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OSSERVAZIONI SULLA MORALE CATTOLICA
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Alessandro Manzoni

 

Unum gestit interdum ne ignorata damnetur.

Tertul., Apol. cap. I.

 

 

 

AVVERTIMENTO.

 

La seguente operetta fu pubblicata la prima volta col titolo di Prima Parte, credendo allora l'autore di poterle far tener dietro alcune dissertazioni relative a diversi punti toccati in essa. Ma, alla prova, dovette deporre un tal pensiero, venendogli meno, sia l'importanza o l'opportunità che gli era parso di vedere nelle materie che s'era proposte, sia la capacità di trattarle passabilmente, nemmeno al suo proprio giudizio. Ha però creduto di poter aggiungere a questa seconda sua edizione, col titolo d'Appendice, un discorso scritto da ultimo, intorno a'sistemi che si studiano di fondar la morale sul così detto principio d'utilità: argomento al quale non manca, di certo, nè la prima nè la seconda di quelle condizioni.

 

 

AL LETTORE.

 

Questo scritto è destinato a difendere la morale della Chiesa cattolica dall'accuse che le sono fatte nel Cap. CXXVII della Storia delle Repubbliche Italiane del medio evo.

In un luogo di quel capitolo s'intende di provare che questa morale è una cagione di corruttela per l'Italia. Io sono convinto che essa è la sola morale santa e ragionata in ogni sua parte; che ogni corruttela viene anzi dal trasgredirla, dal non conoscerla, o dall'interpretarla alla rovescia; che è impossibile trovare contro di essa un argomento valido: e ho qui esposte le ragioni per le quali ho creduto di poter dimostrare che non lo è alcuno di quelli addotti dall'illustre autore di quella Storia.

Debole, ma sincero apologista d'una morale il di cui fine è l'amore; persuaso che nella benevolenza del fatuo, c'è qualcosa di più nobile e di più eccellente che nell'acutezza d'un gran pensatore; persuaso che il trovare nell'opinioni d'alcuno disparità dalle nostre deve avvertirci di ravvivare per lui i sentimenti di stima e d'affezione, appunto perchè la corrotta nostra inclinazione potrebbe ingiustamente strascinarci ai contrari; se non avrò osservati in quest'opericciola i più scrupolosi riguardi verso l'autore che prendo a confutare, sarà avvenuto certamente contro la mia intenzione. Spero però che non sarà avvenuto; e rifiuto anticipatamente ogni interpretazione meno gentile d'ogni mia parola.

Con tutto ciò, sento che a ogni lavoro di questa sorta s'attacca un non so che d'odioso, che è troppo difficile di levarne affatto. Prendere in mano il libro d'uno scrittore vivente e, a giusta ragione, stimato; ripetere alcune sue proposizioni, esaminarle punto per punto, trovare in tutto che dire, fargli per dir così, il dottore a ogni passo, è una cosa che, a lungo andare, è quasi impossibile che non lasci una certa impressione di presunzione, e di basso e insistente litigio. Per prevenire questa impressione, non dirò al lettore: vedete se non ho ragione ogni volta che prendo qui a contradire: so e sento che l'aver ragione non basta sempre a giustificare una critica, e soprattutto a nobilitarla. Ma dirò: considerate la natura dell'argomento. Non è questa una discussione speculativa; è una deliberazione: deve condurre, non a ricevere piuttosto alcune nozioni che alcune altre, ma a scegliere un partito; poichè, se la morale che la Chiesa insegna, portasse alla corruttela, converrebbe rigettarla. Questa è la conseguenza che gl'Italiani dovrebbero cavare da quel complesso di ragionamenti. Io credo che un tale effetto sarebbe per i miei connazionali la più grande sventura: quando si sente d'avere sopra una questione di questa sorte un parere ragionato, l'esporlo può essere un dovere: non ci sono doveri ignobili.

Il lettore troverà qualche volta che la confutazione abbraccia più cose che l'articolo confutato: in questo caso, lo prego d'osservare che non intendo d'attribuire all'illustre autore più di quello che abbia espressamente detto; ma ho creduto che l'unica maniera d'arrivare a un resultato utile, fosse di trattare la questione più in generale; e in vece di difendere in un articolo di morale la sola parte controversa, indagare la ragione del tutto; poichè è questo che importa di conoscere è questo che bisogna interamente ricevere o rifiutare. Ho tenuto tanto più volentieri questo metodo, perchè si veda meglio, che il mio scopo è di stabilire delle verità importanti e che la confutazione è tutta subordinata a questo.

Notare in un'opera di gran mole e di grand'importanza quello che si crede errore, e non far cenno dei pregi che ci si trovano, non sarà forse ingiustizia, ma mi pare almeno scortesia: è rappresentare una cosa che ha molti aspetti, da uno solo, e sfavorevole. Non dovendo citare la Storia delle Repubbliche Italiane se non per contradire a una parte di essa, prendo qui l'occasione d'attestare brevemente la mia stima per tant'altre parti d'un'opera, il più piccolo merito della quale sono le laboriose e esatte ricerche, che formano il principale di tant'altre di simil genere; d'un'opera originale sopra una materia già tanto trattata; e originale appunto perchè è trattata come dovrebbero essere tutte le storie, e come pochissime lo sono. Accade troppo spesso di leggere, presso i più lodati storici, descrizioni di lunghi periodi di tempi, e successioni di fatti vari e importanti, senza trovarci quasi altro che la mutazione che questi produssero negl'interessi e nella miserabile politica di pochi uomini: le nazioni erano quasi escluse dalla storia. L'intento di rappresentare, per quanto si può, in una storia lo stato dell'intera società di cui porta il nome, intento, si direbbe quasi, novo, è stato in questa applicato a una materia vasta e, pur troppo, complicatissima, ma d'una bella e felice proporzione: i fatti sono in essa vicini di tempo e di natura tanto da poterli con chiarezza e senza stento confrontare con le teorie che gli abbracciano tutti; e queste teorie sono assai estese, senza arrivare a quell'indeterminato, che mette bensì lo storico al coperto delle critiche particolari, perchè rende quasi impossibile il trovare gli errori, ma che lascia il lettore in dubbio se quella che gli è presentata sia un'osservazione vera e importante; o un'ipotesi ingegnosa. Senza ricevere tutte le opinioni dell'illustre autore, e rifiutando espressamente quelle che dissentono dalla fede e dalla morale cattolica, non si può non riconoscere quante parti della politica, della giurisprudenza, dell'economia e della letteratura siano state da lui osservate da un lato spesso novo e interessante, e, ciò che più importa, nobile e generoso; quante verità siano state da lui, per dir così, rimesse in possesso, ch'erano cadute sotto una specie di prescrizione, per l'indolenza o per la bassa connivenza d'altri storici, che discesero troppo spesso a giustificare l'ingiustizia potente, e adularono perfino i sepolcri. Egli ha voluto quasi sempre trasportare la stima pubblica dal bon successo alla giustizia: lo scopo è tanto bello, che è dovere d'ogn'uomo, per quanto poco possa valere il suo suffragio, di darglielo, per far numero, se non altro, in una causa che n'ha sempre avuto, e n'ha più che mai, gran bisogno.

Chi ha fatti studi seri e lunghi sulle Sacre Scritture, fonti inesauste di morale divina, e ha letti con attenzione i gran moralisti cattolici, e ha meditato, con riflessione spassionata, sopra di sè e sopra gli altri, troverà superficiali queste Osservazioni; e sono ben lontano dall'appellarmi dal suo giudizio. Le discussioni parziali possono bensì mettere in chiaro qualche punto staccato di verità; ma l'evidenza e la bellezza e la profondità della morale cattolica non si manifestano se non nell'opere, dove si considera in grande la legge divina e l'uomo per cui è fatta. Ivi l'intelletto passa di verità in verità: l'unità della rivelazione è tale che ogni piccola parte diventa una nova conferma del tutto, per la maravigliosa subordinazione che ci si scopre; le cose difficili si spiegano a vicenda, e da molti paradossi resulta un sistema evidente. Ciò che è, e ciò che dovrebb'essere; la miseria e la concupiscenza, e l'idea sempre viva di perfezione e d'ordine che troviamo ugualmente in noi; il bene e il male; le parole della sapienza divina, e i vani discorsi degli uomini; la gioia vigilante del giusto, i dolori e le consolazioni del pentito, e lo spavento o l'imperturbabilità del malvagio; i trionfi della giustizia, e quelli dell'iniquità; i disegni degli uomini condotti a termine tra mille ostacoli, o fatti andare a voto da un ostacolo impreveduto; la fede che aspetta la promessa, e che sente la vanità di ciò che passa, l'incredulità stessa; tutto si spiega col Vangelo, tutto conferma il Vangelo. La rivelazione d'un passato, di cui l'uomo porta in sè le triste testimonianze, senza averne da sè la tradizione e il segreto, e d'un avvenire, di cui ci restavano solo idee confuse di terrore e di desiderio, è quella che ci rende chiaro il presente che abbiamo sotto gli occhi; i misteri conciliano le contradizioni, e le cose visibili si intendono per la notizia delle cose invisibili. E più s'esamina questa religione, più si vede che è essa che ha rivelato l'uomo all'uomo, che essa suppone nel suo Fondatore la cognizione la più universale, la più intima, la più profetica d'ogni nostro sentimento. Rileggendo l'opere de'gran moralisti cattolici, e segnatamente i sermoni del Massillon e del Bourdaloue, i Pensieri del Pascal, e i Saggi del Nicole, io sento la piccolezza dell'osservazioni contenute in questo scritto; e sento che vantaggio dava ai due primi l'autorità del sacerdozio, e a tutti il modo generale di trattare la morale, un grand'ingegno, de'lunghi studi, e una vita sempre cristiana.

S'usa una strana ingiustizia con gli apologisti della religione cattolica. Si sarà prestato un orecchio favorevole a ciò che vien detto contro di essa; e quando questi si presentano per rispondere, si sentono dire che la loro causa non è abbastanza interessante, che il mondo ha altro a pensare, che il tempo delle discussioni teologiche è passato. La nostra causa non è interessante! Ah! noi abbiamo la prova del contrario nell'avidità con cui sono sempre state ricevute l'obiezioni che le sono state fatte. Non è interessante! e in tutte le questioni che toccano ciò che l'uomo ha di più serio e di più intimo, essa si presenta così naturalmente, che è più facile respingerla che dimenticarla. Non è interessante! e non c'è secolo in cui essa non abbia monumenti d'una venerazione profonda, d'un amore prodigioso, e d'un odio ardente e infaticabile. Non è interessante! e il voto che lascerebbe nel mondo il levarnela, è tanto immenso e orribile, che i più di quelli che non la vogliono per loro, dicono che conviene lasciarla al popolo, cioè ai nove decimi del genere umano. La nostra causa non è interessante! e si tratta di decidere se una morale professata da milioni d'uomini, e proposta a tutti gli uomini, deva essere abbandonata, o conosciuta meglio, e seguita più e più fedelmente.

Si crede da molti che questa noncuranza sia il frutto d'una lunga discussione, e d'una civilizzazione avanzata; che sia per la religione l'ultimo e più terribile nemico, venuto, nella pienezza de'tempi, a compire la sua sconfitta, e a godere del trionfo preparato da tante battaglie; e in vece questo nemico è il primo ch'essa incontrò nella sua meravigliosa carriera.

Al suo apparire, fu accolta dagli scherni del mondo; si principiò dal crederla indegna d'esame. Gli apostoli, nell'estasi tranquilla dello Spirito, rivelano quelle verità che diverranno la meditazione, la consolazione e la luce de'più alti intelletti, gettano i fondamenti d'una civilizzazione che diventerà europea, che diventerà universale; e sono chiamati ubbriachi [1]. San Paolo fa sentire nell'Areopago le parole di quella sapienza, che ha rese tanto superiori le donnicciole cristiane ai saggi del gentilesimo; e i saggi gli rispondono che lo sentiranno un'altra volta [2]. Credevano d'avere per allora cose più importanti da meditare, che Dio e l'uomo, il peccato e la redenzione. Se questo antico nemico sussiste tuttora, è perchè non fu promesso alla Chiesa che distruggerebbe tutti i suoi nemici, ma che non sarebbe distrutta da alcuno.

Parlare di dommi, di riti, di sacramenti, per combattere la fede, si chiama filosofia; parlarne per difenderla, si chiama entrare in teologia, voler fare l'ascetico, il predicatore; si pretende che la discussione prenda allora un carattere meschino e pedantesco. Eppure non si può difendere la religione, senza discutere le questioni poste da chi l'accusa, senza mostrare l'importanza e la ragionevolezza di ciò che forma la sua essenza. Volendo parlare di cristianesimo, bisogna pur risolversi a non lasciar da parte i dommi, i riti, i sacramenti. Che dico? perchè ci vergogneremo di confessare quelle cose in cui è riposta la nostra speranza? perchè non renderemo testimonianza, nel tempo d'una gioventù che passa, e d'un vigore che ci abbandona, a ciò che invocheremo nel momento della separazione e del terrore?

Ma ecco che, senza avvedermene, entravo a difender me stesso contro delle censure avvenire, e che forse non verranno. Cadrei in un orgoglio ridicolo, se cercassi di trasportare a quest'opericciola l'interesse che si deve alla causa per cui è intrapresa.

