Abbiamo già qui due motivi per far variare le finali di questi vocaboli. Sarebbero anzi le soie cause possibili delle loro variazioni, se i nomi non fossero mai adoprati a altro, che a rappresentare i soggetti delle nostre proposizioni; ma s'è visto che spesso servono di complemento a degli altri nomi, o a degli aggettivi, o a de' verbi aggettivi; e in questi casi è utile il segnare la loro dipendenza da quest'altri, sia nomi, sia aggettivi, sia verbi. Ecco una terza ragione per dare ad essi diverse desinenze, che si chiamano casi(nota 76).

[T] Ora, né l'autore adduce alcun motivo per restringere a questi tre intenti le cause possibili della Declinazione, né, per verità, se ne potrebbe trovare alcuno. Quand'anche non ci fosse in nessuna lingua nessun esempio di variazioni di nomi per qualche intento diverso, non se ne potrebbe concluder nulla riguardo al possibile. Sarebbe, per esempio, evidente per sé, che si può voler dire se s'intende applicare un nome a un oggetto, o grande, o piccolo, della stessa specie, o se s'intende applicarlo a un oggetto di qualità inferiore; e, sarebbe non meno evidente che tali differenze speciali si possono indicare con delle variazioni de' vocaboli, né più né meno di quelle del numero e di quelle del genere; anche se non se ne vedesse un saggio di fatto. Ma si può anche vedere in quelle categorie alle quali i grammatici hanno dato il nome di diminutivi, d'accrescitivi, di peggiorativi. Casino, Casone, Casaccia, sono declinazioni manifeste di casa; intendendo sempre, sotto il nome di declinazione, tutti i cambiamenti che può ricevere la forma Primitiva del nome, come dice anche il C. de Tracy immediatamente prima del passo citato dianzi. E non è meno evidente che qualunque altra qualità che possa venir associata all'idea d'un nome, col mezzo d'aggettivi separati, lo potrebbe ugualmente col mezzo di declinazioni del nome stesso.

Veniamo ora alla declinazione che l'autor medesimo vuol che sia necessaria.

Quando il verbo,     dice,
è attributo     (cioè a un modo definito),
deve esprimere la relazione di concordanza col suo soggetto. A questo fine... deve segnar le persone; e è una funzione riservata esclusivamente a lui. E quindi la fa in tutte le lingue(nota 77). E altrove: E è indispensabile che segni le persone(nota 78).

La ragione per cui quel mezzo non è punto indispensabile, è quella generalissima, che s'è dovuta addurre più volte, cioè che l'effetto identico si può ottenere con un altro mezzo; che in questo caso, come ne' più, è l'aggiunta d'uno o di più altri vocaboli, con cui sia indicata la persona. E senza ricorrere a delle lingue singolari, si può vedere un saggio di ciò anche nelle lingue inflesse, quando, come accade in più d'una, una medesima declinazione è applicata a diverse persone: il che equivale in fatto a non indicarne nessuna. Così, in questa frase francese: Je lis et tu dors, tanto l'uno quanto l'altro verbo segnano indifferentemente, e la prima e la seconda; e nessuno potrebbe intendere chi legga e chi dorma, se le persone non fossero determinate da' due pronomi. Così, in italiano, la dizione sono segna ugualmente la prima persona del singolare e la terza del plurale, del verbo Essere; e è, per conseguenza, come se non fosse declinata. Per esempio, in questa frase “ Ci sono più città in Italia ” quella dizione, la sola che sia declinata, non concorre a formare un senso complessivo, se non perché un altro vocabolo determina il suo.

Conclusione [U] Credo d'aver pienamente dimostrata l'insussistenza delle leggi volute imporre a certi vocaboli dal Beauzée e dal C. de Tracy, relativamente alla declinazione. Devo ora confessare d'avere, in far ciò, avuta anche una seconda intenzione, ch'era quella di far nascere in qualche lettore il pensiero d'esaminare con quanta ragione si creda da alcuni scrittori moderni, e principalmente francesi (tra i quali que' due sono de' più accreditati) sia stata ritrovata una Grammatica generale, o, come dicono anche, filosofica: cioè una scienza delle leggi del linguaggio comuni a tutte le lingue, perché dipendenti da delle relazioni necessarie del linguaggio medesimo con delle leggi del pensiero.

Non già che gli errori particolari di chi espone o applica una dottrina siano una ragion sufficiente per dubitare della sua verità; ma, nel fatto presente, mi pare che gli errori, se non sono una conseguenza necessaria della dottrina, abbiano però un'origine comune con essa. Infatti, tutte le leggi arbitrarie che c'è occorso di discutere in quest'appendice, dipendono dalla tacita supposizione, che tutti i vocaboli di qualunque lingua siano naturalmente distinti e scompartiti in tante classi diverse, chiamate Parti dell'orazione, o del discorso; ognuna delle quali sia esclusivamente propria a significare una data modalità degli oggetti dei pensiero, o, come dicono, a fare una funzione speciale e distinta. E su questa medesima supposizione è fondata la così detta Grammatica generale(nota 79).

Ma il nome di Parti dell'orazione non era forse solenne da secoli? Non erano esse state, già nell'antichità greca, oggetto delle ricerche di diversi filosofi? e non furono poi, senza interruzione, la base, o, dirò così, l'ordito delle grammatiche positive e speciali di tutte le lingue europee, antiche e moderne, e dell'altre lingue più note in Europa? Quale fu dunque la scoperta, per cui la Grammatica di Porto–Reale acquistò, e conserva, la reputazione d'aver fondata o almeno iniziata una nova scienza? Per rispondere con chiarezza a questo quesito, ci convien prima osservare con qual ragione siano state formate delle classi grammaticali di vocaboli, e dir qualcosa de' lavori, sia filosofici, sia grammaticali, su questa materia, che precedettero l'opera in questione.

E riguardo al primo capo; che in molte lingue ci siano de' vocaboli, [V] i quali, significando essenze diverse, o anche opposte, hanno tra di loro una somiglianza d'un altro genere, in quanto significano anche una modalità del pensiero, comune a queste essenze medesime, è un fatto manifesto. Un esempio spiegherà la cosa, non a fondo certamente, ma quanto basta all'intento attuale. Se a un uomo illetterato, e che non abbia mai sentito parlare di Parti dell'orazione, si dice su una filza di vocaboli, come cielo, acqua, terra, albero, casa, città, uomo, di quelli, insomma, che si chiamano nomi, quest'uomo, non avendo alcuno stimolo a pensare in essi altro che delle pure e astrattissime essenze non vedrà in que' vocaboli altro che diversità. Se poi a questi se n'aggiungano altri, come giorno e notte, certezza e dubbio, riso e pianto, timore e speranza, bianco e rosso, l'uomo illetterato vedrà in essi rispettivamente, non solo della diversità, ma anche dell'opposizione, e non altro. Ma se a quest'uomo, che suppongo anche non ottuso, si dirà poi su un'altra serie di vocaboli, come parlo, penso, dormo, vedo, e anche rido, piango, credo, dubito, temo, spero, aggiorna, annotta, biancheggia, verdeggia, cioè di quelli che si chiamano verbi, quest'uomo eccitato a confrontarli coi primi, sarà condotto e come costretto a avvertire una differenza speciale tra i vocaboli delle due serie, e quindi una speciale somiglianza tra quelli di ciascheduna. E se gli si dirà che gli uni si chiamano nomi, e gli altri, verbi, potrà annettere a ognuna di queste denominazioni un concetto che non saprebbe certamente definire, ma che saprà applicare a proposito ne' casi in cui quella differenza e quella somiglianza siano più manifeste. Così, venendogli, per esempio, proposti i vocaboli amore e amo, non esiterà, malgrado l'affinità dell'idee che esprimono, a collocarli separatamente, l'uno tra i nomi e l'altro tra i verbi. S'aggiunga poi che, in più o meno vocaboli delle lingue suddette, ci sono alcune forme estrinseche più o meno distinte, più o meno costanti, le quali servono in molti casi a indicare, non già con assoluta certezza, ma spesso con una grandissima probabilità a qual serie que' vocaboli appartengono. E di più queste forme ricevono delle variazioni che servono a associare, anche con minore incertezza, all'idee principali significate da' rispettivi vocaboli diverse idee accessorie, come di quantità, di tempo, di persone, e di varie relazioni.

Riguardo poi al secondo capo, era naturale che tali fatti provocassero, a suo tempo, l'attenzione e le ricerche de' filosofi, e che questi filosofi fossero greci.

I loro scritti, ne' quali una tal materia era trattata ex–professo, sono periti; ma dalle notizie, quantunque compendiose, e non in tutto concordi, che n'hanno date vari autori venuti dopo, si può ricavare un concetto sufficiente di quelle dottrine: dico sufficiente riguardo all'intento comparativo, per il quale n'abbiamo a parlare. Quelli che n'hanno fatta una menzione un po' più particolarizzata, sono, se non m'inganno, Dionigi d'Alicarnasso, Quintiliano e Prisciano.

[X] Ecco cosa ne dice il primo. Teodette e Aristotele e gli altri filosofi del loro tempo, stabilirono tre prime parti dell'orazione: i nomi, i verbi e le congiunzioni. Quelli che vennero dopo, e principalmente i capi della setta stoica, le portarono a quattro, staccando gli articoli dalle congiunzioni. I susseguenti ne fecero cinque, separando gli appellativi dai nomi. Altri, separandone anche i pronomi, fecero di questi una sesta parte dell'orazione. Altri poi divisero gli avverbi dai verbi, le preposizioni dalle congiunzioni, e i participi dagli appellativi. Alcuni finalmente accrebbero ancora il numero delle parti suddette, con delle nove divisioni, di cui sarebbe lungo il parlare(nota 80).

Nel trattato De Interpretazione(nota 81), al quale allude evidentemente il passo citato, Aristotele pone solamente il nome e il verbo come elementi necessari all'enunciazione, ossia all'affermare e al negare, che è quanto dire, alla proposizione(nota 82). E già Platone aveva detto il medesimo in altri termini; cioè che l'unione del verbo col nome, congiungendo un'azione con una cosa, forma la prima, ossia la più elementare orazione(nota 83). Prisciano attribuisce questa medesima osservazione a de' filosofi, che chiama dialettici, senza nominarne, alcuno. Le parti dell'orazione, secondo i Dialettici,     dice,
sono due, il nome e il verbo; perché riunite, bastano a fare una proposizione intera.     Aggiunge poi che,
secondo gli Stoici, le Parti dell'orazione erano cinque
, attribuendo ad esse anche l'appellazione, come fa anche Diogene Laerzio(nota 84). E segue enumerandone altre, che dice essere state messe in campo da diversi, e greci e latini, de' quali non dà né il nome, né altra notizia(nota 85). Quintiliano concorda con Dionigi nell'attribuire le tre prime a Aristotele e a Teodette; e dice poi che questo numero fu accresciuto poco a poco da' filosofi, e dagli stoici principalmente; e quindi, senza dir quante e quali fossero da attribuirsi o a loro, o ad altri, ne enumera fino a dodici(nota 86). Non occorre entrare in maggiori particolari; perché non ci si troverebbe nulla d'essenziale alla natura di quel lavoro.

Ciò che in esso ci par che meriti maggiore osservazione, è la mancanza d'ogni intento sistematico. Ci si vede bensì un progresso, o piuttosto un aumento successivo, ma occasionale e, si può dire, empirico; un'analisi continua, ma che non è, né lo svolgimento, né la ricerca d'una sintesi. Da principio, due specie di dizioni, nome e verbo, osservate a parte, e levate, per dir così, fuori della massa comune, come aventi un'attitudine particolare, unica, incomparabile; e senza che in questa osservazione apparisca punto l'intento di principiare una classificazione. Dopo, sotto il nome di congiunzione, un monte, più che una classe, delle dizioni che, significando un nesso o una relazione qualunque tra diverse idee, servissero a esprimere de' concetti più vasti, più complessi, più circostanziati. E s'è veduto come il numero di quelle classi andasse crescendo di mano in mano che si notava una qualche differenza tra ì vocaboli dell'una o [Y] dell'altra. Qual fosse poi, tra queste diverse classi, la somiglianza, per la quale si dava ad esse una medesima denominazione; o in altri termini, qual fosse, insieme e in fondo alle loro rispettive essenze speciali, un'essenza comune; o in altri termini ancora, di qual genere fossero specie; se, a quel modo che quelle diverse attitudini, e la parte che tengono nell'espressione del pensiero, si potevano considerare come idealmente distinte e separate, così fossero, in ogni caso, distinte e separate ne' vocaboli, dimanieraché in ognuno di essi ne fosse necessariamente attuata una, e quella sola; e, per conseguenza, ciaschedun vocabolo non facesse e non potesse fare se non uno di quegli ufizi; se questa, dico, fosse una condizione necessaria del linguaggio, sicché, per la sua natura medesima, non fosse possibile alcun altro mezzo capace di produrre quell'effetto, e quindi una tal distinzione dovesse trovarsi in qualsisia lingua; erano questioni che que' filosofi avrebbero dovute proporsi, se il loro assunto fosse stato d'arrivare a una teorica generale delle relazioni del linguaggio con gli oggetti del pensiero. Ma, nel processo, nel metodo delle loro ricerche (se metodo si può chiamare) nulla indica un tale intento d'universalità; e nemmeno che mirassero a ridurre a un tutto, cioè a una serie intera, a un numero certo e stabile, le parti dell'orazione che credevano distinguere nella loro lingua. Anzi, non l'avrebbero potuto, senza ascendere a delle considerazioni generali sulla natura e le leggi generali del linguaggio; giacché, come mai condurre un tal lavoro senza una ragione inerente ai vocaboli, in quanto vocaboli? e come mai immaginarsi una ragione de' vocaboli che valesse per una lingua sola? Se a qualcheduno de' filosofi di quel tempo, che parlarono, in qualunque modo, di parti dell'orazione, fosse potuto venir in mente di ordinarle in un complesso scientifico, pare che Aristotele avrebbe dovuto esser quello. Ma dagli scritti che rimangon di lui appare tutt'altro. In quello citato dianzi, non si parla che del nome e del verbo, ma per un'attitudine, come s'è accennato allora, particolare ad essi, e con l'intento di farne quasi una categoria unica e sui generis, piuttosto che due tra diverse categorie di vocaboli. Nella poetica poi nomina quattro di quelle che furono dette parti dell'orazione, ma mettendole a fascio con dell'altre cose eterogenee, e con una incompatibile. Ecco quell'enumerazione: l'elemento (la lettera), la sillaba, la congiunzione, il nome, il verbo, <l'articolo,> il caso e finalmente l'orazione medesima(nota 87). [Z] Dopo que' filosofi, furono aggiunte alla lista altre parti dell'orazione; ma non si potrebbe dire con fondamento se, e quali, fossero un ritrovato, o d'altri filosofi, o di grammatici; perché, da una parte, quantunque questi (i latini principalmente) ce n'abbiano lasciata una lunga enumerazione (Prisciano ne conta fino a quattordici)(nota 88), non fanno alcun cenno di ciò; e, dall'altra, non c'è nulla nell'intrinseco, per dir così, del lavoro medesimo, che dia lume per fare un tal discernimento.

E è sempre lo stesso suddividere, e per motivi d'ugual valore: sicché, se questo discernimento non è ora possibile, non è neppur necessario.

Ciò che ci occorre d'osservare, riguardo a' grammatici, è che le parti dell'orazione non erano per essi, come per i filosofi, un semplice oggetto di ricerca speculativa, ma un mezzo per un intento pratico; e un mezzo affatto ragionevole, perché, e proporzionato e limitato a quell'intento. Ciò che si proponevano non era altro, infatti, che di raccogliere in un complesso possibilmente ordinato i fatti grammaticali delle rispettive lingue; cioè gli espedienti usati in esse per significare modi e relazioni d'idee. Ora, nelle diverse serie di vocaboli ne' quali si trovasse la ragion composta che s'è detto, d'una attitudine metafisica, più o meno somigliante, e d'una maggiore o minore somiglianza di forme estrinseche, trovavano i grammatici una materia predisposta, l'indizio d'un ordito per ridurre in un certo numero di classi la farraggine de' vocaboli, e per indicar così le consuetudini o, come dicono, le regole di molti alla volta; senza di che la cosa non sarebbe stata possibile; giacché come fare un tal lavoro sopra ciaschedun vocabolo? Vuol forse dire che fossero riusciti a distribuire, per delle ragioni definitive e esclusive, in tali e tante classi, tutti i vocaboli di quelle lingue? No davvero; ma né i grammatici pretendevano una cosa simile, né, per il loro speciale, come s'è detto, e limitato intento, ce n'era bisogno. Che, per esempio, certi vocaboli chiamati participi dovessero appartenere alla classe del verbo, come volevano alcuni, per la ragione che non avevano alcuna posizione loro propria, a differenza dell'altre parti dell'orazione; ma erano, Per essenza, derivazioni del verbo, il quale entrava sempre e espressamente in essi, come nelle sue inflessioni; e senza la presenza del quale non avrebbero avuto alcun significato(nota 89); o dovessero questi participi [Abis] esser riguardati come una specie de' nomi chiamati appellativi, facendo lo stesso ufizio di quelli, come leggente e lettore, amante e amatore; o dovessero costituire una parte da sé, perché dall'esser verbi gli escludeva l'aver le forme de' generi e quelle de' casi, e dall'esser nomi l'aver quelle de' tempi(nota 90); che quegli stessi nomi detti appellativi dovessero anch'essi costituire una parte dell'orazione, perché, a differenza de' nomi propri, significavano de' generi di cose; o dovessero esser messi con quelli perché significavano ugualmente cose, sia corporali, sia incorporali, sia sostanze, sia qualità(nota 91); che i vocaboli detti infiniti s'avessero a considerare come modi del verbo, perché ricevevano le note de' tempi, o come nomi, cioè come i nomi de' verbi medesimi, perché fanno lo stesso ufizio de' nomi, e non c'è differenza tra il dire: è utile il leggere, o è utile la lettura (nota 92); queste e altre simili diversità d'opinioni non disturbavano in nulla d'essenziale il lavoro de' grammatici, ch'era d'indicare le regole positive di que' vocaboli, come di tutti gli altri. E in questo i grammatici si trovavano d'accordo senza fatica, perché seguivano tutti una medesima guida, cioè l'Uso: sfido a prenderne un'altra per comporre delle grammatiche positive. Chi avesse messi que' vocaboli con cert'uni, e chi con cert'altri, e chi da per loro, dovevano poi dir tutti a un modo se fossero o non fossero declinati, e in che forma, e come s'accompagnassero con degli altri vocaboli, e il rimanente. E questo essere, riguardo alla pratica, una cosa indifferente, fino a un certo segno, il distribuire i vocaboli in una maniera piuttosto che in un'altra, fu cagione che, a un certo tempo, i grammatici s'appigliassero all'espediente d'andar dietro a uno di loro. Cosi i grammatici latini venuti dopo Donato, adottarono in generale le otto parti stabilite da lui(nota 93). Ma è da notarsi che Donato medesimo, dopo aver enunciate le parti suddette, aggiunge: Molti ne voglion di più, molti di meno(nota 94); quasi dicesse: Io non pretendo che questa mia classificazione sia fondata sopra una ragione assoluta, dimanieraché non si possa trovare alcun motivo plausibile, per proporne un'altra: l'ho prescelta solamente come quella che m'è parsa la più adattata a aggregare e scompartire in tante serie i vocaboli latini, secondo le loro più importanti e più sensibili affinità, sia di significato, sia di regole. Presso i grammatici greci erano ugualmente prevalse otto parti dell'orazione, stabilite, come si crede, da [Bbis] Aristarco il Grammatico, che differivano dalla classificazione latina in quanto avevano l'articolo di più, e l'interiezione di meno(nota 95).

Anche qualche grammatico latino (oscuro, del rimanente) escluse l'interiezione, come un Umbrio Primo, citato da Sosipatro Carisio(nota 96), e, molto più tardi, l'autore della Grammatica stata attribuita per un pezzo a sant'Agostino(nota 97). E, se non m'inganno, la classificazione di Donato non fu contradetta in alcuna altra parte, finché visse la lingua latina, e per molto tempo dopo. E una prova singolare del suo predominio sulle menti si può vedere nel trattato intitolato Grammatica speculativa di Giovanni Duns, più celebre sotto i nomi di Scoto e di Dottor sottile. Il titolo annunzia apertamente un intento filosofico; e l'uomo era il fondatore d'una scola filosofica e teologica, che è quanto dire, un uomo portato a concepir le cose in un modo suo. Ora, in quel trattato, dopo aver parlato in generale de' modi di significare, che distingue in modo essenziale generalissimo modi essenziali subalterni generali, modi subalterni meno generali, modi specialissimi, modi accidentali, passa addirittura ad applicar quella teoria al nome, poi al verbo, e via via all'otto parti di Donato, né più né meno; senza premettere per qual ragione voglia quelle e non altre, senza far nessun cenno delle varie opinioni intorno a ciò, senza dir neppure cosa intenda per parti dell'orazione(nota 98); dimanieraché quel novo e artifizioso edifizio filosofico è fondato sull'autorità sottintesa, e costrutto sul metodo arbitrario d'un grammatico. Molto tempo dopo, cioè nel secolo decimoquinto, Lorenzo Valla escluse dalle parti dell'orazione l'interiezione(nota 99), nel seguente il Sanzio escluse, e questa e il pronome(nota 100); nel decimosettimo, l'autore d'un trattato Della lingua toscana, che fu celebre e non è ancora dimenticato, Benedetto Buommattei, propose un cambiamento più essenziale, accrescendo il numero delle parti dell'orazione, fino a dodici. Né ci siamo curati,     dice,
che gli altri quasi tutti non ne voglian conceder più d'otto, mossi, come si vede, da una certa superstiziosa ostinazione (sia detto con pare e riverenza loro), che gli autori più antichi hanno stabilito tal numero(nota 101). Tali proteste e proposte, e se ce ne furono dell'altre, non impedirono che quella classificazione fosse non solo mantenuta ne' trattati sulla lingua latina che si continuarono a comporre dopo ch'essa ebbe perso quell'Uso che costituisce la vita delle lingue; ma che fosse anche applicata a molte grammatiche delle lingue moderne.

[Cbis] Da questi cenni sul lavoro di tante menti in così diversi tempi e nazioni, intorno alle parti dell'orazione, non vogliamo certamente concludere che in esso non si veda un certo quale intento filosofico, in quanto, e nel formar le varie classi, e nel collocare in quelle i vocaboli, si contemplavano anche, almeno implicitamente, delle relazioni della parola con gli oggetti del pensiero: cosa, del resto, quasi inevitabile(nota 102). Crediamo bensì di poter concludere ciò che avevamo accennato, cioè che quelle osservazioni rimasero staccate, che, anche quando cogliessero in qualche vero parziale, non arrivavano e, non tendevano neppure a qualcosa di necessario insieme e universale, non erano legate e subordinate a un principio relativamente supremo, nel quale tutte le diverse relazioni della parola con gli oggetti del pensiero avessero una ragione comune. E in questo fu veramente novo e notabile l'assunto de' due celebri scrittori francesi: assunto espressamente dichiarato nel titolo stesso della loro opera: Grammatica generale e ragionata, che contiene i fondamenti dell'arte di parlare, spiegati in un modo chiaro e distinto; e le ragioni di ciò che è comune a tutte le lingue, e delle principali differenze che ci s'incontrano. Importa ora d'osservare con quali argomenti abbiano creduto di ridurlo ad effetto.

La maggior distinzione,     dicono,
di ciò che accade nel nostro spirito è che ci si può considerare, e l'oggetto del nostro pensiero, e la forma o la maniera dei pensiero medesimo.

Su questa dottrina e sulla teoria più generale, delle operazioni dell'intelletto, dalla quale è dedotta, non è necessario di far qui alcuna osservazione; perché la nostra difficoltà riguarda solamente l'applicazione che i dotti autori ne fanno al linguaggio. Ed è questa: Segue da ciò, che, avendo gli uomini bisogno di segni per indicar ciò che accade nel loro spirito, la distinzione più generale de' vocaboli dev'essere che gli uni significhino gli oggetti de' pensieri, e gli altri la forma o il modo de' pensieri medesimi(nota 103).

[Dbis] Oso credere che chiunque ci voglia riflettere troverà qui una supposizione sostituita a una ricerca; val a dire uno di quegli errori di ragionamento, che, in qualunque parte d'un sistema s'introducano, lo fanno deviare, più o meno, dal vero; messi per fondamento al sistema medesimo, gli levano anticipatamente ogni ragion d'essere. Che il linguaggio deva avere una corrispondenza con ciò che accade nella mente, non c'è dubbio; è certo ugualmente che nel linguaggio ci dev'essere un mezzo, o de' mezzi adattati a ciò; ma per poter affermare che questo mezzo abbia a esser necessariamente una distinzione de' vocaboli, non basta quella simmetria estrinseca tra le due cose, che dà nell'occhio alla prima; bisognerebbe riconoscer tra di loro un nesso essenziale, e che escludesse la possibilità d'ogni altro mezzo. Ora, chi mai vorrebbe affermare a priori che repugni all'essenza del vocabolo di poter significare promiscuamente, e gli oggetti de' nostri pensieri e la forma de' nostri pensieri?(nota 104). Ma che dico? gli autori medesimi, dopo aver detto che i vocaboli della seconda categoria significano la forma e la maniera de' vocaboli,     soggiungono:
quantunque spesso non la significhino sola, ma [Ebis] insieme con l'oggetto, come faremo vedere. E nel far quest'osservazione, non badarono all'avvertimento che c'era riposto; cioè che i fondamenti dell'arte di parlare dovevano esser cercati altrove che in una distinzione de' vocaboli in due categorie. Ciò che indusse e fece persistere in un tale errore que' due valent'uomini, fu, se non m'inganno, da una parte, l'autorità d'una consuetudine antica e generale, e, dall'altra, la disposizione, non rara anche tra gl'ingegni scelti, a credere con troppa facilità d'aver trovata una materia bastante a stabilire un principio.

Tutte le grammatiche delle lingue più note erano fondate (però con l'intento speciale e limitato che s'è detto) sopra una o un'altra divisione de' vocaboli in parti dell'orazione; staccate però e senza alcuna dipendenza da un principio comune. C'era accordo nell'ammettere tacitamente l'idea d'una classificazione de' vocaboli; i dissensi non cadevano che sulla maniera d'attuarla. Poté quindi parere che quel tacito accordo fosse l'indizio d'una condizione necessaria del linguaggio; e che la filosofia, per fare il suo ulteriore e più alto ufizio, non avesse altro che a mover di là, per trovarne la prima e generale ragione ne' fatti dello spirito; e, con quella, riconoscere e stabilire in un modo naturale, le diverse classi de' vocaboli.

Quelle che essi credettero di poter stabilire, erano le otto celebri di Donato, più l'articolo; e non venne loro in mente che il latino non l'aveva; e che quindi la loro classificazione non corrispondeva in questa patte all'assunto di trovare ciò che è comune a tutte le lingue.

Non importa di cercare per quanto tempo, e fino a che segno, quella divisione de' vocaboli in due gran generi sia stata adottata dagli scrittori di Grammatica generale, venuti dopo. Ciò che fa al caso è che tutti, per quanto io sappia, si trovan d'accordo coi due che furono chiamati i suoi fondatori, nel prender le mosse da quella anteriore e principale supposizione che ogni vocabolo faccia esclusivamente un suo ufizio proprio, e che tutti i vocaboli, a ragione di questi rispettivi ufizi, [Fbis] siano naturalmente divisi in diverse classi. E l'ho chiamata, fino da prima, supposizione; perché né alcuno vorrà dire che sia una cosa evidente per sé; né alcuno, ch'io sappia l'ha dimostrata vera. Tutti quegli scrittori, o almeno i più noti, dopo aver premesse dell'osservazioni generali sulla necessità di dedurre le leggi del linguaggio dalle condizioni del pensiero, vengono addirittura a classificare i vocaboli in parti dell'orazione, senza pensare che ci si trovava di mezzo la questione, essenziale in quel caso, se i vocaboli siano capaci d'una classificazione scientifica, cioè intera e dedotta da una ragione comune a tutti(nota 105). Anzi(se anche qui non m'inganna la mia ignoranza), non ci fu alcuno che affermasse la cosa formalmente, fuorché il Beauzée, che disse in un luogo: Ogni vocabolo appartiene a una classe(nota 106); e in un altro, più espressamente: Ogni vocabolo individuale è una parte dell'orazione(nota 107); e l'uno e l'altro nel corso dell'opera, e per incidenza. Si potrebbe credere che il C. de Tracy volesse uscire da quella strada, laddove, enunciando espressamente un pensiero che aveva accennato altrove, dice: Ripeto che poco m'importano le classificazioni, purché le funzioni siano conosciute bene(nota 108). Ma, quel, per altro ingegnoso scrittore, non badò che la classificazione de' vocaboli non era una cosa da guardarsi dal lato d'una maggiore o minore importanza; ma si doveva esaminare se fosse fondata o no; e che ciò importava davvero, giacché tutta quella che si chiamava Grammatica generale si fondava su di essa. Era quindi troppo facile che quel consenso relativamente generale lo tirasse a dare alla classificazione l'importanza che gli pareva di non volere.

Così avvenne infatti; giacché qual maggior conto se ne sarebbe potuto fare, che stabilire su di essa delle leggi predicate necessarie e universali, come s'è visto in questa stessa appendice? [Gbis] Non c'è da maravigliarsi che, all'atto pratico, i trattatisti di Grammatica generale siano stati spesso discordi, sia nel distribuire i vocaboli nelle diverse classi, sia nel formare le classi medesime.

Abbiamo avuta l'occasione d'osservare più sopra, come il C. de Tracy medesimo volesse che, in certi casi, il vocabolo Excepté fosse una preposizione, e il Beauzée, che non fosse altro che un participio. E sarebbe una storia lunga e superflua quella di tant'altre questioni dello stesso genere; val a dire se tali o tali altri vocaboli s'avessero a collocare tra gli avverbi, o tra le preposizioni, o tra le congiunzioni, o tra' nomi, o tra' pronomi, o tra' verbi. Questioni non mai sciolte e, oso dire, insolubili, perché con esse si cercava ne' vocaboli una qualità supposta arbitrariamente, qual è l'attitudine esclusiva a fare un ufizio grammaticale. Quindi ognuna delle parti poteva avere una ragione; nessuna poteva aver ragione.

Scarto 1

Stesura precedente dei Cap. 1, paragrafi 66–326


[8] ma molti o pochi che siano, son fuori della questione. E è naturale che le cose peculiari a noi milanesi, e note a noi soli non abbiano che un nome milanese: e in que' casi, non c'è ragion d'esitare: si nomina la cosa col nome milanese; come in nessuna lingua d'Europa si esita a nominar con vocaboli chinesi, indiani, peruviani, malesi, cose esclusivamente chinesi, indiane, peruviane, malesi. Parlo di cose che, anche senza esser mai stati nella parte d'Italia, di dove è quel presentato, sappiam di certo che son comuni là, come qui: cose comuni, dico, e modificazioni e relazioni di esse, comuni ugualmente, e, per dir così, necessarie, inevitabili: casi giornalieri, operazioni abituali, giudizi e sentimenti, de' quali la somiglianza de' successi umani, e la somiglianza degli animi umani, rendon la ricorrenza frequente per tutto; che dirò di più? Oggetti materiali, sia dell'arte, sia della natura; cose che vediamo ogni momento, girando per le strade, cose che abbiamo in casa, che fanno parte della casa medesima; ordigni, arnesi, mobili, vestiti, cibi, animali, piante, e troppe altre cose, comuni, dico, in tutta Italia.

Una lingua, m'avete detto (e ve ne ringrazio di nuovo) non è altro che un mezzo d'intendersi, uomini con uomini.

Posto ciò, vi domando se il cercare un mezzo d'intenderci, italiani con italiani, uguale, per quanto è possibile, a quello che abbiamo d'intenderci, milanesi con milanesi, bolognesi con bolognesi, napoletani con napoletani, e via discorrendo; un mezzo di dir tutti nella stessa maniera ciò che diciamo tutti in cento maniere diverse, sia cercare una cosa inutile, o una cosa che abbiamo già.

Permettetemi qui un'osservazione incidente, ma che ci condurrà alla stessa conclusione. Quante volte non si dice che è una vergogna (lasciando di parte l'inconveniente) che, tra civili, colte, dotte persone, si parli milanese a Milano, bolognese a Bologna, napoletano a Napoli, e lo stesso si dica di tant'altri idiomi, o dialetti, o come si vuole, più o meno sconosciuti, strani, barbari fuori d'una parte più o men circoscritta d'Italia, e assolutamente, e per universale consenso, rifiutati ognuno da tutte le altre parti d'Italia! E perché dunque si fa? E è un capriccio? una preferenza data senza cagione a ciò che pur confessiamo non esser bello? Sarebbe un capriccio troppo strano, ma la cagione c'è benissimo; anzi l'abbiam già veduta. E è che se noi milanesi (e dite il simile di tutti quelli che, come noi, parlano qualcheduno di questi tali idiomi) volessimo smettere, ora com'ora, il milanese, cioè un mezzo d'esprimerci che possediamo davvero, e adoprarne in sua vece uno di cui non possediamo che una parte, e senza neppure conoscer con certezza, quanta né quale, ci troveremmo a un tratto sprovvisti, non dico soltanto (che è pure qualche cosa, anzi più di quello che può parere a prima vista) d'una quantità d'espressioni vivaci, argute, energiche; ma d'una quantità di termini usualmente necessari; ci troveremmo sempre nella condizione in cui, come v'ho detto o rammentato poco fa, ci troviam qualche volta. E per ciò non è da sperare che il costume di servirsi di tali idiomi cessi, né diminuisce, se non in proporzione che si possieda in comune un idioma, un linguaggio, una lingua, come volete, la quale sia atta a prestar gli stessi servizi, e con la quale, milanesi, piemontesi, veneziani e tutti coloro insomma che sono nella condizione sopra detta, si trovino aver bensì mutato il modo, ma non scemata la facoltà d'esprimersi. Ma cosa dico, non è da sperare? come se fosse da desiderare che degli uomini s'accordino nello strano proposito di buttar via un mezzo proporzionato al bisogno, per prenderne uno, relativamente [9] a loro, mancantissimo; e a qual bisogno! al più generale, al più frequente, anzi continuo, a quello che è legato con tutti i fatti sociali, e inerente alla società medesima, il discorso.

Sarebbe proprio mettere il carro avanti i buoi. Come dunque non è da sperare, così non è neppur da volere che il costume suddetto cessi né diminuisca, se non in proporzione che si possieda una lingua in comune. Ma per possederla, bisogna acquistarla chi non l'ha, come, per esempio, noi due; e per acquistarla, val a dire per acquistarne tutti una, bisogna prima andar tutti d'accordo nel riconoscerne una, e dire a una voce: è questa. E quando, in vece, sotto il nome di lingua italiana son proposte molte cose diverse; quando alcuni dicono: è questa; alcuni: no signore, è quest'altra; e tutti gli altri non dicon niente; vedete bene che il preliminare più necessario è appunto quello che voi dicevate superfluo e peggio: cercare, esaminare e, se non si può far di meno, discutere qual sia questa lingua.

Ma io son venuto troppo presto alla conclusione. Non già che quel che s'è detto fin qui non basti per poterla dedurre logicamente; non già ch'essa non porti con sé una certa immediata evidenza. Ma la verità che si stabilisce nella mente, e ne fa sgomberare l'opinioni contrarie, e prevale nella pratica, non è tanto quella che s'è riconosciuta subito, quanto quella che s'è conosciuta adagio; non tanto quella che si vede al chiarore d'un baleno, quanto quella che si considera alla luce dei giorno. Ed è quindi una fortuna per la nostra discussione, che voi, adducendomi diversi argomenti, m'abbiate dato occasione, e come imposto l'obbligo d'esaminare il fatto da altrettante parti.

Passeremo dunque al confronto che voi m'avete proposto, del fatto italiano coi fatti stranieri dello stesso genere.

Devo avvertirvi sinceramente che somiglierà molto a quello che s'è già fatto; ma il nostro scopo principale non è di divertirci; e la noia che potesse nascere dalla ripetizione sarà compensata dalla nuova e maggiore evidenza risultante da due prove diverse.

Ci troveremo di più il vantaggio di schivare una questione intempestiva. Ché, se mi fermassi qui, mi si potrebbe dire: si tratta d'una lingua; e voi me la paragonate con del dialetti. E per rispondere a questa obiezione, bisognerebbe esaminare se i dialetti siano o non siano lingue; o in altri termini, se tra quelle che si chiamano lingue, e quelli che si chiamano dialetti ci sia una reale differenza; e se questa tocchi l'essenza della cosa, o sia puramente accidentale. Questione la quale, sciolta senza esser mai stata regolarmente discussa, anzi neppure espressamente posta, è, presso noi, il nodo di tutte le dispute, e il fondamento di tutti i sistemi arbitrari su questa materia; e questione, per conseguenza, che si dovrà porte e discutere. Ma a questo non si potrà venire se non dopo aver visto qual sia la causa efficiente delle lingue, ciò che le fa essere: qui non si fa ancora altro che cercar qual sia il loro effetto vero, ciò che devon dare.

Una tale obiezione del resto (permettetemi anche qui un'Osservazione incidente, ma non oziosa) una tale obiezione è in sé tanto strana, che dovrebbe parere strano anche il temerla; poiché chi la facesse, verrebbe con questo a dire, a confessare che una lingua come l'intende, come la vuole, come se n'accontenta lui, è meno d'un dialetto; e in che? nell'aver mezzi di significare; che è [10] il proprio e generalissimo intento delle lingue. Ma i sistemi arbitrari non si prendon pena dell'intento generale delle cose; ciò che preme loro, è uno o un altro intento speciale, al quale riducono il tutto. E potrà essere un intento giusto e ragionevole; ma non s'avvedono che, senza il tutto, non si può ottener davvero nemmen quello: fanno come uno che, innamorato unicamente de' fiori, volesse far nascere fiori senza piante. Ma di questo altrove.

Da voi specialmente poi, parrebbe ch'io non dovessi temere un'obiezion simile, poiché l'avete anticipatamente sbandita, insieme con tant'altre, portando addirittura la questione al generale e all'essenziale, col dir che le lingue (riguardo al fine) non sono altro che un mezzo d'intendersi, uomini con uomini. E di più, ai sistemi voi professate di non dar retta, anzi di rigettarli tutti in un monte. Ma questo, per dirvi sinceramente quel che ne sento, è un impegno più facile a prendersi, che a mantenersi. Alla lunga le massime stabilite e sostenute ne' libri, passano anche a chi non si cura di que' libri; alla lunga l'attività comanda in questo mondo, e l'indifferenza subisce; e se non prende il tutto da nessuna dottrina, prende, per compenso, qualcosa da ognuna, cioè questa o quella qualunque cosa che possa, alla prima, parer verità; sia poi verità o apparenza. La mente, passatemi una similitudine, è come una fortezza, nella quale, se la verità non ci tien guarnigione, l'errore entra da tutte le parti. E non serve che ci sia dentro un buon generale, se è solo; non serve l'ammettere, il volere qualche principio vero; perché i principi veri, quando non si vuol dedurne le conseguenze più necessarie, lasciano l'accesso facile, e, dirò così, il posto vôto a conseguenze di princìpi contrari, e a que' princìpi contrari medesimi. Seguendo un sistema positivo, anche giusto, l'intelletto che non istia sull'avviso, può essere esposto più specialmente a certi errori: un sistema negativo (ché l'esclusione d'ogni sistema è essa medesima un sistema) espone più generalmente a errori d'ogni sorte.

Non sarà dunque stato inutile il confronto che s'è fatto, poiché essendo fondato sull'applicazione d'un principio posto da voi medesimo, e principio di senso comune, e d'immediata evidenza, non può, malgrado qualunque obiezione, non avere una sua forza; ma sarà ancor più utile un altro confronto, nel quale quella obiezione non possa neppure aver luogo, voglio dire un confronto dei fatto su cui discutiamo, con altri fatti, ai quali da tutti, in ogni occasione, e senza contrasto, si dà il nome di lingua.

Neque ita multae; ne pertimescas(nota 109). Non abbiate, dico, paura però ch'io voglia venirvi addosso con un'erudizione soverchiatrice, e farvene passare in rassegna un esercito. Ho le mie buone ragioni per contentarmi d'una sola; e per fortuna, l'argomento non ne richiede di più. Per farci conoscere se il mezzo d'intenderci che possediamo in comune noi italiani produca gli effetti essenziali d'una lingua, una lingua in cui li troviamo e li riconosciamo, serve quanto mille.

Supponete dunque che trovandoci noi due insieme a Parigi, e volendo profittar di quel soggiorno per impossessarci della lingua francese, e avendo fatta la conoscenza d'un uomo di garbo e compiacentissimo, pensiamo di farci aiutar da lui, [II] domandandogli, a molte per volta, le parole francesi che ci mancano, quelle cioè di cui sentiamo più la mancanza e il bisogno. Meno l'indiscrezione, vi par egli che sia un ritrovato strano, nuovo, capriccioso? un espediente che non abbia che fare col fine d'impossessarsi d'una lingua? So che non vi pare; dunque vo avanti, e suppongo (altra cosa che non vi par punto strana) che il brav'uomo ci dà queste parole; e fate conto, del genere di quelle che s'è detto nell'altra ipotesi. Noi le mettiamo in carta, di mano in mano, di maniera che alla fine se <ne> fa una bella lista. Né a voi, suppongo, né a me di certo, viene in mente di domandargli se son parole francesi veramente. A lui parrebbe una domanda dell'altro mondo; e volendo supporre che rispondesse sul serio, non è strano il supporre che potesse anche rispondere: – meno che inventar de' suoni a capriccio, per farvi uno sciocco scherzo, non potrei darvene altre che francesi, perché non ne conosco altre: lingue straniere non ne so nessuna; e degli idiomi particolari delle varie province, chiamati da noi patois, nessuno ugualmente –. E dei resto, se un dubbio simile ci fosse potuto nascere, sarebbe svanito al sentir quelle stesse parole adoprate dagli altri nello stesso senso. Di più, cercandole nel Vocabolario dell'Accademia francese, ce le abbiam trovate, la maggior parte: non dico tutte, perché un vocabolario non prende, né deve prender l'impegno di registrar tutta quanta una lingua.

Ritornati in patria, passato qualche tempo, un giorno che mi trovo da voi, capita improvvisamente il nostro parigino; e, dopo l'accoglienze oneste e liete, all'offerta che gli facciamo a gara, di servirlo in tutto ciò che sia in nostro potere, risponde: non abbiate paura che mi faccia pregare; perché avevo già fatto conto su tutt'e due–. E ci domanda se, per caso, avremmo serbata quella tal lista. Rispondiamo di si: ne mostra molto piacere, e dice che, volendo profittar del suo viaggio in Italia per impossessarsi della lingua italiana, ha pensato di chiederci la pariglia; e ci prega di restituirgli in tante parole italiane quelle che ci ha date in francese.

Chi deve rispondere, di noi due? Credo che sia lo stesso, perché non gli possiam dare che una risposta sola, cioè che, per quanto sia il nostro desiderio di servirlo in tutto e per tutto, alcune di quelle parole, gliele possiamo dare, altre no.

– S'intende, risponde lui: ogni paese, e, per conseguenza, ogni lingua ha le sue particolarità; e io non vi domando se non le parole che significan cose comuni a voi e a noi.

Bisogna rispondere che, anche di queste, non gliene possiamo dare che alcune.

Non potendo nemmen passargli per la mente che sian pretesti per ischivar la fatica, non sa cosa si pensare. – Come ! – dice: – non mi sapreste dire come si chiamino in italiano le tali e le tali cose ! – e ne nomina in francese una quantità di comunissime, e che sono sulla nostra lista, cominciando da tante che vede nella stanza in cui ci troviamo.

Vi sarà certamente accaduto più d'una volta di sentir qualcheduno de' nostri domandar come si chiami in italiano una cosa o un'altra, e qualchedun altro rispondere: per me crederei che anderebbe bene il tal vocabolo, poiché nel tal altro caso simile s'adopra il tal altro; ovvero: io direi così, [Í] con una derivazione naturalissima dal tal altro vocabolo; ovvero: c'è il vocabolo latino che, con una modificazione leggerissima, o anche tale quale, può far benissimo effetto in italiano, ovvero: perché non si potrebbe adoprare il vocabolo milanese, che suona bene, non ha una forma niente strana, e l'intenderebbe benissimo anche chi non è milanese? Ma a uno straniero, credo che non vi sentiate più di me, di dar delle risposte di questa sorte. Son vocaboli, e non progetti di vocaboli che ci domanda; e crede di domandarci la cosa più semplice, più naturale di questo mondo; perché, da una parte, crede, sa, sottintende che una lingua ha bensì più o meno vocaboli d'un'altra; ma che ogni lingua ha necessariamente i vocaboli significanti le cose di cui parlano giornalmente quelli che la possiedono; e dall'altra, suppone, appunto come voi, che noi due possediamo la lingua italiana. Lui non ci ha dato di queste risposte; e davvero saremmo stati freschi, col nostro desiderio d'impossessarci della lingua francese. Non ci chiede nulla di più di quello che ci ha dato, quando toccava a lui: vocaboli d'una lingua; e per lingua intende, come tutti gli uomini di questo mondo, una cosa che s'adopra, e non una cosa che si fa. Cioè si fa anche, e continuamente; e si può dire d'una lingua ciò che il gran Cuvier disse del corpo umano, che è come un vortice, che ogni momento perde, ogni momento acquista. In questo senso, dico, anche una lingua si fa, in piccolissima parte, a pochissimo per volta (e ciò per le condizioni essenziali e necessarie della cosa stessa, come vedremo altrove), ma, per dir così, continuamente, con l'entrarci di mano in mano qualche vocabolo nuovo. Ma quando si fanno questi vocaboli nuovi? o, per restringer la questione ne' suoi precisi termini, quando c'è bisogno di farli? Quando si voglia significar qualche idea nuova. Una lingua nella quale ci sia bisogno di creare, o (ciò che, relativamente al punto, è il medesimo) di prendere altrove de' vocaboli per significar cose delle quali si parla abitualmente, non dico: nessuno se l'immagina; ché, pur troppo, sarei smentito dal fatto; ma credo che nessuno abbia il coraggio di presentarla in atto a chi non è nelle singolarissime circostanze che posson farla immaginare, e accettar per lingua. E è un vantaggio che nasce in qualche caso dall'avere a discutere con degli stranieri, il trovarsi privi a un tratto dell'appoggio fallace d'un'autorità particolare e fattizia, e troppo particolare e fattizia per poterla fare accettare all'altra parte; e il non aver con quella in comune altro criterio, che il senso veramente comune.

[13] C'è un'altra risposta che potrebbe facilmente esser data, o piuttosto un'altra ragion di non rispondere, che potrebbe essere addotta, se la cosa passasse tra italiani e italiani. Essendoci in quella lista molti nomi di cose comuni, triviali e, come si dice, del vocabolario domestico, ci sarebbe molto pericolo di sentirsi dire: cos'andate a cercar codeste miserie? Una lingua è fatta per servire a usi ben più alti, più vasti, più importanti –. Ma anche questa (lasciando da parte, come considerazione affatto inutile, che le cose delle quali e voi e io non conosciamo il vocabolo italiano, non sono, pur troppo, di quella sola categoria) anche questa è una di quelle che a uno straniero non si dicono. Come dire: “ cos'andate a cercare? ” a chi, non sapendo, né potendo indovinare che significato convenzionale e arbitrario si possa dare in un paese al nome di lingua, e associando a questo nome le nozioni del senso comune, cerca a una lingua le parole che, come lingua, deve avere? Che n'abbia dell'altre per servire a degli altri usi più scelti, sarà benissimo; e meglio per lei. Questo, lui non lo nega, ma non ci pensa, perché infatti non ha ragion di pensarci: chiede quelle che, in quel momento, fanno per lui, quelle che gli pare e piace, e che quella lingua, se è lingua, deve avere. Miserie, quant'uno vuole; cose di poca importanza, se c'è chi, dopo averci riflettuto, lo voglia ripetere; ma cose (e lascio da parte anche qui, come considerazione ugualmente inutile, che le cose più comuni può qualche volta non solo venire in taglio, ma esser necessario di nominarle in qualunque più alto argomento) cose, dico, che ogn'uomo, il quale, o abitualmente, per favore delle circostanze, o in un caso particolare, per forza d'una particolare circostanza, intende per lingua una lingua davvero, sa, sottintende che ci devon essere in quella. Uno che sia appassionato per il canto, e innamorato della voce d'un cantante, può benissimo fare astrazione da tutti gli usi più comuni a cui quella voce serve naturalmente; può non pensarci, non parlarne, se non in quanto è adoprata a cantare; ma se sente dire a un altro, che quel cantante ha detta la tal proposizione, ha raccontata la tal notizia, non risponderà certamente: che proposizioni? che notizie una voce come quella è fatta per usi ben più alti, ben più nobili –. E poi che serve? quando noi chiedevamo al parigino quelle parole medesime in francese, che lui ci chiede ora in italiano, e allora (ci riflettessimo, o no) intendevamo per lingua una vera lingua, non ci passava neppure per la mente che ci potesse fare un'eccezion simile; e per la stessa ragione, ci parrebbe troppo strano di farla a lui.

Il meglio dunque, anzi la sola cosa che possiam fare, è, delle parole italiane che ci chiede, dargli addirittura quelle che sappiamo, e dell'altre confessargli che non le sappiamo.

– M'avete detto che gli stranieri si maravigliano del nostro disputare intorno alla lingua. Non vi par egli che questo in cui siamo capitati, si maravigli, e abbia un po' più ragione di maravigliarsi di trovare un fatto di questa sorte? – Non le sapete? – esclama: – com'è possibile? che non ne parlate mai <di> queste cose? Bisogna rispondergli che ne parliamo cento volte il giorno.

– Che mistero è codesto? – riprende: – ne parlate, e non sapete come si chiamino! Bisogna dirgli che le parole che adopriamo per nominarle non son quelle che vuol da noi.

– Come no? – riprende ancora: – che diavolo di parole sono? Bisogna rispondergli che son parole[14] milanesi.

“ Ora intendo ”, dice; “ma, in verità, non l'avrei mai indovinato. Sapevo bene che c'è un idioma milanese, e non mi sarebbe parso punto strano che voi altri, essendo nati, e vivendo in Milano, intendeste quest'idioma, che lo sapeste anche parlare; ma che vi mancassero i vocaboli italiani, non me lo sarei mai aspettato. E se mancano a voi altri, vuol dire, senza farvi un complimento, che mancano in questa parte d'Italia; giacché se ci fossero, se ci fossero, dico, nella maniera che i vocaboli sono in tutte le lingue, cioè con l'essere usati, come diamine avreste fatto voi altri, per riuscire a ignorarli? Ma poiché la cosa è cosi, vedo che invece dell'aiuto immediato che speravo da voi altri, devo restringermi a chiedervi direzione. Ditemi dunque (e questo non mi potrete rispondere che non lo sapete) ditemi dove posso farmi tradurre codesta lista in italiano; aver tutti gli altri vocaboli ch'io possa cercare, e che la lingua italiana deve aver di certo; dove, per esempio, girando per le strade, entrando nelle case, e segnando le cose che vedo, e di cui tutti parlano, possa saper come si chiamino in italiano. E per chiuder tutto in una parola, in quella che tutto comprende, ditemi dove posso trovare questa benedetta lingua italiana ”.

Vi sentite di rispondere anche a lui che è una domanda oziosa, inutile, superflua? Non credo; sicché coi vostro permesso, anzi secondo le vostre intenzioni, rispondo io, e gli dico: Facendoci una domanda alla quale, contro ogni vostra aspettativa, noi non possiamo risponder d'accordo, voi avete decisa una nostra questione, nella quale siete giudice, senza saperlo; perché lui s'è appellato a voi, dicendomi: “ domandatene agli stranieri, e sentirete ”; e io v'ho accettato con tutto il cuore. Siam dunque d'accordo noi due (giacché sapete che, per discordare intorno a una cosa, bisogna esser d'accordo su qualche altra) siam d'accordo nell'ammettere che c'è una lingua italiana. Ma, e qui nasce il nostro disparere, io fo a lui la domanda medesima che voi avete fatta a tutt'e due: dov'è, o, che è tutt'uno, qual è la lingua italiana.

E lui dice che è cosa superflua, anzi irragionevole l'occuparsi di ciò, perché questa lingua italiana noi la possediamo già; [15] e gli effetti lo dimostrano. Ora è appunto per aver conosciuti questi effetti che voi ci avete fatta una tale domanda.

Dico: per averli conosciuti; perché quello che n'avete visto, n'è un saggio piccolo bensì, ma fedele; e per quanto noi andassimo avanti a moltiplicare ognuno le prove della sua tesi, potremmo bensì accrescer la materia, ma non mutar la ragione dei vostro giudizio, Lui potrebbe dirvi su una gran quantità di vocaboli e modi di dire, che affermerebbe (e suppongo con tutta la ragione) esser noti e usati in tutta Italia; io, senza mai domandargli, né se molti di que' vocaboli e modi di dire siano noti e usati in tutta Italia perché appartengano di fatto a una lingua comune, o perché siano comuni a tutti i dialetti d'Italia; né se molt'altri siano noti e usati in tutta Italia, nella stessa maniera, in qualche parte usati veramente da tutta la popolazione, e in altre noti solamente ad alcuni; senza, dico, imbrogliar la questione preliminare con altre, importanti sì, ma intempestive; non farei altro che dir su dal canto mio un'altra gran quantità di vocaboli milanesi, pregandolo invano di darmi de' termini corrispondenti, e che gli bastasse l'animo di chiamare italiani, in qualunque senso. E s'intende sempre vocaboli e modi di dire significanti cose delle quali si parla abitualmente e inevitabilmente in tutta Italia. Ma io non voglio che conti per una vostra decisione espressa una parola che avete detta con tutt'altro intento, e senza sospettar che potesse esser presa per tale. Vi domando dunque formalmente se uno il quale sapesse e ignorasse del francese quelle tante e tali cose che avete visto che noi sappiamo e ignoriamo dell'italiano, direste che possiede il francese; vi domando se, con l'esperienza che avete di codesta vostra lingua, col senso che avete di ciò che è necessariamente una lingua qualunque, credete che noi due, e con noi tutti quelli che sono in una condizione uguale alla nostra, possediamo la lingua italiana; o se credete che, per possederla, abbiam bisogno d'acquistarla, e, per la prima cosa, di cercarla, giacché non possiam dirvi d'accordo qual sia.

Cosa vi pare che risponda? Ma forse potrete dire che, come accade spesso a chi fa ipotesi, io ho composta la mia nella maniera che tornava meglio al mio assunto; non già nella parte che riguarda noi altri: che lì è il fatto mero; ma nel supporre molto liberalmente, cioè arbitrariamente che il mio parigino ci sapesse somministrare addirittura tutti i vocaboli e modi di dire francesi che a noi venisse in testa di domandargli. Avete ragione: nessuno possiede tutta quanta una lingua; e quindi, per render l'ipotesi giusta, cioè per non metter nel fatto immaginato più di quello che c'è ne' fatti reali, bisogna supporre che noi, con la smania che avevamo d'imparar[16] parole francesi a bizzeffe, e di diversi generi, abbiam potuto domandargliene di quelle che lui abbia dovuto, come noi per l'italiano, rispondere che non le sapeva. Ma osservate di grazia due differenze essenzialissime: una tra lui e noi due; l'altra, tra lui e voi solo. La prima, che i vocaboli della lingua francese che mancano a lui, sono vocaboli significanti cose delle quali non parla. Non ha, come noi, un'altra lingua .... oh! scusate: m'è scappata questa parola, non rammentandomi che è un punto in questione, se il milanese, e gli altri che chiamiam dialetti, siano o non siano lingue; non ha, dirò dunque, come noi, un altro mezzo col quale sia avvezzo a nominar quelle cose, e a sentirle nominare. Non conosce, è vero, che una parte de' vocaboli che compongono la lingua francese: possedere una lingua non è più di questo. Ma ne conosce quella parte che significa le cose delle quali parla; e possedere una lingua è questo. Ed è questo che non possiam dire d'aver noi, riguardo all'italiano: dico noi due, e tutti quelli che, come noi, non solo non sanno, ma non pretendono nemmeno di saper nominare in italiano, se non alcune delle cose che nominano abitualmente, e tutti.

L'altra differenza è che, dopo aver confessato di non saper que' vocaboli, il nostro parigino può aggiungere: – però, giacché desiderate di conoscerli, e ci son di certo, poiché abbiamo le cose, li cercherò, e ve li saprò dire un'altra volta; e con quest'occasione, gli avrò imparati anch'io –.

Vedete voi qui un'altra condizion delle lingue, poter l'individuo trovare i vocaboli che mancano a lui, ma che la lingua deve avere? Condizione essenzialissima, e che non solo può esserci, ma c'è necessariamente in tutte le lingue; giacché come ci sarebbero, come si distinguerebbero le lingue, se non ci fosse una maniera di trovare i vocaboli di cui sono composte? Ecco perché al nostro straniero, il quale per lingua francese intende una lingua davvero, non vengono neppure in mente quegli strani ripieghi: io direi; si potrebbe dire; perché non si direbbe? Strani ripieghi davvero; che è bensì, ripeto, cosa ragionevole l'inventare o il prender da altri linguaggi i vocaboli, quando mancano; ma quando mancano a chi? All'individuo? Bella cosa sarebbero le lingue, se tanto più uno ne fosse padrone, quanto meno le conosce; se dovessero vivere de' diversi tentativi che diversi uomini facessero per dar loro quello che devon già avere, se son lingue.

Le lingue son complessi di fatti e non di possibili; di fatti limitati, senza dubbio; e perciò potrà anche essere accaduto qualche volta che il nostro parigino abbia dovuto risponderci: non l'abbiamo in francese un vocabolo che significhi codesta cosa. Ma questo è fuori della nostra questione; i vocaboli del genere di cui parliamo mancano a lui; ma sa, e n'ha detto la ragione, che non posson mancare alla lingua francese; e quindi il solo espediente che gli viene in testa, è il vero, il giusto, il naturale: chiederli alla lingua medesima.

Se mi domandate come fa, me la date vinta; giacché questo appunto è il soggetto della ricerca che vi propongo; [17] giacché la domanda ch'io vi facevo, e che voi dicevate oziosa e peggio, ma che lo straniero v'ha fatta ugualmente; la domanda: «qual è la lingua italiana?» equivale appunto a quest'altra: «come, dove, possiam trovare i vocaboli italiani che ci mancano, e che la lingua italiana deve avere, se è una lingua di questo mondo?».

Qui forse troverete strano ch'io venga a ribattere un'obiezione fondata su un argomento che voi non avete messo in campo; un'obiezione che avete anzi esclusa implicitamente, provocando voi medesimo il paragone con gli stranieri. Ma siccome un tale argomento è ammesso da molti, ed è di più espresso o sottinteso in qualcheduno de' sistemi più accreditati sulla lingua italiana, così il passarci sopra potrebbe parer che fosse un lasciare indietro una difficoltà importante.

Il paragone con la lingua francese, mi si potrebbe dire, non fa al caso, non prova nulla, perché le nostre circostanze sono diverse.

Come se la natura delle cose potesse, in nessun caso, dipendere dalle circostanze di chi se ne vuol servire! Un tal ragionamento è in sostanza uguale a quello che farebbe uno che, dopo aver parlato d'un suo diamante, cavasse fuori un pezzo di vetro, e dicesse: “ a cagione delle mie circostanze, questo è un diamante. Il mineralogista, il gioielliere, chiunque ha pratica di gioie, vi dirà a prima vista che non è un diamante; ma avrà giudicato in fretta e male, perché non si sarà fatto carico delle mie circostanze ”. Le vostre circostanze, gli si direbbe, possono far bensì che voi non possediate un diamante, ma non già che diventi tale ciò che non lo è.

Ma l'uomo che discorra così, è strano anche il supporlo. Non si fanno simili ragionamenti su cose materiali, e la cui essenza si riduce nell'intelletto a nozioni relativamente poche, e corrispondenti a pochi, distinti e stabilmente riuniti fenomeni; di maniera che non si può, per dir così, nominar quelle cose, senza che la loro essenza s'affacci all'intelletto, con le sue necessarie e incomunicabili condizioni. Sono, per la ragion contraria, ragionamenti che si fanno e, non di rado, su cose la cui essenza è un complesso non mai presente al senso, un complesso, la realtà del quale risulta da fatti mescolati e dispersi, che l'intelletto deve depurare e raccogliere, per riconoscere in quale soggetto si trovi realizzato, in quale non si trovi.

E che? si potrà replicare: non ci son forse, tra una lingua e l'altra, differenze reali cagionate dalle differenti circostanze di quelli che possiedono l'una o l'altra? Infinite; ma non nell'essenza delle lingue medesime, non in ciò che è comune e necessario a tutte, e che le fa esser lingue. E per ristringerci a una sola di queste accidentali e circostanziali differenze, a quella che tocca il nostro argomento, chi dubita che una lingua possa aver meno vocaboli d'un'altra? Anzi non solo questo è un fatto ordinario, comune, ma il contrario, cioè l'esserci due lingue che abbiano il medesimo numero di vocaboli, significanti le medesime cose, è un'ipotesi moralmente assurda.

E chi dubita <che>[18] una tal differenza tra lingua e lingua sia cagionata dalle differenti circostanze di coloro che possiedono o questa o quella? Ma nessuna circostanza può far che sia lingua una che abbia meno vocaboli di quel che deve avere essa medesima, essa com'essa. E l'avere una lingua i vocaboli significanti le cose di cui parlano quelli che la possiedono, non è un merito circostanziale, un privilegio accidentale di nessuna: è la condizione, la vita, l'essenza di tutte.

A costo di ripeter cose già dette, ricapitoliamo ora quel che s'è veduto fin qui. Il fine d'una lingua, avevate detto benissimo, non è altro che d'intendersi, uomini con uomini. Il solo osservare, anzi il solo rammentarci che ci sono modi e gradi diversi d'intendersi, ai quali nessuno attribuisce, né vorrebbe concedere il nome di lingua, ci ha subito avvertiti che quello a cui un tal nome può competere dev'essere un mezzo speciale, e nel modo, e nel grado. Il confronto poi ci ha fatto vedere in che consista questa specialità, quali siano i veri effetti d'una lingua. Abbiam veduto che una lingua è un mezzo d'intendersi uguale e, dirò così adeguato alle cose sulle quali s'intendon di fatto quelli che la possiedono; o in termini più speciali, un complesso di vocaboli uguali alle cose nominate da essi. Verità più che triviale, anche questa, e che si risolve in una proposizione in sostanza identica: una lingua è una lingua intera. Ma perciò appunto è andar contro una verità più che triviale, negare una proposizione identica, è chiamar lingua ciò che non è lingua, creder d'avere ciò che non si ha, e così levarsi da sé il primo e più indispensabil mezzo di farne acquisto, l'immaginarsi che possediamo una lingua italiana in comune noi tutti, per quanti possiamo essere, ognun de' quali non sa dire in italiano (supposto che tutto ciò che gli può parere italiano, lo sia) se non una parte delle cose che dice abitualmente; noi, che, se dovessimo riunirci, per compilare un vocabolario italiano, accadrebbe, sa il cielo quante volte, che richiesti del vocabolo italiano significante qualcosa di cui parliamo tutti abitualmente, nessuno risponderebbe. E son due cose che vanno troppo bene insieme: appunto perché ognuno non possiede la sua parte di lingua italiana, tutti insieme non possiedono una lingua italiana intera, cioè una lingua italiana.

Se fossimo in vece richiesti d'un vocabolo qualunque, se ne sentirebbe subito proferir cento. Non cerco ora se questo voglia dire che possediam cento lingue: quello vuol dir certamente che tutti insieme non ne possediamo una in comune.

[19] Passiamo ora ad esaminar gli altri fatti che avete addotti per provar che la possediamo.

Si scrivono, avete detto, e si stampano, in ogni parte d'Italia, libri sopra ogni genere d'argomento, che son letti e intesi in ogni parte d'Italia, e insegnano, raccontano, discutono; introducono, sbandiscono, confermano opinioni. Al pari della stampa, il carteggio mantiene per tutta Italia la più continua e la più varia comunicazion coi pensieri. Le leggi, gli avvisi al pubblico, gli atti de' notai, gli atti giudiziari, si scrivono in quella che, per tutta Italia, si chiama lingua italiana.

Tutto vero; ma siam sempre lì: che questo si faccia non è quel che conclude, ma bensì come si faccia. Tanto è lontano che il far questo in comune, in una maniera qualunque, sia l'effetto e la prova del possedere una lingua in comune, che si può fare, s'è fatto e si fa con de' mezzi che non sono nemmeno lingue:[20] voglio dire con quelle che, per ciò appunto, e con un traslato naturalissimo, si chiaman lingue morte, cioè non lingue propriamente, ma avanzi di lingue che furono, e che non son più. A una a una, si chiamano anche lingue assolutamente, e senza correttivo, come quando si dice che uno sa bene la lingua greca, la lingua latina; ma è un altro traslato; e chi l'intendesse in senso proprio, farebbe, a un di presso, come chi, dicendo che Napoleone riposa agl'Invalidi, intendesse che lì ci sia veramente l'uomo che si chiamava Napoleone, con la sua personalità, e con le sue attitudini. Furono, dico, lingue, cioè complessi interi di vocaboli; complessi più o meno copiosi, ma necessariamente uguali alle cose nominate da coloro che le possedevano. Ciò che rimane d'ognuna non è che una quantità accidentale di vocaboli, una parte, più o men copiosa anch'essa, ma parte fortuita d'un tutto relativamente necessario.

Ora, chi domandasse, per esempio, se non sono stati scritti più libri in latino, dacché in effetto non è più lingua, che in tutto il tempo che fu una lingua davvero, proporrebbe un problema insolubile bensì, per la mancanza d'un dato necessario, ma non un problema assurdo. E sarebbe tutt'altro che un paradosso il dire che, col mezzo di questa non più lingua, sono state diffuse e hanno regnato molte più verità e molti più errori, sono stati prodotti, nelle scienze, nell'opinioni, ne' fatti, più numerosi e più gravi cambiamenti che per mezzo di varie lingue vive e colte d'Europa. Con quel latino poi sono state scritte, per un corso più o men lungo di tempo, le leggi, in una gran parte d'Europa; con esso gli atti de' notai, le transazioni tra gli stati; con esso s'è mantenuto in buona parte il carteggio tra i dotti di varie nazioni; con esso, in qualche stato, si dibattono ancora, a voce e in iscritto, gli affari pubblici.

E, come mai un mezzo che non è una lingua, ha potuto produr tanti effetti, servire a tant'usi? In due maniere molto diverse; una delle quali non ha che fare con la nostra question preliminare; ma bisogna accennarla anch'essa, appunto per distinguerla dall'altra che, se non m'inganno, ci ha che far molto.

Alcuni, conoscitori e, con gran ragione, innamorati della parte di lingua latina che si trova ne' libri che ci son rimasti d'un periodo più o men lungo del tempo in cui quella lingua fu viva, si proposero d'adoprar ne' loro scritti latini quella parte, e quella sola. E chi non sa che molti ci sono egregiamente riusciti? a condizione però di dir soltanto una parte delle cose che avrebbero potute dire con una lingua intera, e del loro tempo; o d'alterar le cose medesimo, applicando loro de' vocaboli che ne significan dell'altre, più o meno affini, ma, in ultimo, altre; a condizione di non trattar che certi argomenti, o di non guardar che certi aspetti di qualunque argomento. Condizioni, con le quali, ripeto, e malgrado le quali, uno può far prova di molta bravura; ma che non sono certamente quelle delle lingue, vere lingue. Ci fu nondimeno chi pretese che la greca e la latina, quali le abbiamo, siano non solo lingue vive e verdi, ma in migliore stato, e più realmente vive, di quando lo erano nel senso che tutti intendono. E della singolar ragione che ne dà, dovremo far menzione più tardi, perché fu citata e applicata alla lingua italiana da un celebre scrittore il quale voleva che, per lingua italiana, si dovesse intendere e prendere qualcosa di simile. Ma non è su questo che ci può esser questione tra noi due; anzi qui son certo d'avervi giudice favorevole, se mi riesce d'avervi per giudice. Veniamo a ciò che può far per noi.