Spero d'averla scritta con rette intenzioni, e la pubblico con la tranquillità di chi è persuaso che l'uomo può aver qualche volta il dovere di parlare per la verità, ma non mai quello di farla trionfare.

 

 

AVVERTENZA.

 

Si riportano nel testo originale tanto, i passi della Storia delle Repubbliche Italiane al cap. CXXVII, vol. XVI, ai quali si riferiscono l'osservazioni, quanto l'altre citazioni francesi; non avendo oramai questa lingua più bisogno di traduzione in Italia. I passi delle Scritture, o d'opere latine si citano tradotti, mettendo i testi a piè di pagina. 

 

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CAPITOLO PRIMO.

SULLA UNITÀ DI FEDE.

 

L'unité de foi, qui ne peut résulter que d'un asservissement absolu de la raison à la croyance, et qui en conséquence ne se trouve dans aucune autre religion au même degré que dans la catholique, lie bien tous les membres de cette Église à recevoir les mêmes dogmes, à se soumettre aux mêmes décisions, à se former par les mêmes enseignemens. Hist. des Répub. It., t. XVI, p. 410.

 

Che l'unità della fede si trovi nel più alto grado, o piuttosto assolutamente, nella Chiesa cattolica, è questo un carattere evangelico di cui essa si vanta; poichè non ha inventata quest'unità, ma l'ha ricevuta; e, tralasciando tanti luoghi delle Scritture dov'essa è insegnata, ne riporterò due, in cui si trova non solo la cosa, ma la parola. San Paolo nell'Epistola agli Efesi, dice espressamente: Una è la fede [3]; e dopo avere enumerati vari doni e ufizi che sono nella Chiesa, stabilisce per fine di essi l'unità della fede, e della cognizione del Figliuolo di Dio [4].

L'illustre autore non adduce gli argomenti per cui l'unità della fede non deva poter resultare che dalla schiavitù assoluta della ragione alla credenza. Se la cosa fosse così, non si potrebbero conciliare i passi citati dianzi, con quell'altre parole del medesimo apostolo: il razionale vostro culto [5]. Ma non solo si conciliano; si spiegano anzi, e si confermano a vicenda.

Certo, la fede include la sommissione della ragione: questa sommissione è voluta dalla ragione stessa, la quale riconoscendo incontrastabili certi princìpi, è posta nell'alternativa, o di credere alcune conseguenze necessarie, che non comprende, o di rinunziare ai princìpi. Avendo riconosciuto che la Religione Cristiana è rivelata da Dio, non può più mettere in dubbio alcuna parte della rivelazione; il dubbio sarebbe non solo irreligioso, ma assurdo. Supponendo, per un momento, che l'unità della fede non fosse espressa nelle Scritture, la ragione che ha ricevuta la fede deve adottarne l'unità: non ha più bisogno per questo di sottomettersi alla credenza; ci deve arrivare per una necessità logica.

La fede sta nell'assentimento dato alle cose rivelate, come rivelate da Dio. Suppongo che l'autore scrivendo questa parola fede, le ha applicata quest'idea, perchè è impossibile applicargliene un'altra. Ora, repugna alla ragione che Dio riveli cose contrarie tra di loro; se la verità è una, la fede dev'esserlo ugualmente, perchè sia fondata sulla verità. La connessione di quest'idee è chiaramente accennata nel testo già citato in parte: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Dall'unità di Dio resulta necessariamente l'unità della fede, e da questa l'unità del culto essenziale. Bacone mostrò di tenere questa per una verità fondamentale, dove disse: Tra gli attributi del vero Dio si pone che è un Dio geloso onde il suo culto non soffre nè mescolanza, nè compagnia [6].

L'idee di fede e di pluralità sono così contradittorie, che il linguaggio stesso pare che repugni a significare la loro unione; poichè si dirà bene le diverse religioni, opinioni, credenze religiose, ma non già le diverse fedi. Per religione s'intende un corpo di tradizioni, di precetti, di riti; e si vede assai bene come ce ne possa essere più d'una. Così nelle opinioni si considera piuttosto la persuasione di chi crede, che la verità delle cose credute. Ma per fede s'intende persuasione fondata sulla rivelazione divina; e benchè popoli di vario culto credano che l'opinione loro abbia questo fondamento, il linguaggio ricusa l'espressione che significherebbe la coesistenza di rivelazioni diverse, perchè la ragione la riconosce impossibile. Molti di diversa religione possono credere di posseder la fede; ma un uomo non può ammettere che questi molti la possiedano. Se questa fosse una sofisticheria grammaticale, vaglia per tale, bastando l'argomento semplicissimo col quale s'è provato che l'unità della fede non suppone altro assoggettamento della ragione, che alle leggi del raziocinio.

Non voglio certamente dire con ciò, che la fede stessa consista in una semplice persuasione della mente: essa è anche un'adesione dell'animo; e perciò dalla Chiesa è chiamata virtù. Questa qualità le è contrastata dal Voltaire [7], in un breve dialogo dove la bassa e iraconda scurrilità del titolo stesso indica tutt'altro che quella tranquillità d'animo con cui si devono pure esaminare le questioni filosofiche. Un honnéte homme sostiene, contro un excrément de théologie che la fede non è punto una virtù, con questo argomento: Est.ce vertu de croire ? ou ce que tu crois te semble vrai, et en ce cas il n'y a nul mérite à le croire; ou il te semble faux, et alors il est impossible que tu le croyes.

È difficile d'osservare più superficialmente di quello che abbia qui fatto il Voltaire. Per escludere dalla fede ogni cooperazione della volontà, egli non considera nel credere se non l'operazione della mente, che riconosce vera o non vera una cosa; riguarda quest'operazione come necessitata dalle prove, non ammettendo altro a determinarla, che le prove stesse; considera insomma la mente come un istrumento, per così dire, passivo, su di cui le probabilità operano la persuasione o la non credenza come se la Chiesa dicesse che la fede è una virtù dell'intelletto. È una virtù nell'uomo; e per vedere come sia tale, bisogna osservare la parte che hanno tutte le facoltà dell'uomo nel riceverla o nel rigettarla. Il Voltaire lascia fuori due elementi importantissimi: l'atto della volontà, che determina la mente all'esame, e la disposizione del core, che influisce tanto nell'ammettere o nel rigettare i motivi di credibilità, e quindi nel credere. In quanto al primo, le verità della fede sono in tante parti così opposte all'orgoglio e agli appetiti sensuali, che l'animo sente un certo timore e una certa avversione per esse, e cerca di distrarsene; tende insomma ad allontanarsi da quelle ricerche che lo condurrebbero a scoperte che non desidera. Ognuno può riconoscere in sè questa disposizione, riflettendo all'estrema attività della mente nell'andare in cerca d'oggetti diversi, per occupare l'attenzione, quando un'idea tormentosa se ne sia impadronita. La volontà di metter l'animo in uno stato piacevole influisce su queste operazioni in una maniera così manifesta, che quando ci si presenta un'idea che riconosciamo importante, ma sulla quale non ci piace di fermarci, ci accade spesso di dire a noi stessi: non ci voglio pensare; e lo diciamo, quantunque convinti che questo non pensarci ci potrà cagionar de' guai nell'avvenire; tanto è allora in noi il desiderio di schivare un sentimento penoso nel momento presente. Questa mi pare una delle ragioni della voga che hanno avuta, e hanno in parte ancora, gli scritti che combattono la religione col ridicolo. Secondano una disposizione comune degli uomini, associando a idee gravi e importune una serie d'idee opposte e svaganti. Posta quest'inclinazione dell'animo, la volontà esercita un atto difficile di virtù, applicandolo all'esame delle verità religiose; e il solo determinarsi a un tale esame suppone non solo un'impressione ricevuta di probabilità, ma un timore santo de' giudizi divini, e un amore di quelle verità, il quale superi o combatta almeno l'inclinazioni terrestri.

Che poi l'amore o l'avversione alle cose proposte da credersi influisca potentemente sulla maniera d'esaminarle, sull'ammetterne o sul rigettarne le prove, è una verità attestata dall'esperienza più comune. Si sparga una notizia in una città che abbia la disgrazia d'esser divisa in partiti; essa è creduta da alcuni, discreduta da altri, a norma  degl'interessi e delle passioni. Il timore opera, al pari del desiderio, sulla credenza, portando talvolta a negar fede alle cose minacciate, e talvolta a prestargliene più di quello che si meritino; la qual cosa avviene spesso quando si presenti un mezzo di sfuggirle [8]. Quindi sono così comuni quell'espressioni: esaminare di bona fede, giudicare senza prevenzione, spassionatamente, non farsi illusione, e altre simili, le quali significano la libertà del giudizio dalle passioni. La forza d'animo, che mantiene questa libertà, è senza dubbio una disposizione virtuosa: essa nasce da un amore della verità, independente dal piacere, o dal dispiacere che ne può venire al senso. Si vede quindi quanto sapientemente alla fede sia dato il nome di virtù. Siccome poi lamente umana non sarebbe arrivata da sè a scoprire molte verità della religione, se Dio non le avesse rivelate; e siccome la nostra volontà corrotta non ha da sè quella forza di cui s'è parlato; così la fede è chiamata dalla Chiesa e una virtù e un dono di Dio.

Tornando da questa lunga digressione al passo che stiamo esaminando, confesso di non intendere chiaramente il senso di quella proposizione che l'unità di fede non si trova in alcun'altra religione allo stesso grado che nella cattolica. Come ci possono essere diversi gradi nell'unità di fede, il più e il meno in un'unità qualunque? O quest'altre religioni propongono come vera la loro fede, e devono insegnare che è vera essa sola; o ammettono che qualche altra lo possa essere; e come possono chiamar fede la loro, che in fatto è un vero dubbio? Ogni volta che una di queste religioni s'avvicina al principio dell'unità, cioè quando esclude ogni dottrina opposta alla sua, ciò accade perchè in quella religione si sente allora vivamente che è assurdo il dir vera una proposizione, e non rigettare ciò che la contradice. E ogni volta che s'allontana da quel principio, ciò accade perchè, non sentendosi certi della propria fede, s'accorda agli altri ciò che si chiede per sè, la facoltà di chiamar fede ciò che non importa la condizione del credere. È la transazione della falsa madre del giudizio di Salomone: Non sia nè tuo, nè mio; ma si divida [9]. Ma non ci sono mezze fedi vere, più di quello che ci siano mezzi bambini vivi.

Infatti, nè l'illustre autore indica quale sia il grado dell'unità di fede, fino al quale la ragione deva arrivare; nè è possibile l'indicarlo, giacchè l'assunto sarebbe contradittorio. Dire che la ragione deva assoggettarsi alla fede, ma in un certo grado, qualunque sia, è dichiarare la fede infallibile insieme, e bugiarda. Infallibile, in quanto, per sé, e come fede, può legittimamente richiedere un assoggettamento qualunque della ragione: bugiarda, in quanto, richiedendo un assoggettamento che la ragione può legittimamente limitare, ridurre a un certo grado, e fargli, dirò così, la tara, afferma più di quello che gli si deva credere.

Il non essere la Chiesa cattolica soggetta alle fluttuazioni accennate sopra; il trovarsi in essa, non un maggiore o minor grado d'unità di fede, ma l'unità della fede; questo dirsi e poter essere immutabile, è un carattere doppiamente essenziale della verità de' suoi insegnamenti. È la condizione necessaria della ragione, come della fede; due doni d'un solo e stesso Dio; la distinzione e la concordia de' quali è divinamente espressa nelle parole già citate dell'Apostolo: il razionale vostro culto.

 

 

CAPITOLO II.

 

SULLA DIVERSA INFLUENZA DELLA RELIGIONE CATTOLICA,

SECONDO I LUOGHI E I TEMPI.

 

Toutefois l'influence de la religion catholique n'est point la même en tout tems et en tout lieu; elle a opéré fort différemment en Françe et en Allemagne de ce quelle a fait en Italie et en Espagne.... Les observations que nous serons appelés à faire sur la religion de l'Italie ou de l'Espagne pendant les trois derniers siécles, ne doivent point s'appliquer à toute l'Église catholique... pag. 410.

 

Per dilucidare questo punto, il quale, come si vedrà, non è qui d'una importanza meramente storica, è necessario rammentare il disegno del cap. CXXVII, del quale osserviamo una parte. Esso è espresso nell'intitolazione del capitolo medesimo: Quelles sont les causes qui ont changé le caractère des Italiens, depuis l'asservissement de leur républiques. E se ne assegnano quattro: la prima, e la sola di cui mi propongo di ragionare, è la religione. L'autore, entrando a spiegare la parte che questa ebbe, secondo lui, nel produrre un tal cambiamento, si fa un'obiezione dell'unità della fede; poichè, vincolando essa, come dice benissimo, tutti i membri della religione cattolica a ricevere gli stessi dommi, a sottomettersi alle stesse decisioni, a formarsi con gli stessi insegnamenti, pare che questa religione deva essere piuttosto una cagione d'uniformità tra i vari popoli che la professano, che di differenze. Ciò non ostante, soggiunge, l'influenza della religione cattolica non è la stessa in ogni tempo e in ogni luogo; essa ha operato diversamente in Francia e in Germania, che in Italia e in Spagna.

Per indurre una diversità d'influenza, non ostante l'unità della fede mantenuta da tutti i cattolici, io credo che non si possano trovare cagioni che di tre sorte.

I. Leggi o consuetudini disciplinari, le quali non sono parte della fede.

II. Alterazioni insensibili e parziali della dottrina, o inesecuzioni e violazioni della disciplina essenziale e universale, le quali, lasciando intatto in teoria il principio dell'unità, possono portare una nazione o una frazione di essa, per lungo tempo o per intervalli, con maliziosa cognizione di causa o ignorantemente, a operare e parlare in fatto, come se avesse rinunziato all'unità.

III. Circostanze particolari di storia, di coltura, d'interessi, di clima, non legate direttamente con la religione, ma così legate con gli uomini che la professano, che l'influenza della religione resta da esse o bilanciata o elisa o impedita o facilitata, più presso gli uni che presso gli altri.

   Se l'illustre autore avesse cercate in queste tre classi le cause particolari degli effetti diversi e speciali, che asserisce aver la religione prodotti in Italia, io mi sarei guardato bene d'entrare in una tale questione; perchè, o le sue ragioni mi sarebbero parse concludenti, e avrei goduto d'imparare, come m'è accaduto in tant'altre parti di questa Storia; o non m'avrebbero persuaso, e sarebbe stato uno di que' casi ne' quali avrei creduto che il silenzio fosse migliore della dimostrazione. Ma siccome quelle cose che s'assegnano da lui come cagioni di dannosa influenza sugl'Italiani, sono la più parte, non usi nè opinioni particolari a loro, ma massime morali, o prescrizioni ecclesiastiche venerate e tenute da tutti i cattolici, in Francia e in Germania non meno che in Italia e in Spagna; così chi le condannasse verrebbe a condannare la fede cattolica: conseguenza che troppo importa di prevenire.

L'autore stesso, nominando a varie riprese, nel corso delle sue riflessioni, semplicemente la Chiesa, lascia dubitare se intenda d'attribuire ad essa le dottrine che censura, o se voglia dire: la Chiesa in Italia. Verificare il preciso senso delle sue parole in questo caso, non è cosa possibile, nè utile; onde io mi restringerò a dimostrare l'universalità e la ragionevolezza di quelle massime e di quelle prescrizioni censurate da lui, che sono cattoliche.

Citerò spesso scrittori francesi, non solo per la loro decisa superiorità in queste materie, ma perchè la loro autorità serve mirabilmente a far vedere che queste non sono dottrine particolari all'Italia; e che la Francia non differisce da essa in ciò, fuor che nell'avere avuto uomini che le hanno più eloquentemente, cioè più ragionatamente, sostenute e difese.

La più splendida prova poi dell'universalità di queste massime morali sarà tratta dalle Scritture, dove sono per lo più letteralmente; dimanierachè si può affermar francamente, che non sono, nè possono essere controverse da de' cattolici di nessuna nazione.

Le prescrizioni della Chiesa riguardanti la morale si possono dividere in due classi, cioè:

Decisioni di punti di morale, con le quali la Chiesa attesta che la morale confidatale da Cristo è quella, e non un'altra che si voglia fare adottare decisioni, alle quali i fedeli hanno obbligo d'aderire; ovvero:

Leggi per regolare, nelle parti essenziali, l'uso dell'autorità conferita ugualmente alla Chiesa dal suo Fondatore, d'applicare gli aiuti e i rimedi spirituali, che hanno tutti origine da Lui.

Per l'une e per l'altre si può chiamare in testimonio qualunque cattolico di Francia e di Germania, con la certezza di sentirlo rispondere che sono in vigore sia nell'una, sia nell'altra nazione. Si citerà, dove occorra, il Concilio di Trento, come il più recente e il più parlante testimonio di questa uniformità di dottrina: uniformità legata, dommaticamente e logicamente, come dev'essere, con la perpetuità di essa.

Le Concile de Trente, dice l'illustre autore, travailla avec autant d'ardeur, à réformer la discipline de l'Église qu'à empécher toute réforme dans ses croyances et ses enseignemens [10]. Nessun cattolico potrà esprimere con più precisione e con più forza la fermezza de' Padri di quel concilio nel rigettare ogni riforma nella fede. Cosa (giova ripeterlo) contradittoria, e quindi impossibile, non meno che empia; poichè equivale a rinnegare la stessa identica autorità di cui si fa uso; equivale a dire credete a me, che non credo a me: v'insegno una verità, riservandomi ad avvertirvi, a miglior tempo, che è un errore, come fo, in questo momento, con quella che v'ho data altre volte per verità.

Ora, a Trento sedettero vescovi di quelle quattro nazioni; e come c'erano andati con la testimonianza delle loro chiese sui punti controversi di fede e di morale, ne partirono con la testimonianza della Chiesa universale. D'allora in poi il concilio di Trento fu specialmente il punto a cui ricorsero tutti i cattolici; e, per provare la fede di tutti i secoli, consegnata e sparsa in tanti concili, non ebbero, in moltissime questioni, a far altro che citare quel concilio che l'aveva riprodotta, e per così dire riepilogata. Il gran Bossuet lo pose per fondamento alla sua Esposizione della fede cattolica, per attestare i punti di morale e di disciplina essenziale, alcuni dei quali, censurati nel Capitolo sul quale sono fatte le presenti osservazioni, lo erano pure a suoi tempi, benchè con argomenti affatto diversi.

E nella sua corrispondenza col Leibnitz, lo stesso Bossuet rigetta sempre come non ammissibile la proposizione di riesaminare le decisioni del concilio di Trento. Je voudrois bien seulement vous supplier de me dire.... si vous pouvez douter que les décrets du Concile de Trente soient autant reçus en France et en Allemagne parmi les catholiques, qu'en Espagne et en Italie, en ce qui regarde la Foi; et si vous avez jamais ouï un seul catholique, qui se crût libre à recevoir, ou à ne pas recevoir la Foi de ce Concile [11]. Ora, i decreti del Concilio di Trento riguardanti la morale, che saranno citati in queste osservazioni, sono sopra punti che, per consenso di tutti i cattolici, fanno parte della fede.

In quanto agli abusi e agli errori popolari, importa d'accennare, una volta per sempre, che non sono imputabili alla Chiesa, la quale non gli ha nè sanciti, nè approvati. Ho fiducia di provare, che non sono conseguenze legittime nè del domma nè della morale della Chiesa. Se alcuni le hanno dedotte da essa, la Chiesa non può prevenire tutti i paralogismi, nè distruggere la logica delle passioni. Quando però mi parrà che questi mali siano minori in realtà che in pittura, io non lascerò di farlo osservare; ma solamente per la giustificazione della Chiesa, sulla quale se ne vuol far ricadere il biasimo. Se alcuno vorrà credere che questi inconvenienti siano particolari all'Italia, io non m'affaticherò per levargli una tale opinione. S'avverta però che le citazioni degli scrittori francesi verranno in molte parti a provare incidentemente il fatto contrario; poichè si vedrà che, nello stabilire le verità cattoliche, hanno combattuti quegli errori e quelle illusioni, come esistenti in Francia. Così non fosse! perchè può mai per un cristiano diventare una consolazione dell'orgoglio nazionale il vedere la Chiesa meno bella in qualunque parte del mondo?

Dovunque sono i fedeli retti, illuminati, irreprensibili, sono la nostra gloria: dobbiamo farne i nostri esemplari, se non vogliamo che siano un giorno la nostra condanna.

 

 

CAPITOLO III.

SULLA DISTINZIONE DI FILOSOFIA MORALE E DI TEOLOGIA.

 

Il y à sans doute une liaison intime entre la religion et la morale, et tout honnéte homme doit reconnoître que le plus noble hommage que la créature puisse rendre à son Créateur, c'est de s'élever à lui par ses vertus. Cependant la philosophie morale est une science absolument distincte de la théologie; elle a ses bases dans la raison et dans la conscience, elle porte avec elle sa propre conviction; et après avoir développé l'esprit par la recherche de ses principes, elle satisfait le coeur par la découverte de ce qui est vraiment beau, juste et convenable. L'Église s'empara de la morale, comme étant purement de son domaine.... pag. 413.

 

   Quando Gesù Cristo disse agli Apostoli: Istruite tutte le genti... insegnando loro d'osservare tutto quello che v'ho comandato [12], ingiunse espressamente alla Chiesa d'impadronirsi della morale.

Certo gli uomini hanno, indipendentemente dalla religione, dell'idee intorno al giusto e all'ingiusto, le quali costituiscono una scienza morale. Ma questa scienza è completa? È cosa ragionevole il contentarsene? L'essere distinta dalla teologia è una condizione della morale, o un'imperfezione di essa? Ecco la questione: enunciarla è lo stesso che scioglierla. Perchè, finalmente, è appunto questa scienza imperfetta, varia, in tante parti oscura, mancante di cognizioni importantissime intorno a Dio e, per conseguenza, intorno all'uomo e all'estensione della legge morale; intorno alla cagione della repugnanza che l'uomo prova troppo spesso nell'osservare anche la parte di essa, che pur conosce e riconosce; intorno agli aiuti che gli sono necessari per adempirla interamente; è questa scienza, che Gesù Cristo pretese di riformare, quando prescrisse l'azioni e i motivi, quando regolò i sentimenti, le parole e i desidèri; quando ridusse ogni amore e ogni odio a de' princìpi che dichiarò eterni, infallibili, unici e universali. Egli unì allora la filosofia morale alla teologia; toccava alla Chiesa a separarle?

Di che tratta la filosofia morale? Del dovere in genere e de' vari doveri in particolare; della virtù e del vizio; della relazione dell'una e dell'altro con la felicità o l'infelicità; vuole insomma dirigere la nostra volontà e negl'intenti e, conseguentemente, nelle deliberazioni. E la morale teologica ha forse un altro scopo? può averlo? Se dunque hanno per oggetto lo stesso ordine di verità, per applicarle, nella pratica, allo stesso ordine di fatti, come saranno due scienze diverse? Non è egli vero che dove discordano, una dev'essere falsa? e che dove dicono lo stesso, sono una scienza sola? È evidente che non si può prescindere dal Vangelo nelle questioni morali: bisogna o rigettarlo, o metterlo per fondamento. Non possiamo fare un passo, che non ci si pari davanti: si può far le viste di non accorgersene, si può schivarlo senza urtarlo di fronte; non essere con lui, senza essere contro di lui; si può, dico, in parole, ma non in fatto.

Io so che questa distinzione o, per parlare più esattamente, quest'antitesi di filosofia morale e di teologia è ricevuta comunemente; che con essa si sciolgono tante difficoltà, e si conciliano tanti dispareri; ma senza cercare se essa medesima si concilii con la logica. So anche che altri uomini distinti l'hanno adottata, anzi ci hanno fondata sopra una parte de' loro sistemi. Ne prenderò un esempio da un uomo e da un libro tutt'altro che volgari: Comme dans cet ouvrage je ne suis point théologien, mais écrivain politique, il pourroit y avoir des choses qui ne seroient entièrement vraies que dans une façon de penser humaine, n'ayant point été considerées dans le rapport avec des vérités plus sublimes [13]. Ma per essere del Montesquieu, questa frase non è meno priva di senso. Poichè, se queste cose saranno interamente vere in un modo di pensare umano, saranno vere in qualunque modo di pensare. Questa contradizione che si suppone possibile con delle verità più sublimi, o non esisterà, o, se esiste, farà che quelle cose non siano interamente vere. Se hanno una relazione con delle verità più sublimi, questa relazione è la prima cosa da esaminarsi; poichè qual è il criterio della verità che si cerca, se non la verità nota? O forse che le verità perdono la loro attitudine e il loro diritto, quando sono sublimi? Il sofisma sul quale è fondata questa protesta, come tant'altre simili, era già stato svelato, mezzo secolo prima, da un osservatore profondo e sottile del cuore umano, il Nicole. Esaminando il valore di quelle parole tanto frequentemente usate: umanamente parlando, egli dice: Il semble, à nous entendre parler, qu'il y ait comme trois classes de sentimens, les uns justes, les autres injustes, et les autres humains; et trois classes de jugemens, les uns vrais, les autres faux, et les autres humains... Cependant il n'en est pas ainsi. Tout jugement est ou vrai ou faux, tout sentiment est ou juste ou injuste; et il faut nécessairement que ceux que nous appellons jugemens et sentimens humains se réduisent à l'une ou à l'autre de ces classes [14]. Il Nicole ha poi egregiamente messo in chiaro il motivo per cui si ragiona in quella strana maniera. Si dice che una massima è umanamente vera, perchè non si può, come si vorrebbe, chiamarla vera semplicemente. Non le si attribuisce che una verità relativa; ma per dedurne delle conseguenze che non convengono se non alla verità assoluta. Quest'espressione significa dunque: io sento che la massima di cui ho bisogno, è opposta alla religione: contradire alla religione, non voglio; abbandonare la massima, nemmeno: non potendo farle concordare logicamente, mi servo d'un termine che lascia intatta la questione in astratto, per scioglierla in fatto secondo i miei desidèri. Perchè non si dice mai: secondo il sistema tolemaico, secondo la chimica antica? Perchè in queste cose nessuno si crea il bisogno d'ingannar sè medesimo.

Ma, senza arrogarsi di fare un giudizio sopra Montesquieu, si può credere che l'uso di queste espressioni, comune, in quel tempo, a tanti scrittori, non sia venuto da un errore d'intelletto.