Altri dunque, prendendo dal latino i vocaboli che ce ne son rimasti, o que' tanti che loro conoscevano,[21] o, in qualche caso, anche que' soli che credevano poter essere più facilmente intesi da coloro che si proponevano per lettori, supplivano al rimanente col derivar de' nuovi vocaboli dal latine medesimo, e col prenderne di bell'e fatti, chi da questa, chi da quella lingua viva, assoggettandoli, più o meno fedelmente alle forme grammaticali della latina; che è la parte rimasta più intera, e per la natura stessa della cosa, e perché l'antichità latina, la quale non pare che abbia pensato a comporre un vocabolario, ha in vece composte molte grammatiche(nota 110): e una buona parte si son conservate. E non c'è bisogno di dire che fu principalmente, anzi senza paragone, con questa seconda maniera di scriver latino (ché, malgrado la più o men grande mescolanza, s'è sempre chiamato così; come si chiama campo di grano anche quello, dove col grano ci siano in gran quantità vecce e loglio e rosolacci e vilucchi e fiordalisi e altre erbe d'ogni sorte) fu, dico, con questa, più o men libera, maniera di scriver latino, che si son prodotti i più estesi, e i più importanti effetti.

Ma direte voi che siano, né che siano mai stati gli effetti veri d'una lingua? Ci mancava una cosa: quella a cui bisogna pure ritornar sempre, perché lì è l'essenza: ci mancava l'integrità; integrità relativa alle circostanze, variabile essenzialmente e riguardo alla quantità, e riguardo alla qualità della materia, ma integrità reale in ogni momento. Come il latino, inteso alla prima maniera, non era che una parte d'una lingua, così, in quest'altra, non diventava, né poteva diventar mai un tutto. Quelle migliaia e migliaia di vocaboli latinizzati, senza poter mai diventar latini; que' vocaboli aggiunti, senza mai poterceli attaccare, a quella parte di vero latino, formavan con esso, non un nuovo complesso, ma un ammasso; come con l'aggiunger pezzi e pezzi a una catasta, non si rifà un albero. E la cagione sarebbe subito trovata, ma qui noi non dobbiamo guardar che gli effetti, i quali sono anch'essi evidentissimi da sé. Dico dunque un ammasso, soprabbondante, e mancante nello stesso tempo,[22] in quanto una cosa medesima ci si potrà trovar nominata in dieci, in venti maniere diverse, e non mal in una che sia la propria, la sua. Troppo per una lingua, e non abbastanza per una lingua. E infatti, perché potevan pure servirsene, e contentarsene? Perché n'avevan dell'altre, cioè alcuni una, alcuni un'altra: lingue vive e vere, con le quali partecipavano, in diverse società, e con più o men diverse forme, alla pienezza, dirò così, d'un commercio sociale proporzionato alle circostanze rispettive di ciascheduna di quelle società. Se non avessero avuto altro che quel così detto latino.... Ma la supposizione è assurda, implica contradizione: non può una società avere, in vece di lingua, una cosa simile, perché non può non avere il mezzo di dire tutto ciò che dice in effetto.

Se avessero avuto quello solo, sarebbe stato una lingua viva, cioè una lingua.

Ora, è troppo facile il vedere quanto simili a questi siano gli effetti che voi mi mettete davanti, come altrettante prove che noi italiani possediamo una lingua in comune. Si scrivono, senza dubbio, in ogni parte d'Italia, e libri e altro; ma cominciando dai libri, per veder cosa provino, in ciò che riguarda la nostra questione, basterebbero pur troppo quelle stesse dispute che avete tanto a noia, e che vorreste (con gran ragione, se ne voleste anche il mezzo) veder finite. Come mai, infatti, si potrebbe dire: questa è la buona lingua; no, è questa qui; anzi è quest'altra, se tutti ne scrivessero una? Ché non sono soltanto questioni di stile, cioè delle diverse maniere d'adoprare i materiali d'una lingua; sono anche, e principalmente, questioni intorno ai materiali medesimi: questioni che in parte producono, ma che insieme attestano in quelli la più strana e deplorabile diversità.

Codesto libro è scritto in una lingua barbara, dice uno; codesto è scritto in una lingua morta, dice un altro. Da una parte sentite dire: è una vergogna il veder certi libri scritti in lombardo; dall'altra: è una cosa da morir dalle risa il veder certi libri scritti in cruschevole. I tali e tali scrittori, dicono alcuni, sono i restauratori della lingua; i tali e tali, dicono altri, parlando di que' medesimi, scrivono in una lingua dell'altro mondo. Ecco in qual maniera quello che si scrive in tutta Italia (e non parlo ancora che de' libri) dimostra che ci si possieda una lingua in comune.

E che? direte forse: non si sente anche fuori d'Italia in Francia, per esempio dire di certi libri, che sono scritti in buona lingua, d'altri tutto il contrario? Senza dubbio; ma lasciando da parte varie differenze secondarie, vi prego d'osservarne una principale e importantissima; ed è che in Francia la buona lingua è una sola; anzi non si dice neppure: la buona lingua; si dice il francese, e basta; come i latini dicevano latine loqui, scire, nescire latine. Da noi in vece, le buone lingue, o per parlar più giusto, le cose a cui si dà questo nome, son molte, fondate su principi diversi, e aventi, per conseguenza, diversi criteri, e più o men diversi materiali.

– Pedanterie, caricature, trastulli di letterati, dite voi –. Come vi piace; ma son anche fatti; e i fatti sono appunto quelli che devon decidere la nostra questione. Voi non volete sentir parlare di teorie; ma le diverse pratiche che ne risultano, bisogna pure parlarne. Si tratta di vedere se lo scrivere che si fa in tutta Italia dimostri che ci si possieda una lingua in comune: vorreste voi che tutte queste maniere più o men diverse di scrivere si lasciassero fuori del conto? Ma lo volete? si faccia pure. Cosa rimane? Rimane, sento che mi rispondete, tutto lo scrivere che si fa da quelli che non si danno [23] per intesi di tanti sistemi, di tanti legami, di tante leggi arbitrarie; da quelli che badano alle cose, non alle parole, cioè prendon queste per quel che sono, per un mezzo e non per il fine; che dicono ciò che hanno bisogno di dire, senza temer la sferza de' pedanti, né ambire i loro applausi, senza andar a cercare se i termini che adoprano siano o non siano permessi dal tale o dal tal altro sistema.

Codesto rimane? E codesto è la lingua italiana? Ma non abbiam visto che s'è fatto altrettanto col latino, dico col latino morto? E s'è anche accennato come si faceva; ma vogliamo vederne qualcosa in particolare? Prendiamo tra quella latinità babilonesca gli statuti delle varie città d'Italia, scritti nella seconda meta, dirò così, del medio evo. Se c'è argomento in cui si miri al sodo, è quello certamente: lì non si tratta di sbizzarrite, né di piacere ad alcuni; si tratta di prescrivere, di permettere, di proibire, d'intimare. Scorro dunque gli statuti di Milano, e trovo la pena contro chi aliquem sgarataverit, contro chi ducat rudum vel putredinem in pasquario sancti Ambrosii, contro i mercanti di legna che vendano a misura ligna habentia gabum vel zochum. Trovo che non possint robari, nec sequestrari cuppi qui sint in tectis; che ad traversum fluminix tam publici quam privati, vel alicuius rugiae.... liceat vicino... aquam ducere; che possint coloni facere puscham de uvis competenter praecalcatis. Trovo le rubriche: de stratis soranddis; de cloacis et magoltiis removendis; de ramentariis et carbone non faciendo in civitate; de officio marosseriorum; de pristinariis. Come chiameremo noi questo? Latino, senz'altro; non perché sia il nome che gli convenga, ma perché non ce n'è nessuno che non gli convenga meno; perché, non essendo una vera lingua da poterne avere uno suo, bisogna pur dargli quello della lingua a cui s'attacca, e che contraffà. Latino dunque, ma latino di Milano, e in parte forse di qualche regione vicina. Scorro altri statuti, e trovo la pena contro chi aliquem scarminaverit; contro chi imbrigaverit terram alicuius ne laboretur; contro chi faccia danno ne' prati altrui; pena maggiore, se in foeno maiatico, minore se in foeno guaiumo. Nullus ludat ad dados, armelar, sive nuces in ecclesia sancti Geminiani, nec pirlet in ea. Teneatur quilibet laborator, seu colonus partiarius, statim messsis bladis, reducere omnes bladas in pignonos. De stratis salegandis. De andronis et canalectis removendis: latino anche questo, ma latino di Modena. In altri: Si quis ruperit..... in fraudem creditorum... Infra annum a tempore suae rupturae... Si venditio facta fuerit in publica callega, ad instantiam creditorum... Si nec citatus, nec procurator comparuerit pro eo, licenter possit forestari: aliter facta forestatio per aliquem potestatem, non valeat: latino di Genova. In altri: Si quis derivaverit vel extraxerit de aqua alicuius seriolae... De mojolis et vasis vitreis. De cloacis fiendis sub terra, et foveis et andatellis removendis de stratis. Quod viciniae teneantur ad reparationem rizolorum in eorum vicinia existentium: latino di Bergamo. In altri: Dominus potestas debeat facere praeceptum de disgombrando ipsam tenutam. Contra omnes incendiarios... rectores teneantur levare rumorem. Nullus consortum compelli [24] possit ad divisionem fiendam.... Nulla domus, turris, murus aut aedificium aliud fiat aut construatur super podium Montis a cuti etc. Clausurae de assitibus. Non obstante instrumento guaran tigiae. De instrumentis finis: latino di Firenze. in altri: De breviariorum examinatione. Quando plures dicunt se habere ius transeundi per unam calem ......Quod uxor defuncti exeat de domo, praesentata sibi dote, et dimissoria, infra duos menses ... salvo omni statio sibi dimisso a viro suo. Si quis alicui maleficium aliquod, vel herbariam dederit manducare, vel bibere... latino di Venezia. Nisi fuerit descriptus et approbatus pro messetto... De mercedibus galafasiorum.... stellantium zochos... De mercede accipienda per buratinos. De maltarolis. Storarii, et alii qui vendunt storia, grisolas, pezonos, pezolatos a plantis, segoltelas a vitibus, et alia huisusmodi laboreria.... latino di Ferrara. In altri: De bampnis porchorum rumantium aliena prata. De aqua bealeriae non devianda indebite. Messonerii, sive messoneriae glandium non vadant vel glandes alienas colligant. Si quis alium... personaliter excrolaverit... latino di Torino. In altre leggi, intitolate Costituzioni e Capitoli, trovo: Admezatores... per privatorum consensum... in posterum eligi prohibemus. Medicus... non contrabat societatem cum confectionariis. Buzerios et piscium venditores.... in eorum mercibus volumus esse fideles. De non mittendo ignem in restuchiis camporum: latino di Napoli. Si quis aliquem scarpinaverit, dicono gli statuti di Pavia; strassinaverit, quelli di Bologna; sburlaverit, sine, vel cum sanguinis effusione, quelli di Lodi e di Cremona; smanchaverit, vel incassaverit, quelli di Padova e di Feltre; sub se summaverit, quelli d'Ivrea. Si quis... cum ense, cultello, lantia, mazzaferrata... rixando, vel insultum in aliquem faciendo, smigaverit, vel traxerit, quelli di Novara.

– E che?, vi sento esclamar di nuovo, e più forte: – pretendereste forse che codesto sia il ritratto dello scrivere che si fa in italiano da coloro che non s'astringono a un particolare sistema? Vorreste negare che ci sia una quantità di vocaboli noti e famigliari in ogni parte d'Italia a chiunque abbia il più piccolo grado di coltura? vocaboli non ricercati, né rozzi, non istrani in somma per nessuno? Eh! per amor del cielo! bisognerebbe essere, non dico di mala fede, ma pazzo, per negare un fatto così manifesto.

Non solo non l'ho negato, ma l'ho espressamente asserito più volte; e profitto dell'occasione che me ne date, per asserirlo di nuovo: c'è una quantità di vocaboli noti e famigliari in ogni parte d'Italia a chiunque abbia il più piccolo grado di coltura: in altri termini, c'è una parte di lingua (non dirò, veramente e propriamente comune, perché questa parola esprime un fatto diverso, e importantemente diverso), c'è una parte di lingua diffusa, qualunque ne siano i mezzi e le cagioni, in tutta Italia. Ma quelli di cui abbiamo pur ora veduto un saggio, erano appunto effetti [25] dello scrivere in una lingua, della quale, scrittori e lettori conoscevano bensì una parte, ma una parte soltanto. Anche in quella marmaglia di codici, c'è una quantità di parole identiche, e affatto latine; sono anzi la maggior parte e, per dir così, il fondo; ce n'è, per quanto le parole si posson distribuire in categorie distinte, delle categorie intere. Tutte, o quasi tutte le preposizioni, le congiunzioni, gli avverbi, i pronomi, sono parole prette latine. Solamente quando in quel loro, più o men tronco e manchevole repertorio, in quella parte di lingua, non c'erano i vocaboli che facessero al caso, li prendevano altrove, e principalmente da vivi e particolari idiomi, cioè ognuno dal suo. Gli strani vocaboli che ho citati di que' codici, non servirebbero certamente a dare un'idea giusta e sincera della dicitura generale di essi: le ho cercate, pescate, scelte: non è tutto così; ma quel tanto basterebbe per indicare, se ce ne fosse bisogno, che non sono scritti in una lingua posseduta in comune da' loro autori; giacché in una lingua tale essi avrebbero trovate naturalmente parole, e parole uniformi per que' casi, non meno che per certi altri.

Come, per esempio, adoprano concordemente le parole percutere e vulnerare, così avrebbero saputo nominar con parole uniformi le diverse specie di busse e di ferite, che non erano certamente frutte particolari d'una o d'un'altra parte d'Italia.

Come, all'occorrenza, sanno tutti scrivere flumen, così avrebbero avuto e adoprato tutti un vocabolo per significar e ciò che gli uni nominano rugia, gli altri balena, gli altri seriola, altri in altre maniere. Molti di loro proibiscono d'accorrere, con armi o senza, ad rixam; ma per estendere la proibizione a quelle le quali, più che baruffe di privati, erano, o diventavano in un momento, guerre di partiti (cose frequenti a que' tempi, sia detto senza invidia, come a' nostri, sia detto senza superbia, un ballo nuovo), uno aggiunge seu rumorem; un altro, mesclantiam; un altro, apiglanciam; un altro stremum; un altro, storminium. In una lingua comune, il vocabolo sarebbe stato comune, com'era la cosa.

L'applicazione al caso nostro è pur troppo così facile, come sicura. E se mi volete dire che i libri sono quel genere di scritti dove una tal varietà e mescolanza d'idiomi si fa meno sentire, non esito punto a riconoscer che è vero. Ma tra le diverse cagioni di ciò, vi prego d'osservarne una che fa molto al nostro proposito, e che, per un'altra strada, ci condurrà anch'essa alla solita conclusione. Ed è che, se l'uomo intraprende spesso più di quello che può eseguire, spesso anche proporziona ai mezzi che ha, non solo i tentativi, non solo i desideri, ma anche i concetti; non si distende (passatemi un'espression triviale ma spiegante) se non quanto il lenzolo è lungo. Così chi, dovendo scrivere, non ha a sua disposizione che una parte di lingua (dico una parte di quella che dovrebbe avere, cioè de' vocaboli significanti le cose che nomina abitualmente), è condotto facilmente a pensare in una parte di lingua, a circoscriver la materia al suo vocabolario. Prendendo la penna in mano, non è più, non pretende nemmeno d'essere l'uomo intero, dirò così, della vita reale; è già rassegnato a dire, non quello che potrebbe, [26] ma quello che può. E quante cose l'argomento gli avrebbe suggerite, e gli cadrebbero come dalla penna, se attingesse dalla pienezza d'una lingua intera, che non gli vengono neppure in mente, perché gli manca la forma, cioè le parole, con le quali potrebbero venire! La lingua in cui scrive, cioè quella parte, quel tanto di lingua conosciuta, diffusa in tutta Italia, non gliele dà; quelle che gli potrebbe dare il suo particolare idioma, sono naturalmente escluse, non si presentan neppure; tanto, se m'è lecito d'esprimermi così, sentono esse medesime che strana figura farebbero in un libro italiano. Si schivan le parole che li farebbero ridere, ma a patto di non dir le cose; e spesso le più intime, e dirò così, aderenti all'animo; e (ciò che potrebbe parere una contradizione, ma che è pur troppo un fatto) per non dar nello strano, bisogna tenersi lontano dal naturale. E siccome poi è impossibile il non accorgersi affatto di tali mancanze, di tali strettezze, così si sentono non di rado certi, non so s'io dica lamenti, o vanti, singolari a ogni modo. Il nostro dialetto, dicono molti, parlando ognuno del suo, è, in tante e tante parti, ben più ricco, più espressivo, più variato della lingua; ha una quantità di ripieghi, di finezze, di proprietà, distingue tante gradazioni, esprime tante particolarità, che la lingua non ci arriva.

Sicuro, quella che voi chiamate la lingua; quella che possedete voi, e che possiedo io. E ciò appunto deve farvi riflettere se sia cosa ragionevole darle un tal nome, e contentarsene.

Ma quell'infelice preservativo non può servire in tutti i casi: ci sono, in certi argomenti specialmente, e in certi punti di qualunque argomento, delle cose che non consentono d'esser lasciate fuori, né d'essere accennate alla lontana, o stemperate in una perifrasi, o indicate con una generalità: vogliono esser dette espressamente; e le parole per dirle non ci sono: dico in quella che voi chiamate lingua, dico parole conosciute in tutta Italia. E non credo che ci sia bisogno di ricorrere ad esempi per dimostrare quanto, in questi casi, abbian luogo, anche ne' libri italiani, sia antichi, sia moderni, effetti simili a quelli che abbiam visti poco fa: dico segnatamente ne' libri ai quali avete ridotta la questione, e sui quali vi fondate, cioè in quelli che non sono scritti secondo nessun particolare sistema, e i cui autori non si diedero o non si danno per intesi di tante pedanterie, di tanti legami, di tante prescrizioni. Me ne rimetto con sicurezza alla vostra esperienza. Che se volete vederne un saggio, tutto in una volta, e in una sola materia, scorrete di grazia i libri italiani che trattano d'agricoltura, e mi saprete dire in quante maniere ci troverete nominata una medesima operazione, un medesimo istrumento, un medesimo metodo, una medesima qualità, o stato, o circostanza, o vicenda, di terre, di vegetabili, d'animali, un medesimo vegetabile, un medesimo animale, e via discorrendo. Troppo, dirò anche qui, come ho detto di quel latino, troppo per una lingua, e non abbastanza per una lingua. E son ben lontano dal negare che anche in questi libri ci sia una quantità di parole identiche; né voglio cercare come ci sian venute, né perché alcune sì, alcune altre no. Dico soltanto, o ripeto anche qui, che l'identiche, non bastano ad attestare il possesso d'una lingua comune: bastano bensì le varie ad accusarne la mancanza.

[7] Che se dai libri passiamo a ogn'altro genere di scritti, vedete quanto la somiglianza cresca, appunto perché i loro argomenti toccano più da vicino la vita reale, e prescrivono, dirò così, più imperiosamente le cose da nominare. M'avete addotte le valige della posta: non posso far di meglio che addurle io a voi, aggiungendo però: non vi contentate di guardarle di fuori; ché, per molte e grosse che possan essere, proveranno bensì che c'è in Italia un gran giro di carteggio; non già che ci si possieda una lingua in comune. Guardate dentro; ché è uno di que' casi in cui l'immaginare vale come l'aver visto; leggete quelle lettere, spogliatele; e dite se non ci trovate, come appunto in que' codici, due specie di vocaboli, per quanto la seconda si può chiamare specie; una quantità di vocaboli uniformi, e da potersi con tutta ragione riunire in un vocabolario, come appartenenti di fatto a una medesima lingua; un'altra quantità di vocaboli identici di senso, e diversi di forma, a dieci, quindici, venti, secondo il caso, per significare una medesima cosa, e che potreste distribuire in non so quanti vocabolari, secondo le diverse province, quando però aveste degl'italiani di queste province, meno la vostra, che ve ne spiegassero ognuno una parte. M'avete addotti gli atti de' notai, ogni sorta di scritture private, gli avvisi al pubblico, gli editti. Paragonate dunque degl'istrumenti raccolti da queste diverse province; paragonate de' contratti di pigione, d'affitto, che noi milanesi chiamiamo investiture, con le descrizioni delle case appigionate o de' poderi affittati, che noi chiamiamo consegne (e per parentesi, mi potreste voi dire se questi termini medesimi siano usati in tutta Italia, o se ci sarebbero intesi, in questo senso? e se no, quali siano i termini comuni a tutta Italia per significar queste cose tanto comuni?) paragonate degl'inventarí di mobili, degl'indirizzi di mercanti, e ditemi se non trovate il medesimo, o peggio. Dite se un italiano che giri l'Italia, e nelle diverse città si fermi a legger le stampe attaccate sulle cantonate, non dovrà spesso tirare a indovinare cosa s'intenda di vendere o di comprare, d'ordinare o di proibire; dite se, prendendo l'appunto di tutti i vocaboli che gli saranno riusciti novi, si troverà aver raccolto de' materiali per un vocabolario, come dicevo poco fa, o una massa di rottami di non so quanti vocabolari.

[28] Direte forse che questo si fa per adattarsi all'intelligenza delle persone incolte delle diverse parti d'Italia? Non credo, se ci pensate un momento; poiché questa, non solo non è la cagion vera; ma, chi non si fermi alla più leggiera apparenza, e speciosità di parole, non è nemmeno verisimile. La cagion vera (dico la cagion generale e continua, senza dimenticare che qualche altra può, per eccezione, operare in alcuni casi che sarebbe così fuor di luogo l'enumerare, come fuor di ragione l'opporre) la cagion vera per cui adoprano que' tanti diversi termini, è che, per significar quelle cose, non n'hanno altri: adopran termini particolari, perché non ne conoscono di comuni per quell'uso; termini diversi, perché non ne possiedono insieme di simili. Ne dubitate? Si può farne la prova, quando vi piace: con l'immaginazione, come poco fa, ma con ugual sicurezza. Chi può saperci dire come sia la cosa, meglio di coloro che stendono quelle diverse scritture, e ci metton pur troppo que' tanti diversi vocaboli? Domandiamone a loro, e rispondiamoci da noi: ché è una di quelle domande che hanno la risposta in corpo. Rivolgiamoci, dico, a tutti, provincia per provincia, gl'italiani che sono in questo caso; e, con una libertà che sarà da essi non solo scusata, ma approvata, poiché si tratta d'una causa comune, e importante, diciam loro così: [29] Ne' diversi generi di scritti che, o per professione o all'occorrenza, per affari pubblici o privati vi accade di stendere, e secondo i casi, di stampare, voi milanesi mettete cose tutte comuni a tutta Italia e parole inaudite nella maggior parte d'Italia. Voi piemontesi, in iscritti dello stesso genere, nominate, o tutte o quasi tutte queste cose medesime, non sappiamo con quali, ma con altre parole; voi bolognesi, con altre, voi napoletani con altre, e via discorrendo. Ora, italiani tutti ugualmente, è certo che vi deve pesar molto l'esser non solo testimoni, ma complici e mantenitori d'una così trista diversità in ciò appunto che ci costituisce italiani, che ci fa esser membri d'una nazione, e non di tante tribù; voi che trovereste impertinente, anzi insensato lo straniero il quale dicesse che non c'è una lingua italiana viva e vera, vederla, che dico? farla con le vostre mani simile a ciò che una lingua morta era nelle mani de' vostri avi, in secoli che chiamate barbari; far di proposito, abitualmente, in iscritto, ciò che, in ogni lingua che lingua sia, si trova compatibile, ma fa insieme venir voglia, di ridere, quando accade allo straniero o al bambino, una cosa che non ha altro nome che da scherno; ché il mescolare coi vocaboli d'una lingua una massa di vocaboli che non ne sono, vestendoli o mascherandoli, quando la loro forma paia troppo strana, con le forme di quella, e rendendoli così in fatto doppiamente strani, è appunto ciò che, dopo Merlin Cocaio, si chiama scrivere maccaronico. E chi può dubitare che non vi paresse più bello il fare altrimenti, quando si potesse senza il minimo inconveniente? Ora, noi veniamo a darvene l'occasione. [30] Per un puro esperimento, e insieme per vostra soddisfazione, fateci il piacere di stendere ognuno un esempio di que' vari scritti che vi tocca a fare abitualmente nella forma che abbiam veduto, di stenderlo, dico, nella forma che sarebbe certamente desiderabile che potessero esser sempre tutti, cioè sostituendo a tutti i vocaboli particolari alle diverse province altrettanti vocaboli comuni a tutta Italia: già s'intende per le cose che son comuni a tutta Italia.

Cosa vi par che avvenga della nostra supplica? Vi sentite il coraggio d'immaginarvi che riceviamo tanti belli scritti, quali li vorremmo, labii unius, et sermonum eorundem? che, passando da uno a un altro, a un altro, a un altro, abbiamo la consolazione di veder ripetuto un medesimo vocabolo per ogni medesima cosa, invece de' venti, de' trenta, de' cento, che si scrivono e si stampano giornalmente? di gustare, almeno in un saggio, e per una volta, quell'unità che è l'effetto naturale, e la vera prova del possedere una lingua in comune? Eh per l'amor del cielo! non possiam nemmeno immaginarci di ricevere quegli scritti in nessuna forma; perché sarebbe ingiurioso e assurdo il supporre che quelli a cui ci saremmo rivolti volessero tentar fino alla fine di fare una cosa che dal bel principio dovrebbero accorgersi di non poter fare. Anzi, che bisogno c'era d'immaginar questa prova, quando la cosa parla da sé? Infatti, non è egli chiaro che se fosse a contemplazione delle persone idiote, prive d'istruzione, che si scrivesse così, non si metterebbero in quegli scritti, in quelle stampe se non i vocaboli che tali persone potessero intendere? Eppure, in quegli scritti, in quelle stampe (e per prender più specialmente l'esempio da ciò che senza esser più certo del restante, è più conosciuto da noi due), in quelli e in quelle di Milano, voi potete vedere una quantità di vocaboli che non son punto del dialetto milanese, e che i milanesi idioti non intenderebbero punto. E perché dunque quelli che compongon quegli scritti, ce li mettono? Perché li sanno, e li sanno insieme con quelli della loro condizione: son vocaboli di quella parte fortuita, accidentale di lingua che, come ho detto tante volte, è diffusa per tutta Italia, è nota e famigliare, più o meno, alle persone colte o civili di tutta Italia. Li sanno, dico, e, nella stessa maniera, sanno che in quel caso il mettere in carta il vocabolo milanese farebbe ridere de' fatti loro la gente civile e colta del loro paese, della quale, non degl'idioti, hanno soggezione per quanto questa gliene può mettere. Cosa, del rimanente, singolare, chi appena appena la consideri: essere schizzinosi in quella parte di lingua che si conosce, senza curarsi del resto, come se non fosse lingua ugualmente. Per me, vi confesso che ogni volta che m'accade di sentir qualcheduno citar ridendo qualche parola o qualche frase milanese, e esclusivamente milanese, che uno sfortunato abbia lasciata sdrucciolare in uno scritto italiano, una, dico, di quelle che sono spropositi anche per noi, non posso a meno di non [31] rider con gli altri; ma non posso a meno di non dir nello stesso tempo tra me: con che diritto ridiam noi d'una cosa che facciamo abitualmente, o all'occorrenza anche noi? Forse che l'adoprare un vocabolo milanese, invece dell'italiano, parlando o scrivendo italiano, è alle volte proposito, e alle volte no? O forse che alcuni spropositi soltanto son degni di riso? Come se l'essere o non essere spropositi, e quindi ridicoli, dipendesse dalla cognizione accidentale, dalla tolleranza arbitraria di chi gli ascolta, e non dalla misura reale e naturale della lingua medesima! Cosa, ripeto, singolare, chi appena la consideri; ma che si trova naturalissima quando, col considerar più in là, si vede che è, con moltissime altre, una conseguenza dell'error primario di prender per lingua una parte di lingua. A ogni modo, non è certamente, né potrebb'essere, il solo timore de' giudizi, o degli scherni altrui che li fa adoprare il vocabolo italiano, quando l'hanno o credon d'averlo: si vergognerebbero in faccia a sé medesimi d'esser milanesi, o napoletani, o anconitani, o bergamaschi, o modenesi, scrivendo italiano, dove possono essere italiani; quantunque (lasciatemi notar di novo la contradizione, perché è forte), quantunque la più parte, o tutti, meno qualche rara eccezione, non vogliano, o non vogliate (perché voi siete loro) sentir parlare del bisogno che hanno e del mezzo che potrebbero avere d'essere italiani affatto. I vocaboli italiani, quando gli hanno, o credon d'averli, li mettono ne' loro scritti ben volentieri, anzi senza deliberazione; quando non ce li mettono, mettendo in vece que' tanti diversi, che essi medesimi confessano non essere italiani (e povera lingua italiana, se dovesse esser così ricca!), è perché non gli hanno; non per compassion di nessuno.

E di grazia, intendetemi con discrezione. Ho già detto che non mi passava neppur per la mente di negare che si diano de' casi d'eccezione; ma che questi non fanno né pro né contro l'argomento. Chi vorrebbe negare che accada ogni giorno di mettere in una lettera, in una memoria questa o quella parola o frase vernacola, sapendo benissimo l'italiana, ma sapendo insieme che non sarebbe intesa da chi importa? Di questi casi ne ammetto quanti volete; e ammetto insieme che non c'è da cavarne conseguenza nessuna. Resta tutta quella quantità di scritti, e privati e pubblici, in molti de' quali le persone idiote non ci hanno che fare, e negli altri non ci han che fare, se non come parte (e non quella certamente a cui si badi il più) del pubblico.

In questi, dico, quella trista moltiplicità di vocaboli, non ha altra cagione, né indica altro, se non che i vocaboli comuni mancano a quelli che scrivono come a quelli che leggono.

E, in verità, sarebbe cosa ben più singolare che gli avessero per non farne mai uso.

[32] Perché, infatti, non accade lo stesso in altri paesi? e per ricorrer di nuovo al paragone speciale di cui ho potuto servirmi pur troppo bene più d'un'altra volta, perché non accade lo stesso in Francia? Non ci son forse in molte parti di Francia delle persone idiote, delle porzioni più o men numerose di questa e di quella popolazione, che intendon poco il francese, o anche l'ignorano affatto? Ce n'è tanto, che, in qualche caso, s'è pensato a scrivere apposta per loro: si sono stampata, per esempio, e forse si stampano ancora (ché, quantunque il numero de' francesi che sanno il francese cresca ogni giorno, son lontani ancora dall'esser tutti) de' catechismi tradotti in diversi dialetti di quel regno. E qui sì che si vede subito e davvero l'intento d'adattarsi all'intelligenza delle persone idiote; qui il motivo è così evidente, come il mezzo è naturale. Ma alterar burlescamente la lingua in cui si scrive, seminandoci dentro de' vocaboli che sono vocaboli altrove, e lì diventano spropositi, non è un intento, non è un proposito; è la cosa che fa bensì, e senza volerlo, chi non sa la lingua in cui scrive; non una cosa che faccia apposta chi la sa: non dico uno, e in qualche particolar circostanza; ma in molti, e abitualmente, no; meno poi, sempre; è una cosa che ai francesi che scrivono, in qual si sia parte della Francia, non vien neppure in mente, appunto perché sanno i vocaboli francesi, come li sanno quelli che leggono; che, in mente, è la stessa famiglia.

E perché li sanno? Perché, dico, alcuni possiedon così la lingua francese, in luoghi dove altri non usano, o anche non intendono altro che questo o quell'idioma, particolare di fatto e di diritto a questo o a quel tratto della Francia, e non conosciuto, né voluto conoscere nel rimanente della Francia medesima? Perché sono d'accordo nel riconoscere per lingua francese una cosa medesima, e una cosa che è una lingua davvero. Essa, come lingua, ha i vocaboli che deve avere; loro, essendo d'accordo nel riconoscerla, nel volerla, e quindi nell'impararla, ci trovano naturalmente, acquistano, e quindi adoprano que' medesimi. Le cose che si fanno simili a una terza, si trovan simili tra loro. La stessa cagione per cui in Francia non ci sono molte buone lingue, come s'è osservato sopra, fa che non ce ne siano molte cattive: il prenderne tutti gli altri una, che alcuni hanno. Da noi, in vece, come oramai dovete vedere, i molti son di due generi: uno forse più apparente; l'altro non meno reale.

Che la diversità nella pratica provenga dal seguir diversi princìpi, o dal non riconoscere principio nessuno, l'effetto è il medesimo, per ciò che riguarda la nostra questione. Son due maniere di non aver davvero una lingua in comune; come la guerra civile e l'anarchia son due maniere di non avere un governo in comune.

Può per altro accadere (non dimentichiamo l'eccezioni; ché non ce l'avessero poi a opporre, come se la forza del paragone stesse in quelle, e non nel fatto regolare e ordinario) può accadere, e accade benissimo che qualche francese, per non sapere abbastanza il francese, metta in carta, e a un bisogno in istanza, qualche vocabolo particolare a qualcheduno di que' dialetti scomunicati. Ma sono spropositi di Tizio e di Sempronio, non consuetudini d'intere popolazioni, anzi della parte più colta di queste popolazioni, che è quella che scrive; ma passan tutti per spropositi ugualmente, non certi sì e certi no; sono ripresi o derisi tutti ugualmente, e per tutto: nelle province dove quel tale ha avuto la disgrazia di scriverle, come nel resto della Francia. Quella stessa schizzinosità che abbiamo noi in alcuni casi, i francesi l'hanno in ogni caso, perché per lingua francese intendono una lingua intera; non una quantità accidentale, arbitraria, scompagnata di vocaboli, con un supplimento, o, per meglio dire, con tanti diversi supplimenti, [35] lì di vocaboli guasconi, lì di normanni, lì di perigordini, lì di provenzali, lì di fiamminghi, e via discorrendo.