La religione cattolica era allora in Francia sostenuta dalla forza. Ora per una legge, che durerà quanto il mondo lontana, laforza fa nascere l'astuzia per combatterla [15]; e quegli scrittori che desideravano abbattere la religione senza compromettersi, non dicevano che fosse falsa, ma cercavano di stabilire de' princìpi incompatibili con essa, e sostenevano che questi princìpi ne erano indipendenti. Non s'arrischiando di demolire pubblicamente l'edifizio del Cristianesimo, gl'innalzavano accanto un altro edifizio, che, secondo loro, doveva farlo cadere [16].

Ma questa filosofia morale ha le sue basi nella ragione e nella coscienza; porta con sè il suo proprio convincimento; e dopo avere sviluppato lo spirito con la ricerca de' princìpi, appaga il core con la scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e conveniente.

E cos'ha fondato, da sè, su queste basi? Ha prodotto un convincimento unanime e perpetuo? La sua ricerca de' princìpi è riuscita a un solo e inconcusso ritrovato? Le sue scoperte del bello, del giusto e del conveniente sono anch'esse concordi? E appagano il core davvero? Se è così, può essere distinta dalla teologia: non ne ha più bisogno; o, per dir meglio, sarà la teologia stessa.

Ma se ha variato e varia secondo i luoghi e i tempi, non si potrà opporla alla morale cattolica, che è una. Sarà lecito domandare, prima di tutto, quale sia questa filosofia morale, di cui s'intende parlare; giacchè è indubitato che ce ne sono molte.

Ci sono due cose principali nella morale, il principio, e le regole delle azioni, che ne sono l'applicazione: la storia della morale, sia come dottrina popolare, sia come scienza, presenta, e nell'uno e nell'altre, la più mostruosa varietà.

In quanto alle regole basta, per convincersene, rammentarsi gli assurdi sistemi di morale pratica che sono stati tenuti da nazioni intere. Il Locke, volendo provare che non ci sono regole di morale innate, e impresse naturalmente nell'anima degli uomini, ne ha citati esempi in gran quantità [17]. Egli è andato a cercarne la maggior parte tra i popoli rozzi e vicini allo stato selvaggio; ma non gliene sarebbe mancati tra le nazioni più conosciute, e che hanno più fama di civili e illuminate. Trovavano essi nel loro core e nella loro mente la vera misura del giusto e dell'ingiusto i gentili? Que' Romani i quali sentivano con raccapriccio che un loro cittadino fosse stato battuto di verghe, e ai quali pareva un atto di giustizia ordinaria il dar vivo alle fiere uno schiavo, fuggito per non poter resistere ai trattamenti d'un padrone crudele? Di tale iniquità di fatti e di giudizi, gli storici e i moralisti antichi ci hanno trasmesse non poche testimonianze, e, per lo più, senza avvedersene [18]. Quale è dunque questo convincimento morale, se non nasce in tutti gli uomini? Potrà purtroppo essere tanto compito, da determinare un uomo a commettere un'azione pessima, con la persuasione d'operar bene; tanto costante, da impedire che nasca in lui il rimorso dopo averla commessa; si potrà estendere a nazioni intere; ma sarà un convincimento falso. E per chiarirlo tale, non sarà nemmeno necessario il testimonio della religione; basterà che cessino alcune circostanze, che si cambi un interesse, che s'abolisca una costumanza.

In quanto al principio della morale, le differenze non sono più tra i Mingreliani, i Peruviani e i Topinambi: è questione di tempi e di paesi colti, e di pochi uomini che pretendono di fare astrazione da ogni interesse, da ogni autorità, e da ogni abitudine per trovare il vero. Pochi, dico, riguardo al rimanente degli uomini; ma autori di scole che si possono chiamar molte, anche in paragone di ciò che accade in tant'altre scienze, nelle quali il dissenso non è, a gran pezzo, nè così umiliante, nè così dannoso. I nomi soli delle più universalmente celebri tra quelle scole, nomi che corrono alla mente d'ognuno, senza bisogno di citarli, bastano per dare un concetto pur troppo vasto d'una tale varietà, e dispensare da ogni prova. E s'osservi che non sono di quelle discussioni che hanno, per dir così, un moto progressivo, facendo ognuna delle parti un qualche passo verso un centro comune, e tornando così in aumento stabile della scienza ciò che, da principio, era stato opinione particolare d'una scola. Qui in vece i diversi sistemi cadono e risorgono, conservando sempre le loro differenze essenziali; si disputa, ripetendo ognuno sempre i suoi argomenti come perentori, e ripetendoli per quanto si sia dovuto vedere che non riescono ad abbattere quelli degli avversari: è il gran carattere delle questioni inconciliabili [19].

Ora, se ciò che l'illustre autore ha nominalmente riunito sotto il titolo di filosofia morale, si risolve in fatto e si disperde in una moltiplicità eterogenea; se delle premesse diverse e opposte, e delle diverse e opposte conclusioni, intorno al bello, al giusto, al conveniente, sono tutt'altro che la scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e conveniente; è superfluo l'aggiungere che da quelle non potrà mai resultare l'appagamento del core, asserito da lui come effetto d'una tale scoperta, e neppure, s'intende; quello della mente. Gioverà piuttosto l'osservare come il non essere alcuni di que' tanti sistemi rimasto mai vittorioso, in una guerra così antica, e sempre viva o rinascente, venga dall'essere tutti ugualmente inetti a produrre quel duplice e corrispondente appagamento.

Ci sono in qualunque sistema di morale assolutamente distinta dalla teologia (sia per ignoranza involontaria della rivelazione, sia per volontaria esclusione di essa), due vizi innati e irremediabili: mancanza di bellezza, ossia di perfezione, e mancanza di motivi. Perchè una morale sia compita, deve riunire queste due condizioni al massimo grado; deve cioè non escludere, anzi proporre i sentimenti e l'azioni più belle, e dare dei motivi per preferirle. Ora, nessuno di questi sistemi può farlo: ognuno di essi è, per dir così, obbligato a scegliere; e tutto ciò che acquista da una parte, lo perde dall'altra. Se, per evitare la difficoltà, si ricorre a un sistema medio, questo tempererà i due difetti, ma conservando e l'uno e l'altro. Mi sia lecito d'entrare in un esame più esteso, per mettere in chiaro questa proposizione.

Quanto più un sistema di filosofia morale cerca d'adattarsi al sentimento universale, consacrando alcune massime che gli uomini hanno sempre lodate e ammirate, la preferenza data alle cose giuste sulle piacevoli, il sacrifizio di sè stesso, il dovere adempito e il bene fatto senza speranza di ricompensa nè di gloria, tanto più riesce inabile a dare, de' suoi precetti e de' suoi consigli, una ragione adequata, prevalente a ogni argomento e a ogni interesse contrario. Infatti, se noi esaminiamo quale sia  in una bella azione la qualità che eccita l'ammirazione, e che le fa dare un tal titolo, vedremo non esser altro che la difficoltà (intendo, non la difficoltà d'eseguire che nasce dagli ostacoli esterni, ma quella di determinarsi): la giustizia, l'utilità saranno condizioni senza le quali essa non sarebbe bella, ma non sono quelle che la rendono tale. Se, mentre si sta ammirando la risoluzione presa da un uomo in una data circostanza, si viene a sapere che gli tornava conto di prenderla, l'ammirazione cessa; quella risoluzione si chiamerà bona, utile, giusta, saggia, ma non più ammirabile nè bella; si dirà che quell'uomo è stato fortunato, onesto, avveduto: nessuno lo chiamerà grande. E perciò l'invidia, la quale, quanto è sciocca riguardo all'intento, altrettanto è acuta nella scelta de' mezzi, mette tanto studio a trovar qualche motivo d'interesse in ogni bella azione, che non possa negare; cioè un motivo per cui sia stato facile il risolversi a farla: le cose facili non sono ammirate. Ma perchè mai le più belle azioni compariscono difficili al più degli uomini, se non perchè essi non trovano nella ragione de' motivi sufficienti per intraprenderle risolutamente, anzi trovano nell'amore di sè de' motivi contrari?

Ma se, per evitare l'inconveniente e la vergogna di dar precetti e consigli, senza poter proporre de' motivi proporzionati, un sistema di morale vuol limitarsi a prescrivere e a raccomandare l'azioni che s'accordino con l'utile temporale di chi le fa, non solo non soddisfa, ma offende un'altra tendenza di tutti gli uomini, i quali non vogliono rinunziare alla stima di ciò che è bello senza essere utile temporalmente; anzi è bello appunto per questo. Io so che, nel sistema della morale fondata sull'interesse, si spiegano tutte l'azioni più magnanime e più indipendenti da ciò che comunemente si chiama utile: si spiegano col dire che gli uomini di gran core ci trovano la loro soddisfazione. Ma, perchè una teoria morale sia completa, non basta che spieghi come alcuni possano aver fatto ciò che essa medesima è costretta a lodare bisogna che dia ragioni e motivi generali per farlo. Altrimenti la parte più perfetta della morale diventa un'eccezione alla regola, una pratica che non ha la sua ragione nella teoria, ma ha solamente una cagione di fatto in certe disposizioni individuali; è quasi una stravaganza di gusto [20]. C'è negli uomini una potenza che gli sforza a disapprovare tutto ciò che non par loro fondato sulla verità; e siccome non possono disapprovare le virtù disinteressate, così vogliono un sistema nel quale esse entrino come ragionevoli. Io credo che, quanto più si osservi, sempre più si vedrà che le morali umane si agitano tra questi due termini, cercando invano di ravvicinarli. Ognuno di que' sistemi ha una parte di fondamento nell'una o nell'altra tendenza della natura umana, cioè o nella stima della virtù, o nel desiderio della felicità (tendenze indistruttibili come il vero, che è l'oggetto dell'una, e il bene, che è il termine dell'altra); ognuno tiene da quella su cui si fonda, un' imperfetta ragione d'essere, e una forza per combattere; come dal trascurar l'altra gli viene l'impotenza di vincere. La difficoltà consiste nel soddisfarle ugualmente, nel trovare un punto dove la bellezza e la ragionevolezza dell'azioni, de' voleri, dell'inclinazioni, si riuniscano necessariamente, in ogni caso e con piena evidenza.

Questo punto è la morale teologica. Qui l'anima umana ritrova, per dir così, la sua unità nel riconoscimento dell'unità eterna e suprema del vero e del bene.

S'immagini qualunque sentimento di perfezione: esso si trova nel Vangelo; si sublimino i desidèri dell'anima la più pura da passioni personali fino al sommo ideale del bello morale: essi non oltrepasseranno la regione del Vangelo. E nello stesso tempo non si troverà alcun sentimento di perfezione, al quale col Vangelo non si possa assegnare una ragione assoluta e un motivo preponderante, legati ugualmente con tutta la rivelazione.

È egli bello il perdonare l'offese, l'avere un core inalterabile, placido e fraterno per chi ci odia? Chi ne dubita? Ma per qual ragione dovrò io impormi questi sentimenti, quando tutto mi trascina agli opposti? Perchè tu non puoi odiare il tuo fratello se non come cagione del tuo male; se non lo è, il tuo odio diventa irragionevole e ingiusto: ora egli non t'ha fatto male; la tua volontà sola può nocerti realmente: egli non ha fatto male, che a sè stesso, e da te merita compassione. Se l'offesa ti punge, è perchè dai alle cose temporali un valore che non hanno; perchè non senti abitualmente che Dio è il tuo solo bene, e che nessun uomo, nessuna cosa può impedirti di possederlo. Il tuo odio viene dunque dalla corruttela del tuo core, dal traviamento del tuo intelletto: purifica l'uno e correggi l'altro, e non potrai odiare. Di più tu riconosci come il più sacro dovere quello d'amare Dio sopra ogni cosa: devi dunque desiderare che sia glorificato e ubbidito: oseresti tu volere che alcuna creatura ragionevole gli negasse il suo omaggio, si ribellasse alla sua legge? Questo pensiero ti fa orrore; tu desidererai dunque che ogni uomo serva Dio e sia nell'ordine; se lo fai, desideri a ogn'uomo la perfezione, la somma felicità: ami ogn'uomo, senza alcuna possibile eccezione, come te stesso.

È bello il dare la propria vita per la verità e per la giustizia? il darla senza testimoni che t'ammirino, senza un compianto, nella certezza che gli uomini ingannati t'accompagneranno con l'esecrazioni, che il sentimento della santità della tua causa non troverà fuori di te dove appoggiarsi, dove diffondersi? Non c'è uomo che non pianga di ammirazione al sentire che un altr'uomo abbia abbandonata la terra così. Ma chi proverà che sia ragionevole il farlo? Quale è il motivo per cui si deva rinunziare a quel sentimento così forte nel core d'ogn'uomo, al desiderio di far consentire dell'anime immortali come la nostra al nostro più alto e profondo sentire? Perchè quando a seguire la giustizia non c'è altra strada che la morte, è certo per noi che Dio ci ha segnata quella per arrivare a Lui; perchè il secolo presente non ha il suo compimento in sè; perché il bisogno che abbiamo d'essere approvati non sarà soddisfatto se non quando vedremo che Dio ci approva; perchè ogni nostro sacrifizio è leggiero in paragone dell'ineffabile sacrifizio dell'Uomo.Dio, al quale dobbiamo esser somiglianti, se vogliamo entrare a parte del suo regno.

Ecco i motivi per cui milioni di deboli creature, con quell'aiuto divino che rende facili tutti i doveri, hanno trovato che la determinazione la più ammirabile e la più difficile, quella di morire tra i tormenti per la verità, era la più ragionevole, la sola ragionevole; e l'hanno abbracciata. Prodigiosa storia della religione! nella quale l'atto di virtù il più superiore alle forze dell'uomo, é forse quello di cui gli esempi sono più comuni.

Non se ne potrà immaginare alcuno, per cui il Vangelo non dia motivi: non si potrà immaginare un sentimento vizioso, che secondo il Vangelo, non supponga un falso giudizio. Si domandi a un cristiano quale sia in ogni caso la risoluzione più ragionevole e più utile; dovrà rispondere: la più onesta e la più generosa.

Troviamo qui l'occasione d'osservar di passaggio quanto sia inconsistente la distinzione che alcuni credono di poter fare tra la morale del Vangelo, per la quale professano ammirazione, non che stima, e i dommi del Vangelo, che dicono opposti alla ragione; come se queste fossero nel Vangelo due dottrine estranee l'una all'altra. E ci sono in vece essenzialmente e perpetuamente connesse; a segno che non ci si trova quasi un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui [21] con un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui con un insegnamento dommatico, dal suo primo discorso alle turbe, nel quale chiama beati i poveri di spirito, perchè di questi è il regno de' cieli [22], fino a quello che precedette di due giorni la celebrazione della sua ultima pasqua, e nel quale fonda il precetto dell'opere della misericordia sulla rivelazione della sua futura venuta a giudicar tutti gli uomini [23]. È quindi facile il vedere che quella distinzione implica una supposizione affatto assurda, come è quella d'una dottrina, nella quale la verità sia, non già mescolata accidentalmente col falso, ma fondata interamente sul falso. E non già una qualche verità sparsa, staccata, secondaria; ma un complesso compito e perfettamente consentaneo di verità regolatrici di tutti gli affetti dell'animo, di tutte le determinazioni della volontà, in qualunque condizione della vita umana. Supposizione, ripeto, assurda non meno che empia, d'un maestro sempre sapiente ne' precetti, e sempre fallace ne' motivi, il quale, in una norma del credere, indegna dell'assentimento della ragione, abbia ritrovata una norma del volere e dell'operare, che la ragione medesima deva poi riconoscere superiore a qualunque sua speculazione, come fa quando l'ammira, senza poterla rivendicar come sua, col darle, di suo, un diverso fondamento.

Infatti dond'è, donde poteva essere ricavata l'idea di perfezione proposta agli uomini nel Vangelo, se non dall'esemplare del Dio perfetto, che nessuno ha mai veduto, e che fu rivelato dal Figlio unigenito, che è nel seno del Padre [24]? Chi poteva dir loro: Siate perfetti, se non Quello che poteva aggiungere: come è perfetto il vostro Padre che è ne' cieli [25]? Qual maestro avrebbe insegnato a' suoi discepoli, a tutti quelli che fossero per credere in lui fino alla fine de' secoli, a esser tutti una sola cosa, se non Quello che all'inaudito insegnamento poteva aggiungere quell'ineffabile esempio: come, o Padre, una sola cosa siamo noi [26]? E i mezzi d'eseguire una tal legge, donde potevano venire se non dall'onnipotenza del Legislatore medesimo? Chi poteva esigere dall'uomo la forza di superare tutte le tendenze contrarie, se non Chi gliela poteva promettere, dicendo: Chiedete e vi sarà dato [27]? Chi la forza di sostenere per la giustizia tutte le violenze di cui è capace il mondo, se non Chi poteva dire: Io ho vinto il mondo? Chi la forza più mirabile ancora, di sostenerle in pace, se non Chi poteva dire: Quella pace l'avrete in me [28]? E donde finalmente poteva aspettarsi una ricompensa perfetta come questa legge medesima? Chi poteva prometterne una, non solo alla virtù, ma al segreto della virtù, se non Chi parlava in nome del Padre che vede nel segreto [29]? Chi prometterla abbondante in paragone di qualunque sforzo più eroico, di qualunque sacrifizio più doloroso, se non chi poteva prometterla ne' cieli [30]? Chi nobile al pari del precetto d'aver fame e sete della giustizia, anzi perfettamente connaturale ad esso, se non Chi poteva dire: La vostra beatitudine starà nell'essere satollati [31]? Si può egli non vedere in questi esempi (e sarebbe facile il moltiplicarli, se ce ne fosse bisogno) una connessione unica, una relazione necessaria, tra i precetti e i motivi? Quando dunque la ragione ammira la morale del Vangelo, alla quale non si sarebbe potuta sollevare da sè, fa rettamente il suo nobile ufizio: ma quando ne sconosce l'unità divina; quando in ciò che il Vangelo prescrive e in ciò che annunzia non vuol vedere una sola e medesima rivelazione; quando ricusa d'ammettere motivi soprannaturali di precetti ugualmente soprannaturali, che confessa eccellenti (che non vuol dir altro se non conformi a delle verità d'un ordine eccellente), allora non può più chiamarsi ragione, perchè discorda da sè medesima.

Sicchè, quand'anche per quelle parole « filosofia morale », come sono adoprate dall'illustre autore e da lui opposte alla teologia, si potesse intendere, in vece d'una confusa e discorde moltiplicità di dottrine, una sola dottrina; quand'anche si potesse intendere una dottrina tutta vera, cioè il complesso delle nozioni rette intorno alla morale, che si trovano, dirò così, sparse nell'umanità, e queste nozioni nettate dai tanti falsi concetti che ci sono mescolati, accresciute di ciò che l'osservazione e il ragionamento partitolare possono aggiungere alla cognizione comune, e ordinate in forma di vera scienza; quand'anche, finalmente, si potesse per quelle parole intendere una scienza universalmente nota, e esclusivamente ricevuta, si dovrebbe ancora dirla inadeguata all'intento, perchè in essa non ritroverebbe un principio col quale a ogni grado della moralità (e non solo della moralità intera e perfetta che c'è manifestata dalla Fede, ma di quella medesima a cui arriva la cognizione naturale) si possa assegnare una ragione assoluta, legata con una sanzione preponderante; perchè, in altri termini, le sue speculazioni non pareggiano, nè potrebbero mai pareggiare l'idea del bene morale, sia come regola, sia come termine della volontà, cioè e come virtù e come felicità: idea che ai più sinceri e potenti sforzi di quelle speculazioni, non solo rimane inesaurita, ma sempre più comparisce inesauribile. Dal che viene di conseguenza che non si potrebbe da quella filosofia ricavare un criterio applicabile a ogni azione e a ogni sentimento. Anzi, per esser vera scienza, dovrà essa medesima riconoscere questa sua mancanza; giacchè come mai potrà esser vera scienza una la quale sconosca la natura del suo oggetto, e la misura necessaria delle sue speculazioni, a segno di non avvedersi d'una sproporzione necessaria che ci sia tra queste e quello? e, per restringere il bene morale ne' limiti di quelle speculazioni, lo mutili e lo snaturi? neghi il carattere di verità a tutto ciò che le oltrepassa, o riconoscendo al di là da quelle qualcosa (e quanto!) a cui non può negare il carattere di verità, e di cui non sa render ragione, si dichiari nondimeno scienza compita [32]?

Ai precetti poi che essa sola poteva promulgare, e ai motivi che essa sola poteva rilevare, la religione aggiunge (ciò che ugualmente poteva essa sola) la cognizione di ciò che può darci la forza d'adempire i primi, e d'adempirli per riguardo e secondo lo spirito de' secondi: cioè quella grazia che non è mai dovuta, ma che non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio, e con umile fiducia [33]. Certo, non era necessaria la rivelazione per farci conoscere che troppo spesso troviamo in noi medesimi non solo una miserabile fiacchezza, ma una indegna repugnanza a seguire i dettami della legge morale. E l'apostolo de' gentili, dicendo: Non fo il bene che voglio, ma quel male che non voglio, quello io fo [34], ripeteva una verità ovvia anche per loro. Ovidio aveva detto prima di lui: Il core e la mente mi danno opposti consigli: vedo il meglio, l'approvo; e vo dietro al peggio [35]. E quando l'apostolo medesimo esclama: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte [36]? si direbbe quasi che non faccia altro, che ripetere il lamento di Socrate [37]. Ma da qual uomo non istruito nella scola di cui Paolo fu così gran discepolo e così gran maestro, poteva uscire quella divina risposta alla desolata domanda, allo sterile lamento: La grazia di Dio per Gesù Cristo Signor nostro [38]?

Principio d'irrecusabile autorità; regole alle quali si riduce ogni atto e ogni pensiero; spirito di perfezione che in ogni cosa dubbia rivolge l'animo al meglio; promesse superiori a ogni immaginabile interesse temporale; modello di santità, proposto nell'Uomo.Dio; mezzi efficaci per aiutarci a imitarlo, e ne' sacramenti istituiti da Lui (e ne' quali anche chi ha la disgrazia di non riconoscere l'azione divina, non può non vedere azioni che dispongono a ogni virtù), e nella preghiera, a disposizione della quale, per dir così, è messa la potenza divina da quel: Chiedete, e vi sarà dato; tale è la morale della Chiesa cattolica: quella morale che sola potè farci conoscere quali noi siamo, che sola, dalla cognizione di mali umanamente irremediabili, potè far nascere la speranza; quella morale che tutti vorrebbero praticata dagli altri, che praticata da tutti condurrebbe l'umana società al più alto grado di perfezione e di felicità che si possa conseguire su questa terra; quella morale a cui il mondo stesso non potè negare una perpetua testimonianza d'ammirazione e d'applauso.

Che, anche dopo il Cristianesimo, alcuni filosofi si siano affaticati per sostituirgliene un'altra, è un fatto pur troppo vero. Simili a chi, trovandosi con una moltitudine assetata, e sapendo d'esser vicino a un gran fiume, si fermasse a fare con de' processi chimici qualche gocciola di quell'acqua che non disseta, hanno consumate le loro cure nel cercare una ragione suprema e una teoria completa della morale, assolutamente distinta dalla teologia: quando si sono abbattuti in qualche importante verità morale, non si sono ricordati ch'era stata loro insegnata, ch'era un frammento o una conseguenza del catechismo; non si sono avvisti che avevano soltanto allungata la strada per arrivare ad essa, e che invece d'avere scoperta una legge nova, spogliavano della sanzione una legge già promulgata [39]. La Chiesa non ignora i loro sforzi, e i loro ritrovati; ma è forse questo un esempio per lei? Non ha potuto altro che compiangerli e ammonirli: perchè avrebbe dovuto imitarli? La Chiesa, a cui Gesù Cristo ha consegnata una dottrina morale perfetta, non dovrà mantenersene padrona? dovrà cessare di dirgli con Pietro: Da chi anderemo? tu hai le parole di vita eterna [40]? dovrà cessare di ripetere che disperde chi non raccoglie con lui [41]? Potrà supporre un momento che ci siano due vie, due verità, due vite? Le sono stati affidati de' precetti; e depositaria infedele, ministra diffidente, dispenserà de' dubbi? Lascerà da una parte la parola eterna, e s'avvilupperà ne' discorsi dell'uomo, per riuscire a trovare forse che la virtù è più ragionevole del vizio, forse che Dio dev'essere adorato e ubbidito, forse che bisogna amare i suoi fratelli? Il Verbo avrà assunta questa carne mortale, e attraversate l'angosce ineffabili della redenzione, per meritare alla società fondata da Lui un posto tra l'accademie filosofiche? La Chiesa che, co' suoi primi insegnamenti, può innalzare il semplice, il quale ignora perfino che ci sia una filosofia morale, al più alto punto, non di questa filosofia, ma della morale medesima; a quel punto a cui si trova un Bossuet dopo aver percorso un vasto circolo di meditazioni sublimi; l'abbandonerà a sè stesso, affinchè prenda, se può, la strada del ragionamento, che può condurre a cento mete diverse? Stanco e smarrito, l'uomo si rifuggirà alla città collocata sul monte [42], e questa non gli darà asilo? Affamato di giustizia e di certezza, d'autorità e di speranza, ricorrerà alla Chiesa, e la Chiesa non gli spezzerà quel pane che si moltiplica nelle sue mani? No: la Chiesa non tradisce così i suoi figli: noi non possiamo temere d'essere abbandonati da lei: non ci resta che il timore salutare che possiamo abbandonarla noi: un tal timore non deve che accrescere la nostra fiducia in Chi ci può tenere attaccati a questa colonna e fondamento della verità [43]. imentichiamo diciotto secoli di esistenza, di successione di pastori e di sommi pastori, di continuazione nella stessa dottrina: diciotto secoli ne' quali si contano tante persecuzioni e tanti trionfi, tante separazioni dolorose e non una sola transazione: che abbiamo noi bisogno d'esperienza? I primi fedeli non l'avevano, e hanno creduto: bastò loro la parola di quel Dio per cui mille anni sono come il giorno di ieri che è passato [44].

A rischio di cadere in qualche ripetizione, chiedo il permesso d'insistere un poco ancora sopra un argomento così importante.