E vedete come, andando per la strada giusta, ogni passo mena avanti, e gli effetti buoni diventano nuove cagioni di bene. Siccome l'esser dai francesi riconosciuta per lingua francese una lingua vera, e per conseguenza intera, fa sì che, anche ne' paesi di Francia, dove è meno conosciuta, quelli che sono stati i primi a impararla, possano e vogliano adoprarla intera a proporzion del bisogno, e pura in ogni caso; possano, dico, scrivendo in francese, dir tutto con parole francesi(nota 111), e non vogliano usarne altre che francesi, così questo fa che, in qualunque parte della Francia, ognuno che impara a leggere (poiché qui non parliamo che di questo mezzo, opportunissimo infatti e efficacissimo, di propagare una lingua) acquista un mezzo d'imparare il francese, cioè non tante cose sotto uno stesso nome, ma, per tutti, e per tutto, una. Ecco perché la lingua francese diventa ogni giorno più comune in Francia. Ha non so quanti idiomi da combattere; ma, e questo è il suo gran vantaggio, anzi la condizion necessaria, è contro tutti la medesima. Il terreno che quelli perdono, essa lo acquista davvero; le resistono, ma non la corrompono; va avanti più o meno in fretta; ma, dove arriva, è quella. A tanti diversi vocaboli oppone per tutto il suo; non si contenta, anzi abborrisce di prestar le sue forme qui a uno, là a un altro, là a un altro. Traduce (e lo può, appunto perché è una lingua davvero) que' diversi idiomi, non li riceve; e traducendoli, si va per tutto mettendo al loto posto. Non modifica quelle tante varietà, lasciandole ancora varietà, e diversificando nello stesso tempo miserabilmente sé medesima; ma a tutte sostituisce, dove può, l'unità sua: dove non può, potrà; poiché la cosa è fattibile; l'azione, continua; il mezzo, adattato. Dimanieraché non è una chimera l'immaginarsi che, col tempo, possa essere in Francia universale e unica in fatto quella che v'è universalmente e unicamente riconosciuta in principio per lingua francese. Qui mi par di sentirmi dir di nuovo, che i francesi sono aiutati dalle circostanze. – Aiutati? dite piuttosto spinti e portati, di maniera che lo fanno, per dir così, senza avvedersene; è un riconoscimento pratico e effettivo, più che esplicito e deliberato. Dirò ancora di più (o piuttosto accennerò soltanto, giacché è cosa di cui verrà occasione di parlar più a proposito) che, anche in Francia, non manca qualche uomo d'ingegno che neghi alla lingua riconosciuta in fatto da tutti i francesi, l'autorità di lingua; e questo non fa il minimo danno, e argomenti quali da noi hanno una grande e funesta forza per impedire il riconoscimento della vera lingua, là non n'hanno alcuna per turbarlo. Coloro che possono trovarli giusti, che dico? que' medesimi che li mettono in campo, fanno in pratica come se non li conoscessero nemmeno; tanta è la forza di quelle circostanze! Ma io non dico che quel riconoscere concordemente, pienamente, costantemente una lingua, sia un merito particolare de' francesi; dico che è una condizion necessaria per averla davvero in comune.

E dico in conseguenza, che noi italiani bisogna, o supplire con gli aiuti della mente e della/

scarto a

prima stesura dello Scarto 1 dal paragrafo 2


[8] si dà alla cosa il nome che ha dove l'ha. Parlo di cose che, anche senza essere stati nella parte d'Italia, di dove è quel presentato, sappiam di certo che son comuni là, come qui: cose comuni, e modificazioni e relazioni di esse, ugualmente comuni, e per dir così necessarie: casi giornalieri, operazioni consuete, giudizi e sentimenti, de' quali la somiglianza de' successi umani, e la somiglianza degli animi umani, rende la ricorrenza frequente per tutto, che dirò di più? oggetti materiali, sia dell'arte, sia della natura: cose che vediam tutto giorno, girando per le strade, che abbiamo in casa, ordigni, macchine, arnesi, mobili, vestiti, cibi, animali, piante, comuni, dico, a tutta Italia.

[9] Una lingua, m'avete detto, non è altro che un mezzo d'intendersi uomini con uomini. Ora vi domando se cercare un mezzo d'intenderci italiani con italiani, pari a quello che abbiamo d'intenderci, milanesi con milanesi, bolognesi con bolognesi, napoletani con napoletani, e via discorrendo, un mezzo di dir tutti in una maniera ciò che diciamo tutti in molte diverse maniere, sia cercare una cosa che non serva a niente, o una cosa che abbiamo già.

Permettetemi qui un'osservazione incidente, ma che ci condurrà alla stessa conclusione. Si sente dire spesso, che è una vergogna per l'Italia che, tra civili, colte, dotte persone, si parli milanese a Milano, bolognese a Bologna, piemontese a Torino, e lo stesso dicasi di tant'altri idiomi sconosciuti, strani, barbari fuori d'una parte più o men circoscritta d'Italia. E se non lo dice ognuno, non c'è, crederei, nessuno che dica il contrario, nessuno il quale volesse sostenere che è una bella cosa, una cosa da rallegrarcene, e da andarne superbi. E perché dunque si fa? E è capriccio? è una preferenza data senza cagione a ciò che pur confessiamo esser men bello? No, di certo: la cagione c'è benissimo, e facile a trovarsi; anzi l'abbiam già veduta.

E è che gli uomini in generale adoprano mal volentieri, e solo in caso di necessità, uno strumento che conoscan poco, quando n'abbiano alla mano uno che conoscono a maraviglia. E è che, se noi milanesi (e dite lo stesso di tutti quelli che sono in un'ugual condizione) volessimo, ora com'ora, smettere il milanese, cioè un mezzo che possediamo davvero, per adoprarne in sua vece uno di cui non possediamo che una parte, e senza nemmeno conoscer con sicurezza quanta né quale, ci troveremmo a un tratto sprovvisti, non dico (che pure è qualche cosa) d'una quantità d'espressioni vivaci, argute, energiche; ma d'una quantità di vocaboli e modi di dire propri, usualmente necessari; ci troveremmo ogni momento a dover esitare tra que' due partiti de' quali non so qual sia il più strano e il più miserabile: o crear de' vocaboli per significar cose notissime; o prenderli fuori della lingua che si pretende parlare (e da dove principalmente, se non dal nostro particolare idioma?) e di vocaboli che sono, dove sono, farli diventare [10] spropositi, mettendoli in una compagnia che non è la loro. E perciò non è da sperare che il costume di servirsi di tali idiomi cessi, né diminuisca, se non a proporzione che si possieda in comune una lingua la quale sia atta a prestar gli stessi servizi, e con la quale la gente si trovi aver bensì mutato il modo, ma non scemata la facoltà d'esprimersi. Ma cosa dico: non è da sperare? come se fosse desiderabile più che probabile, che una società d'uomini s'accordi nello strano proposito di buttar via un mezzo proporzionato al bisogno, per prenderne uno, relativamente a loro, mancantissimo: e a qual bisogno! al più generale, al più frequente, anzi continuo, a quello insomma che è legato con tutti i fatti sociali, anzi con l'esistenza medesima della società: il discorso. Trista condizione, esser vergogna il fare una cosa, e peggio il non farla; e condizione alla quale, ripeto, non c'è altro rimedio che il possedere una lingua in comune. Ma per possederla, bisogna acquistarla, chi non l'ha; e per acquistarla, val a dire per acquistarne tutti una, bisogna prima andar tutti d'accordo nel riconoscerne una, e dire a una voce: è questa. E quando in vece, sotto il nome di lingua italiana son proposte più cose diverse; quando alcuni dicono: è questa; alcuni: è quella, e tutti gli altri non dicon niente, vedete bene che il preliminare più necessario è appunto quello che voi dicevate superfluo e peggio: cercare, esaminare e, se non si può far di meno, discutere qual sia questa lingua.

Ma io son venuto troppo presto alla conseguenza. Non già che il detto fin qui non basti per poterla dedurre logicamente; non già ch'essa non porti con sé una certa immediata evidenza. Ma la verità che si stabilisce nella mente, e ne fa sgomberare le opinioni contrarie, e, venendo il caso dell'applicazione, dice: son qui io, tocca a me; non è tanto quella che s'è riconosciuta subito, quanto quella che, s'è conosciuta adagio; non tanto quella che si vede al chiarore d'un baleno, quanto quella che si guarda alla luce del giorno.

Ed è quindi una fortuna per la nostra discussione, che voi, adducendomi diversi argomenti, m'abbiate dato occasione e come imposto l'obbligo d'esaminar con voi il fatto da altrettante diverse parti. Soprattutto sarà utile il paragone che voi m'avete proposto, del fatto italiano coi fatti stranieri dello stesso genere, e perché i paragoni son l'argomento più opportuno per la questione, e perché n'abbiam già fatto un altro. E sapete che, nel paragonar successivamente una cosa con diverse, si trovan que' due vantaggi, de' quali non so qual sia il maggiore, di veder cioè le stesse somiglianze o differenze comparire sotto un aspetto [II] differente, o ricomparire sotto l'aspetto medesimo. Ci troveremo di più, questa volta, il vantaggio di contrapporre al fatto in questione de' fatti, non solo del medesimo genere, ma che hanno da tutti il medesimo nome, e di scansar così un'obiezione intempestiva; sicché non ci può esser pericolo che nessuno mi dica: – si tratta d'una lingua, e voi me la paragonate con de' dialetti –. E è vero che da voi, come ho detto, non devo aspettarmi un'obiezion simile, giacché l'avete, con tante altre simili, sbandita anticipatamente, e ridotta a quello che è, cioè a una question di parole, andando addirittura al sostanziale, e ponendo il principio che il fine delle lingue non è altro che l'intendersi uomini con uomini. Ma se è bene il potere sbandire le false obiezioni, è meglio il portar la questione in un campo dove non possano nemmen presentarsi. Si tratta di vedere se gl'italiani possedano una lingua in comune; voi dite che gli effetti lo dimostrano: confrontiamoli con quelli che producono altre che voi, io, tutti chiamiamo lingue. Non abbiate paura però ch'io voglia venirvi addosso con un'erudizione soverchiatrice, e farvene passare in rassegna una quantità. Ho le mie buone ragioni per restringermi a una; e, per fortuna, l'argomento non ne richiede di più. Per farei conoscere gli effetti che posson mancare al fatto nostro, e l'importanza di tali effetti, una in cui li troviamo, serve come mille.

Supponete dunque che andiamo a Parigi noi due, sapendo poco di francese, e che, desiderando d'impossessarci, più in fretta che sia possibile di quella lingua, ci viene in testa di farci aiutare da un uomo di garbo, compiacentissimo, al quale siamo raccomandati, domandandogli, a molte per volta le parole francesi che ci mancano, quelle cioè di cui sentiamo più la mancanza e il bisogno. Meno l'indiscrezione, vi par egli un ritrovato strano, nuovo, un espediente che non abbia che fare col fine d'impossessarsi d'una lingua? So che non vi pare; dunque vo avanti, e suppongo che il brav'uomo ci dà queste parole; e fate conto del genere di quelle che s'è detto nell'altra ipotesi. Noi le notiamo di mano in mano, di maniera che alla fine se ne fa una bella lista. Né a voi, suppongo, né a me di certo, viene in mente di domandargli se son parole francesi. A lui, e di certo anche questo, parrebbe una domanda dell'altro mondo, e volendo supporre che rispondesse sul serio, non è strano il supporre che potesse anche rispondere meno che inventar de' suoni a capriccio, per farvi uno sciocco scherzo, non potrei darvene altre che francesi, perché non ne so altre: lingue straniere, non ne conosco nessuna; so [12] che ci sono in Francia molti idiomi particolari; ma non ne conosco nessuno nemmen di questi. E del resto, se un dubbio tale fosse potuto nascere in noi, sarebbe svanito al sentir quelle stesse parole adoprate dagli altri nello stesso senso, al veder che c'intendevano quando le dicevamo noi. Di più, cercando nel Vocabolario dell'Accademia francese, ce le abbiam trovate la maggior parte: non dico tutte, perché un vocabolario non prende, né deve prender l'impegno di registrare tutte quante le parole d'una lingua.

Ritornati in patria, e passato qualche tempo, un giorno che mi trovo da voi, arriva improvvisamente il nostro parigino, e, dopo l'accoglienze oneste e liete, all'offerta che gli facciamo a gara di servirlo in tutto ciò che sia in nostro potere, risponde: non abbiate paura che mi faccia pregare; perché avevo già fatto conto su tutt'e due. E ci domanda se, per caso, avremmo serbata quella tal lista. Rispondiamo di sì: ne mostra molto piacere, e dice che, volendo profittar del suo viaggio d'Italia per impossessarsi della lingua italiana, ha pensato di far come noi e ci prega di restituirgli in tante parole italiane quelle che ci ha date in francese.

Chi deve rispondere di noi due? Credo che sia lo stesso, perché non gli possiam dare che una risposta sola, cioè che, per quanto sia il nostro desiderio di servirlo in tutto e per tutto, di quelle parole, alcune gliene possiam dare, altre no.

– S'intende, – risponde lui: – ogni paese, e per conseguenza ogni lingua ha le sue particolarità; e io non vi domando se non le parole che significan cose comuni a voi e a noi, parole, per conseguenza, che ci sono in italiano come in francese.

Bisogna rispondere che anche di queste non gliene possiam dare che alcune.

Non potendo immaginarsi che siano pretesti per schivar la fatica, non sa cosa pensare. – Come ! – dice: – non mi sapreste dire come si chiamino in italiano tutte queste cose? – e ne nomina in francese una quantità di comunissime, cominciando da tante che vede nella stanza in cui ci troviamo.

Vi sarà certamente accaduto più d'una volta di sentir qualcheduno de' nostri domandar come si chiami in italiano una cosa o un'altra (parlo sempre di cose che sappiam benissimo come si chiamino in milanese); e un altro rispondere: per me, crederci che si potrebbe dir benissimo così, poiché nel tale e nel tal altro caso simile, si dice e così; ovvero: io direi così, derivando il vocabolo dal tal altro, da cui viene naturalissimamente; ovvero: c'è il vocabolo latino che, con una modificazione leggerissima, può diventare italiano; ovvero: perché non si potrebbe adoprare il vocabolo milanese, che è bellissimo, e spiega bene, e l'intende subito anche chi non sia/

scarto b

rifacimento dello scarto a


[8] si nomina, in qualunque lingua si parli, la cosa col nome che ha dove l'ha. Parlo di cose che, anche senza esser mai stati nella parte d'Italia di dove è quel presentato, sappiam di certo che son comuni là, come qui: cose comuni, e modificazioni e relazioni di esse, ugualmente comuni, e per dir così necessarie: casi giornalieri, operazioni consuete, giudizi e sentimenti, de' quali la somiglianza de' successi umani, e la somiglianza degli animi umani rendon la ricorrenza frequente per tutto; che dirò di più? oggetti materiali, sia dell'arte, sia della natura: cose che vediamo ogni momento, girando per le strade, che abbiamo in casa, che fanno parte della casa medesima; ordigni, macchine, arnesi, mobili, vestiti, cibi, animali, piante, comuni, dico, in tutta Italia.

Una lingua, m'avete detto, e ve ne ringrazio di nuovo, una lingua non è altro che un mezzo d'intendersi, uomini con uomini. Ora, vi domando se cercar so ci sia un mezzo d'intenderci, italiani con italiani, pari a quello che abbiamo d'intenderci, milanesi con milanesi, bolognesi con bolognesi, napoletani con napoletani, e via discorrendo, un mezzo di dir tutti nella stessa maniera ciò che diciamo tutti, ma in cento diverse maniere, sia cercare una cosa inutile, o una cosa che abbiamo già.

Permettetemi qui un'osservazione incidente, ma che ci condurrà alla stessa conclusione. Quante volte non si dice che è una vergogna per l'Italia, che tra civili, colte, dotte persone, si parli milanese a Milano, bolognese a Bologna, e lo stesso dicasi di tant'altri idiomi sconosciuti, strani, barbari fuori d'una parte più o men circoscritta d'Italia! E perché dunque si fa? è capriccio? è una preferenza data senza cagione a ciò che pur confessiamo non esser bello? Sarebbe un capriccio troppo strano; ma la cagione c'è benissimo; e facile a trovarsi; anzi l'abbiam già veduta. E è che gli uomini in generale adoprano mal volentieri, e solo in caso di necessità, uno strumento che conoscan poco, quando n'abbiano alle mani uno che conoscono a maraviglia. E è che se noi milanesi (e dite lo stesso di tutti quelli che sono in una condizione uguale alla nostra) volessimo smettere, ora com'ora, il milanese cioè un mezzo d'esprimerci, che possediamo davvero, e adoprarne in' sua vece uno di cui non possediamo che una parte, e senza neppure conoscer con sicurezza, quanta né quale, ci troveremmo a un tratto sprovvisti, non dico (che pure è qualche cosa, e più di quel che può parere a prima vista) d'una quantità d'espressioni vivaci, argute, energiche, ma d'una quantità di vocaboli e modi di dire usualmente necessari; ci troveremmo sempre nella strana condizione in cui, come v'ho detto o rammentato poco fa, ci troviam qualche volta. E notate, cioè rammentatevi anche qui, che in quella condizione ci si sta, per il solito, il meno che si può. Ho supposto una presentazione; ma andiamo avanti a supporre che quel veneziano o bolognese o piemontese, si fermi in Milano, faccia più strette relazioni, s'estenda e s'interni nelle comunicazioni abituali della vita, cosa n'avviene? dico sempre per il solito. Si comincia a parlar milanese in sua presenza, poi con lui; e lui medesimo (aiutati tutti dalla maggiore o minor somiglianza che hanno tra di loro i vari idiomi d'Italia, e dalla maggiore o minor facilità che ce ne viene d'intender l'uno quello dell'altro) lui medesimo mette fuori il suo buon piemontese, o veneziano, o quello che è.

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rifacimento dello scarto b


[8] si nomina la cosa col nome che ha dove l'ha, come in nessuna lingua d'Europa si esita a nominar con vocaboli chinesi, o indiani cose esclusivamente chinesi o indiane. Parlo di cose che, anche senza esser mai stati nella parte d'Italia di dove è quel presentato, sappiam di certo che son comuni là come qui: cose comuni, e modificazioni e relazioni di esse, ugualmente comuni e, per dir così, necessarie: casi giornalieri, operazioni abituali, giudizi e sentimenti, de' quali la somiglianza de' successi umani, e la somiglianza degli animi umani rendon la ricorrenza frequente per tutto; che dirò di più? oggetti materiali, sia della natura, sia dell'arte; cose che vediamo ogni momento, girando per le strade, che abbiamo in casa, che fanno parte della casa medesima; ordigni, arnesi, mobili, vestiti, cibi, animali, piante, comuni, dico, a tutta Italia.

Una lingua, m'avete detto, e ve ne ringrazio di nuovo, una lingua non è altro che un mezzo d'intendersi, uomini con uomini. Posto ciò, vi domando se il cercare un mezzo d'intenderci italiani con italiani, pari a quello che abbiamo d'intenderci, milanesi con milanesi, bolognesi con bolognesi, napoletani con napoletani, e via discorrendo; un mezzo di dir tutti nella stessa maniera ciò che diciamo tutti, ma in cento maniere diverse, sia cercare una cosa inutile, o una cosa che abbiamo già.

Permettetemi qui un'osservazione incidente, ma che ci condurrà alla stessa conclusione. Quante volte non si dice che è una vergogna che tra civili, colte, dotte persone, si parli milanese a Milano, bolognese a Bologna, genovese a Genova; e lo stesso si dica di tutti quegli altri idiomi d'Italia, che in fatto e in diritto, per consenso universale di tutti gli italiani, sono ristretti a una parte più o men circoscritta d'Italia! E perché dunque si continua a fare? E è un capriccio? una preferenza data senza cagione a ciò che pur confessiamo non esser bello? Sarebbe un capriccio troppo strano; ma la cagione c'è benissimo, e facile a trovarsi; anzi l'abbiam già veduta. E è che gli uomini in generale adoprano mal volentieri, e solo in caso di necessità, uno strumento che conoscan poco, quando n'abbiano alla mano uno che conoscano a maraviglia. E è che se noi milanesi (e dite il simile di tutti quelli che come noi parlano uno di tali idiomi) volessimo smettere ora com'ora, il milanese, cioè un mezzo d'esprimerci che possediamo davvero, e adoprarne in sua vece uno di cui non possediamo che una parte, e senza neppure conoscer con sicurezza quanta né quale, ci troveremmo a un tratto sprovvisti, non dico (che pure è qualche cosa, anzi più di quel che può parere a prima vista) non dico soltanto d'una quantità d'espressioni vivaci, argute, energiche, ma d'una quantità di termini usualmente necessari; ci troveremmo sempre nella condizione in cui, come v'ho detto o rammentato poco fa, ci troviam qualche volta. E notate, cioè rammentatevi anche qui, che in quella condizione ci si sta, per il solito, il meno che si può! Ho supposto una presentazione; ma andiamo avanti a supporre che quel veneziano, o piemontese, o altro, si fermi in Milano, faccia più strette relazioni, s'estenda e s'interni nella comunione abituale della vita; cosa nasce? dico sempre, per il solito. Si comincia a parlar milanese in sua presenza, poi con lui; e lui medesimo/

scarto d

prima stesura dello Scarto 1 dal paragrafo II


[9] a loro, mancantissimo; e a qual bisogno ! al più generale, al più frequente, anzi continuo; a quello che è legato con tutti i fatti sociali, e inerente alla società medesima, il discorso. Sarebbe proprio mettere il carro innanzi a' buoi; sarebbe rinunziare ai vantaggi essenziali che vengono naturalmente dall'adoprare un mezzo d'intendersi conosciuto bene da chi parla e da chi sente; e senza arrivar per questo all'altro vantaggio di sostituire a molti più o men diversi mezzi d'intendersi, ristretti ad altrettante piccole società, un mezzo comune a tutti; che è appunto il vantaggio, certamente importantissimo, per cui si vuole una lingua italiana. Come mai ci si potrebbe infatti arrivare per una tale strada? Voi conoscete sicuramente un'espressione che s'usa ancora qualche volta in Milano, e che, anni sono, cioè prima delle più recenti dispute intorno alla lingua italiana, s'usava molto più: parlar finito.

E voleva dire adoprar tutti i vocaboli italiani che si sapevano, o quelli che si credevano italiani, e al resto supplire come si poteva, e per lo più, s'intende, con vocaboli milanesi, cercando però di schivar quelli che anche ai milanesi sarebbero parsi troppo milanesi, e gli avrebbero fatti ridere; e dare al tutto insieme le desinenze della lingua italiana. Ora, come ho detto, questa denominazione è quasi affatto disusata; e il perché non è qui il luogo di cercarlo: basta che la cosa c'è; e sapete che le denominazioni non cessan soltanto perché siano cessate le cose significate da esse, ma anche perché si cessa di distinguerle. lo non so se nelle altre parti d'Italia dove si parlano idiomi riconosciuti barbari (rispettivamente a tutta Italia) anche da quelli che li parlano, ci sia o ci fosse, o la stessa denominazione, o altre aventi lo stesso intento. Ciò che suppongo senza difficoltà è che ci fosse e ci sia la cosa stessa. Cioè, intendiamoci: la cosa stessa, riguardo al modo, in quanto

scarto e

prima stesura dello Scarto 1 dal paragrafo 60


[12] C'è un'altra risposta che potrebbe facilmente esser data, o piuttosto un'altra ragione di non rispondere, che potrebbe essere addotta, se la cosa passasse tra italiani e italiani. Essendoci in quella lista molti nomi di cose comuni, triviali e, come si dice, del vocabolario domestico, ci sarebbe molto pericolo di sentirsi dire: cosa andate a cercar queste miserie? Una lingua è fatta per servire a usi ben più alti, più vasti, più importanti –. Ma anche questa è di quelle che a uno straniero non si dicono. Come dire: “ cosa andate a cercare? ” a uno, il quale, non sapendo, e non potendo indovinare che significato convenzionale e arbitrario si possa dare in un paese al nome di lingua, e associando naturalmente a questo nome le nozioni del senso comune, cerca a una lingua le parole che, come lingua, deve avere? Che n'abbia dell'altre, per servire a de gli altri usi più scelti, va benissimo; e meglio per lei: questo, lui lo sa, ma non ci pensa, perché infatti non c'è ragion di pensarci: chiede quelle che, in quel momento, fanno per lui, quelle che gli pare e piace, e che questa lingua, se è lingua, deve avere.

Miserie, quant'un vuole; cose di poca importanza, se c'è chi, dopo averci riflettuto, vuol dire anche questa; ma cose che questa lingua, se è lingua deve avere. Miserie, quant'un vuole; porcherie, se par meglio; ma una lingua le deve avere; e chi la possiede le deve conoscere. E è mai venuto in mente a nessuno che Cicerone e Bossuet non dovessero saper nominare, l'uno in latino, l'altro in francese, le cose comuni, delle quali, per quanto fossero Cicerone e Bossuet, dovevano pur parlare nelle consuetudini comuni della vita? Non cerco quali siano più importanti, o le parole che significano cose pellegrine, o quelle che significano cose comuni: questione insolubile, come tutte le questioni relative, quando son poste in senso assoluto, cioè poste male. Sono importanti l'une e l'altre; ma questo non ci ha che fare.

Non farò nemmeno osservare che le parole significanti le cose più comuni, possono qualche volta venire in taglio, anzi esser necessarie in qualsiasi argomento

scarto f

prima stesura dello Scarto 1 dal paragrafo 92


[16] parole francesi a bizzeffe, e di diversi generi, abbiam potuto domandargliene di quelle che lui abbia dovuto, come noi per l'italiano, risponder che non le sapeva. Ma osservate, di grazia, due differenze essenzialissime tra lui e noi altri.

Una, che, dove gli mancano i vocaboli francesi, non ne ha altri. Non ha, come noi, un'altra lingua.... oh! scusate: m'è scappata questa parola, non rammentandomi che è una question da trattarsi più tardi, se i dialetti sian lingue. Non ha, dirò dunque, come noi, un altro mezzo col quale sia avvezzo a significarle. Non ne parla, non le ha sentite nominare, e perciò non ne sa il nome. Non conosce, è vero, che una parte de' vocaboli francesi: possedere una lingua non è più di questo. Ma ne conosce quella parte che significa le cose delle quali ha parlato e parla abitualmente; e possedere una lingua è questo.

L'altra differenza è che, dopo aver confessato di non saper que' vocaboli, il nostro parigino può aggiungere: “ però, giacché voi altri desiderate di conoscerli (e ci son di certo, poiché abbiamo le cose), li cercherò, e ve li saprò dire un'altra volta; e, con quest'occasione, gli avrò imparati anch'io ”. Vedete voi qui un'altra condizion delle lingue, poter l'individuo trovare i vocaboli che mancano a lui, ma che la lingua ha? Per questo non gli vengono neppure in mente quegli strani ripieghi: io direi; si potrebbe dire; perché non si direbbe? Strani ripieghi davvero; ché è bensì, ripeto, cosa ragionevole l'inventare o il prender da altri linguaggi i vocaboli, quando ce n'è bisogno, e mancano; ma quando mancano a chi? All'individuo? Bella cosa sarebbero le lingue, se tanto più uno ne fosse padrone, quanto meno le conosce; se dovessero vivere de' diversi tentativi che diversi uomini facessero per dar loro quello che devono già avere, per esser lingue. Que' vocaboli mancano a lui; ma sa, e n'ha detto la ragione, che non possono mancare alla lingua francese; e quindi il solo mezzo che gli viene in mente, è il vero, il giusto, il naturale, cioè di chiederli alla lingua medesima. Mezzo che, non solo può esserci, ma c'è necessariamente in tutte le lingue, giacché come ci sarebbero lingue, se non ci fosse la maniera di trovare i vocaboli di cui son composte? Mezzo che, se al ciel piace, abbiamo anche noi due per il milanese, lo chiamino poi lingua, o come vogliono: e credo che sarà accaduto anche a voi, come certo v'è potuto accadere, di cercare un vocabolo milanese [17] che ignoravate, ma ch'eravate sicuro doverci essere. Mezzo che non volete che possiamo avere per l'italiano; giacché la questione che voi dichiarate oziosa, superflua, inconcludente – qual è la lingua italiana? – equivale appunto a questa: come possiam trovare i vocaboli italiani che ci mancano, e che la lingua italiana deve avere, se è una lingua di questo mondo? Potrà anche, per non lasciar fuori dall'ipotesi nessuna condizione essenziale del fatto reale, potrà essere accaduto, anzi sarà accaduto facilmente, che a qualche nostra domanda il parigino abbia dovuto rispondere: non l'abbiamo in francese un vocabolo per significar questa cosa. Ma quando ci avrà data una tale risposta? Quando sapeva (e per saper questo non è punto necessario di conoscer tutta quanta una lingua; basta conoscerne bene una data parte) quando sapeva che quella cosa non era nominata da coloro che con lui possiedono la lingua francese.

Ecco quali sono i veri e propri effetti d'una lingua. Essa, avevate detto benissimo, non è altro, riguardo al suo fine, che un mezzo d'intendersi uomini con uomini; il solo osservare che ci sono modi e gradi diversi d'intendersi, ai quali nessuno applica, né vorrebbe concedere il nome di lingua, ci ha avvertiti che quello a cui un tal nome può convenire, dev'essere un mezzo speciale e nel modo e nel grado; il confronto ci ha poi fatto vedere in che consista questa specialità. Abbiam trovato una di quelle verità che possono parer ridicole per la troppa evidenza; che sarebbe infatti ridicolo di mettere in campo, quando siano, come devon essere, sottintese; ma che bisogna cavar fuori, ed enunciar formalmente, quando, non che esser sottintese, sono implicitamente negate. Abbiam, dico, veduto che una lingua è un mezzo d'intendersi uguale e, dirò così, adequato alle cose sulle quali s'intendon di fatto quelli che la possiedono; o in termini più speciali, un complesso di vocaboli uguale alle cose che nominano. Ed è, credo, superfluo l'avvertire espressamente che, per cose, non intendo soltanto oggetti materiali, ma tutto ciò che può cader nel concetto umano, ed esser materia di significazione. Ora, voi dovete vedere che avevate, non solo trascurata, ma negata implicitamente una tal verità, affermando che noi possediamo in comune una lingua italiana: noi, e tutti quelli che, come noi, non saprebbero nominare in italiano che una parte delle cose che nominano abitualmente, e tutti: supposto anche (giacché non importa alla questione; e non si tratta qui di conoscer per l'appunto quanto possediamo in comune, e per quali cause lo possediamo, ma di vedere in grosso quanto ci manchi) supposto, dico, che i vocaboli che ognun d'essi può credere italiani, lo siano davvero. E qui, abbiate pazienza, qui, cioè nel punto essenziale della questione, voi siete, senza pensarci, d'accordo con tutti que' sistemi ai quali vi protestate così avverso; giacché gli errori in qualunque materia, hanno, al pari delle verità, una loro unità; solo è un'unità negativa. Sono come tanti viaggiatori che partono da un punto centrale, allontanandosene chi più chi meno, e in diverse direzioni, ma volgendogli tutti ugualmente le spalle. Tutti que' sistemi sono, come il vostro, fondati, per dir così, sulla trascuranza, sulla dimenticanza, sulla negazione implicita della/

scarto g

prima stesura dello Scarto 1 dal paragrafo 150


[20] col derivarne de' nuovi, o coi prenderne di già fatti da altre lingue, assoggettandoli, più o men rigorosamente, alle forme grammaticali che si conoscono della lingua latina; tutto questo, in una serie indefinita di diversi gradi, secondo le persone e gli argomenti e i fini, cioè secondo la maggiore o minor cognizione che avesse de' resti della lingua latina chi gli adoperava; secondo il più o meno cose non mai dette in latino, o almeno non dette nel latino rimastoci, che gli occorresse di dire; secondo la qualità e il numero di quelli da cui volesse farsi intendere.

che si son prodotti, com'era ben naturale, gli effetti più estesi, più numerosi, più continui, più importanti, e, riguardo all'importanza, più celebri; ma chi vorrà dire lingua? Chi vorrà dire

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rifacimento e continuazione dello scarto g


[20] che si conoscono della lingua latina. E con l'uno e con l'altro metodo si possono certamente (e il fatto lo dimostra) ottener molti effetti, ma, né con l'uno né con l'altro, gli effetti veri e interi d'una lingua; la quale vi dà il mezzo di significare, non alcune cose, ma tutte quelle che si dicono attualmente in una società; e non vi riduce a formare o a prender d'altrove vocaboli, se non quando abbiate o crediate d'aver bisogno d'esprimer cose che in quella società non si dicono.

Un retore del cinquecento, il quale conosceva e maneggiava a maraviglia quello che ci rimane della lingua latina, Marcantonio Mureto, protestò in un luogo d'un suo discorso contro il titolo che si dà ad essa e alla greca, di lingue morte. La ragione che adduce di questo suo sentimento è curiosa, e può servite a far sentir meglio la ragion vera che deve valere in un simile argomento. Non sarà dunque fuor di proposito il citar quel passo, che fu già citato dal buon P. Cesari in conferma del suo sistema sulla lingua italiana. E per dir tutta la verità, anche questa circostanza m'induce a citarlo; perché ci trovo un'occasione di tirarvi pian piano, se posso, in queste nostre dispute. “ Dicono ”,     così il Mureto,
“ che la lingua greca e la latina son morte da un pezzo. Io sostengo invece che non solo son vive e verdi, ma, per non uscir di metafora, godono più che mai una stabile salute. Finché furono sotto il governo del popolo, erano sempre agitate e fluttuanti, non avevan nulla di certo, nulla di permanente... dacché vennero, per dir così, in mano degli ottimati... e son tenute a freno da regole stabilite per sempre, rimangon fisse e immutabili, già da più secoli. Se fossero restate in poter del volgo ”     così chiama il servir che fa una lingua agli usi d'un'intera società, come se chi non è volgo non parlasse,
“ al giorno d'oggi, non s'intenderebbe più Cicerone ”.

Sia pure, giacché non importa qui d'esaminare il valore d'una tal supposizione; ma si potrebbe dire in latino tutto quel che si dice; che è ciò che costituisce una lingua. Sia pure immutabile; ma per questo appunto non sarà lingua; giacché immutabile vuol dire, tra l'altre cose, incapace di ricevere aumento; e chi mai, pensando anche superficialmente e di volo al fine per cui le lingue si vogliono e ci sono, vorrà dare in senso proprio questo nome a una che non può avere più o meno vocaboli, e foss'anche uno solo, per nominar qualche cosa che tutti nominano? Del resto la metafora comune di lingue morte significa alla sua maniera un fatto così manifesto e così importante

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frammento di rifacimento dello scarto h


[21] tandoli, più o men fedelmente alle forme grammaticali della latina, le quali son la parte rimasta più intera di quella lingua; giacché l'antichità, che non ha, credo, pensato a comporre de' vocabolari, almeno generali, ha in vece composta (parlo principalmente dell'antichità latina) molte grammatiche(nota 112); una buona parte delle quali ci furon conservate.