La scienza morale puramente umana, appunto perché scienza umana, è naturalmente defettiva e incompleta. Perciò il Creatore, che abbandonò l'altre alle dispute de' figliuoli degli uomini [45], volle per questa, non dirò eminente tra tutte, ma unica; per questa che, avendo per fine, non solo d'accrescere cognizione all'intelletto, ma di dirigere la volontà in ogni suo atto, riguarda tutto l'uomo [46]; volle, dico, aggiungere al lume della ragione con cui l'aveva distinto da tutte le creature terrestri, un soprannaturale e positivo insegnamento; e se, riguardo all'altre scienze, gli aveva dato con la ragione medesima un mezzo di discernere, di raccogliere e d'ordinare un certo numero di verità, volle, riguardo a questa, rivelare al mondo tutta la verità [47]. Quindi la morale religiosa, chi non voglia negarla, non si può concepire altrimenti che come il perfezionamento della morale naturale. E appunto perchè l'illustre autore, lungo dal negare la relazione di questa con la religione, la pone espressamente, quella conseguenza viene necessariamente dalle sue parole.

Infatti, il dire che c'è un nesso intimo tra la religione e la morale, è dire (per quanto la formola sia astratta) in primo luogo, che tra di esse non c'è opposizione, giacchè nella proposizione stessa sono date implicitamente come vere tutt'e due; è dire in secondo luogo, che una di esse ha qualcosa che manca all'altra; giacchè, se comprendessero tutt'e due un ugual complesso di cognizioni morali, non sarebbe nesso, ma identità. Dicendo poi: «una di esse,» bisogna intendere una sola di esse, la quale e abbia qualcosa che l'altra non ha, e abbia tutto ciò che l'altra ha; o, in altri termini, la comprenda in sè tutta quanta; giacché, se si volesse intendere che ognuna delle due abbia qualcosa di proprio e di speciale, che manchi all'altra, s'avrebbe a supporre, o che dipendano da due diversi princìpi, il che è evidentemente falso, quando hanno lo stesso oggetto; o che non fossero se non due parti diverse, due applicazioni parziali e circoscritte e, per dir così, due diversi frammenti d'una scienza che contenesse il principio supremo della morale, e fosse insomma la vera e universale scienza della morale: supposizione, anche questa, che non si può enunciare, se non per escluderla. Per conseguenza, ciò che una di quelle due, alle quali si dà ugualmente il nome di morale, deve avere più dell'altra, è niente meno che l'integrità, l'essere completo di scienza morale: l'altra non può essere appunto, che una parte e come un frammento di questa. Il dar poi a tutt'e due ugualmente il nome di morale può essere senza errore e senza inconveniente, quando non gli si attribuisca un valore uguale ne' due casi tanto disuguali: quando, cioè, per l'una s'intenda la collezione ordinata, ma implicitamente subordinata, d'alcune verità morali; per l'altra, la scienza perfetta e assoluta, che ne comprende l'ordine intiero. Posto ciò, che, come dicevo, discende per necessità logica da quella proposizione: c'è un nesso intimo tra la religione e la morale; a quale di queste due si dovrà egli attribuire quell'integrità, quel contener tutta l'altra, e, per conseguenza, la facoltà di darle il compimento che le manca nella cognizione umana? La risposta è troppo ovvia; poichè, independentemente da ogni esame e da ogni paragone, sarebbe assurdo a priori il supporre che Dio, con l'aggiungere all'uomo delle cognizioni soprannaturali, non gli abbia dato che una parte di ciò che gli avesse già dato interamente per mezzo della ragione, o di ciò che con questo mezzo, l'uomo potesse acquistar da sè.

Dunque una religione rivelata da Dio, impadronendosi della morale, non leva nulla alla ragione data all'uomo da quel Dio medesimo, i doni del quale non sono soggetti a pentimento [48]. Non fa altro che darle, darle abbondantemente, darle il tutto, darle, in una certa maniera, anche quel tanto che essa aveva già, col renderlo compito e inconcusso. Di quelle sante e solenni parole che sono come la parte essenziale del vocabolario morale di tutti i tempi e di tutti i luoghi = giustizia, dovere, virtù, benevolenza, diritto, coscienza, premio, pena, bene, felicità [49], = quale, Dio bono! è stata cancellata o lasciata fuori dalla Chiesa? La Chiesa non fa altro, che aggiunger loro la pienezza e, con questo, la chiarezza e la stabilità del significato. Il mondo le ripeteva a una a una come piene di verità, con una fiducia più fondata di quello che intendesse lui medesimo; ma, troppo spesso, in vece della naturale concordia tra le verità che quelle parole esprimono, gli pareva di vedere un contrasto doloroso, un escludersi a vicenda, e la luce d'una eclissare quella d'un'altra, o annebbiarsi scambievolmente. La scienza poi, non che comporre il dissidio e dissipare l'oscurità, l'accresceva per lo più, cambiando in altrettanti sistemi quelle triste oscillazioni delle menti, e sacrificando a una verità arbitrariamente prediletta dell'altre verità, e qualche volta impiegando tutto lo sforzo della riflessione, e l'apparato del ragionamento a negare le più nobili e le più sante. La dottrina evangelica, compimento della legge data a un popolo eletto [50]; questa dottrina affidata dal Messia alla Chiesa, per essere da lei conservata e predicata fino alla consumazione de' secoli, ha rinfrancate e messe d'accordo tutte le verità morali, rivelando l'ordine intero dove appariscono, come sono, indivisibili: dimanierachè ciò ch'era un problema insolubile per i dotti, è diventata una cognizione evidente anche per gl'idioti. Dottrina, per possedere la quale, tutti coloro a cui, per inestimabile grazia è annunziata, non hanno a far altro che credere e amare. E questa credenza sia pure da alcuni chiamata cieca e materiale. Cieca e materiale credenza davvero, l'aderire con un assenso risoluto e fermo a tutte le diverse verità morali, non per quella sola luce, dirò così, parziale, con cui si presentano alla mente ciascheduna da sè, ma per la loro relazione con una verità suprema, nella quale tutte si riuniscono! Cieca e materiale credenza l'intendere che il vero male per l'uomo non è quello che soffre, ma quello che fa; e intenderlo per la cognizione d'un ordine universale, in cui tra la vera giustizia e la vera e finale felicità non ci può esser contrasto, per esser quest'ordine prestabilito dall'Essere infinitamente giusto, sapiente e potente; e il saper quindi che c'è un'armonia dove il ragionamento che si separa dalla fede non sa spesso far altro che accusare una contradizione [51]! Cieca e materiale credenza l'intendere che i piaceri temporali non sono veri beni; e intenderlo non solo per quella sproporzione col nostro desiderio di godere, e per quella instabilità e caducità che l'esperienza ci sforza, per dir così, a riconoscere volta per volta in ciascheduno di essi; ma per la nozione e per il paragone d'un bene perfetto e inamissibile: nozione che ha istruito l'uomo intorno alla sua intima natura più di quello che nessuna speculazione scientifica potesse mai fare; poichè, concepita l'essenza d'un tal bene, l'uomo potè intendere e, dirò così, avvedersi che solo un bene di quel genere, o piuttosto quel solo bene fuori d'ogni genere, era capace di soddisfare un essere dotato, come lui, d'intelligenza e di volontà; nozione, la quale sola può render ragione di quell'esperienza medesima, appunto perchè la trascende infinitamente! Cieca e materiale credenza quella che, facendo intendere che i beni temporali non sono il fine dell'uomo, li fa con ciò stesso conoscere come mezzi; e nella quale trovano per conseguenza una ragione evidente del pari e il giusto disprezzo e la giusta stima di essi; il procurarli agli altri, e il trascurarli per sè, quando il trascurarli sia un mezzo più conducente al fine, che il possederli; e la pazienza senza avvilimento, e l'attività senza inquietudine!

Dunque ancora, l'essere la filosofia morale distinta dalla teologia (la quale non è altro che la scienza della religione), non è punto una condizione appartenente all'essenza della morale: è solamente un fatto possibile, e troppo spesso reale. E il voler convertire un tal fatto in un principio, il volere cioè che la scienza morale deva rimanere assolutamente distinta dalla teologia, sarebbe, non dico un condannarla a rimanere in uno stato d'imperfezione, ma un costituirla nell'errore; perchè, quantunque sia possibile (giova ripeterlo) il formare coi soli elementi somministrati dalla cognizione naturale, una scienza morale mancante bensì di verità importantissime, ma immune da errori; pure l'escludere scientemente e di proposito tali verità, è già per sè un errore capitale, e è insieme una cagione perenne d'errori. Sarebbe un voler perpetuare, in mezzo alla luce del Vangelo, l'oscurità e l'incertezza del gentilesimo; e con tanto più tristo effetto, quanto il rifiutare la verità allontana da essa più che l'ignorarla.

Dunque finalmente, anche secondo i soli argomenti della ragione, la Chiesa, impadronendosi della morale [52], non ha fatto altro che adempire una condizione essenziale alla vera religione. A una che si desse per tale, e non asserisse di possedere l'intera e perfetta morale, la ragione medesima potrebbe, anzi dovrebbe dire: . Quando protesti di non essere la custode perpetua, la maestra suprema della morale, non posso non crederti; perchè il non riconoscere in sè una tale autorità e il non averla, è una stessa cosa. Ma per ciò appunto non posso crederti quando pretendi d'esser la vera religione. Non posso nemmeno ammettere la possibilità di trovarti tale, quando avessi esaminati i tuoi argomenti. Per ammettere una tale possibilità, dovrei supporre dimostrabile una di due cose ugualmente assurde: o una religione priva d'una dottrina morale; o una morale rivelata da Dio, e inferiore (uguale, sarebbe assurdo in un'altra maniera) alle cognizioni e ai ritrovati degli uomini.

Dobbiamo in ultimo render conto d'un'omissione che sarà facilmente notata da' lettori più riflessivi. Avendo in questo troppo lungo capitolo avuto a considerare la morale sotto diversi aspetti, e in diverse sue applicazioni, non abbiamo però mai fatta menzione de' doveri dell'uomo verso Dio, i quali sono certamente una parte (lasciamo star quanta) della morale. chi non voglia dire, o che l'uomo non abbia alcun dovere verso Dio, o che ci siano de' doveri estranei alla morale. Non occorre avvertire che non abbiamo inteso con questo d'aderire all'opinione, o piuttosto alla consuetudine non ragionata e puramente negativa, di quelli che restringono la morale alle relazioni degli uomini tra di loro. Solamente abbiamo creduto che, anche rimanendo, in quest'ordine di fatti e d'applicazioni, si potesse trattare la questione senza mutilarla; giacchè una verità, per quanto le si restringa arbitrariamente il campo, si manifesta tutt'intera all'osservazione, anche in quel piccolo spazio che le è lasciato; appunto perchè è tutta in ogni sua parte; e, se ciò non fosse, non sarebbe possibile il fare di essa la minima applicazione. Il dimostrare che le relazioni degli uomini tra di loro sono ben lontane dall'esaurire e dall'adeguare il concetto intero della moralità, avrebbe senza dubbio somministrati degli argomenti più immediati contro la proposta separazione della morale dalla teologia; ma ci avrebbe condotti ancora più in lungo, e non si sarebbe potuto fare senza ripetere cose già dette molto bene da altri. Abbiamo dunque presa la questione dov'è confinata da molti, e dove, del rimanente, era stata lasciata dall'illustre autore; e abbiamo procurato, per quanto lo permettevano le nostre forze, di far vedere come, anche nella parte che riguarda le sole relazioni degli uomini tra di loro, la morale puramente filosofica sia naturalmente defettiva; come ogni volta che cerca d'arrivare col ragionamento quella perfezione che pure la ragione intravvede, il ragionamento, dopo inutili sforzi, vada, per dir così, a morire in un desiderio, e come questo giusto e nobile desiderio sia appagato dalla morale rivelata, e non lo possa essere che da questa; come il concetto della più eminente virtù dell'uomo verso gli uomini trovi la sua desiderata e manifesta ragione nel regno di Dio e nella sua giustizia [53]. Perfino il nome non l'ha se non in questa dottrina quella virtù medesima, quand'è eminente davvero. Non già un nome tutto suo, fatto per essa, e proprio esclusivamente di essa. Sarebbe poca cosa, e non potrebbe significar nulla d'eminente; poichè il suo concetto, non riferendosi che agli uomini, rimarrebbe necessariamente circoscritto ne' limiti di quest'oggetto medesimo, e non anderebbe al di là di ciò che agli uomini può esser dovuto per la loro natura. Quello che una tal virtù riceve dalla dottrina evangelica è il nome sovrumano di Carità, il quale, unendo con l'amor di Dio l'amor degli uomini, lo fa in qualche maniera partecipare della ragione infinita di quello; nome che contempla in essi, non la sola natura quale si può riconoscere per mezzo della ragione: ma l'origine, che li fa essere figlioli di Dio; ma l'umanità assunta dal Verbo, che li fa essere fratelli di Gesù Cristo; ma la natura medesima quale è interamente manifestata dalla fede, e che li fa essere a immagine e similitudine dell'ineffabile Trinità. L'Uomo Dio ha detto: Ogni volta che avete fatto qualche cosa per uno de' più piccoli di questi miei fratelli, l'avete fatta a me [54]. Quale filosofia avrebbe mai potuto scoprire nel bene fatto agli uomini un tal valore, promettergli una tale riconoscenza?

 

Note

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[1] Alii autem irridentes dicebant: quia musto pleni sunt isti. Act. Apost. II, 13

[2] Quidam quidem irridebant, quidam vero dixerunt: audiemus te de hoc iterum. Act: Apost. XVII, 32

[3] Unus Dominus, una fides, unum baptisma. AdEphes. IV, 5.

[4] Donec occurramus omnes in unitatem fidei, et agnitionis Filii Dei. Ibid. 13.

[5] Rationabile obsequium vestrum. Ad Rom. XII, 1

[6] Inter attributa autem veri Dei ponitur quod sit Deus zelotypus; itaque cultus ejus non fert mixturam, nec consortium. Franc. Baconis, Sermones Fideles III: De unitate Ecclesiae.

[7] Dictionn. philosoph., art. Vertu.

[8] Mi pare che a torto G. G. Rousseau (Émile, liv. II) rida di coloro che ammirano il coraggio d'Alessandro nel bere la medicina presentatagli dal medico Filippo, dopo d'aver ricevuta una lettera di Parmenione, che l'avvertiva di guardarsi dal medico, come indotto, con doni e con promesse, da Dario a levargli la vita. Racconta che, essendo questa storia detta su da un ragazzo, a un desinare di molte persone, e i più biasimando quell'azione come temeraria, altri ammirandola invece come coraggiosa, lui aveva detto che se ci fosse entrata anche un'ombra di coraggio, essa non sarebbe stata, al parer suo, altro che una stravaganza. Concordando tutti ch'era una stravaganza, egli stava per riscaldarsi e per rispondere, quando una donna, che gli era vicina, gli disse all'orecchio: Tais.toi, Jean.Jacques; ils ne t'entendront pas. Que' signori non ebbero dunque la spiegazione: Rousseau la dà ai lettori, ma con quel tono sdegnoso e enfatico, che prende troppo spesso, principalmente in quel libro, dove alle volte pare che voglia persuadere i lettori, che non ne crede alcuno degno di sentire la verità, nè capace d'intenderla, e ostenta di voler far indovinare quello che poteva esser detto bonamente e amichevolmente. Ecco le sue parole: Quelques lecteurs, mécontents du tais.toi, Jean.Jacques, demanderont, je le prévois, ce que je trouve enfin de si beau dans l'action d'Alexandre. Infortunés! s'il faut vous le dire, comment le comprendrez.vous? C'est qu'Alexandre croyoit àla vertu; c'est qu'il y croyoit sur sa tête, sur sa propre vie; c'est que sa grande âme étoit faite pour y croire. Ô que cette médecine avalée étoit une belle profession de foi! Non, jamais mortel n'en fit une si sublime. Con tutto ciò mi pare che il coraggio sia appunto ciò che spicca in quell'azione. Credere alla virtù non bastava in un tal caso; bisognava credere alla virtù del medico Filippo; e, per crederci in quel momento, senza esitare, bisognava richiamare alla mente, e rivedere in compendio e pacatamente, le prove della sua fedeltà, e rimaner convinto che bastavano a levare ogni probabilità all'attentato; bisognava avere un animo tale, che l'idea d'un possibile avvelenamento non lo disturbasse dal fare, in una tal maniera, un tale giudizio; in somma aver coraggio. Il sentimento che porta il timoroso a ingrandire o a immaginarsi il pericolo, è quello stesso che lo fa fuggire dal pericolo reale, cioè un'apprensione della morte e del dolore corporale, che s'impadronisce delle sue facoltà, e leva la tranquillità alla mente. Il conservare questa tranquillità in faccia al pericolo o vero o supponibile, è l'effetto del coraggio. Se Alessandro avesse creduto probabile che Filippo volesse avvelenarlo nella medicina, sarebbe stata senza dubbio una stravagante temerità il prenderla; ma quella lettera venuta alle mani d'un uomo pusillanime, fosse pure stato fino allora persuasissimo della virtù del medico, l'avrebbe messo in una tale angustia e perplessità, che non avrebbe ragionato, ma sarebbe stato con violenza portato a schivare il rischio a ogni modo: avrebbe prese informazioni, fatto arrestare a bon conto il medico, e esaminare la medicina; avrebbe in somma fatto tutt'altro che inghiottirsela.

[9] Nec mihi, nec tibi sit; sed dividatur. III Reg. III, 26.

[10] Hist. des Répub. It. T. XVI, pag. 183.

[11] Lettre à M. Leibnitz, du 10 janvier 1692. Oeuvres posthumes de Bossuet. T. I, pag. 349.

[12] Euntes ergo docete omnes gentes.... docentes eos servare omnia quaecumque mandavi vobis. Matth. XXVIII., 19, 20.

[13] Esprit des Loix, liv. XXIV, chap. I.

[14] Danger des entretiens des hommes, I.ère partie, chap, V.

[15] Il lettore intenderà che la parola legge èqui impiegata a significare, non ciò che si deve fare, ma ciò che gli uomini, generalmente parlando (se non sono sostenuti da un principio e da una forza soprannaturale), fanno così certamente, come se ci fossero astretti da una legge. Una splendida eccezione a questa sono i primi cristiani, i quali, in faccia alla persecuzione, seppero unire, in un grado mirabile, sincerità, pazienza e resistenza.

Che sapienza divina nel precetto di fuggire dalle persecuzioni ! Siccome non si poteva uscirne che con la morte o con l'apostasia, così l'uomo non doveva esporsi a una prova tanto superiore alle sue forze ma doveva sostenerla, quando fosse inevitabile. Non si sarebbe potuto immaginare un disegno che, secondo la prudenza mondana, desse meno speranza di riuscita, di quello che escludeva i vantaggi dell'audacia e quelli della destrezza, i vantaggi che vengono dal transigere, dal pigliar tempo, dall'ingannare chi vuole opprimere. La regola del cristianesimo non lasciava a' suoi difensori, quand'erano in presenza del nemico, altra scelta che quella di morire senza fargli danno. Certo, ogni saggio mondano avrebbe pronosticato che una tale religione, doveva rovinare infallibilmente e in poco tempo, meno che i suoi partigiani, avendo imparato subito, a loro spese, a conoscere un po' più gli uomini, non cambiassero il metodo di propagarla. Il mirabile è che si stabilì e si diffuse con la fedeltà a quelle prescrizioni.

[16] Questo capitolo era già steso quando seppi che la stessa questione era stata recentemente discussa da un rispettabilissimo apologista della religione (Analisi ragionata de' sistemi e de' fondamenti dell'ateismo e dell'incredulità. Dissertazione VI, cap. II). Nondimeno ho creduto bene di lasciarlo tale quale, non importando di trattar cose nove, ma cose opportune; e sono sempre tali quelle che riguardano un punto contrastato posteriormente da uno scrittore distinto.

[17] Saggio sull'intelletto, lib. I, cap. II. Dopo il Locke, si volle, da questi fatti e da altri di simil genere, cavare una tutt'altra conseguenza, cioè che la moralità stessa sia una cosa di mera convenzione. L'Helvetius ne citò anche di più, per provare che, in tutti i secoli e ne' diversi paesi, la probità non può essere altro che l'abitudine dell'azioni utili alla propria nazione. Disc. II, tap. XIII. Qualche scrittore, insorgendo, con ragione e con dignità, contro questo sofisma, che confonde l'idea della giustizia con l'applicazione di essa, parve quasi disapprovare la ricerca stessa di questi fatti. Philosophie de Kant, par C. Villers, pag. 378; e più espressamente Mad. de Staël; De l'Allemagne, 3.me partie, chap. 2: Qu'est.ce donc qu'un système qui inspire à un homme aussi vertueux que Locke de l'avidité pour de tels faits? Ma s'avvide subito essa medesima che questa non era un'obiezione; e difatti soggiunge: Que ces faits soient tristes ou non, pourra.t.on dire, l'important est de savoir s'ils sont vrais. Così è: l'unica cosa che si deve cercare ne' fatti è la verità: chi ha paura d'esaminarli dà un gran segno di non esser certo de' suoi princìpi. Ma, segue la celebre donna: Ils peuvent être vrais, mais que signifient ils? Significano che non c'è alcuna nozione di morale, innata nella mente umana; e contribuiscono a provare che non c'è in essa, nozione innata di sorte veruna. E se il Locke si fosse ristretto a combattere la supposizione contraria, avrebbe reso un servizio, non definitivo, di certo, ma importante, giacché non ci sono errori innocui in filosofia, e in morale specialmente; e il ritorno dall'errore all'ignoranza è un progresso. Ma, come oramai tutti ne sono d'accordo, il Locke non combatte quell'errore, che per sostituirgliene uno peggiore di molto; e è cosa ugualmente riconosciuta, che quella spropositata sentenza dell'Helvetius veniva senza sforzo dal principio posto da quello; per quanto si può chiamar principio un'ipotesi negativa e espressa con una metafora. . E a questo proposito, mi si permetta un'osservazione non richiesta dall'argomento, ma brevissima, e intorno a un fatto che può parer singolare: ed è che i discepoli del Locke, i quali gridarono tanto contro i sistemi fondati su delle ipotesi, non abbiano badato che il loro maestro aveva prese le mosse da un « Supponiamo » (Let us then suppose). E cosa s'aveva a supporre? « Che la mente sia, come a dire, un foglio bianco, privo d'ogni carattere, senza idea veruna » (the mind to be, as we say, white paper, void of all characters, without any ideas). Ma per far davvero una tale supposizione, cioè per averne il concetto, e non una sola forma verbale, era necessario sapere cosa s'intendesse per mente; come, per supporre un foglio di carta privo di caratteri, é necessario (cosa del resto facilissima) sapere cosa s'intenda per foglio di carta; giacché, come concepire che sia nè fornito, nè privo d'una cosa qualunque, ciò che non si sa cosa sia? Ora, cos'è la mente priva di qualunque idea? A questo non pensò il Locke, parendogli che bastasse il vocabolo. Donde vengono alla mente tante idee? domanda poi a sè stesso; e risponde in una parola: « dall'esperienza. » To this I answer in one word, from experience (Saggio sull'íntelletto umano, lib. II, tap. I). Ma, di novo, per intendere come la mente acquisti ogni idea dall'esperienza, bisogna sapere cosa sia la mente, quando fa il suo primo atto d'esperienza. E di questo, nulla. Quindi la proposizione del Locke equivale a quest'altra: In quella maniera che concepite un foglio di carta privo di caratteri, sapendo benissimo cosa sia un foglio di carta, dovete poter concepire cosa sia una mente priva d'ogni idea, senza sapere, nè cercare cosa sia una mente. Dico:senza saperlo: e il Locke medesimo lo confessa implicitamente; giacchè, se avesse creduto che dovesse essere una cosa nota, non avrebbe detto: supponiamola. La mente è per lui un non so che, del quale si potrà ragionar con fondamento, quando s'aggiunga che in questo non so che non c'è niente: un'incognita, più il nulla. E siccome, in quel soggetto incognito, le prime idee, secondo gli esperimenti del Locke, erano prodotte e formate dalle sensazioni d'oggetti materiali, così non c'è da maravigliarsi che de' seguaci di quel filosofo, pensando (con ragione, ma troppo tardi) che si doveva pure cercare quale fosse quest'incognito soggetto dell'idee, abbiano creduto di trovarlo in un organo del corpo umano. É bensì un fatto memorabile, e utile a rammemorarsi spesso, che abbia potuto regnare in tanta parte d'Europa, per tanto tempo, e con tanto vari e vasti effetti, un sistema fondato sopra un'ipotesi negativa e verbale, fatta parer positiva e intelligibile da una metafora viziosa.

[18] Ne citerò due esempi, e perchè d'uomini tra i più illustri del gentilesimo, e perchè forse non abbastanza notati. Cicerone il quale, nel celebre passo dove descrive l'atroce  supplizio inflitto da Verre a P. Gavio (in Verr. Act. II, lib. V, 61 et seq.), non sa vedere altra dignità offesa, altra persona straziata, che quella d'un cittadino romano, ci ha lasciato, in una delle sue lettere, un saggio ancor più tristo e più aperto, d'indifferenza per l'avvilimento e per gli strazi dell'uomo come uomo. Dico quella lettera dove loda il suo paesano M. Mario di non aver fatto il viaggio di Roma, per vedere gli spettacoli dati da Pompeo, nel suo secondo consolato. E tra gli altri, parla delle cacce (venationes); giacché con questo nome chiamavano anche quelle che si facevano, o, per dir meglio, si facevano fare, non contro le bestie, ma tra bestie e schiavi, per vedere chi la vinceva e chi ci rimaneva. « Magnifiche, » dice, « nessuno lo nega; ma che piacere può trovare un uomo d'un gusto scelto, nel vedere un uomo, così inferiore di forze, sbranato da una robusta fiera, o una superba fiera trafitta da uno spiedo? Cose che, se pure si devono vedere, l'hai viste abbastanza: noi che l'abbiamo viste anche in quest'occasione, non ci abbiamo trovato nulla di novo. » Reliquae sunt venationes binae per dies quinque, magnificae, nemo negat. Sed quae potest homini esse polito delectatio, quum aut homo imbecillus a valentissima bestia laniatur, aut praeclara bestia venabulo transverberatur? quae tamen, si videnda sunt, saepe vidisti; neque nos qui haec spectavimus, quidquam novi vidimus (Epist. 126). Davvero, tra l'avidità d'una moltitudine per un tale spettacolo, e la sazietà degli uomini colti, che lo trovavano insipido, si può dubitare quale indichi un più abietto e crudele pervertimento del senso morale.