E, come ognun sa, e ognuno indovinerebbe, fu, senza paragone, con questa

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rifacimento dello scarto i


[21] tandoli, più o meno fedelmente, alle forme grammaticali della latina, le quali son la parte che c'è rimasta più intera di quella lingua, e per la natura stessa della cosa, e perché l'antichità latina, la quale non pare che abbia pensato a comporre de' vocabolari, almeno generali, ha in vece composto molte grammatiche(nota 113); e

Allegato 1

Tanto le prime grammatiche, quanto i primi vocabolari dell'età moderne furon fatti sopra lingue morte, e segnatamente sulla latina. In quanto alle grammatiche, non era altro che continuare il lavoro dell'antichità: cosa alla quale l'epoca detta risorgimento si portava in ogni materia con un ardore in parte ragionevole, in parte puerile e insensato, poiché faceva trascurare, escludere, saltare a piè pari, contar come non fatto il lavoro intellettuale di più secoli e d'uomini grandissimi. Quando poi vennero le grammatiche delle lingue moderne, furono per un gran pezzo tessute dirò così sull'ordito della latina; e ci vollero non so quanti secoli perché si osservasse che i nomi in italiano, per esempio, non avevan casi: effetto naturale, con moltissimi altri, della naturale servilità di quell'appassionato ritorno all'antico, il quale poté da molti esser riguardato come una emancipazion degl'ingegni: ché molti chiamano libertà il sottometter la loro ragione, e per quanto possono, l'altrui, a ciò che non ha autorità in sé, ma a cui l'attribuiscono volontariamente. La scolastica, per la quale i ciechi adoratori dell'antichità avevan un così alto e così comodo disprezzo, non gli avrebbe certamente condotti ad applicare a soggetti diversi la forma d'un altro soggetto, senza esaminare, senza nemmeno mettere in questione se quella forma avesse i caratteri e le condizioni della generalità.

Allegato 2

Tanto i primi vocabolari che le prime grammatiche dell'età moderne furon fatte sopra lingue morte, e segnatamente sulla latina; e ciò per cagioni in parte comuni all'uno e all'altro genere di lavoro, in parte peculiari a ciascheduno. Ci si permetta d'accennarne qui una relativa al vocabolario. Appunto perché non son lingue ma parti di lingue, presentano una materia circoscritta e relativamente intera: tali vocabolari non sono altro che cataloghi delle locuzioni comuni tanto più che a questa limitazione di fatto se n'è aggiunta un'altra col restringere la lingua latina agli scritti d'un certo periodo di tempo.

Allegato 3

delle locuzioni che si trovano in un numero accidentale di scritti rimasti. li lavoro s'è trovato ancora più ristretto dall'aver circoscritta la lingua latina entro certi limiti di tempo.

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rifacimento dello scarto l


[21] tandoli, più o meno fedelmente, alle forme grammaticali della latina, le quali sono la parte che ce n'è rimasta più intera, e per la natura stessa della cosa; e perché l'antichità latina, la quale non pare che abbia pensato a comporre il vocabolario, ha invece composte molte grammatiche(nota 114); e una buona parte n'è stata conservata. E non fa bisogno/

Allegato

Tanto i primi vocabolari che le prime grammatiche dell'età moderne, furono, se non m'inganno, fatte sopra lingue morte.

Delle molte cagioni d'un tal fatto, mi si permetta d'accennarne una, più specialmente efficace per il vocabolario, in quanto era, almeno per la lingua latina, un lavoro affatto nuovo. Le lingue morte, appunto perché non son che parti di lingue, presentano una materia circoscritta, e una materia stabile, capace quindi, per la sua imperfezion medesima, d'un'integrità artifiziale. E è una lista, non dico facile a raccogliersi: adolescens manum admovi, senex, dum perficerem, factus sum, disse il Forcellini che con tutta ala sua sagace diligenza non la raccolse però intera; ma è una lista che si sa esser finita, anche senza vederne la fine.

scarto n

prima stesura dallo Scarto 1 dal paragrafo 183


[24] Prendo altri statuti, e trovo la pena contro chi aliquem scarminaverit; contro chi aliquem ceperit ad gulam vel ad pectus, vel ad capitium; contro chi imbrigaverit terram alicuius, ne laboretur; contro chi faccia danno ne' prati altrui; pena maggiore, se in foeno maiatico, minore se in foeno guaiumo. Nullus ludat ad dados, armelas, sive nuces in ecclesia sancti Geminiani, nec pirlet in ea. Teneatur quilibet laborator, seu colonus partiarius, statim messis bladis, reducere omnes bladas in pignonos, in campis. De stratis salegandis. De andronis, seu canalectis cavandis. Latino anche questo; ma latino di Modena. In altri: Si quis ruperit, vel se absentaverit mole, et in fraudem creditorum...; Additio facta contra rumpentes... Nonnullos se fingentes ruptos... Infra annum a tempore suae rupturae...; Si venditio facta fuerit in publica callega, ad instantiam creditorum...; Si quis foricus vel extraneus coram aliquo magistratu convenerit aliquem foricum, vel extraneum...; Si nec citatus, nec procurator comparuerit pro eo, licenter possit forestari: aliter facta forestatio per aliquem potestatem, non valeat. Nec habeant... dicti polestates... pro fundo, vel scosimento pro servitio... ultra salarium sibi taxatum: latino di Genova. In altri: De breviariorum examinatione. Quando plures dicunt se habere ius transeundi per unam calem... Quod uxor deuncti exeat de domo, praesentata sibi dote, et dimissoria, infra duos menses... salvo omni statio sibi dimisso a viro suo. Si quis fuerit stridatus quod tali et tali die compareat coram nobis... Si quis alicui maleficium aliquod, vel herbariam dederit manducare vel bibere... latino di Venezia. Si quis aliquem scarpinaverit, latino di Pavia. Si quis strassinaverit aliquem, latino di Bologna. Si qua persona sburlaverit aliquem, cum sanguinis effusione, latino di Cremona. Si aliquis, cum ense, cultello, lantia, mazzaferrata..., rixando, vel insultum in aliquem faciendo, smigaverit, vel traxerit... latino di Novara. Si quis aliquem vulneraverit, smanchaverit vel incassaverit: latino di Padova.

scarto o

primo finale dello scarto 1, paragrafi 285–6


[33] è piuttosto un vantaggio, e non il solo, che hanno per essersi presi l'incomodo di nascere, come disse uno di loro, a un altro proposito. Dico che è una condizion necessaria; e dico in conseguenza,/

scarto p

frammento di continuazione dello scarto o


[38] Di dove poi, e voci, e modi di dire, e traslati, abbiano questa virtù di significare, non è qui il luogo di cercarlo. Sono evidentemente tre maniere diverse, e, non meno evidentemente, tre maniere d'un fatto solo e generalissimo, che è la significazione verbale; e per ora non ho bisogno che di distinguerle, per potere osservar più distintamente il fatto particolare in questione. Gioverà bensì il notare che i modi di dire sono anch'essi una parte importante de' linguaggi, e per la qualità, e per la quantità, più di quello che possa parere a prima vista.

scarto q

frammento di rifacimento e continuazione dello scarto p


[40] voi medesimo, il quale m'avete pur detto, che il fine d'una lingua non è altro che d'intendersi uomini con uomini, avreste potuto dirmi che, trattandosi d'una lingua che deve servire a un'intera nazione, si tratta principalmente di lingua scritta, e io avevo ristretto il tutto alla lingua parlata, che non è che una parte accessoria della questione, o che anche non ci ha che far punto. Ché l'uno e l'altro è stato detto, e, caso non unico, né straordinario in questa disputa, da un medesimo scrittore: alto scrittore del rimanente.

A suo tempo non ci vorrà, spero, molto a dimostrare, anzi si troverà dimostrato da sé, che queste espressioni lingua scritta, lingua parlata, naturalmente improprie, poiché nominano come due cose diverse, due diverse, e solo materialmente diverse forme d'una cosa sola, e di più due forme sostanzialmente disuguali, poiché una è necessaria all'esistenza della cosa medesima, l'altra è soltanto possibile alla cosa già esistente queste espressioni, dico, divengon poi assolutamente e importantemente false, quando s'intenda con esse significar davvero due cose diverse; false, né più né meno che se, leggendo, per esempio, in una vita di Socrate, queste parole: “ abbiamo visto Socrate filosofo. vediamo ora Socrate uomo ”, s'intendesse proprio due Socrati, uno de' quali avesse potuto esser filosofo, senza esser uomo. Falsa, come non corrispondente a nessuna cosa reale, né possibile, come mero accozzamento verbale d'un sostantivo significante un effetto, con un aggettivo significante ciò che non può esser sua causa, l'espressione di lingua scritta, quando voglia affermare che una lingua può formarsi e vivere col solo mezzo della scrittura. Falsi ugualmente, e per la ragion medesima, l'espressione di lingua parlata, quando supponga che questo esser parlata, che è in effetto la condizione essenziale e vitale d'ogni lingua, sia soltanto una circostanza accidentale d'alcune, che ne costituisca soltanto una specie, che insomma ci possano esser lingue che non siano parlate. Ma per arrivare a questa dimostrazione, bisogna avere osservato quali siano le cause efficienti e necessarie delle lingue; e finora non s'è trattato che degli effetti. L'obiezione sarebbe dunque stata inopportuna, com'era inevitabile; e il meglio, o il men male, era di prevenirla, esaminando, come se ce ne fosse ancora bisogno, anche i fatti relativi allo scrivere, addotti da voi.

E a costo di qualche ripetizione, n'abbiam però ricavato il vantaggio di conoscer più pienamente e distintamente che noi non possediamo una lingua in comune: vero vantaggio, se una tal conoscenza, levandoci un'illusione, ci fa volere una realtà, che è in poter nostro d'acquistare. Avevamo paragonata quella che voi chiamate lingua italiana, quella cioè che è diffusa in tutta Italia, con una lingua viva, e trovato che è ben lontana dal produrne gli effetti veri e essenziali; paragonandola anche con una lingua morta, abbiam trovato che questa ha potuto produrre tutti quelli che essa produce.

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frammento della continuazione dello Scarto 1, destinato ad Appendice


[I] non è punto più italiano del primo, punto meno strano per la più parte degl'italiani.

Poche osservazioni generali sui traslati, applicate alle circostanze dell'Italia, basteranno, come ho detto, per indicare che anche i casi di questa specie devono aver la loro buona parte nello scrivere che si fa in tutta Italia. Dico di questa specie, non di questa forza: più o meno strani, non fa alla questione; la quale non è se le locuzioni che s'adoprano negli scritti di questa e di quella parte d'Italia, siano più o meno facili a intendersi nell'altre parti, e ci facciano più o meno specie; ma se s'adoprino in ogni parte le medesime; che è il proprio e unico segno del possedere una lingua in comune.

L'intento e l'effetto de' traslati è di produrre nuove significazioni senza nuovi vocaboli. E è un ripiego occasionato dalla povertà del linguaggio, come osservò benissimo Cicerone: senonché pare che abbia voluto restringere particolarmente questa cagione a un tempo incognito e indeterminato. “ Come il vestito ”,     dice,
“ fu da principio inventato per ripararsi dal freddo, e poi s'adoprò anche per ornamento e per decoro; così il traslato, istituito per scarsità di termini, fu poi reso frequente dal piacere ”(nota 115). Ma, in questo, come in tanti altri casi simili, la supposizione congetturale d'uno stato primitivo, incipiente, del linguaggio, ha il doppio inconveniente, d'essere arbitraria, e di non servire a nulla per la spiegazione del fatto attuale; ed è in vece cosa tanto sicura e a proposito, quanto facile, il vedere che questa scarsità è una condizione perpetua de' linguaggi, quali noi li conosciamo, anzi quali possiam concepirli; e quindi un'occasion perpetua di traslati. Nessun linguaggio infatti (sia poi, o si chiami, lingua o dialetto, non importa punto; giacché, in questo non c'è tra l'une e gli altri differenza veruna, né sostanziale, né accidentale, e nemmeno apparente) nessun linguaggio ha termini appropriati per esprimere tutto ciò che è possibile d'esprimere. Ed è insieme, per la natura stessa della cosa, sommamente difficile il formar vocaboli affatto nuovi, cioè esprimere un significato con un suono che non abbia una relazione con qualche altro suono al quale sia già annesso un significato. Ora il traslato è appunto un mezzo d'arrivare all'intento, schivando la difficoltà, un mezzo, come ho detto, d'aver nuove significazioni senza nuovi vocaboli: è far pensare una cosa col nominarne un'altra, la quale abbia con essa una somiglianza, o una relazione qualunque, d'essenza, d'origine, di modo, di vicende, di causalità, d'operazione, o d'altro.

Non men certo e manifesto è l'altro fatto addotto da Cicerone, [7] cioè la proprietà che i traslati hanno di piacere, indipendentemente dalla loro utilità, dirò così, materiale. E la ragione di questo piacere è, se non m'inganno, in quella disposizion naturale dell'intelletto a compiacersi di tutto ciò che estende e coordina insieme la sua comprensione: disposizione, per la quale gli riesce naturalmente gradevole l'essere avvertito d'una relazion d'una cosa, nel punto stesso, e col mezzo stesso che lo fa pensare alla cosa. E tanto più gradevole, quanto più la relazione era inosservata, e insieme si manifesta come evidente; quanto più è tra cose diverse e lontane, e insieme riguarda qualcosa d'intimo e di naturale a tutt'e due; dimanieraché l'intelletto viene come a scoprire una legge più alta e più vasta, sotto la quale si riuniscono, e abbraccia, per dir cosi, una più grande estensione d'unità *.

*A questa ragione si riducono in ultimo, se non m'inganno, le varie e ingegnose addotte da Cicerone, meno l'ultima, la quale però non è fondata che su una supposizione contraria al fatto e al possibile, come spero di poter dimostrare brevemente.

Trascrivo qui il passo del meraviglioso oratore, e tutt'altro che volgare filosofo, con la traduzione del P. Cantova “ Id accidere credo, vel quod ingenii specimen est quoddam transilire ante pedes posita, et alia longe repetita sumere; vel quod is qui audit alio ducitur, neque tamen aberrat, quae est maxima delectatio; vel quod singulis verbis res ac totum simile conficitur; vel quod omnis translatio quae quidem sumpta ratione est, ad sensus ipsos admovetur, maxime oculorum, qui est sensus acerrimus” (Ibid. 40). “ Io crederei che ciò nasca, o perché il gittarsi di salto a cose rimote, trapassando le ovvie e vicine, ne sembra un certo lampo d'ingegno; o perché chi ascolta vien colla mente trasportato altrove, senza però uscir di sentiero, il che è di sommo diletto; o perché viensi in una parola a comprendere, e il suggetto e la somiglianza ond'è rivestito; o perché d'ogni giudiziosa traslazione è proprio il render sensibili le cose, massime al senso dell'occhio, che di tutti è il più vivo”. Ed è verissimo che i traslati presi dagli oggetti sensibili sono i più frequenti, e che danno un piacere particolare quando sono adoprati a far intendere cose immateriali. Ma anche in questo caso, anzi in questo caso più che mai, il piacere (dico un piacere secondario, e indipendente da quello che viene dall'intender la cosa voluta significare) nasce appunto dalla relazione veduta tra idee d'oggetti di diversissima natura, quali sono gl'immateriali e i materiali; non già dall'esser le cose messe davanti al senso, o rese sensibili, o, in termini più tecnici, dal destarsi nella mente l'immagini delle cose significate direttamente dai vocaboli che s'adoprano per produrre indirettamente la nuova significazione. Infatti, come mai sarebbe cagione del piacere che il traslato può dare, un effetto, non solo estraneo, ma opposto all'intento del traslato medesimo? cagion generale d'un tal piacere un effetto che può bensì aver luogo, ma in pochi casi, e accidentalmente anche in quelli, e nella massima parte de' casi non Può assolutamente aver luogo? Può, dico, l'immagine dell'oggetto materiale, significato direttamente, destarsi nello spirito, quando un tale oggetto sia determinato e individuo. Per esempio, chi sente o legge quelle parole del Petrarca,

al sommo Sole

Piacesti sì....,

può benissimo destarsi l'immagine dei sole materiale. Ma dico: può destarsi; non si desta necessariamente; anzi è un caso straordinario; [3] e probabilmente il lettore mi risponde che non si rammenta se questo gli sia accaduto una sola volta, delle tante che queste parole sono state presenti alla sua mente. E, del resto, è già caso molto raro che si prendano traslati da oggetti materiali individui; e ciò per ragioni che non importa qui di vedere. Nella massima parte de' casi poi, cioè quando il vocabolo da cui si prende il traslato, significa un oggetto astratto, non può assolutamente l'immagine di esso destarsi nello spirito, per la ragion semplicissima che l'immagini degli astratti non ci sono, né ci possono essere. Si dice, per esempio: il colore dello stile, un fiume d'eloquenza, i voli della fantasia, i rami delle scienze, un'indole pieghevole, un ingegno corto, etc. etc.; e qual è, o è mai stata, o sarà mai l'immagine del colore, del fiume, de' voli, de' rami, del pieghevole, del corto? – Ma, sento dirmi, non può forse l'immagine d'un colore, d'un fiume concreto e particolare destarsi nello spirito, al sentir questi vocaboli, e il simile accadere all'occasione di qualunque altro vocabolo astratto? – Può, senza dubbio; ma, in questo caso, l'immagine, essendo qualcosa non solo di diverso, ma d'opposto a ciò che il vocabolo vuol fare e fa intendere, non che esser la cagione dei piacere che il traslato può dare, è anzi per sé un impedimento all'intelligibilità dei traslato medesimo: intelligibilità, che è certamente una condizione indispensabile perché questo possa dar piacere. Vediamo la cosa più chiaramente in un esempio. Suppongo che le parole: scoprire una legge dell'intelletto, scoprire i fini segreti d'alcuno, o simili, mentre mi fanno intendere il senso traslato che vogliono, destino in me l'immagine fisica d'uno scoprire; cioè, 1o l'immagine d'un oggetto che copra: oggetto, o veduto da me altre volte, o fantastico, ma determinato a una forma particolare; 2o l'immagine d'un agente, pure determinato, puta una mano, e una tal mano, che con un tal atto levi quell'oggetto; 3o finalmente l'immagine d'un nuovo oggetto che comparisca per effetto di quell'atto: oggetto ugualmente determinato; ché, con questa condizione soltanto, l'immagine è possibile. Sarà più o meno determinata, più o meno costante; ma non può essere immagine, senza una determinazione qualunque. Ora, qual è il mezzo che mi fa intendere il senso traslato? Null'altro che il vedere una relazione tra lo scoprire, inteso nel sento proprio, e quella innominata operazione della mente intorno a una legge dell'intelletto, a de' fini segreti, o altro. Ma cos'è per l'appunto questo scoprire col quale io vedo una tal relazione? Forse quell'immagine complessa d'oggetti e d'atti particolari e determinanti? No, di certo; poiché è troppo chiaro che in altri, ai quali, come a me, il vocabolo fa pensar la relazione e, per mezzo di essa, il nuovo significato, potranno destarsi tutt'altre immagini; sarà anzi un miracolo se in due si desta la medesima; in me stesso potrà, una seconda volta, destarsene una diversa. La relazione dunque, che pure intendiamo tutti, dev'essere, ed è, con un oggetto uno e identico per tutti, cioè con l'idea astratta scoprire, senza particolarizzazione veruna, senza veruna determinazion secondaria, con l'idea quale infatti il vocabolo vuol significarla. E quindi tutte queste immagini particolari e determinate non sono altro che distrazioni, riguardo all'apprensione dell'idea astratta, che è il termine vero della relazione, e la materia, dirò così, del traslato. Se, per una supposizione assurda, si destassero esse sole nello spirito, e l'occupassero interamente; l'intelligenza del traslato medesimo sarebbe affatto impossibile. E dico: per una supposizione assurda; giacché, non significando il vocabolo alcun oggetto concreto al quale l'immagine possa riferirsi direttamente, questa non può destarsi nello spirito che per effetto d'un'applicazione dell'idea generale; la quale, per conseguenza, dev'essere appresa prima e immediatamente. Ragion per cui, in questi casi, il destarsi dell'immagine è più accidentale che mai; dovendo lo spirito, con una seconda operazione, passare dal generale (che è l'oggetto, e l'efficiente dell'intelligenza e del piacere) a un particolare arbitrario e inutile.

Non ho voluto dire con ciò, che, quando il traslato sia preso di un oggetto [4] materiale individuo, e atto per ciò a rendersi presente allo spirito sotto forma d'immagine, questa, se ha luogo, sia la cagion del piacere che si trova nel traslato. E è anzi facile il vedere che, anche in questi casi, essa non può che distrarre lo spirito da ciò che rende intelligibile e gradevole il traslato medesimo. Infatti, questo si fonda sulla relazione tra due oggetti più o meno diversi, ma necessariamente diversi: tra oggetti identici non c'è possibilità di traslato; hanno per ciò solo un nome medesimo. Bisogna quindi che la relazione non sia che in un punto, o in alcuni punti; e che lo spirito, per apprender quella, contempli questi a parte dal rimanente; e nell'immagine invece si trova riunito e confuso anche ciò che è affatto estraneo all'intento speciale del traslato. Ci serva di nuovo l'esempio che abbiam preso poco fa del Petrarca. La relazione di somiglianza con Dio, a Cui le parole Sommo Sole vogliono farmi, e mi fanno pensare, io non la trovo, certo, nell'apparente forma circolare e piana, nell'apparente dimensione del sole, che ho percepite col senso, e che mi si riproducono nell'immagine; prescindo anzi da tali, e da altri caratteri, gli escludo dal concetto, o piuttosto non ce li comprendo. Ma di più, non solo l'immagine, in questo caso, come in molt'altri, contiene degli elementi superflui, anzi inopportuni, ma è mancante de' più essenziali. Infatti, è principalmente nelle qualità attive, e nelle qualità comparative del sole che trovo la relazione di somiglianza per la quale il mio pensiero corre a Dio; la trovo col sole in quanto è causa, e causa unica (nel suo genere, e relativamente al nostro globo), in quanto ci diffonde la luce e il calore per cui si vede e si vive; in quanto comunica questa luce ad altri corpi celesti, e non ne riceve da alcuno, e gli offusca tutti: cose che non sono nell'immagine, né punto né poco. La trovo in somma, quella somiglianza, per mezzo di nozioni astratte, e astratte non dalla sola percezione sensitiva dell'individuo, alla quale corrisponde l'immagine, ma dalla nozione intera e complessiva di esso, nella quale son comprese tutte le sue qualità e relazioni d'ogni sorta, ch'io posso conoscere, come appunto efficienza o passività, indipendenza o subordinatezza, superiorità o inferiorità nel suo genere, e simili. Il risultato è il medesimo che se il vocabolo da cui è preso il traslato, fosse un appellativo, come padre o signore. In questi, è vero, l'astrazione e la generalità mi son presentate immediatamente, mentre, per averle dal vocabolo sole, che è proprio d'un individuo, ci vuole un'operazione particolare della mente; ma questa operazione è necessaria perché il traslato sia inteso. Quindi, non che i traslati presi da vocaboli astratti e generici, piacciano per mezzo d'immagini concrete, que' medesimi che son presi di vocaboli significanti individui, non posson piacere, se non in quanto danno mezzo e materia d'astrazione e di generalità. E di qui avviene che questi fanno pienamente il loro effetto anche nello spirito di chi, non conoscendo punto l'individuo per mezzo del senso, conosce, per testimonianza d'altri, la qualità astratta sulla quale si fonda la relazione. Leggendo, per esempio, in Aulo Gellio (N.A. XVI, 8) le parole: meandri della dialettica, non ho certamente bisogno, per intendere e gustare il traslato, d'aver visto il Meandro: mi bastano le nozioni astratte e generiche di fiume tortuoso.

Se alcuno dicesse che, opportune, o no, all'intento principale, l'immagini producono però per sé un piacere, quel piacere sui generis che consiste nell'avere una specie di sensazione, senza la presenza dell'oggetto, risponderei che qui non si tratta di vedere se l'immagini piacciano per sé, ma se contribuiscano al piacere che danno i traslati, e questo l'immagini non possono far altro che impedirlo, come credo d'aver dimostrato. Ma, del resto, se non è necessario, non è nemmeno estraneo all'argomento il cercare brevemente quale e quanto sia poi [5] quello ch'esse posson produrre, che se non m'inganno, è più celebrato che esaminato, anzi è tanto celebrato appunto perché non si pensa ad esaminarlo.

E per far ciò, non c'è altro che vedere quali siano l'immagini medesime, cioè quali siano i caratteri e le condizioni comuni a tutta quella loro, ugualmente indeterminabile, moltitudine e varietà. Altre, come è noto, hanno luogo senza intervento della volontà; in altre questa prende parte. (Non parlo de' casi in cui è la volontà stessa che le promove, perché questi non riguardano la questione). Ora, in quanto alle prime, delle quali sono appunto quelle che possono esser destate dai vocaboli, sia all'occasion de' traslati, sia in qualunque altra circostanza, l'esperienza più ovvia e immediata attesta che sono dilavate, incerte, vacillanti, spezzate, a brani, per dir così, tanto più quanto più l'oggetto è esteso e composto; e, se durano più d'un momento, mutabili, appunto perché non intere; è un succedersi di partì che si richiamano e sì cacciano a vicenda. Che se la mente, con un intento volontario, si studia d'afferrarle, di fermarle, di renderle compite, distinte, vivaci, è uno sforzo penoso, come tutti quelli che non arrivano al loro compimento; il quale, in questo caso, sarebbe d'innalzare, dirò così, l'immagine alla potenza di sensazione. E perciò la volontà non si determina per lo più a un tale sforzo, che per un interesse speciale, dipendente da circostanze e da affezioni personali, e ben diverso dall'interesse estetico e comune di cui qui si tratta. Si veda dunque di che valore possa essere il piacere d'una fiacca imitazione, o d'una contraffazion laboriosa del sentire, per lo spirito occupato nella realtà dell'intendere, e preoccupato dal piacere che vien naturalmente dall'intendere, tanto più quando questo è il fine diretto della sua operazione.

S'aggiunga anche, se ce n'è bisogno, che qualunque fosse pure quello che può esser prodotto dall'immagini, mancherebbe, per poterlo goder così spesso come vorrebbe la proposizione che stiamo esaminando, mancherebbe, dico, una condizione essenziale, il tempo. L'intelletto umano ha, non so s'io dica la forza o il bisogno d'andar più in fretta di quello che esse gli permetterebbero. Ce ne può somministrare un esempio (e del resto ce n'è per tutto, e ognuno può farsene subito da sé quanti vuole) quel passo medesimo d'Aulo Gellio, che s'è accennato poco fa. Parla il filologo, in quel capitolo, della dialettica, e, dopo aver detto che è uno studio spinoso da principio, ma, andando avanti, pieno d'attrattive, consiglia però di prenderlo con moderazione, “ altrimenti,     dice,
ci sarà pericolo che, come molt'altri, tu rimanga per sempre in que' suoi giri e meandri, come davanti agli scogli delle Sirene: periculum non mediocre erit, ne ut plerique alii, in illis dialecticae gyris atque maeandris, tamquam apud sirenios scopulos, consenescas”. Se dopo aver contemplata un'immagine di quel fiume o d'un fiume, lo spirito deve passare a una delle balze di Capo di Faro, o di Capri, o del golfo di Salerno, soggiorni delle Sirene, o, non conoscendo que' luoghi, a un'immagine di balze qualunque, e poi formarsene un'altra, come potrà, dell'invecchiare (consenescas), ci sarà pericolo, dirò anch'io, di rimaner troppo intorno a un povero passo d'Aulo Gellio; quand'anche non ci fosse l'altra faccenda, cioè la principale, che è di cogliere le diverse relazioni che danno un senso a que' diversi traslati.

[6] Ma che serve cercar se la cosa possa o non possa accadere, quando è manifesto che non accade? Ché la supposizione sulla quale è fondata quella dottrina, cioè la supposizione che i vocaboli significanti, in concreto o in astratto, oggetti sensibili, destino abitualmente, e come necessariamente, nello spirito dell'immagini più o meno corrispondenti, è affatto gratuita, anzi evidentemente falsa. Quell'effetto è, in vece, non solo un accidente, ma un accidente raro, siano, del resto, i vocaboli adoprati a formare un senso traslato, o ad esprimere un senso proprio.

La qual cosa, come è delle più facili a verificarsi da ognuno, così somministra, se non m'inganno, un esempio singolare di quanto anche ciò che accade in noi possa sfuggire alla nostra riflessione. Ché quella supposizione non fu certamente particolare a Cicerone, né a una scola, o a un secolo: fu piuttosto, se non è ancora, una dell'opinioni più diffuse, più ripetute, più sottintese. Dimanieraché un altro celebre oratore, e non oscuro filosofo che la combatté diciotto secoli dopo Cicerone (Ed. Burke, Ricerca intorno alle nostre idee del Sublime e del Bello, 1757), lo fece coi termini di chi annunzia una scoperta, o arrischia un paradosso. “ Io son di parere,     dice,
che l'effetto più generale de' vocaboli, anche aggregati ”     (così, secondo una sua classificazione, accompagnata con definizioni dedotte dal sistema lockiano, chiama i nomi appellativi degli oggetti sensibili che formino un tutto naturale o artifiziale, come uomo, cavallo, albero, castello, etc.),
“ non viene dal produrre essi l'immagini delle varie cose che vorrebbero rappresentare alla fantasia; poiché, dopo aver fatto un diligentissimo esame sul mio proprio spirito, e pregato altri di fare altrettanto sul loro, trovo che queste immagini non si formano una volta in venti; e quando ciò avviene, è, per lo più, in conseguenza d'uno sforzo particolare dell'immaginazione a quest'intento.... Supponiamo che uno s'abbatta a leggere un passo così: – Il fiume Danubio nasce in un terreno umido e montuoso, nel cuore della Germania, dove con gran giri e rigiri scorre per vari stati, finché entra nell'Austria, e lasciandosi dietro le mura di Vienna, passa nell'Ungheria; là, con una vasta corrente, accresciuta dalla Sava e dalla Drava, esce dalla Cristianità, e attraversando le barbare contrade che confinano con la Tartaria, si getta per più foci nel mar Nero –. Quante cose nominate in questa descrizione! monti, fiumi, città, il mare, etc. Eppure ognuno s'esamini, e veda se nella sua fantasia è stata prodotta immagine veruna d'un fiume, d'un monte, d'un terreno umido, della Germania, etc. ” (Parte V.a, Sez. IVa). [7] Non ci sarà, credo, nessuno a cui queste parole lascino il desiderio d'una più ampia dimostrazione

Allegato

Il Dumarsais volle indicare un'altra cagione de' traslati; ma, se non m'inganno, non fece altro che riproporre questa medesima con altre parole. “ Non bisogna ”     dice
“ credere con alcuni dotti che i tropi siano stati da prima inventati solo per necessità, e per la mancanza di vocaboli propri... L'immaginazione ha troppa parte nel linguaggio e nella condotta degli uomini per essere in questo preceduta dalla necessità. Quando si dice che uno è più lento d'una tartaruga, un altro più veloce del vento, che un altro si lascia trasportare dal torrente delle passioni etc., è che la vivacità con la quale si sente ciò che si vuole esprimere, eccita in noi queste immagini, ne siamo occupati noi per i primi, e ce ne serviamo poi per mettere in certo modo, davanti agli occhi degli altri ciò che vogliamo far loro intendere ”.

Lasciamo da parte questo far dell'immaginazione il mezzo universale e unico per esprimere la vivacità d'un concetto; ch'era una conseguenza della supposizione, ricevuta allora come un fatto, che ogni concetto fosse un prodotto del senso. L'immaginazione è pure, secondo il Dumarsais, messa in moto, val a dire preceduta da qualche cosa. E da che? Dalla vivacità appunto del concetto, o del sentimento, ché per ciò che riguarda la questione è tutt'uno. E cos'è questa vivacità? Qualcosa che non sarebbe espresso dal termine proprio. “ Ma ”     segue il D.
“ gli uomini non hanno consultato se avevano o non avevano de' termini propri per esprimere quelle idee.... hanno secondato l'impulso dell'immaginazione, e l'ispirazioni, il desiderio di far sentire vivamente agli altri ciò che sentivano vivamente essi medesimi ”. Cosa importa che abbiano o non abbiano consultato se c'erano i termini propri, quando in quel caso non se ne sarebbero contentati? E cos'è altro, in quel caso, il desiderio di far sentire vivamente ciò che si sente vivamente, se non un bisogno di nuove significazioni? Ciò non vuol dire che un tal desiderio sia sempre ragionevole, o in altri termini, che un tal bisogno sia sempre reale. L'uomo può pur troppo aver voglia, e una voglia ardente e vivace di nominar ciò che non è, o d'attribuire a cose vere caratteri che non hanno; e la parola, strumento efficace e potente, ma fallibile nelle mani, dirò così, d'un'intelligenza fallibile e oscurata, serve troppo bene a tali trasporti, e dà col vero medesimo i materiali alla fantastica creazione del falso. La stessa ignoranza del termine proprio, che pur ci sarà, diventa occasione di traslati: i bambini ne fanno continuamente e a bizzeffe per questa cagione: ed è in que' casi un bisogno e una mancanza relativa. Degl'infiniti

Scarto 2

stesura del Cap. I dal paragrafo 19


[3] al di là di quella prima apparenza. Il male è che, per poterli confutare, dobbiamo esporli noi medesimi; giacché una tale opinione, come in genere quelle che hanno un intento puramente negativo, si manifesta piuttosto ne' discorsi di quel che sia sostenuta ex professo ne' libri; e quindi non sapremmo dove trovare un testo bell'e fatto da confutare. Faremo però, in coscienza, tutto ciò che può dipender da noi, per non levare a quella opinione nulla della sua forza apparente.

Ecco dunque quel che ci pare che potrebbe dirci uno di questi nostri avversari (e chiedo, per lui e per me, il permesso di non star rigorosamente alle regole della creanza, giacché alle volte si dice meglio o più presto la sua ragione; e se c'è occasione di potersene dispensare, è appunto quando si parla contro di sé, o quando si parla a un personaggio ideale, o a molti, che è tutt'uno): – Se l'esser cinquecent'anni che si disputa, pare a voi una buona ragione per continuar a disputare, servitevi: noi n'abbiamo una bonissima per starne fuori, e per riderne, se, da una parte, non fosse cosa da piangere; ed è che sono anche cinquecent'anni che, in mezzo alle dispute, indipendentemente dalle dispute, malgrado le dispute, la cosa cammina; sono cinquecent'anni, più o meno, che la lingua italiana fa, senza interruzione e imperturbabilmente, il suo mestiere di lingua. Ci son due generi di cose introvabili: quelle che non esistono, e quelle che son già trovate. “ Fu uno di quelli ch'ebbero la disgrazia di trovar la quadratura del circolo ”, disse Fontenelle d'un geometra; e lo stesso si potrebbe dire, anzi con più ragione, d'uno il quale (passatemi una supposizione stranissima, ma che fa al caso) credesse d'aver trovato il triangolo equilatero. Non si saprebbe, certo, indovinare cosa diamine avesse trovato; ma si potrebbe esser certi che non sarebbe il triangolo equilatero, appunto perché avrebbe creduto che ci fosse bisogno di cercarlo; e direte anche voi che si sarebbe dispensati dal verificare il suo ritrovato. Per una ragion simile noi ci dispensiamo dall'esaminare il vostro. Qualunque

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cfr. Cap. I, paragrafo 209 apparato


[17] avessero avuto altro che quel così detto latino..... Ma la supposizione è assurda, implica contradizione: non può una società avere, in vece di lingua, una cosa simile; perché non può non avere il mezzo di dire tutto ciò che dice in effetto. Se avessero avuto quello solo, sarebbe stato una lingua viva, cioè una lingua.

Ora, è troppo facile il vedere quanto simili a questi siano gli effetti che mi mettete davanti, come altrettante prove che noi italiani possediamo una lingua in comune. Si scrivono, senza dubbio, in ogni parte d'Italia, e libri e altro; ma per vedere, cominciando da' libri, cosa provino, in ciò che riguarda la nostra questione, basterebbero quelle stesse dispute che avete tanto a noia, e che vorreste (con gran ragione, se ne voleste anche il mezzo) veder finite. Infatti, come mai si potrebbe dire: questa è la buona lingua; no, è questa qui; anzi è quest'altra, se tutti ne scrivessero una? Ché non sono solamente, né principalmente questioni di stile, cioè delle diverse maniere d'adoprare i materiali d'una lingua; sono questioni intorno ai materiali medesimi: questioni che in parte producono, ma che insieme attestano in quelli la più strana e deplorabile diversità. Codesto libro è scritto in una lingua barbara, dice uno; codesto è scritto in una lingua morta, dice un altro. Da una parte sentite dire: è una vergogna il veder certi libri scritti in lombardo; da un'altra: è una cosa da morir dalle risa il veder certi libri scritti in cruschevole. I tali e tali scrittori, dicono alcuni, sono i restauratori della lingua; i tali e tali, dicono altri, parlando di que' medesimi, scrivono una lingua dell'altro mondo. Ecco in qual maniera quello che si scrive in tutta Italia (e non parlo ancora che de' libri) dimostra che ci si possieda una lingua in comune.

E che? direte forse: non si sente anche fuori d'Italia, in quella Francia, per esempio, che citate tanto, non si sente dire di certi libri, che sono scritti in buona lingua, d'altri tutto il contrario? Senza dubbio; ma osservate che in Francia, come per tutto dove queste cose camminano bene, la buona lingua è una sola; anzi non si dice neppure la buona lingua, si dice: la lingua o il francese, come i latini dicevano: latine senz'altro, scire, nescire latine. E di qui deve nascere e nasce che, ne' libri francesi, le diversità in fatto di lingua (e gli errori non sono altro che diversità) sono poche, sono un nulla in paragon delle nostre. E non badate al gridar che fanno molti francesi gelosi della purità della loro lingua: che quella de' libri diventa barbara di giorno in giorno, che ormai è un merito raro lo scriver francese. Sono i lamenti di chi sta bene; lasciando anche da parte quelli <che> potranno riguardar lo stile e non la lingua, e quelli che potranno essere ingiusti anche in fatto di lingua. Appunto perché i francesi hanno una lingua unanimemente riconosciuta, senton subito ciò che non è conforme ad essa; e anche il poco poco par lor molto; come uno dirà che una città è piena di storpiati, per [18] averne incontrati diciotto o venti, girando una mattina: i diritti non li conta, perché sono come devon essere. E questa ragion medesima la quale fa che le diversità dian tanto nell'occhio, fa anche che ce ne sia poche; perché, quando si ha una lingua riconosciuta unanimemente, non è che un'inettitudine, o una negligenza, o un capriccio singolare che possa far cascare uno a trasgredir frequentemente le consuetudini di essa. Da noi, invece, lo stesso voler far bene è una cagione di diversità, perché le buone lingue, o per parlar più giusto, le cose a cui si dà questo nome son molte, fondate su princìpi diversi, e aventi, per conseguenza, diversi criteri, e più o men diversi materiali.

Scarto 4

prima stesura del Cap. I dal paragrafo 4oo


[42] ritrovato. Non par vero d'acquistare un mezzo di nominare in iscritto una cosa necessaria, senza far ridere. La locuzione fa fortuna, e, di scritto in scritto, diventa a poco a poco, o anche in un momento comune. Ma intendiamoci: comune in tutta Italia? Oh! questo no; e la ragione l'ho già accennata indirettamente, dicendo che queste creazioni si fanno per schivare una locuzione, o milanese, o bolognese, o piemontese, o altro. Vuol dire che, come si crea a Milano, così si crea a Bologna, si crea a Torino, si crea a Messina, si crea a Venezia, si crea a Genova, in somma in tutte quelle parti d'Italia dove nasce questo strano e tristo caso di mancar di locuzioni per nominare in iscritto cose notissime. E mi sapreste voi dire una ragione per cui si deva riuscire a crear per tutto nella stessa maniera? o una ragione per cui una di queste creazioni deva prevalere a tutte l'altre, scacciarle ognuna dal suo posto, e regnar sola in Italia? L'altro ripiego è di prendere le locuzioni di cui s'ha bisogno, e che si dovrebbero avere, da altre lingue; o morte, cioè quasi sempre la latina; o vive, cioè quasi sempre la francese. Certi dicono: la nostra lingua è figlia della latina; cosa c'è di più naturale che il provvedere ai bisogni della figlia con le ricchezze della madre? e non è anche un espediente più nobile, più da gente colta, che l'andar mendicando voci barbare? Cert'altri dicono: le locuzioni francesi son famigliari a ogni sorte di lettori; cosa c'è di più naturale che l'adoprar locuzioni conosciute? cosa di più insopportabile che andare a ripescar locuzioni pedantesche? – E questo stesso prender sistematicamente da diversi luoghi, per dir le cose medesime, fa veder subito che, con un tal ripiego, non s'arriva all'unità. E del rimanente, s'era già detto col dire che è un altro ripiego, e che ci sono anche quelli che, trovando barbare le locuzioni francesi, e pedantesche le latine, pensano che è meglio creare.

E vedete: questo far locuzioni nuove, o prenderne di bell'e fatte da altre lingue, sono pure mezzi naturalissimi e opportunissimi di supplire ai nuovi bisogni d'una lingua; mezzi, che que' medesimi che ne dicono ogni male, son costretti, quando la questione sia posta in termini precisi, a riconoscerne la ragionevolezza, la necessità, e a dire che non intendono biasimarne se non l'abuso; mezzi in effetto universalmente praticati, e coi quali le lingue s'arricchiscono e crescono.

E perché dunque, in questi nostri casi, tali mezzi non producono un tale effetto? Perché manca quella condizione, che i bisogni siano nuovi. Le lingue non s'arricchiscono, non crescono col provvedere a bisogni vecchi: a questi hanno già provveduto, appunto perché son lingue. Se ne possedessimo una in comune, avremmo anche quelle locuzioni: non si penserebbe né a crearle, né a prenderle altrove.

La stessa ragione per cui nasce ora qua, ora là la strana idea di ricorrere a tali ritrovati per nominar cose vecchie, fa che que' ritrovati rimangano uno qua e l'altro là; e se uno ha un po' più seguaci d'un altro, nessuno però divenga veramente comune. Cosi, oltre i diversi mali, abbiamo anche/

Scarto 5: Appendice A

cfr. Cap. II, paragrafo 113 e nota

[I] Il traslato consiste nell'applicare a una locuzione un significato diverso da un significato già annesso a quella; ma che abbia con questo significato anteriore una somiglianza parziale qualunque; per mezzo della quale il concetto che si vuol comunicare sia suscitato nella mente di chi ascolta, o di chi legge.

Non ho detto: dal significato proprio, perché quest'aggiunto non indica direttamente e con precisione il concetto, e può quindi facilmente suggerirne de' falsi. Infatti, il Dumarsais, dopo aver definiti i traslati: “ Figure, con le quali si fa prendere a un vocabolo un significato che non è precisamente il suo significato proprio ”,     aggiunge molto coerentemente, che,
“ per intender cosa sia un traslato, bisogna principiare dall'intendere cosa sia il significato proprio d'un vocabolo ” (Des Tropes. I.ère partie, art. IV). Ma ecco la definizione che ne dà, del resto dopo il Buffier (Gramm. Franç. 84): “ Il senso proprio d'un vocabolo è la prima significazione di esso. Un vocabolo è adoprato nel senso proprio, quando significa la cosa per la quale è stato stabilito alla prima ” (Ibid. art. VI). In verità, se, per riconoscere che un vocabolo è adoprato in senso traslato, fosse necessaria una tal cognizione, non so quanti se ne potrebbero riconoscere; giacché quanti sono i vocaboli de' quali si possa dire che siano stati stampati apposta per una data significazione? E è una cosa facile da osservarsi, che si fanno de' traslati di traslati.

Per esempio, il vocabolo latino spiritus, nel senso di ardire, baldanza, è un traslato di spiritus, significante anima; e chi non sa che questo medesimo è un traslato di spiritus, significante aria? Supponiamo ora (caso non singolare certamente), che fosse persa la memoria di questo significato anteriore: chi ammettesse quella condizione si troverebbe tra due partiti, non so quale più strano: o d'affermare arbitrariamente (e in falso) che il significato di anima è il significato primitivo del vocabolo spiritus, il significato per cui è stato istituito; o di non poter dire che il vocabolo, nel senso di ardire, baldanza, è un traslato di questo. Ma, senza bisogno di supposizioni, uno de' primi esempi addotti dal Dumarsais medesimo, per dimostrar la sua tesi, viene singolarmente a proposito per dimostrarne l'insussistenza. Citando il vocabolo Masque applicato dal Malherbe a significare, in traslato, una persona che finge de' sentimenti diversi da quelli che ha in effetto, dice: “ Nel senso proprio, la parola Masque significa una sorte di copertura di tela incerata, o d'altra materia, che si mette sul viso... ”. Ora come mai avrebbe il Dumarsais potuto provare che questo sia il senso primitivo del vocabolo? E è in vece opinione molto probabile, di vari etimologi, che sia esso medesimo un traslato del latino barbarico, masca, che significava strega (V. Leg. Longobard. e il Ducange ad h. v.). E è anche probabile che da questo significato anteriore [2] sia stato preso per traslato quell'altro definito così nel Vocabolario dell'Accademia francese: Masque s'emploie aussi comme Un terme d'injure, pour reprocher à une femme sa laideur ou sa malice. E adduce tra gli esempi: La laide, la vilaine maisque! che corrisponde a Brutta strega. Ma ciò sia detto per un di più; giacché, quand'anche l'etimologia non fosse vera, il fatto che il Dumarsais propone come il criterio con cui distinguere il senso proprio dal traslato, rimarrebbe ugualmente impossibile a verificarsi, in questo, come nella massima parte de' casi.

Con ciò non abbiamo punto voluto criticare l'uso che si fa nel discorso comune della parola proprio, per opporla a traslato. Per senso proprio, nel discorso comune, e in questo caso, non s'intende altro che: un senso già appartenente, già annesso alla locuzione, a cui, per mezzo del traslato, se ne vuole applicare uno novo; e non si va a pensare, né punto né poco, se quel senso sia o non sia primitivo. S'allude a un fatto noto, e non a un'origine ignota, e le più volte non conoscibile. E è da credere che il Dumarsais medesimo non abbia più pensato a una tal condizione nella quantità d'esempi che adduce nel corso di quel lavoro sui traslati: altrimenti avrebbe dovuto avvedersi che strano impegno, da una parte, sarebbe stato il volerla adempire, dimostrando che il senso da lui proposto ogni volta come proprio, era il senso primitivo del vocabolo; e che strana incoerenza, dall'altra, il non farsene carico. Nulla potrebbe provar più evidentemente, che, nella pratica, l'espressione di senso proprio non porta il pericolo d'un'interpretazione erronea.

In una definizione però, c'è parso che fosse necessario d'indicare esplicitamente ciò che costituisce la differenza tra il senso che si chiama comunemente proprio, e il traslato; che è appunto l'anteriorità confusamente sottintesa nel linguaggio comune.

[Si legge qui la didascalia autografa] Qui si troverà una transizione, per attraccare a ciò che segue.

E è veramente una cosa mirabile e degna di tutta l'attenzione del filosofo quest'attitudine a accozzare e riunire sotto una medesima denominazione, cioè in una medesima classe, oggetti alle volte disperatissimi; questa potenza d'astrazione, che fa cogliere tra di essi <una somiglianza>, in mezzo a una vasta e densa moltitudine di differenze, non solo incomparabilmente più apparenti, ma spesso essenziali. Qual cosa più comune de' traslati che attribuiscono a sostanze spirituali qualità e modi e accidenti e la natura medesima di sostanze corporee, e viceversa, sentimenti, passioni, giudizi, abitudini morali, azioni volontarie a sostanze materiali? E non solo arriva il traslato a riunire così, quasi in un genere, delle sostanze di diversa natura, ma sostanze ugualmente: fa anche di più, e molto di più, quando trasporta le qualità, i modi d'essere delle sostanze a degli esseri mentali, cioè privi di sostanza, non aventi realtà; come quando si dice, verità grande, piccola, astrusa, palpabile, analogia lontana, recondita, ordine elevato, esteso, circoscritto, inferiore, e simili.

Scarto 6

prima stesura del Cap. III, paragrafo 40


[59] proposizioni positive, ottative, condizionali, o si deducono dalla collocazione, de' vocaboli, o s'indicano con de' vocaboli separati, che si scrivono con caratteri distinti, o prima o dopo il tema del nome o del verbo(nota 116).

Dopo aver visto, e come il linguaggio possa supplire al mezzo dell'inflessioni, e che lo fa in effetto, potrà parere doppiamente superfluo l'esaminare e il confutare gli argomenti che siano stati allegati per provar necessaria questa o quella inflessione. Ma ciò che non è

Appunti

*I

N.I. Se vi furono dizionari di sinonimi prima del Popma? Nelle opere di Cornelio Frontone pubblicate in Milano nel 1815 da più palimsesti dal Mai trovasi un frammento intitolato: De differentiis vocabulorum. La materia è trattata p.e.

così: Album et candidum. Album natura fit: candidum cura. Non è alfabetico.

N.2. Quando formaronsi i primi lessici di pura lingua? Nel periodo VI (306–1453 d.Cr.) della storia letteraria di Grecia secondo l'Atlante di Jarry de Mancy, che dice di riferirsi a Schoell, trovasi un complesso di lessicografi in numero di 16. Fra questi voglionsi ricordare Esichio od Hesychios, il quale compose un dizionario alfabetico della sua lingua dove a ciascun vocabolo è contrapposta una spiegazione del significato od un sinonimo forse per lo scopo di spiegazione; di poi Suida che fece pure un dizionario di lingua insieme e di erudizione o storia.

Giovanni de Balbis di Genova vissuto sino al 1298 compose un'opera di grammatica e di lessicografia da lui nominata catholicon, la quale nella parte lessicale è un vero dizionario alfabetico della lingua latina.

N.3. Se vi furono dizionari speciali prima di quelli di Carlo Aquino? Un G. Modesto che morì nel 296 pubblicò un'opera intitolata a Tacito Augusto de vocabulis rei militaris. Questo libro fu stampato in Roma nel 1487 per Sylber, e di esso trovasi un esemplare in Biblioteca.

2

Huc Pertinet sacerdotiorum, magistratuum, munerum novorum appellatio, cujus caussa inscriptionem saepe vel obscuram esse, vel barbaram necesse sit, nam si priscis vocabulis utamur, quum perraro nova cum veteribus conveniant, sententia lateat obscuritate involuta verborum: sin autem ea vernaculis nominibus designemus, Latinam inscriptionem polluere, splendoremque ejus maculis adspergere videamur. neque vero eos non saepe scopulos offendas: quippe nullum prope est inscriptionum genus, in quo ejusmodi nomina afferre non oporteat. quae res titulorum scriptores adeo torsit, ut numquam statuere potuerint, quam in his rationem viamque sequerentur: ac modo Latinis plane vocabulis, communi hominum sensu adversante ac repugnante, usi sunt; modo peregrina ac barbara nomina, quae omnium aures respuerent, nec verecunde, nec dubitanter receperunt.

Morcelli; De Stilo lnscriptionum Latinarum; Lib. II. Prolegomena, paragrafo II, De diffcultate inscriptionum.

3

Dagli Statuti di Genova

rotto x?

Si quis ruperit (sia fallito) vel se absentaverit mole (clandestinamente?).

rottura

Infra annuum a tempore suae rupturae (fallimento).

caega

Si venditio facta fuerit in publica callega (asta?).

foesté ma ha lo stesso senso che nel milanese

Si quis foricus vel extraneus

x?=scösso= vuol dir riscosso

Nec habeant dicti potestates pro fundo vel scosimento pro suo servitio ultra salarium sibi fixatum.

esser forestato

Si non comparuerit possit forestari (esser bandito).

Genova

4

Quilibet dominus volens dare coegium alicui suo massario. Stat. Bergomi Collatio 4.a P. 150.

Si quis derivaverit vel extraxerit de aqua alicuius seriolae, seu aquaedoctus alicuius privatae personae. 165.

Nullus molinarius debeat miscere cum farina macinata, nec cum grano, quot dabitur sibi ad macinandum, sablonum, cruscam, nec soventrum. 226.

De mojolis et vasis vitreis. 239.

De cloacis fiendis sub terra, et foveis et andatellis amovendis de stratis.

De refectione rizolorum.

Quod viciniae teneantur ad reparationem rizolorum in corum vicinia existentium.

guadum, lebetes, frissoriae, sostae non possint, nec debeant pignorari.

5

Capitula super maleficiis, rixiis, caviglanciis facta. Stat. Taur. 708.

Nullus ducat vel intrare permittat aliquas bestias ad pascendum in aliquam taglatam. Id. 691.

De bampnis porchorum rumantium aliena prata duplicatis. Id. 692.

Nullus... audeat exigere ab aliquo cive Thaurini... aliquas gerbas bladi. 698.

De aqua bealeriae non devianda indebite. 699.

De non colligendo per messonerios glandium glandes. 706.

Messonerii sive messoneriae glandium non vadant vel glandes alienas colligant. ibid.

Si aliquis alium... personaliter excrolaverit. 709.

Si quis aliquem irato animo sub se summaverit. Stat Eporediae. 1200.

6

Ferrara

Si quis aliquem scorlaverit.

Nullus dicatur messettus aut prosseneta... nisi fuerit descriptus et approbatus pro messetto, per iudicem duodecim sapientum civ. Fer.

galafasii... maltaroli... stellantes zochos.

De mercedibus galafasiorum... stellantium zochos... de mercede accipienda per buratinos.

De maltarolis.

Storarii et alii qui vendunt storia, grisolas, pozonos, pezolatos a plantis, segoltelas a vitibus, et alia huiusmodi laboreria.

7

Stat. Flor.

Nullus vero consortum compelli possit ad divisionem etc.

fienda, ante etc.

Clausurae de assitibus.

non obstante instrumento guarantigiae.

Quilibet officialis debeat dare familiam suam... ad requisitionem capitaneorum.

Si aliquis... devetaverit, seu devetari fecerit aliquam possessionem ... consortes ipsorum malefactorum... possint et debeant condemnari... ad emendationem dicti damni.

Dies lovis cui dicitur Berlingaccio.

De instrumentis finis.

Et non intelligatur currere aut cucurrisse alicui mulieri durante matrimonio aliqua praescriptio in dote, aut bonis obligatis.

Nulla domus, turris, murus, aut aedificium aliud fiat aut construatur super podium, aut Montem Athenichi (o Acenichi) Montis acuti, etc.

De praecepto de disgombrando. Stat. Flor. 58.

dominus potestas debeat facere praeceptum de disgombrando ipsam tenutam... et etiam dare licentiam cuilibet nuntio com.is Flor. faciendi tale praeceptum.

Contra omnes incendiarios, depopulatores, devastatores et rectores teneantur levare rumorem

8

Statuimus quod nullus homo ad contentionem seu rixam, vel ad discordiam, seu storminium, vel ad rumorem cum armis currat. Stat. Feltriae Lib. IV, Rub. 69.

Qui de solario ad rixas, sive stremum traxerit. Stat. Novariae Lib. IIIo pag. 80.

Nullus debeat arma sumere sive accipere, nec ire pedes vel eques ad ipsam rixam vel epiglanciam (più giù apiglanciam) cum aliquibus armis. Stat. Alexandriae, pag. 58.

NB. De poena sburlantis aliquem c'è anche negli Statuti di Lodi.

Item quod nullus de civitate Mutine vel districtus, tempore alicuius rumoris vel mesclantiae quae fieret in civ. Mut. vel burgis, debeat ire vel trahere ad domum alicuius potentis, cum armis, vel sine armis, sine licentia etc. Stat. Mutinae, L. III Rub. 34, Pag.205

9

Verona

Nulla persona debeat transire fossas schaionatas vel muros de die aut nocte, nisi p. pontem.

10

Constit. Frid.

Admezatores per privatorum consensum in posterum eligi prohibemus. pag. 103.

De legibus paribilibus subiatis. 183.

Medicus... non contrahat societatem cum confectionariis. 285

Buzerios et piscium venditores... in eorum mercibus volumus esse fideles. 287.

II

Capitula Regis Car. I

De non mittendo ignem in restuchiis camporum. pag. 320.

Quod non capiantur animalia destinata ad centimulos. 326.

Lectus integer intelligatur materatium, vel fisconus, vel culcitra. 352.

Si forte supersedimenta, guidatica... emparas impetrar proprio motu concedi contigerit. 480.

12

Capillare

13

E sarebbe un lavoro curioso e non inutile, un trattato de' traslati, nel quale gli esempi, in vece d'esser, come cavati dagli scrittori, fossero presi dalla storia, tanto de' che dell'opinioni.

Così il vocabolo latino fatum, che, in origine, non altro che un participio passivo del verbo fari, dire, parlare e significava per conseguenza un effetto, venne, con la strana e spropositata metonimia, a significare, o per dir meglio, a far le viste di significare una causa suprema.

L'orrore del vôto, la tavola rasa, o il foglio bianco di I sono traslati.

14

15

Quando abbiate pensato al come avere etc.

e che sono, di gran lunga, il maggior numero.

a uso di queste scole o per uso?

per l'uso

ormai

ormai

non posso dubitare che non siate persuaso

Che il tutto si possa o non si possa

tutto

ottenere, è tutt'uno

è lo stesso

quel tanto che sarà fattibile

e per arrivare all'ultima meta,

e per accostarcisi il più che sia possibile

il mezzo è quel medesimo

Per opera di coloro

Per opera

Con l'opera di coloro

che permetteranno

le sue circostanze

non solo per me, che ho poco da starci,

nel senso che per tutto il mondo si dice

per tutto il mondo

il senso che s'attacca

a questa parola

poco tempo da lavorare e a questo o ad altro

attaccarsi

propagarsi e attaccarsi

senza questo

senza questo

accordo

par di no

Dico una cosa che nessuno ignora, e

una cosa

che al bisogno nessuno sa – o all'occorrenza?

al bisogno nessun la sa

andar per le lunghe

un andar per le lunghe

disputar trecent'anni e trovarsi ancora

per trecent'anni e

da capo

trovarsi ancora da

capo

16

17

Derivati senza il primitivo:


18

Composti

19

Cit. dal dictionn. de l'Ac.

20

volubilité: non ha l'aggettivo pénitent e repentant Il(nota 117) sut bien s'en servir pour ce qu'il se proposait, et pour augmenter ma confiance par ses confidences.

mémoires de Saint–Simon, Chap. CCCXVIII.

21

22

23

Or voyant qu'il se monstret être tout sbigotit de mon langage (qui est toutesfois le langage courtizanesque dont usent aujourdhuy les gentils–hommes Francès qui ont quelque garbe, et aussi désirent ne parler point sgarbatement) ie me mis à ragionner avec lui touchant iceluy etc.

Dialogue du nouveau langage françois italanizé. Nella Prefaz.e Questo bel paese Già il primo dì m'ha sciarmato...

Mi par d'averla Con questo detto sciagrinata...

E è assai tempo Ch'io feci far questo Portreto...

ora altra voglia ho che di grondare.

Il Raguet Comm.a di SciP. Maffei.

24

25

26

particip. att.o con significato passivo

passivo con signif.o attivo

Derivati presi dal latino senza il radicale: fameux, diffus, éloquent, élocution etc.

27

28

L'usage n'est pas le tyran des langues.

art. Langue 415, col. I.

29

Ce qui est fixé par l'usage n'est jamais contraire à l'usage Beauzée, I, 495.

30

Sans s'amuser à raisonner contre l'Usage, qui le veu ainsi.

Vaugelas rem. préf. Encycl. Phrase.

31

Consuetudo, non ratione, analogiae, sed viribus par est Charis. Instit. Gramm. Lib. I, Cap. De extremitatibus nominum, et diversis quaestionibus. Putsch. I. p. 36.

Ripetuto da Diomede, De Orat. et partibus Orat., Lib. II Cap. De latinitate, Putsch. I. p. 434.

32

Indéclinable

33

Tracy 168, 170; 170, 171; 180; 44; 103, 118; 72; 74.

34

Qua ratione... species quae inflectuntur Scal. 127.

35

Le cas sont des prépositions Chap. III, pag. 107.

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Sosipatro Carisio mette tra gli avverbi i nomi di luoghi, quando fanno un ufizio avverbiale: Sunt etiam adverbia quaedam in loco, quaedam e loco, quaedam in locum, ut primum. In loco ut: ubi eras? Romae; De loco: unde venis? Roma. In locum: quo is? Romam.

Instit. gramm. Lib. II Cap. De Adverbio. E poco dopo: Inter adverbia quidam haec posuerunt, quae etiam apud veteres osservata sunt, ut Translatui, Dimissui, Receptui, Ostentui... Quidam autem dicunt similia his esse Decori, Usui, et caetera.

43

Si priorum reminiscamini, quae sequuntur cum maiori alacritate adiicemus, utpote qui magnum impendere lucrum videamus: ita enim vobis captu facilior sermo erit, si iam dietorum memineritis; nobisque non multo opus crit labore, cum vos, ex discendi cupiditate, acutius caetera dispicietis. S. Io. Chrysostomi in Ioannem Homilia IX.

44

Ex minerva Sanctii, Lib. I, Cap. XVIII.

Coniunctio non iungit similes casus, ut inepte traditur, sed tantum iungit sententias: nam quum dicis: Emi equum centum aureis et pluris, syntaxis est: ego emi equum centum aureis, et ego emi equum pretio pluris aeris. Petrus et Paulus disputant, id est, Petrus disputat, et Paulus disputat.

Excerpt. ex nota Perizonii.

Dopo aver concesso che la Congiunzione riunisce delle proposizioni (sententias), aggiunge: Non tamen adeo inepte tradi, dixerim cum Sanctio, Vossio etc. Coniunctionem iungere etiam similes casus, aut voces singulas. Quando duo nomina referuntur ad unum verbum, aut ab uno pariter pendent, quid opus est ea distrahere in duas sententias et constructiones, ut duplex videatur actio, quae simplex et una est? Certe enim duplex videretur emptio diversorum equorum, si diceres, Emi equum centum aureis, et emi equum pretio pluris aeris, ut exponit Sanctius verba unius emptionis, emi equum centum aureis, et emi equum centum aureis et pluris, scil. auri pretio. Sic si dicas, Emi librum X dracmis, et IV obolis, ideo non duplex est sententia, sed unica, et copula nihil iungit nisi similes casus et voces, quae pariter unum constituunt pretium, quo liber unus est emptus. Sic recte dixeris, Saulus et Paulus sunt iidem, at haec si distrahas, Saulus est idem, et Paulus est idem, prius membrum nullum habebit sensum, quia nihil in eo continetur, et praecessit nihil quo referatur t? idem, quod utique relationem quandam comparationis ad rem aliam et specie tantum diversam requirit.

Lugduni, 1789, pag. 138.

45

Scal.

Interiectio

46

Régnier Interjection, p. 562.

47

Tracy.

Interjection, pag. 6o e 37.

Son indéclinabilité, 72.

48

Declin. dei Verbi.

49

A questo e ai seguenti una semplice scorsa, all'intento che dir<ò>.

Nella terza parte, dove si tratta d'etimologia, ghe sarà nient per el pattee.

E sul resto ne parleremo per vedere quanto si possa diminuire l'incomodo dell'obbligantissimo interprete.

2 Parte p. 25 Die Stoiker: Se viene a regole grammaticali

50

M. A. Cassiodori De Arte grammatica fragmentum. Putsch. T.2. 2323

Curavimus aliqua de Nominis Verbique regulis pro part subiicere, quas recte tantum Aristoteles orationis parte adservit.

51

Partes orat.

I, 5, 40.

52

Ex Gramm. Vet. Particip.

Errant longe qui opinantur moribundus, vitabundus, furibundus esse participia. Sunt enim appellationes. Diomede De Oratione et partibus Orat.Lib.I Cap. De participio.Putsch.

Pag. 397.

Frequentissime nostri quoque participia pro infinitis Prisc. XVIII, 1204. Sed rursus prohibet ea (participia) esse nomina temporum diversorum assumptio, quae fit in propriis transfigurationibus ad similitudinem verborum. Id. Lib. XI, 911.

Nam participium connumerantes verbis (Stoici) participiale verbum vocabant, vel casuale; nec non etiam adverbi nominibus vel verbis connumerabant, et quasi adiectiva verborum ea nominabant etc. Id. I, Cap. De Orat. 574.

Sic igitur supradicti philosophi etiam participium aiebant appellationem esse reciprocam... hoc modo: legens est lector, et lector legens, et cursor est currens, et currens cursor etc. vel nomen verbale, vel modum verbi casuale. Id.X.

Cap. I de Participio, 911

53

Aliae quoque pro aliis partibus vel dictionibus ponuntur, ut Nomen pro Adverbio, ut, sublime volat, pro sublimiter, et sole recens orto, pro recenter. Adverbium pro nomine, ut, genus unde latinum, pro ex quo. Et Cicero pro Deiotaro: En crimen, en causa, cur regem fugitivus, dominum servus accuset: cur pro propter quae, etc. Priscian. XVII, Putsch. 1104.

54

Umbrius tamen interiectionibus locum non dedit: Flavii Sosipatri Charisii, Institutionum grammaticarum, Lib. 2, Cap. de Adverbio; Putsch. pag. 171.

55

Sanctii minerva cur notis Perizonii et Scioppii.

(Duns) Scoti Grammatica philosophica.

56

Chaque mot appartient à une classe...

Beauzée, I, pag. 565.

57

Classes 78 – alinea peu m'importent les classifications.... ce qui me fait préférer de les classer.

APPENDICE

alfa

[8c] è per ciaschedun individuo la materia di quest'idea, voglio dire la realtà contemplata da essa, e che è il mezzo unico e indispensabile, perché la mente possa acquistarla? Un atto interiore, un fatto esclusivamente proprio di lui (in quanto fatto), e del quale nessun altro è, né può essere, né partecipe, né testimonio. All'opposto, la materia dell'idea pesare, dond'è venuto, come ognuno sa, il traslato pensare, è un'azione estrinseca, che può esser percepita simultaneamente da più individui, e della quale uno può eccitar l'idea in un altro, con l'eseguirla materialmente davanti a lui, o con l'additargliela, o, in mancanza della cosa materiale, col mezzo di segni diretti e immediati, quali sono i gesti imitativi, e il disegno. Dimanieraché il significare una tale azione col mezzo della parola, non è, dirò così, un salto dalla cosa al segno verbale, ma un passaggio da un genere di segni a un altro. Data quindi l'analogia tra quell'azione interiore e questa estrinseca, come tra tante cose ugualmente di diverso genere (analogia, la ragione della quale è certamente degna d'esser ricercata; ma qui basta che sia dimostrata dall'effetto); dato il poter la mente arrivare, per mezzo dell'analogia, da un'idea a un'altra; s'intende facilmente come, in questo caso e in tant'altri simili, il linguaggio si sia servito d'un mezzo così ovvio, [9] e di materiali già formati e alla mano, piuttosto che stampare un vocabolo apposta. Mezzo, dico, così ovvio, che s'adopra spessissimo, anche senza bisogno; giacché, come osservò Cicerone (e chi sa quant'altri prima di lui?), e come attesta il fatto comune e perpetuo, popolare e letterario, i traslati si fanno ugualmente, e per mancanza di vocaboli propri, e perché sono di loro natura atti a piacere(nota 118).

Scarto 1

prima stesura dal § 5


[9] e di materiali già formati e alla mano, piuttosto che stampare un vocabolo apposta. Mezzo, dico, così ovvio, che ci si ricorre anche senza bisogno; giacché, come osservò Cicerone (e chi sa quant'altri prima di lui?), e come attesta il fatto comune e perpetuo, popolare e letterario, i traslati si fanno ugualmente, e per mancanza di vocaboli propri, e perché sono, di loro natura, atti a piacere(nota 119). Sicché

beta

[8.2o] una causa (dico una causa particolare e concreta) non può produrre che, in un solo individuo, e questa sensazione che da un'identica causa può esser prodotta in molti; e posto il potere che la mente ha d'arrivare, per mezzo dell'analogia, da un'idea a un'altra; s'intende facilmente il perché il linguaggio si sia servito del mezzo

gamma

[7] materiale(nota 120), è una cosa manifesta, ma indifferente alla questione. Non c'è punto bisogno di dimostrare, che l'idea dell'obbligazione morale non poté nascere da un'usurpazione d'autorità, per mezzo di questo traslato, quando s'è visto che non ne poteva nascere in nessuna maniera. Siccome però l'avere il Bentham accennata questa circostanza affatto accessoria può lasciar credere che le attribuisse una certa importanza, così non sarà affatto inutile l'osservare la contradizione che si trova (e sempre quella) anche tra un tal mezzo e la supposta origine.

L'intento e la virtù de' traslati è di render presente all'intelletto un'idea col significarne un'altra che abbia somiglianza con essa: la quale somiglianza non è altro che un'identità parziale(nota 121). Dimanieraché il traslato è in ultimo un prodotto dell'astrazione; giacché il comprendere, come si fa con esso, due oggetti sotto una medesima denominazione, è un collocarli in un medesimo genere, per ragione di qualche cosa di comune veduto in essi, separandoli da ciò che hanno di differente(nota 122).

Allegato 1

È veramente degno di maraviglia, o, per dir meglio, d'osservazione quest'uso, questo, direi quasi, maneggio così ardito e così felice dell'astrazione, che si manifesta nella formazione de' traslati; cioè in un lavoro spesso disunito, a pezzi e bocconi, occasionale, lavoro di molti senza concerto, senza un ordine preconcepito, senza un progresso regolare. Uomini disgiunti, all'atto d'esprimere un'idea o un'altra, colpiscono, direi quasi, al volo un'analogia tra due sostanze eterogenee, come sono la materiale e la spirituale, astraendo niente meno che dalla loro natura; o che è più astraendo, tra esseri reali, e puri concetti, ai quali trasportano modi e accidenti, astraendo dalla sussistenza medesima, tutti mirando all'effetto/senza riflettere all'operazione, e quest'effetto ottenendolo, e non di rado un effetto durevole e ripetuto a ogni opportunità.

Allegato 2:Nota

È veramente degno di maraviglia, o piuttosto d'osservazione, quest'uso, questo, direi quasi, maneggio così ardito e così efficace dell'astrazione, che si manifesta nella formazione de' traslati: cioè in un lavoro sparso, occasionale, lavoro di molti senza alcun concerto, non avente alcun progresso regolare, né alcun metodo preconcetto. Uomini disgiunti, all'atto d'esprimere un concetto, colpiscono un'analogia tra oggetti disparatissimi, o

delta

[8] al sentimento altrui. Al contrario, la materia dell'idea pesare, donde è venuto, come ognuno sa, il traslato pensare, è una sensazione, prodotta da un'azione estrinseca, la quale (dico quella stessa azione concreta) può produrre una sensazione somigliante in un numero indefinito d'uomini. E azione della quale uno può, senza, l'aiuto della parola, eccitar l'idea in altri con l'eseguirla davanti a lui; e in mancanza della cosa materiale, col mezzo di segni imitativi, quali sono i gesti e il disegno. Dimanieraché il significare una tale azione con un vocabolo non è un salto dalla cosa al segno ma un passaggio da una specie di segni a un'altra. Un suono vocale che uno mandi fuori, additando insieme un oggetto, materiale, può, in date circostanze acquistar da ciò efficacia di vocabolo; e così infatti si fanno conoscere de' vocaboli a' bambini e agli uomini d'un'altra lingua, per i quali è come se que' vocaboli fossero inventati in quel momento. Ma come si mette davanti al senso l'atto interno del pensare? dov'è il mimo che lo rappresenti, il pittore che lo figuri? Si può bene, anche con tali mezzi, eccitarne l'idea; ma sono appunto mezzi indiretti, come il traslato. Data quindi l'analogia tra quell'atto interno e quest'azione estrinseca; e data l'attitudine della mente a passare, per mezzo dell'analogia, da un'idea a un'altra; s'intende facilmente come, in un tal caso, il linguaggio, piuttosto che affrontare la singolare difficoltà di trovare un vocabolo apposta, sia ricorso al mezzo ovvio del traslato(nota 123): mezzo così ovvio, che ci si ricorre anche senza necessità; giacché, come osservò lo stesso Cicerone, de' traslati se ne fa (e in che abbondanza, principalmente in certi tempi!) solo perché sono, di loro natura, atti a piacere(nota 124). S'intende, dico, finalmente il perché siano così numerosi i traslati di questo genere; come, per rammentarne alcuni, i vocaboli: acuto, sottile, profondo, alto, retto, candido, ottuso, duro, pieghevole, basso, appropriati a significare qualità dello spirito, dell'anima, traslati anch'essi; e il riflettere, l'esprimere, il concludere, il risolvere, lo star sospeso; e l'operazione stesa con la quale si fanno i traslati, significata dal traslato astrarre; anzi traslato lo stesso vocabolo, traslato. E data un'analogia più recondita e elevata, ma che il fatto dimostra essere stata colta dall'ingegno umano, senza sforzo, e come senza avvedersene, s'intende anche facilmente che si sia ricorso a de' vocaboli significanti cose o fatti materiali, o modi della materia, per esprimere qualità d'esseri mentali, non aventi realtà, quando si dica una verità grande, piccola, luminosa, palpabile, e un'analogia recondita e elevata; come c'è occorso di dire innanzi; e una relazione stretta o lontana, una differenza grave o leggera, dove è traslato anche il nome degli esseri medesimi, come anche l'assoluto, il diritto, e per lasciarne altri, e venir finalmente al proposito, l'obbligazione morale.

Scarto 1

prima stesura della nota 1 di pag. 828 dal paragrafo 5


un sono acuto, un sono dolce, un sono duro, si potrebbe con la stessa ragione (cioè col paralogismo non causa pro causa) congetturare che l'idea di quella qualità de' soni sono originate rispettivamente dal senso della vista, da quello del gusto, da quello del tatto.

Del resto il Locke contradice qui, nel modo più esplicito e diretto, a una parte essenziale della sua tesi generale. Aveva posto che tutte le nostre idee vengono da due sorgenti. l'una di sensi; l'altra sorgente donde la nostra mente riceve dell'idee è la percezione dell'operazioni dell'anima nostra sulle idee che ha ricevute da' sensi: operazioni le quali diventando l'oggetto delle riflessioni dell'anima, producono nella mente un'altra specie d'idee che gli oggetti esteriori non le avrebbero potuto somministrare (L. II, C. I, 4). E qui invece pone apertamente e replicatamente nella sensazione l'origine e il principio di tutte el nostre cognizioni.

Non è difficile il vedere come quel filosofo sia potuto cadere in una tale contradizione. Da principio, dopo aver posto che i sensi fanno entrare nella mente l'idee degli oggetti esteriori, non poté non presentarglisi subito quel fatto dell'intimo senso, che la nostra mente fa intorno all'idee certe operazioni sue proprie, e ha pure idee di queste operazioni. Riferire ai sensi anche quest'ultime idee, dovette parergli troppo, poiché l'esperienza interna, interrogata su questo punto risponde cinque volte lo stesso no. A fare un tal prodigio, per mezzo della sensazione trasformata non poteva il sistema arrivare che con la guida d'un altro e con un prolungato e variato abuso di parole. Gli parve dunque necessario di fare di queste operazioni una nova sorgente d'idee; e ricorse di bon grado a questo espediente, che s'accomodava con l'assunto di far produrrre l'idee da fatti particolari e contingenti, e non l'obbligava a riconoscere in quelle nulla che fosse anteriore al soggetto umano, e indipendente da esso. Quando poi, un pezzo dopo, e verso la metà del lavoro, s'abbatté in quel fatto de' vocaboli significanti cose sensibili, adoprati a significare idee la materia delle quali non è somministrata dai sensi, non vide altro che l'immaginata forza d'un tal fatto. a spiegare l'origine e il principio di tutte le cognizioni. E, siccome quel mezzo è adoprato a significare anche l'operazioni dell'anima, così non esitò a comprendere anche queste nella conseguenza, dimenticando totalmente d'aver detto, e con, tanta ragione, che gli oggetti esteriori non l'avrebbero potute somministrare. Senonché (tanto è difficile all'errore lo stare in proposito !) può parere che abbia voluto salvare in parte la contradizione col dir solamente

Scarto 2

seconda stesura della nota dal paragrafo 1


È noto che il Locke volle spiegare questo genere di fatti per mezzo del suo sistema, e credette per conseguenza, d'aver trovata in essi una conferma del sistema medesimo. Un'altra cosa,     dice (col suo frasario, grazie al cielo diventato strano)
che può accostarci un po' più all'origine di tutte le nostre nozioni e cognizioni, è l'osservare quanto le parole di cui ci serviamo dipendano dall'idee sensibili, e come quelle che s'adoprano per significare azioni e nozioni affatto lontane da' sensi, prendano origine da queste stesse idee sensibili, donde sono trasferite a significati più astrusi, per esprimere dell'idee che non cadono sotto i sensi.     E dopo aver citate alcune di queste locuzioni, aggiunge:
E io non dubito che, se potessimo risalire alle sorgenti di tutte le le parole, non si trovasse in tutte le lingue, che le parole che s'adoprano per significar delle cose che non cadono sotto i sensi, hanno avuta la prima origine da idee sensibili. Di qui possiamo congetturare che sorte di nozioni avessero i primi che parlarono quelle lingue e donde gli venivano nella mente (saggio, etc. Lib. III, Cap. I, 5). Che, in tutte le lingue, tutte le parole; che s'adoprano per significaare delle cose che non cadono sotto i sensi, abbiano avuta origine da idee di cose sensibili, il Locke non ne dubita. Ma su cosa è fondata una tale fiducia? Sul potersi questo affermare d'alcune. E perché dal fatto com'è, cioè da de' fatti particolari, non vedeva che si potesse cavare la conseguenza desiderata, cambiò, con un'affermazione ambigua, que' fatti particolari in un fatto universale, cavandone poi la conseguenza, come si farebbe da un fatto affermato risolutamente, e con piena ragione: Di qui possiamo congetturare che sorte di nozioni avessero quegli uomini. È dunque, anche a prima vista, un'ipotesi arbitraria e sofistica; ma se ci si guarda un po' più, è un gruppo d'ipotesi tutte ugualmente arbitrarie; poiché implica che il linguaggio umano sia principiato con la pluralità delle lingue, e lingue, inventate naturalmente dagli uomini: cioè che ci siano stati, non solo degli uomini senza linguaggio (cosa non attestata da alcuna memoria, né da alcuna scoperta), ma de' gruppi sparsi d'uomini, senza linguaggio, e creatori d'altrettante lingue: come poi venuti al mondo, da chi prodotti, se tutti da una causa sola, o quali da una, quali da un'altra, se da una causa o da cause intelligenti, o no; se nello stesso tempo o in diversi tempi; sono problemi peggio che imbrogliati, la soluzione de' quali è necessaria alla costituzione logica dell'ipotesi, e che non potrebbero essere sciolti, essi medesimi che in via d'ipotesi. Ammesse dunque, come se fossero fatti, queste due ipotesi, dico che si può, non già congetturare che sorte di nozioni avessero i     supposti
primi, che parlarono quelle lingue, ma affermare con tutta sicurezza, che ne dovevano avere di due sorte, per ciò che riguarda la questione: cioè le nozioni significate direttamente da' vocaboli che prendevano, dirò così, a imprestito per fare que' traslati; e, se piace al cielo, le nozioni che volevano significare con quel mezzo. Parrebbe, stando all'argomento del Locke, che l'adoprar le stesse parole per significare due generi di nozioni, fosse una o prova che si ha un solo genere di nozioni. E come mai, dall'essere le nozioni d'un genere significate con le parole proprie dell'altro, si può congetturare la loro origine? Un tale argomento potrebbe valere né più né meno per i traslati che si fanno da sensazione a sensazione; e perehé si dice, un suono acuto, un suono dolce, un suono duro, si potrebbe con la stessa ragione (cioè con la ragione del paralogismo chiamato non causa pro causa) congetturare che le nozioni di quelle qualità di suoni abbiano avuta origine dal senso della vista, da quello del gusto e da quello del tatto.

Allegato 1

Del resto il Locke contradice qui apertamente a ciò che aveva detto da principio, e nell'esposizione medesima del suo sistema, cioè che l'idee dell'operazioni dell'anima nostra non potrebbero esser somministrate all'intelletto dagli oggetti esteriori.

Allegato 2

Del resto il Locke contradice qui nel modo più diretto e esplicito a ciò che aveva detto da principio, e nell'esposizione medesima del suo sistema, cioè che l'idee dell'operazioní dell'anima nostra non potrebbero esser somministrate all'intelletto dagli oggetti esteriori. Cedette allora all'immediata forza dell'esperienza interna, la quale interrogata su questo punto, senso per senso, risponde cinque volte di no. Alla sensazione trasformata non poteva il sistema arrivare che dopo una lunga serie di deduzioni dal falso, e con un crescente e variato abuso di parole. Assegnò quindi il Locke all'idee due sorgenti, o come disse anche, due princìpi; cioè le cose esteriori e materiali che sono gli oggetti della sensazione, e l'operazioni del nostro spirito, che sono gli oggetti della riflessione. Espediente al quale non dovette costargli di ricorrere, perché l'accomodava con l'assunto di far produrre l'idee da fatti particolari e contingenti, senza dover riconoscere in quelle nulla che fosse anteriore al soggetto umano, e indipendente da esso. Quando poi, un pezzo dopo, e verso la metà del lavoro, s'abbatté ad osservare quel fatto de' traslati presi da significazioni dì cose materiali, non vide altro che una metà della sua tesi, alla quale gli pareva che un tal fatto dovesse dare una gran forza, e ne profittò per ridurre tutte l'idee a una sola origine, senza badare all'inconveniente che ne poteva nascere riguardo alle due sorgenti.

Appunti

Dal Dizionario dell'Accademia spagnuola


Obligación – Vínculo que estrecha à dar alguna cosa, ò executar alguna acción, procedido, ù de la disposicion general de las leyes inmediatamente ò concurriendo pacto segun ellas. Viene del latino obligatio, que significa lo mismo.

Non c'è la parola dovere usata sostantivamente.

Dall'Adelung Dovere – Pflicht – Ein Befehl, in welchem Verstande schon Notker die Befehle Flihte nennet. In dieser Bedeutung ist es veraltet, dagegen pflegt man noch eine befohlene Sache, in weiterer Bedeutung, ein durch ein Gesetz bestimmtes Verhalten, und in noch weiterm Verstande, ein jedes der Bestimmung, der Natur der Sache und unserm Verhältnisse gegen dieselbe gemässes Verhalten, eine Pflicht zu nennen, da es denn nach einer noch weitern Figur zuweilen auch den Zustand bedeutet, in welchem eine moralische Nothwendigkeit vorhanden ist . .........

In engerer Bedeutung werden zuweilen besondere Arten der Obliegenheiten mit Pflichten schlechthin genannt. Obbligazione – Verbindlichkeit – Die Eigenschaft eines Dinges, da uns dasselbe eine moralische Nothwendigkeit aufleget, zu gewissen Handlungen überwiegende Bewegungsgründe dazu darreicht.

Die Verbindlichkeit eines Gesetzes, eines Befehles.

dal Johnson Dovere– Duty– That to which a man is by any natural or legal obligatio bound.

– Acts or forbearances required by religion or morality.

Obbligazione– Obligation – The binding for power of any oath, vow, duty, contract.

–An act which binds any man to some performance.

–Favour by which one is bound to gratitude.

NOTE A PIÈ DI PAGINA

nota 1 – p.546

Cic. ad fam. I, 9. P. Lentulo Imp.

nota 2 – p.560

È naturale che le grammatiche precedano i vocabolari: intendo i vocabolari nel senso più esteso, cioè quelli destinati a comprendere indifferentemente, e per quanto la cosa è possibile, tutti i vocaboli d'una lingua. Le forme grammaticali, essendo, di loro natura, riducibili a generi e ad eccezioni, invitano, per dir così, l'intelletto a raccoglierle, per quella nobile attrattiva che l'intelletto trova nello scoprire una legge in ciò che le cose hanno di simile, e un ordine in ciò che hanno di relativo, e nel comprendere così un tutto ideale in pochi concetti. Una Grammatica è un sistema di classi; materia feconda di scoperte facili, e di ragioni plausibili, capace di distribuzioni diverse e aventi ognuna qualche fondamento; capace d'una certa brevità insieme, e d'un certo compimento. Un vocabolario in vece non è altro che una lista d'individui: materia immensa insieme e, dirò così, inorganica; non solo non mai compita, ma che non può nemmeno parer tale; materia capace soltanto (per chi non ci voglia metter per forza, e quindi in apparenza, un ordine che non c'è in realtà, e non ci può essere) d'una distribuzione artifiziale, d'un ordine estrinseco, quale è l'alfabetico; materia, nella quale l'intelletto non può far altro che aggregare senza compor e, osservare senza dedurre, passare, senza nessun filo scientifico che lo guidi, da una parte all'altra d'un tutto, che non si lascia, né descrivere intero, né compendiare.

nota 3 – p.576

Meno, se c'è bisogno di ripeterlo, le cose che essendo esclusivamente particolari a questa o a quella provincia, non hanno un nome in francese.

nota 4 – p.579

Tavola e correzione d'un migliaio d'errori di grammatica e di lingua, etc. Per Michele Ponza sac., Torino, 1843; nella prefazione.

nota 5 – p.584

*Phrase faite, Façon de parler particulière, qui est consacrée par l'usage, et à laquelle il n'est pas permis de rien changer. Faire rage, faire grâce, avoir à coeur, battre monnaie, etc., sont autant de phrases faites. Dictionnaire de l'Académie française.

Sulla qual definizione, (o piuttosto sull'ultima parte di essa, avremo occasione di far qualche osservazione più tardi.

nota 6 – p.605

Cic. De Fin. I, 6.

nota 7 – p.607

Idéologie, Chap. XVII

nota 8 – p.611

Philologie française, par MM.rs Noël et Carpentier; art. insidieux.

nota 9 – p.612

Ibid. art. Ambitionner.

nota 10 – p.612

Elémens de Littérature; art. Usage.

nota 11 – p.613

Virg. Georg. II, 458

nota 12 – p.614

Histit. anc. Liv. XXVI, Chap. I Courtes réflexions sur le progrès et l'altération des langues.

nota 13 – p.618–19

Deux Dialogues du nouveau language françois, italianizé et autrement desguizé, principalement entre les courtisans de ce temps, etc. A Envers, 1579.

nota 14 – p.621

Se paresse ad alcuno che tali gran mutazioni simultanee, non solo siano possibili, ma devano essere avvenute in certi casi, cioè quando delle lingue sono morte, e se ne sono formate dell'altre, in parte co' rottami di quelle, noi, per escludere una questione, interessante bensì, ma non punto essenziale al nostro argomento, e che non potrebbe esser trattata con poche parole, risponderemmo che qui si tratta di ciò che le lingue sono e fanno nel loro stato normale e, per dir così, di pacifico possesso; giacché è una tale che cerchiamo.

nota 15 – p.622

V.l'Appendice al presente capitolo.

nota 16 – pp.625–26

Citare delle locuzioni come appartenenti alla lingua italiana, mentre stiamo cercando quale sia questa lingua, potrà forse parere a qualcheduno un supporre ciò che è in questione. Per prevenire quest'obiezione, rammenteremo che non abbiamo mai negato che ci sia un certo numero di locuzioni riconosciute per italiane dai partigiani di qualunque sistema. E tra queste ci siamo studiati ora, e ci studieremo, quando ne ritorni l'occasione, di scegliere gli esempi che ci occorra di prendere da questa lingua. Del resto, ognuno può, a piacer suo e con la maggior facilità, trovarne d'equivalenti, e d'ugualmente concludenti, in qualche lingua non controversa.

nota 17 – p.635

Pub. Syri, et aliorum veterorum sententiae.

nota 18 – p.636

Per non commettere un plagio, dobbiamo avvertire che questa classificazione de' vari mezzi grammaticali è stata proposta dal C. de Tracy (Grammaire, Chap. IV, De la Syntaxe). Nella prima appendice al presente capitolo accenneremo i motivi per cui non abbiamo creduto di poterla presentare nella forma proposta da lui.

nota 19 – p.637

Abel–Rémusat, Grammaire chinoise, 60, 61.

nota 20 – pp.637–638

Alcuni de' più celebri tra quegli scrittori francesi che furono chiamati grammatici filosofi, intesero di provare che ci siano delle specie di vocaboli incapaci di ricevere inflessioni di sorta veruna. Uno di loro, e il più celebre, il C. de Tracy, volle di più, che altri vocaboli, capaci bensì d'essere inflessi, non lo potessero essere, se non per certi determinati intenti. Volle poi anche (e in questo credo che sia rimasto solo) che ci siano dell'inflessioni necessarie, le quali, per conseguenza, si trovino in tutte le lingue. Non abbiamo creduto di dover interrompere il corso del ragionamento con l'esame di queste varie tesi, perché l'argomento generale e evidente, di cui ci siamo serviti, basta a dimostrare, tanto che tutti i vocaboli sono, di loro natura, ugualmente capaci di ricevere dell'inflessioni, quanto che tutti possono farne di meno; e quest'argomento contiene, per conseguenza, la confutazione implicita delle tesi medesime. Siccome però l'autorità di cui godono gli scritti, e molto più i nomi di quegli scrittori, non ci permette di confidare interamente nell'efficacia d'un tal mezzo, così ci riserviamo d'esaminare i loro argomenti in una seconda Appendice al presente capitolo.

nota 21 – p.641

J.B. Say, Cours complet d'Economie politique; Considérations générales.

nota 22 – pp.642–43

Verum meminerimus euphoniam plus interdum valere quam analogiam et regulam praeceptorum. Donat. Editio secunda; De generibus nominum.

nota 23 – p.643

Sed memineribus non per omnia duci posse analogiae rationem, quum sibi ipsa plurimis in locis repugnet. Quintil Instit. Lib. I, Cap. 6.

nota 24 – p.644

V. Nonnio Marcello, Cap. VII, De contrariis temporibus verborum; Diomede, Lib. I, Cap. De his quae apud veteres contraria reperiuntur denunciata declinatione; Prisciano, De communibus; e per tutti il Vossio, De arte grammatica, Lib. V, Cap. 7.

nota 25 – p.644

V., meno Diomede, gli autori citati dianzi e A.Gellio, Lib.

XVIII, Cap. 12.

nota 26 – p.646

Sed primo me analogia deceperat. Cic. Epist. 261, ad Att. VI, 2.

nota 27 – p.647

Encyclopédie méthodique, Art. Analogie.

nota 28 – p.648

Questa non era, del rimanente, l'opinione ferma e avvertita del Beauzée, il quale, nell'articolo medesimo, e poco prima, aveva detto: Se Dio, come io credo, ispirò la prima lingua..... E ognuno vede che preoccupazione ci volle per non accorgersi della contradizione che corre tra de' primi vocaboli scelti da una moltitudine, e una prima lingua ispirata da Dio.

nota 29 – p.651

Encycl. méthod. Art. Langue.

nota 30 – p.652

Grammaire générale, Liv. II, Cap. 4.

nota 31 – p.653

Consuetudo, non ratione, analogiae, sed viribus par est. Fl. Sosipatri Charisii, Instit. Gramm. Lib. I, Cap. De extremitatibus nominum, et de variis quaestionibus. Putsch, I, pag. 36. Sentenza ripetuta con le medesime parole da Diomede, De Orat. et partibus Orat. Lib. II, Cap. De latinitate. Ibid. pag. 434.

nota 32 – p.654

Encycl. méthod. art. Usage.

nota 33 – p.655

Encycl. méthod. art. Analogie.

nota 34 – p.656

ibid.

nota 35 – p.658

Encycl. méthod. art. Hétérogène.

nota 36 – p.658

Ibid. art. Analogie.

nota 37 – p.660

Ecycl. méthod. art. Analogie

nota 38 – p.662

Ecycl. méthod. art. Irrégulier.

nota 39 – p.664

Buffier, Grammaire françoise sur un plan nouveau; Section I.ère n.0 24.

nota 40 – p.666

Ecycl. méthod. art. Langage

nota 41 – pp.672–73

Notiamo qui incidentemente, che, né l'una, né l'altra, di queste denominazioni esprime il senso della latina (Partes Orationis), dalla quale furono prese. Nella prima il vocabolo Oratio non è tradotto, ma imitato materialmente; nella seconda è interpretato falsamente; giacché Oratio, in questo caso, significava Proposizione, come si può vedere dalle definizioni concordi de' grammatici latini. Oratio est structura verborum, composito exitu, ad clausulam tendens. Quidam eam sic definiunt: Oratio est compositio dictionum consummans sententiam, remque perfectam significans (Diomed. De Oratione et partibus orationis; Lib. I). Oratio est ordinatio dictionum, congruaam sententiam, perfectamque demonstrans (Priscian. Lib. II.

De Oratione). Oratio est ordinatio vel compositio dictionum significantium continuam sententiam (Marii Victorini, Ars Grammatica I). Oratio est sermo ad clausulam tendens (Maximi Victorini, De re grammatica, I).

È un fatto strano, che il tanto dotto e accurato Forcellini abbia omesso, alla voce Oratio, un significato così importante.

Qualche moderno propose di sostituire alle due formule ricevute quella di Parti della Proposizione, come più propria a esprimere la loro vera essenza; e parve, come tant'altre una cosa nova, per la trascuranza d'informarsi delle cose vecchie.

nota 42 – p.673

Diomed. de Arte gramm. Lib. I, Cap. De partibus orationis

nota 43 – p.674

C. Scaligeri, De Causis linguae latinae, Lib. III, Cap. LXXIII.

nota 44 – p.675

Encycl. méthod. Art. Indéclinable.

nota 45 – p.677

Grammaire, Chap. IV, Sect. II, Pragr. I.

nota 46 – p.678

Grammaire générale, Liv. II, Chap. VI.

nota 47 – p.678

Ibid.

nota 48 – p.679

Abel–Rémusat, Gramm. Chin. 63.

nota 49 – p.680

Grammaire générale, Liv. II, Chap. V.

nota 50 – p.680

Grammaire, Chap. III, Paragr. IV.

nota 51 – p.681

Plaut. Stich. I, 3, 13.

nota 52 – p.681

Idem. Men. I, 4, 1.

nota 53 – p.681

Id. Rud. IV, 4, 130.

nota 54 – p.681

Id. Cist. IV, 1, 3.

nota 55 – p.681

Id. Bacch. III, 6, 39.

nota 56 – p.681

Liv. II, Chap. V.

nota 57 – p.682

Grammaire, Chap. III, Paragr. V.

nota 58 – p.683

Gramm. Ch. III, Paragr. VI.

nota 59 – p.683

Ibid. Par. IV.

nota 60 – p.685

Monti, Mascheroniana, Canto II, I.

nota 61 – p.685

Il torto e il diritto del non si può, LXXXVIII.

nota 62 – p.685

Osservazioni della lingua italiana, illustrate e accresciute dal C.

Lamberti; alle Voci: Quanto, Tanto, Troppo.

nota 63 – p.685

Ediz. Crusca, alle Voci: Tanto, Proprio.

nota 64 – pp.685–88

Grammaire, Chap. III, Paragr. VII.

Il C. de Tracy parla in questo stesso luogo, con piena adesione, d'un'altra proprietà stata attribuita alla Congiunzione, come quella che costituisca la sua essenza.

Su questo punto, quantunque estraneo alla questione presente, ci si permetta un'osservazione non inutile a un altro scopo.

Non posso principiar meglio quest'articolo,     dice il C. de Tracy,
che copiando l'eccellente riflessione con la quale il Beauzée entra a trattar delle congiunzioni nella sua Grammatica generale     (Liv. II, Chap. VI)
. Ecco come s'esprime: “ Le diverse specie di vocaboli considerate fin qui.... sono realmente gli elementi, o parti integranti della proposizione.... Non così le congiunzioni. Sono bensì elementi dell'orazione, poiché sono parti necessarie e indispensabili nel discorso; ma non sono elementi delle preposizioni, e non servono che a legarle l'une con l'altre ”.

Tale è infatti,     soggiunge il C. de Tracy,
il carattere distintivo delle congiunzioni: servono a legare una proposizione con un'altra; e il Beauzée afferma con ragione, che anche quando pare che non leghino insieme so non due vocaboli, come avviene spesso alle congiunzioni e e o, riuniscono realmente due proposizionii tra di loro.

Per esempio, quando dico, Cicerone e Cesare erano eloquenti, dico realmente, Cicerone era eloquente, e Cesare era eloquente; o in altri termini, Cicerone era eloquente; e a questo aggiungo che Cesare era eloquente. Questa riflessione era stata messa in campo, un pezzo prima del Beauzée, da G. C. Scaligero. Gli antichi,     dice,
non diedero una nozione esatta della Congiunzione; la quale non unisce punto l'altre parti, come dicono.... Ma unisce bensì delle proporzioni     (orationes)
, sia in atto, sia in potenza; poiché, per esempio, Cesare combatte, e Cesare scrive, sono due proposizioni separate, che potranno esser riunite dalla Congiunzione; ma Cesare e combatte e scrive sono due in potenza, perché Cesare ci va inteso due volte (De Causs. Ling. lat. Cap. CLXV).

Il Sanzio, con più burbanza, e senza citar lo Scaligero, dice: La Congiunzione non riunisce de' casi simili, come scioccamente si va dicendo     (ut inepte traditur)
; ma bensì delle proposizioni (sententias).

E ne adduce due esempi poco felici. Ecco il più breve: Pietro e Paolo disputano, è come dire: Pietro disputa, e Paolo disputa (Minerv. Lib. I, Cap. XVIII).

Ma il Perizonio, in una nota al passo citato, dopo aver concesso che, in alcuni casi, la Congiunzione riunisce delle preposizioni, aggiunge molto sensatamente: Non vorrei però chiamare sciocchezze il dire che la Congiunzione riunisce anche de' casi simili e delle voci singole. Quando due nomi si riferiscono a un solo verbo, o dipendono da quello, qual ragione c'è di separargli in due proposizioni e costruzioni, e di voler far parere doppio il concetto che è semplice e uno? Se, per esempio, uno dice: Ho comprato un libro per dieci lire e quattro soldi, non ci sono qui due proposizioni, e la copula non riunisce altro che de' casi simili, de' vocaboli che concorrono ugualmente a costituire l'unico prezzo del libro. Così, si dirà benissimo: Saulo e Paolo sono la stessa cosa; ma chi volesse dividere in due questo concetto, e fargli dire, Saulo è la stessa cosa, e Paolo è la stessa cosa, il primo membro non avrebbe senso veruno. Si possono veder qui due definizioni diverse, ma difettose tutt'e due per un stessa ragione, che è la fretta di cavare una conclusione che riguardi un tutto, da delle osservazioni che riguardano una parte che dia più nell'occhio. Gli antichi grammatici, trovando le Congiunzioni collocate frequentissimamente, o tra due nomi, o tra due verbi, o tra due avverbi, corsero ad attribuir loro unicamente l'ufizio di legar de' vocaboli. Lo Scaligero, osservando (acutamente, senza dubbio) in altri casi, frequenti, anch'essi, che ciascheduno de' due vocaboli riuniti da delle Congiunzioni rappresenta, per mezzo d'un'ellissi, il soggetto d'un giudizio compito, corse dalla parte opposta a affermare che le Congiunzioni legano, non delle parti della proposizione, ma delle proposizioni intere. Ci volle un terzo per osservare che alcune fanno e una cosa e l'altra; e furono le due opinioni discordi che gliene dettero l'occasione, mettendogli ciascheduna sott'occhio una parte del fatto.

La ragione poi di questa doppia attitudine è chiara. La mente può contemplare due o più idee, come concorrenti a formare un giudizio unico e indivisibile, e può contemplare dei pari, come identici formalmente, due o più giudizi relativi a degli oggetti, per altro diversi; e in tutti e due i casi, la mente fa del pari l'operazione di riunire; sia poi due idee, per una ragione di concorso, sia poi due giudizi, per una ragione di somiglianza. È quindi naturale, che il linguaggio abbia de' mezzi d'esprimere quest'operazione; e è non meno naturale, che tali mezzi possano servire ugualmente nell'uno e nell'altro caso, in quanto l'operazione è la stessa.

nota 65 – p.688

Gramm. gén. Liv. III, Chap. III.

nota 66 – p.690

Giunta fatta al Ragionamento degli articoli, di M.r Pietro Bembo; Particella 40.

nota 67 – p.691

Gramm. gén. Liv. II, Chap. VII.

nota 68 – p.691

Interiectionem Graeci inter adverbia ponunt; quoniam haec quoque vel adiiungitur verbis, vel verba ei subaudiuntur. Ut si dicam, Papae, quid video? vel per se Papae, etiamsi non addatur, miror, habet in se ipsius verbi significationem. Quae res maxime effecit romanarum artium scriptores separatim hanc partem ab adverbiis accipere; quia videtur affectum habere in sese verbi, et plenam motus animi significationem (etiamsi non addatur verbum) demonstrare. Priscian. Lib. XV in fine.

nota 69 – p.691

Nullius orationis indiget adiumento, ut pro integra oratione ponatur.

De Causs. Ling. lat. Lib. X, Cap. CLXIII.

nota 70 – p.691

....cum per se compleat sententiam. De Arte Gramm. Lib. VI, Cap. XXVIII.

nota 71 – p.692

Ce qu'on appelle communément dans la Grammaire Interjections sont des termes de supplément, lesquels joints à certains gestes ou ton de voix, suppléent quelquefois non seulement à des mots, mais encore à des phrases entières. Grammaire françoise, 163.

nota 72 – pp.692–95

Grammaire, Chap. III. Paragr. I. Il motivo per cui il C. de Tracy fa di que' vocaboli una prima classe, è la supposizione che le lingue siano principiate da loro.

Una tale opinione era già stata messa in campo da quel bon abate Régnier Desmarais, del quale nostri proavi, nimium patienter, laudavere le Poesie Toscane. Del resto, non l'aveva proposta, che in forma di dubbio, dicendo: L'Interiezione, considerata relativamente alla natura, è forse la prima voce articolata, di cui gli uomini si siano serviti (Traité de la Grammaire françoise; De l'Interjection). Il C. de Tracy in vece dà la cosa per certa. Se si va indietro fino allo stato primitivo delle lingue,     dice prima,
cosa si troverà alla loro origine? Domanda, alla quale, oso dire, la sola risposta da farsi è che non ci si troverà nulla, perché non si conosce codesta origine medesima. Ma quello scrittore, al nobile ingegno del quale faceva forza la preoccupazione, risponde risolutamente: Delle grida più e meno articolate, che noi abbiam chiamate Interiezioni; de' vocaboli, la più parte monosillabi, formati il più delle tolte per onomatopea, e che facevano I'ufizio di nomi, ecco ciò che ci vediamo (lbid. Paragr. V). Quello, in vece, che si vede in queste parole è una mera e nuda ipotesi presentata nella forma d'un fatto storico. E, di più, ipotesi fondata sopra un'altra ipotesi; poiché, volendo spiegare come il linguaggio sia stato inventato da degli uomini, suppone evidentemente degli uomini non aventi linguaggio: cosa non conosciuta per alcuna esperienza attuale, né attestata da alcuna testimonianza storica.

Altri scrittori esposero quel preteso fatto in una maniera più particolarizzata, cercando di dimostrare come de' primi uomini, privi di linguaggio, siano potuti arrivare per mezzo di grida e di gesti, a formar tra di loro il linguaggio. Ma anche a questi si può, anzi si deve dire: Prima d'esaminare il come que' vostri uomini abbiano potuto fare l'operazioni che descrivete, abbiamo bisogno di sapere come siano potuti esistere: domanda, non solo ragionevole, ma necessaria; perché una cosa meramente supposta, e che non ha alcun riscontro ne' fatti noti, la logica richiede che non si ammetta senza che le venga assegnata una causa adequata.

Uno degli scrittori accennati, e il più celebre, il Condillac, accorgendosi forse più degli altri, che l'ipotesi dell'origine del linguaggio involgeva quella dell'origine dell'umanità, volle rimovere la difficoltà dandole un'altra forma, o, per parlare esattamente, proponendo un'ipotesi affatto diversa. Ecco infatti come s'introduce a esporla. Adamo e Eva acquistarono per mezzo dell'esperienza l'esercizio dell'operazioni della loro anima, e, uscendo dalle mani di Dio, furono, per un soccorso straordinario, in grado di riflettere e di comunicarsi i loro pensieri. Ma io suppongo che, qualche tempo dopo il diluvio, due fanciulli di diverso sesso siano stati smarriti in luoghi deserti, prima di conoscer l'uso di nessun segno. Il fatto che ho riferito m'autorizza a far questa supposizione     (È riferito in questi termini:
Nelle foreste di confine tra la Lituania e la Russia fu preso, nel 1694, un ragazzo di circa dieci anni, che viveva tra gli orsi; non dava alcun indizio di ragione, camminava co' piedi e con le mani, non aveva alcun linguaggio, e formava de' soni diversi affatto da quelli degli uomini). Anzi, chi sa se non c'è un qualche popolo che abbia avuta origine da un tal fatto ? Mi si permetta di supporlo: si tratta ora di sapere come questa nazione nascente si sia fatta una lingua. Come s'è detto, e come ognuno vede, quest'ipotesi è affatto diversa dall'accennate. Qui non si tratta d'uomini comparsi nel mondo, non si sa come, né donde: non si suppone l'origine dell'umanità, ma un suo caso speciale. C'è bensì, anche in quest'ipotesi, una difficoltà, alla quale pare che il Condillac non abbia badato, cioè: come de' bambini che non conoscano l'uso di nessun segno, possano campare in luoghi deserti. I segni investono, per dir così, l'uomo, e provocano la sua intelligenza, quasi ne' suoi primi momenti, e, certo, un pezzo prima che si possa staccare, non che andare in cerca del vitto, neppur ne' luoghi più abitati, e dove l'avrebbe alla mano. Ma questa non è la difficoltà in questione; e perciò non facciam altro che accennarla; e per la stessa ragione non faremo verun appunto sul modo con cui il Condillac, dietro quella premessa, fa nascere una lingua da' suoi due bambini. Quello che fa alla nostra questione è la conseguenza che ricava dall'esposizione particolarizzata della sua ipotesi. Venendo a spiegare come quella lingua si sia dovuta formar lentamente e per gradi, dice: In primo luogo, quando gli uomini principiarono a articolar de' suoni, la rozzezza de' loro organi non permise loro di far ciò con inflessioni deboli come le nostre.

In secondo luogo, se, per noi, basta che la voce sia leggermente variata, è che il nostro spirito è molto esercitato per le molte idee che abbiamo acquistate, et per l'abitudine d'annetterle a de' suoni. Ecco ciò che mancava agli uomini che furono i primi a aver l'uso della parola.

In terzo luogo, nell'origine delle lingue, gli uomini, trovando troppi ostacoli a immaginar de' vocaboli noti, ecc.

Qui ci troviamo cambiate le carte in mano. Non son più due fanciulli nati di padre e madre, il che dispensa naturalmente dal render conto del come ci fossero; sono gli uomini cb'ebbero i primi l'uso della parola. Non è più qualche tempo dopo il diluvio, prima del quale gli uomini parlavano, e anche troppo, è quando principiavano a articolar delle parole. Non è più la formazione ipotetica d'una lingua particolare; è l'origine delle lingue. Qui, per conseguenza, la questione che, nelle premesse dell'ipotesi era stata rimossa, si suppone implicitamente sciolta; e l'ipotesi d'un accidente è cambiata nella storia d'un tutto. E se non si vogliono accettare a credenza delle supposizioni tacite, anzi state escluse, si deve domandare a quest'autore, né più né meno che agli altri, come esistessero questi uomini non generati; se prodotti da una causa intelligente quanto potente; e con qual disegno, con quanta sapienza, abbia creati degli esseri, dotandoli d'intelletto e di volontà, e lasciandoli, per un tempo indefinito, privi d'un mezzo necessario al pieno e retto esercizio di queste facoltà, e in uno stato simile, il più che fosse possibile, a quello de' bruti; se da un'altra causa; quale altra, e con quali mezzi, in qual modo. E tra l'altre domande necessarie a farsi, n'accenneremo, per brevità una sola: quanti fossero costoro; giacché il supporne due, maschio e femmina, come fa questo e generalmente gli altri autori di simili ipotesi, se può parere a chi non rifletta, che sia ridurre la difficoltà al meno possibile, non ha però nessuna ragione in sé, più di qualunque altro numero; e lascia intatta la difficoltà, che è di quelle che non si tratta di diminuire, ma di levare. Insomma torna in campo tutto il Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando. Ma, del resto, l'autore medesimo aveva manifestato prima il suo vero intento, intitolando quella parte dell'opera: Dell'origine e del progresso del linguaggio (Essai sur l'origine des connaissances humaines; Seconde partie, Section première); e non badando che, col principiar quella parte da adamo e eva, contradiceva tanto stranamente, quanto immediatamente, al titolo medesimo.

Si dirà forse che quella menzione d'Adamo e Eva fosse semplicemente una precauzione contro la Sorbona e il Parlamento. Sarebbe temerità l'affermare una tal cosa; ma mettiamo che fosse; bisognava poi fare i conti anche con la logica, ch'era più vecchia della Sorbona e del Parlamento, e che è sempre giovane. E la logica avrebbe detto: O voi volete dimostrare come una lingua sia potuta principiare da una coppia nata da de' suoi simili, in una società parlante; e allora non mettete nella conclusione l'origine del linguaggio, che sarebbe contraria alle premesse: o è l'origine del linguaggio, che volete dimostrare, e principiate dal dimostrare l'origine di quelli che intendete di farne autori.

Intanto, con un'ipotesi condotta a questo modo, il Condillac contribuì, per la sua parte (che dovett'essere la principale) a far dire a alcuni, e ripetere da molti: Oramai è dimostrato che il linguaggio poté essere inventato dagli uomini. Anzi, siccome, in generale, non piace alle menti il fermarsi in una possibilità metafisica, molti dicono più volentieri: È stato dimostrato che il linguaggio fu inventato dagli uomini. Ma che? non abbiamo noi visto un filosofo di professione, e uomo d'ingegno tutt'altro che volgare affermare una tal cosa come un fatto noto, e che non avesse bisogno di prove, nel passo che ci ha fatta fare (e ne chiediamo scusa al lettore) questa lunga digressione?

nota 73 – p.696

Prisciani Lib. II, Cap. De Oratione.

nota 74 – p.697

Grammaire, Chap. III, Paragr. II.

nota 75 – p.697

De Chevallet. Origine et formation de la langue française, Seconde partie, Liv. II, Sect. IV.

nota 76 – p.701

Grammaire, Chap. IV, Sect. II.

nota 77 – p.702

Grammaire, Chap. IV, Paragr. III.

nota 78 – p.702

Extrait raisonné, a. h. l.

nota 79 – p.704

Questa denominazione fu, credo, usata la prima volta dai due dottissimi uomini Antonio Arnauld e Claudio Lancelot, che la messero per titolo alla loro celebre opera su quell'argomento (Grammaire générale et raisonnée, contenant les fondemens de l'art de parler, etc.). Essendo poi un tal titolo stato applicato da altri autori a de' novi trattati sull'argomento medesimo, divenne a poco a poco il nome della nova scienza; e quel primo scritto fu e è comunemente chiamato la Grammatica di Porto–Reale

nota 80 – p.706

Dion. Halic. De compositione verborum. Cap. 2.

nota 81 – p.706

Così vien tradotto generalmente in latino il titolo di quel trattato. Intorno al senso del titolo originale sono diversi i pareri.

nota 82 – p.707

Op. Cit. Lib. I, Cap. 4.

nota 83 – p.707

Nel Sofista, verso la fine.

nota 84 – p.707

In Zenone.

nota 85 – p.707

Lib. II, Cap. De oratione.

nota 86 – p.707

Instit. Orat. I, 4 , 18.

nota 87 – p.709

Arist. Poet. Cap. XX.

nota 88 – p.709

Lib. II, Cap. De Oratione; Putsch, pag. 574.

nota 89 – p.711

Participium connumerantes verbis (Stoici) participiale verbum vocabant, vel casuale Priscian. loc. cit.

Ideo autem participium separatim non tradebant partem orationis, quia nulla alia pars orationis semper in derivatione est, nullam propriam positionem habens, nisi participium. Id. Lib. XI, Cap. De Participio; Putsch, pag. 911.

nota 90 – p.711

Priscian. ibid.

nota 91 – p.711

Diomed. De Arte grammatica, Lib. I, Cap. de Nomine; Putsch, pag. 306. – Priscian. Lib. I, Cap. de Oratione; Putsch, pag. 575.

nota 92 – p.711

Priscian. Lib. VIII, Cap. de temporibus verborum; Putsch, pag. 808.

nota 93 – p.712

Partes orationis sunt octo: Nomen, Pronomen, Verbum, Adverbium, Paricipium, Coniunctio, Praepositio, Interiectio. Ael. Donati, Editio secunda, Cap. I; Putsch, pag. 1743.

nota 94 – p.712

Multi plures, multi partes orationis putant Donat. Ibid.

nota 95 – p.712

Latini articulum pauciores adnumerant, Graeci iteriectionem. Donat.

Ibid. et alii.

nota 96 – p.713

I Umbrius tamen interiectionibus locum non dedit. Sosip. Charis. Instit. gramm. lib. 2, Cap. de Adverbio, Putsch, pag. 171. Prima l'aveva chiamato Umbrius Primus; e non so se alcun altro scrittore abbia fatta menzione di questo grammatico.

nota 97 – p.713

Interiectio non pars orationis est, sed signum affectionis erumpentis animi in vocem. De grammatica Cap. Ult. In Appendice T. I Opp. S. August. Edit. Maur. pag. 2.

nota 98 – p.713

Io. Duns Scoti Tractatus de modis significandi, sive Grammatica speculativa.

nota 99 – p.714

Laurentii Vallae De latinae linguae elegantia, Lib. II, Cap. XI.

nota 100 – p.714

Sanctii Minerva, Lib. I, Cap. 2.

nota 101 – p.714

Della lingua toscana Lib. I, Trattato VII, Cap. 21 e 22.

nota 102 – pp.714–15

Le agglomerazioni de' vocaboli in classi, più o meno numerose, furono, come s'è accennato sopra, formate, e da' greci e da' latini, dietro le tracce che presentavano loro le rispettive lingue, nelle diverse forme e consuetudini d'una gran parte di que' vocaboli.

Qualche volta però l'osservazione fu spinta anche al di fuori e al di là di que' fatti speciali e più apparenti. Per citarne un esempio, alcuni grammatici latini compresero l'articolo tra le parti dell'orazione, quantunque non si trovasse in quella lingua con una forma sua propria. Apud Latinos vero (alii) articulum addebant, quem purum per se apud eos non inveniri supra docuimus (Priscian. Lib. II, Cap. de Oratione). Pare che anche Quintiliano annettesse alla parola articolo l'idea d'un ufizio speziale che in latino fosse fatto da vocaboli di diverse classi. noster sermo,     dice,
articulus non desiderat; ideoque in alias partes orationis sparguntur. Instit. I, 4, 18.

È più che probabile che que' grammatici non sarebbero arrivati a fare una simile osservazione, se non ci fossero stati condotti dal vedere nella lingua greca l'articolo più spiegato, e già messo tra le parti dell'orazione; ma a ogni modo l'osservazione fu tutt'altro che volgare; e sarebbe stata importante se, come dell'altre analoghe, non fosse rimasta senza una più estesa applicazione. È poi una cosa curiosa il trovare de' grammatici latini più filosofi, in questo particolare, degli Stoici greci, che, per la facilità che prestava la loro lingua di riconoscere l'articolo per mezzo di caratteri estrinseci e materiali, ne diedero, se vale l'attestato di Diogene Laerzio (VII, zen.) una definizione grettamente grammaticale chiamandolo un elemento dell'orazione declinato per casi, e che distingue i generi e i numeri de' nomi.

nota 103 – p.716

Op. cit. 2a parte, cap. I.

nota 104 – pp.716–18

Ammettendo ad hominem, e per comodo del ragionamento, questa distinzione, siamo ben lontani dal riconoscerla come vera; giacché sarebbe un riconoscere che de' vocaboli possano significare altro che oggetti del pensiero. E poiché, a scanso d'equivochi, abbiamo dovuto fare questa dichiarazione, ci sia permesso d'osservare come l'erroneità di quella distinzione si manifesti ne' tentativi fatti da' suoi autori per metterla in atto.

Nella prima serie pongono i nomi, gli articoli, i pronomi, i particìpi, le preposizioni e gli avverbi: nella seconda i verbi, le congiunzioni e l'interiezioni.

E principiando dal verbo, qual ragione adducono per provare che significhi, non l'oggetto, ma la maniera del pensiero? Che il verbo indica l'affermazione, che è la principal maniera del pensiero (Op. cit. Parte IIa C. XIII). Ora una universale e infallibile esperienza attesta che il verbo significa, non l'affermazione, ma la cosa affermata. Infatti, o l'affermazione cade su qualcosa, o su nulla. Dire che su nulla, è un assurdo che non si può neppur pensare; se dunque su qualcosa, questo qualcosa è per l'appunto l'oggetto del pensiero. C'è bensì qualche verbo che indica l'affermazione, come il verbo affermare, e qualche altro analogo; ma in questo caso l'affermazione stessa è l'oggetto del pensiero.

In quanto alle congiunzioni, come E, Non, Se, Dunque, chi ci rifletta bene, dicono, vedrà che queste particelle non significano altro che l'operazione stessa del nostro spirito, che unisce o separa le cose, le nega, le riguarda o assolutamente, o con qualche condizione. Domanderemo anche qui, come a un di presso abbiamo fatto nel caso antecedente, se l'uomo ha un concetto delle cose su di cui fa queste operazioni, e se, nel farle e per farle, contempla in quel concetto delle relazioni di convenienza o di repugnanza, delle ragioni assolute o incondizionate, un vero o un falso; o se non ci contempla nulla. Ecco, di novo, l'assurdo d'operazioni fatte su nessuna materia; assurdo che non si può evitare se non col riconoscere che le congiunzioni significano oggetti del nostro spirito. Per esempio, aggiungono poi, non c'è un oggetto al mondo, fuori del nostro spirito, che corrisponda alla particella No; ma è evidente che essa non significa se non il giudizio che noi facciamo, che una cosa non è un'altra (Op. cit. Parte II.a C. XXIII). Se fuori del nostro spirito non ci fosse nulla che corrisponda alla particella No, su cosa sarebbe formato quel giudizio? Tanto sarebbe il dir No, quanto il dir Sì, perché cosa può valere un giudizio che non abbia oggetto veruno? O piuttosto non si potrebbe dire, né l'uno né l'altro, perché non si potrebbe pensare né l'uno né l'altro. Gli autori hanno voluto dire che non c'è alcuna entità reale che corrisponda al vocabolo No; e qui non c'è dubbio. Ma sottintendevano che, oltre il reale non ci sia nulla: errore, del resto, ben più antico di loro, e che non è certamente morto con loro.

Per un eguale motivo escludono l'interiezioni dalla categoria de' vocaboli che significano oggetti del pensiero. Anche l'interiezioni, dicono, sono vocaboli che non significano nulla fuori di noi; ma sono solamente voci più naturali che artifiziali, che segnano i moti dell'animo nostro. Con una tal regola questo stesso vocabolo animo dovrebb'essere escluso dai nomi, giacché non significa certamente nulla che sia fuori di noi.

S'intende da sé, che, con questi appunti, non vogliamo punto detrarre al merito di tante osservazioni ingegnose e giuste su de' casi particolari, sparse in quell'opera, ma che, dei resto, sono affatto independenti dal supposto principio.

nota 105 – p.719

[Manca la nota]

nota 106 – p.720

[Manca la nota]

nota 107 – p.720

[Manca la nota]

nota 108 – p.720

Op. cit. Cap. III, Paragr. II.

nota 109 – p.726

Cic. Epist. ad Fam. I, 9. P. Lentulo Imp.

nota 110 – pp.740–41

È naturale che le grammatiche precedano i vocabolari: intendo, qui e sopra, i vocabolari nel senso più esteso, cioè quelli destinati a comprendere indifferentemente, e per quanto la cosa è possibile, tutti i vocaboli d'una lingua. Le forme grammaticali, essendo, di loro natura, riducibili a generi e ad eccezioni, invitano, per dir così, l'intelletto a raccoglierle, per quella nobile attrattiva che l'intelletto trova nello scoprire una legge in ciò che le cose hanno di simile, e un ordine in ciò che hanno di relativo, e nel comprendere così un tutto ideale in pochi concetti. Una grammatica è un sistema di classi: materia feconda di scoperte facili, e di ragioni plausibili; capace di distribuzioni diverse, e aventi ognuna qualche fondamento; capace d'una certa brevità insieme, e d'un certo compimento. Un vocabolario, in vece, non è altro che una lista d'individui: materia immensa insieme, e, dirò così, inorganica; non solo non mai compita, ma che non può nemmeno parer tale; materia capace soltanto (per chi non ci voglia metter per forza un ordine che non c'è in realtà, e non ci può essere) d'una distribuzione artifiziale, d'un ordine estrinseco, quale è l'alfabetico; materia, nella quale l'intelletto non può far altro che aggregare, senza comporre, senza dedurre, passare, senza nessun filo scientifico che lo guidi, da una parte a un'altra d'un tutto che non si lascia, né descrivere intero, né compendiare.

nota 111 – p.756

Meno, se c'è bisogno di ripeterlo, le cose che possano esser particolari a questa o a quella provincia, e che non abbiano un nome in francese; le quali nessuno trova strano che si dicano con un nome vernacolo, come nessuno trova strano che si dicano con nomi affatto stranieri le cose straniere. E meno qualche altra, ancor più accidentale, eccezione, che non si potrebbe accennar così brevemente, e che, appunto perché eccezione, non è qui necessario esporre.

nota 112 – p.774

Le cagioni di questa preferenza son facili a vedersi. Le forme grammaticali, essendo di loro natura riducibili a generi e ad eccezioni, invitano, per dir così, l'intelletto a raccoglierle, per l'attrattiva che l'intelletto trova nello scoprire una legge in ciò che le cose hanno di simile, e un ordine in ciò che hanno di relativo. Una grammatica è un sistema di classi: materia feconda di scoperte facili, e di ragioni plausibili, capace di distribuzioni diverse, aventi ognuna qualche fondamento; e capace d'una certa brevità insieme, e d'un certo compimento. Un vocabolario, in vece, non è altro che una lista d'individui: materia immensa insieme, e, dirò così, inorganica; non solo non mai finita, ma che non può parerlo; materia più innegabilmente, ma, nello stesso tempo, più confusamente mutabile, di maniera che uno la vede e non la vede distruggersi in parte, e in parte formarsi, nell'atto stesso che la sta trattando; materia naturalmente feconda di dubbi, e mancante affatto (come dovrem provar più tardi, giacché i sistemi ci obbligano anche a questo) di soluzioni generiche e scientifiche; materia/

nota 113 – p.775

È naturale che le grammatiche precedano i vocabolari, dico i vocabolari che si propongono di comprendere, indifferentemente, e per quanto la cosa è possibile, tutti i vocaboli d'una lingua. Le forme grammaticali, essendo, di loro natura, riducibili a generi e ad eccezioni, invitano, per dir così, l'intelletto a raccoglierle, per quella nobile attrattiva che l'intelletto trova nello scoprire una legge in ciò che le cose hanno di simile, e un ordine in ciò che hanno di relativo. Una grammatica è un sistema di classi: materia feconda di scoperte facili, e di ragioni plausibili, capace di distribuzioni diverse, aventi ognuna qualche fondamento, e capace d'una certa brevità insieme, e d'un certo compimento. Un vocabolario, in vece, non è altro che una lista d'individui: materia immensa insieme e, dirò cosi, inorganica; non solo non mai compita, ma che non può nemmeno parerlo, materia capace soltanto (per chi non ci voglia metter per forza un ordine che non c'è, e non ci può essere) d'una distribuzione artifiziale, d'un metodo estrinseco, quale è l'alfabetico; materia, nella quale l'intelletto non può far altro che aggregare senza comporre, osservare senza dedurre, passare, senza esser condotto da un filo scientifico, da una parte a un'altra d'un tutto che non si lascia né descrivere intero, né compendiare.

Tanto le prime grammatiche, quanto i primi vocabolari dell'età moderna furon fatte sopra lingue morte; e ciò per più cagioni che non è qui il luogo d'osservare. Ci si permetta soltanto d'accennarne una che riguarda più specialmente il vocabolario; ed è che la materia delle dette lingue presenta, per la sua imperfezione stessa, una specie d'integrità artifiziale.

Appunto perché non son lingue, ma parti di lingue, hanno una quantità finita e stabile; e il loro vocabolario non è, né può essere che il catalogo

nota 114 – p.777

È naturale che le grammatiche precedano i vocabolari; intendo i vocabolari nel senso più comune di questa denominazione, quelli cioè che son destinati a comprendere indifferentemente, e per quanto la cosa è possibile, tutti i vocaboli d'una lingua. Le forme grammaticali, essendo, di loro natura, riducibili a generi e ad eccezioni, invitano, per dir così, l'intelletto a raccoglierle, per quella nobile attrattiva che l'intelletto trova nello scoprire una legge in ciò che le cose hanno di simile, e un ordine in ciò che hanno di relativo. Una grammatica è un sistema di classi: materia feconda di scoperte facili, e di/

nota 115 – p.781

Nam ut vestris frigoris depellendi cusa reperta primo, post adhiberi coepta est ad ornatum etiam corporis et dignitatem; sic verbi translatio instituta est inopiae causa, frequentata delectationis (De Oratore, III, 38).

nota 116 – p.800

Abel–Rémusat, Grammaire chinoise, 60, 61.

nota 117 – p.810

Il Duca di Noailles, che desiderava di stringere amicizia con S–Simon.

nota 118 – pp.822–23

Verbi translatio instituta est inopiae causa, frequentata delectationis.

De Orat. III, 38.

La ragione poi di questo speciale piacere che nasce dai traslati (giacché si può accennarla con pochissime parole) si riduce, se non m'inganno, a quella ragione più generale, che l'intendere, come è naturalmente e necessariamente piacevole, così lo è tanto più, quanto più è comprensivo, cioè quanti più oggetti abbraccia in una volta, per mezzo d'una unità che gli si manifesta in essi.

Non per altro il traslato ottiene l'effetto di rivolger la mente a un oggetto, col significarne un altro, se non perché fa pensare un'analogia che corre tra di essi, e quindi una legge sotto la quale cadono, un ordine al quale appartengono l'uno e l'altro. E ciò spiega quell'effetto notissimo, che il traslato tanto più piace, re si chiama bello e ingegnoso, quanto più gli oggetti che riunisce con quella sua virtù propria, sono disparati, e nello stesso tempo, convengono tra di loro in molti punti. In quel caso, la legge comune a' due oggetti, comprendendo necessariamente una moltitudine graduata d'altri oggetti intermedi, è, in proporzione, più elevata e più generale, e più vasto è l'ordine di cui fanno parte; come una maggior distanza tra i due estremi della base d'un triangolo equilatero, porta necessariamente una maggiore altezza del vertice, e una maggior grandezza del triangolo medesimo.

In fondo, il traslato è un'astrazione; poiché il comprendere, che esso fa, due oggetti sotto una medesima denominazione, è un collocarli in un medesimo genere, per motivo di qualcosa di comune veduto in essi, e prescindendo da ciò che ciascheduno ha di proprio e di diverso. E astrazione non di rado altissima; come quando prescinde, non già da delle qualità da de' modi, da degli accidenti propri dell'uno o dell'altro, ma dalla loro natura essenziale medesima. Ed è appunto ciò che avviene ne' traslati che si fanno da sostanze corporee a sostanze spirituali. E anche viceversa; giacché qual cosa più antica e più comune, tanto nel linguaggio ordinario, quanto nell'artifizioso, dell'attribuire figuratamente sentimenti, passioni, giudizi, abitudini morali, azioni volontarie a degli esseri inanimati? Fa poi il traslato anche più di questo riunire in un genere sostanze eterogenee, ma sostanze, esseri reali ugualmente; fa, dico' di più, e molto di più, quando trasporta sia la realtà sia delle qualità proprie di essa, a degli esseri mentali, cioè privi di sostanza, non aventi realtà; come quando si dice: giudizio retto ponderato, precipitato; riflessione acuta, profonda, leggiera; nozione complicata; e come c'è occorso di dire dianzi astrazione più o meno alta. E fa di più ancora quando le trasporta a degli esseri mentali che non rappresentano, come questi, degli atti d'un essere reale né si riferiscono ad alcuno di essi ma sono contemplati.

nota 119 – pp.823–24

Verbi translatio instituta est ínopiae causa frequentata delectationis.

De Orat. III, 38.

La ragione poi di questo speciale piacere che nasce dai traslati (giacché si può accennarla con pochissime parole) si riduce, se non m'inganno, a quella ragione più generale, che, l'intendere, come è naturalmente e necessariamente piacevole, così lo è tanto più, quanto più è comprensivo; cioè quanti più oggetti abbraccia per mezzo d'una unità che si manifesta in essi. In tanto il traslato ottiene l'effetto di rivolger la mente a un oggetto, col significarne un altro, in quanto fa pensare un'analogia tra di essi, e quindi una legge sotto la quale cadono un ordine al quale appartengono l'uno e l'altro. E ciò spiega il perché il traslato tanto più piace e si chiama bello e ingegnoso, quanto più gli oggetti che accozza, con quella sua virtù propria, sono disparati, e quanti più, nello stesso tempo, sono i punti ne' quali convengono. In quel caso, la legge comune a quelli, comprendendo necessariamente una moltitudine graduata d'altri oggetti intermedi, è, in proporzione, più elevata e più generale, e è più, vasto l'ordine di cui fanno parte; come una maggiore distanza tra due estremi della base d'un dato triangolo, porta necessariamente una maggiore altezza del vertice; e una maggiore grandezza del triangolo medesimo.

Il traslato è in ultimo, un'astrazione; poiché l'accozzar due oggetti, applicando all'uno la denominazione dell'altro, equivale al metterli in una medesima classe. E astrazione non di rado altissima; come quando elimina, non già qualità, modi, accidenti propri dell'uno o dell'altro, ma la loro natura essenziale medesima.

E è ciò che accade appunto ne' traslati che si fanno da sostanze materiali a sostanze spirituali. E anche viceversa; giacché qual cosa più antica e più comune, tanto nel linguaggio ordinario, quanto nell'artifizioso, che l'attribuire figuratamente sentimenti, passioni, giudizi, abitudini morali, azioni volontarie agli esseri inanimati? Fa poi il traslato molto più di questo trasportare scambievolmente qualità, passioni e modi propri esclusivamente d'un genere di sostanze a delle sostanze eterogenee, ma sostanze ugualmente: fa, dico, molto più, quando trasporta, sia la realtà, sia delle qualità proprie di essa a degli esseri mentali, cioè privi di sostanza, non aventi realtà di sorte veruna; come quando si dice: giudizio retto, ponderato, precipitato, riflessione acuta, profonda, leggiera, superficiale, nozione complicata, astrazione più o meno alta, come dianzi c'è occorso di dire; e più ancora, per una parte quando le trasporta a degli esseri mentali che non rappresentano, come questi un atto d'un essere reale, né si riferiscono a un atto tale, ma sono dalla mente contemplata puramente in sé medesimi; come quando chiamiamo grande o piccola una verità o una differenza, e diciamo un ordine più o meno esteso, più o meno elevato, e una relazione stretta o lontana.

nota 120 – pp.824–25

Pare che il primo significato morale, attribuito per traslato questo vocabolo, sia stato. quello del vincolo, dirò così, interiore, che proviene da un patto o da una promessa, indipendentemente da ogni forza estrinseca, che possa costringere all'esecuzione; e che poi questo significato sia stato esteso anche ai diversi vincoli resultanti dalla natura delle cose, nell'ordine della giustizia, independentemente anche da ogni convenzione umana; e che in ultimo solamente il vocabolo sia stato trasferito, con una sineddoche usitatissima, a significare anche il genere intero, l'essenza comune e astratta di questi vincoli morali: che è il senso di cui si tratta, e che s'esprime col dire in modo assoluto, l'obbligazioe morale.

nota 121 – p.825

La somiglianza implica differenza: ed è questo, che la fa esser altro che identità. E quindi evidente che, se da due o più oggetti somiglianti si rimovono le differenze col mezzo dell'astrazione, ciò che rimane è identico.

nota 122 – p.825

[Manca la nota]

nota 123 – pp.828–29

È noto che il Locke volle spiegare questo genere di fatti col suo sistema, e credette, per conseguenza, d'aver trovata in essi una conferma del sistema medesimo. Un'altra cosa,     dice,
che può accostarci un po' più all'origine di tutte le nostre nozioni e cognizioni è l'osservare quanto le parole di cui ci serviamo dipendono dall'idee sensibili     (cioè di cose sensibili),
e come quelle che s'adoprano per significare azioni e nozioni affatto lontane da' sensi, prendano origine da queste stesse idee sensibili (saggio, etc. Lib. III, Cap. I, 5). E dopo aver citate alcune di queste parole, aggiunge: Di qui possiamo congetturare che sorte di nozioni avessero i primi che parlarono quelle lingue, e donde venivano loro nella mente, e come la natura. suggerì inopinatamente agli uomini l'origine e il principio di tutte le loro cognizioni, per mezzo de' nomi stessi che davano alle cose; poiché per trovar de' nomi coi quali far conoscere agli àtri l'operazioni che sentivano in sé medesimi, o qualche altra idea che non cadesse sotto i sensi, furono costretti d'accettar parole dall'idee di sensazioni le più note. Possiamo meglio che congetturare; possiamo inferire con certezza, che n'avevano di due sorte, cioè e le nozioni significate dalle parole di cui si servivano, e, se piace al cielo le nozioni che volevano significare con questo mezzo.

E come mai dall'esser significate con questo mezzo si può congetturare la loro origine? Un tale argomento potrebbe valere, né più né meno, per i traslati che si fanno da sensazione a sensazione; e perché si dice un suono acuto, un suono dolce, un suono duro, si potrebbe con la stessa ragione (cioè con quella del sofisma non causa pro causa), congetturare che l'idee di quelle qualità de' suoni abbiano avuta origine dal senso della vista, da quello del gusto e da quello del tatto.

Del resto, il Locke contradice qui direttamente e in terminis all'esposizione medesima del suo sistema, dove, com'è noto, pone espressamente due sorgenti da cui derivano tutte l'idee che noi abbiamo o che possiamo avere naturalmente;     o come dice anche,
due princìpi dai quali prendono origine tutte le nostre cognizioni; cioè le cose esteriori e materiali, che sono gli oggetti della sensazione, e l'operazioni del nostro spirito, che sono gli oggetti della riflessione.     Delle quali ultime dice, in termini ugualmente espliciti, che
non potrebbero esser somministrate all'intelletto dagli oggetti esteriori (Lib. II, Cap. 1, 2, 4). Cedette allora alla forza dell'esperienza interna, la quale interrogata su questo punto, senso per senso, risponde cinque volte di no. E per quel ripiego della doppia origine non dovette sentir repugnanza; poiché s'accomodava benissimo con l'assunto principale di far produrre l'idee da fatti particolari e contingenti, senza dover riconoscere in esse nulla che fosse anteriore al soggetto umano e independente da questo. Quando poi s'abbatté a osservare il fatto de' traslati presi da significazioni di cose materiali, non vide latro che quella metà della sua tesi, alla quale s'immaginò che un tal fatto dovesse dare una gran forza; e su questo fondamento non gli parve vero di poter riferire alla sola sensazione l'origine e il principio di tutte le cognizioni umane, senza badare all'inconveniente che ne poteva nascere per le due sorgenti e i due principi.

nota 124 – pp.829–30

Loc. cit. La ragione poi di questo speciale piacere che possono fare i traslati, si riduce, se non m'inganno, a quella ragione più generale: che piace naturalmente e necessariamente l'intendere; e tanto più piace, ceteris paribus, quanto più è comprensivo, cioè quanti più oggetti abbraccia, per mezzo d'una unità che si manifesta in essi. Il traslato, rivelando un'analogia tra due oggetti, fa intravvedere una legge sotto la quale cadono, un ordine al quale appartengono l'uno e l'altro. E questo spiega il perché un traslato tanto più piace, e si chiama bello e ingegnoso, quanto più gli oggetti che accozza sono disparati, e insieme convengono in più punti. In questo caso, la legge comune ad essi, comprendendo necessariamente una moltitudine d'altri oggetti intermedi, è, in proporzione, più elevata e più generale, e è più vasto l'ordine di cui e quelli e questi fanno parte: come una maggiore distanza tra i due estremi della base d'un dato triangolo, porta necessariamente una maggiore altezza del vertice, e una maggior grandezza del triangolo medesimo.

Ogni comprensione più vasta è come un maggiore avvicinamento all'unità della cognizione: unità alla quale l'intelletto tende naturalmente, come al possesso pieno, e per ogni parte sicuro, della verità, che è il suo termine. Dico, sicuro per ogni parte; perché il conoscere l'ordine intero nel quale le verità parziali s'uniscono col principio della verità, e la loro connessione con questo, esclude l'incertezza da ciascheduna. E perché dalla più vasta comprensione nasca questa maggior compiacenza, non è punto necessario che l'uomo riconosca la relazione di quella con l'unità della cognizione: ne è causa sufficiente l'essere una maggiore attività, un più esteso esercizio d'una sua facoltà costitutiva, quale è quella dell'intendere. L'idea d'un pieno possesso della verità, per il quale l'uomo è stato creato, e del quale, per conseguenza, è capace, è entrata nelle menti umane per mezzo della rivelazione, come l'idea corrispondente, d'un pieno e puro e inammissibile godimento.