L'altro è un fatto di Catone, quando s'era già condannato a morte, e nel momento che aveva finito di leggere, con tanto profitto, il Fedone. Avendo domandato a un servo, dove fosse la sua spada (che il figlio gli aveva portata via di nascosto), e non essendogli data risposta, aspettò un poco; e poi, dice Plutarco, « chiamò un'altra volta ad uno ad uno i suoi servi, e alzando maggiormente la voce, chiedea pur la spada; e ad uno di essi diede anche un pugno su la bocca con tanta forza, che ne riportò insanguinata la mano. » (Vita di Cat. trad. del Pompei). E s'ammazzava per non poter sopportare la superiorità (un po' meno esorbitante davvero) che Cesare voleva arrogarsi sopra di lui! É però da credere che, passato quel primo bollore, il celebre stoico sarebbe stato disposto a riconoscere una qualche colpa in quel suo atto brutale; ma per la sola ragione, che il sapiente non va in collera: Numquam sapiens irascitur, come Cicerone fa dire a lui medesimo (pro L. Murena, 30).

[19] Di tempo in tempo escono poi fuori degli scrittori che mettono in ridicolo queste discussioni: cosa tanto più facile, quanto esse s'attaccano da una parte a sistemi particolari di scole diverse, e più o meno ristretta, e dall'altra ai sentimenti più intimi dell'uomo: due gran fonti di ridicolo per un gran numero d'uomini colti. Il frasario stesso de' vari sistemi somministra agli scrittori burleschi de' materiali da mettere in opera senza grande studio. In ogni sistema, a misura che si classificano più idee, diventa o pare necessario inventare de' termini per nominare quelle classi, e per significare le loro relazioni. Questi vocaboli lontani dall'uso comune, ripetuti spesso dai filosofi per supplire a un periodo, e qualche volta a un trattato, e ripetuti per lo più con importanza, perchè rappresentano le idee cardinali del sistema; questi vocaboli soli, accumulati in uno scritto scherzevole, bastano a far ridere migliaia di lettori.

Nulla serve di più a far ridere gli uomini d'una cosa, che il ricordar loro, che per altri uomini quella cosa è seria ed importante: poichè ad ognuno pare un segno evidente della propria superiorità l'esser divertito da ciò che occupa e domina le menti altrui. Lo spettatore del Mariage forcé, smascellandosi dalle risa agli argomenti di Pancrazio, sulla forma e sulla figura, si sentiva come sollevato al disopra di tutta la schiera de' peripatetici. Ciò si vede ogni giorno, anche nelle relazioni ordinarie, e tra gli uomini d'ogni ceto, dove, quando si sappia che uno abbia un'affezione particolare a un'idea, gli altri si servono di quella per farsi beffe di lui, o contradicendolo, o secondandolo, ma sempre in maniera che quella sua affezione si mostri al massimo grado: e quest'usanza si può benissimo combinare con l'urbanità, la quale, separata dalla carità religiosa, è piuttosto le leggi della guerra, che un trattato di pace tra gli uomini.

Dalle Nubi fino al Fausto i sistemi de' filosofi sulla parte morale e intellettuale dell'uomo sono sempre, o al loro apparire o col tempo, caduti nelle mani di scrittori, comici; e il sentimento eccitato da questi è stato o gaio, o derisorio, o anche penoso, secondo che hanno più fatta risaltare la vanità de' sistemi particolari, o la vanità terribile della mente umana; il che è dipenduto dalla malignità, dalla vivacità o dalla profondità del genio de' diversi scrittori.

Quando le parole tecniche d'un sistema sono state messe in burla da uomini d'ingegno, pochi ardiscono più adoprarle sul serio, e le questioni paiono finite; ma riprincipiano sotto altri nomi. C'è nell'uomo un desiderio di conoscere la propria natura, di trovare una ragione de' suoi sentimenti, che non s'accheta con delle facezie

[20] Lo scrittore anonimo della vita dell'Helvetius, dopo aver parlato d'alcuni suoi tratti di beneficenza, riferisce che disse al suo cameriere, il quale n'era testimonio: Vi proibisco di raccontare ciò che avete veduto, anche dopo la mia morte. Questo scrittore non rammenterebbe una tale circostanza, se non credesse che la volontà di nascondere i benefizi che si fanno è una disposizione virtuosa. Lo è senza dubbio; ma nel sistema di quel filosofo è impossibile classificarla tra le virtù.

[21] così nel testo: a segno che non ci si trova quasi un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui con un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui con un insegnamento dommatico: è evidente la ripetizione evidenziata in corsivo (ndr)

[22] Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum coelorum. Matth. V, 3.

[23] Cum autem venerit Filius hominis in maiestate sua, et omnes angeli cum eo, tunc, sedebit super sedem maiestatis suae.... Ibid. XXV, 31 et seq.

[24] Deum nemo vidit unquam: unigenitus Filius, qui est in sinu Patris, ipse enarravit. Ioan. I, 18.

[25] Estote ergo vos perfetti, sicut et Pater vester coelestis perfectus est. Matth. V, 48.

[26] Ut sint ununi, sicut et nos unum sumus. Ioan. XVII, 22.

[27] Petite, et dabitur vobis. Luc. XI, 9.

[28] Haec locutus sum vobis, ut in me pacem habeatis. In mundo pressuram habebitis; sed confidite, ego vici mundum. Ioan. XVI, 33.

[29] Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi. Matth. VI, 4.

[30] Merces vestra copiosa est in coelis. Id. V, 12.

[31] Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam, quoniam ipsi saturabuntur. Ibid. 6.

Intorno a questo speciale carattere della ricompensa promessa dal Redentore, avremo occasione di dir qualcosa più in particolare nel Cap. XV.

[32] Il filosofo che ha data alla morale razionale la forma rigorosa di scienza, dimostrando la sua derivazione da una legge evidente e illimitatamente applicabile, e dimostrando di più il nesso naturale e necessario di questa legge col principio supremo e universale d'ogni verità (Rosmini, Princìpi della scienza morale), è anche quello che, con un'altezza e vastità d'argomenti dalla quale sono troppo lontani questi nostri cenni, ha dimostrata la deficienza naturale di questa scienza riguardo all'idea intera e perfetta della moralità, e la sua implicita dependenza dalla morale soprannaturale e rivelata, nella quale sola può trovare il suo compimento. Le quali due conclusioni, cioè verità e imperfezione della morale naturale, non che contradirsi, sono intimamente connesse e dedotte da uno stesso principio; giacchè, è appunto per mezzo dell'idea intera e perfetta della moralità quale c'è manifestata dalla rivelazione, che si dimostra come la morale naturale ne sia e un'applicazione legittima, e un'applicazione inadequata e tronca. V. specialmente la Teodicea e l'Introduzione alla filosofia (I, II, III e IV); e per l'uno e l'altro argomento, la Storia comparativa de' sistemi intorno al principio della morale, del medesimo autore.

[33] ... quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se? Luc. XI, 13.

[34] Non enim quod volo bonum, hoc facio; sed quod nolo malum; hoc ago. Ad Rom. VII, 19.

[35]     .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  aliudque cupido

      Mens aliud suadet: video meliora proboque;

      Deteriora sequor.

                                    Metam. VII, 19 et seq.

[36] Infelix ego homo! quis me liberabit de corpore mortis huius? Ad Rom. VII, 24.

[37] Donec corpus habemus, animusque poster tanto malo erit admixtus, etc. Plat. Phaed.

[38] Gratia Dei per Jesum Christum Dominum nostrum. Ad Rom. VII, 25.

[39] Chi non riflettesse che le scienze morali non seguono la progressione dell'altre, perchè non sono dipendenti dal solo intelletto, nè propongono di quelle verità che, riconosciute una volta, non sono più contrastate, e servono di scala ad altre verità, non saprebbe spiegare come la dottrina dell'Helvetius sia potuta succedere in Francia a quella de' gran moralisti del secolo decimosettimo. Stupito di vedere una scienza andare o piuttosto saltar così all' indietro, non saprebbe, delle due maniere di renderne ragione, quale ammettere come la meno strana: o che l'Helvetius, moralista di professione, non si fosse curato d'informarsi dello stato della scienza, e dell'opinioni di scrittori rinomatissimi e recenti; o che, leggendo le loro opere, non avesse veduto che le questioni che metteva in campo erano già completamente sciolte, e che la soluzione era sempre quella ch'egli doveva trovare la più nobile e la più utile, quella che avrebbe desiderato che ognuno adottasse nelle sue relazioni con lui; non avesse veduto come in que' libri tutto concordi con la cognizione che l'uomo ha di sè stesso, come i principi siano senza eccezione di tempi o di persone, come la perfezione sia ragionata; come la scienza abbia bisogno della rivelazione, non solo per sciogliere i più alti problemi della morale, ma per porli adequatamente.

A proposito di questo scrittore, ci si permetta di notar qui incidentemente una strana parzialità di giudizi. Il Pascal, per avere, in quegli staccati e preziosi appunti, a cui fu dato il titolo di Pensieri, osservati profondamente i mali dell'uomo, è stato le tante volte tacciato d'atrabiliario; e questa taccia non è forse mai stata data all'Helvetius che rappresenta la natura umana sotto l' aspetto il più tristo e desolante. Parzialità tanto più strana in quanto il Pascal, in quelle pagine, non respira che compassione di sè e degli altri, rassegnazione, amore, e speranza; egli riposa ogni tanto con gioia e con calma nel cielo lo sguardo turbato e confuso dalla contemplazione dell'abisso del core umano guasto com'è dalla colpa originale; e le riflessioni dell'Helvetius sono spesso amare, iraconde, insofferenti o d'una crudele festività. L'autore de' Pensieri è atrabiliario perchè dimostra la necessità di rimedi che ci dispiacciono più de' mali: l'autore dello Spirito cerca a ogni inconveniente morale una causa estranea; in vece d'urtare le passioni, le lusinga, insegnando a ognuno a attribuire i vizi alla necessità o all'ignoranza altrui, e non alla propria corruttela.

È stato detto più volte, che il Pascal deprime troppo la ragione umana, e qualche volta pare fino che le neghi ogni autorità, per far più sentire la necessità della fede. E quando pure questa critica abbia un qualche ragionevole motivo, cosa si sarebbe poi dovuto dire di chi, esaltando in apparenza questa ragione, col dichiararla il solo e sovrano giudice della verità, e non trovando però la maniera di spiegare per mezzo di quella i più nobili e anche i più universali sentimenti dell'uomo, la degrada fino a darle l'incarico, grazie al cielo, ineseguibile, di dimostrarli insussistenti.

[40] Domine, ad quem ibimus? verba vitae aeternae habes. Ioan. VI, 69

[41] Qui non colligit mecum, dispergit. Luc. XI, 23.

[42] Non potest civitas abscondi sopra montem posita. Matth. V, 14

[43] Ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis: 1 ad Timoth. III, 15

[44] Quoniam mille anni ante oculos tuos tamquam dies hesterna quae praeteriit. Ps. LXXXIX, 4.

[45] ..... mundum tradidit disputationi eorum. Eccles: III, 11.

[46] Deum time, et mandata eius observa: hoc est enim omnis homo. Ibid. XII; 13.

[47] Cum autem venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem. Ioan. XVI, 13.

[48] Sine poenitentia enim sunt dona et vocatio Dei. Ad Rom. XI, 29.

[49] Non ho citata, tra queste, la parola « libertà » o « libero arbitrio, » perchè, quantunque il suo significato sia essenzialissimo al concetto della morale, è parola più della scienza, che dell'uso comune. Questo fa, se è possibile, più che pronunziarla, col sottintenderne il valore in ogni approvazione, in ogni biasimo, in ogni giudizio sul merito e sul demerito di qualunque azione e affezione umana. Essendo questa libertà un fatto noto per intima esperienza, l'uomo non scienziato non s'immagina neppure che alcuno lo possa mettere in dubbio; e quindi non ha il bisogno nè l'occasione di rappresentarselo alla mente in astratto, e di nominarlo. E come mai potrebbe immaginarsi una cosa simile, quando sente tutte le persone con cui gli occorre di tener discorso, esprimere, secondo il caso, o l'approvazione, o il biasimo, giudizi che implicano la libertà della scelta? Come potrebbe indovinare che tra quelle persone (giacchè coloro che negano il libero arbitrio, fanno in ciò nè più nè meno degli altri) ce ne siano alcune che tengono una dottrina, secondo la quale ogni approvazione e ogni biasimo sarebbe un giudizio assurdo per sè, e independentemente dalla qualità del caso? La libertà dell'arbitrio è da quell'uomo sottintesa ogni volta ch'egli esprime un giudizio morale: tant'è vero, che se, dopo aver qualificata di scelleratezza un'azione che senta raccontare, gli viene assicurato che l'autore di quella è un pazzo, muta subito il giudizio e il vocabolo, e la chiama disgrazia. Figuriamoci se gli potrebbe venir in mente che ci siano di quelli che, riguardo alla moralità, non ci mettono differenza.

[50] Nolite putare quoniam veni solvere legem aut prophetas: non veni solvere, sed adimplere. Matth. V, 17.

[51] La contradizione c'è bensì in quest'accusa medesima, poichè è fondata su due supposizioni opposte tra di loro, e insieme necessarie all'assunto: cioè che l'ordine morale, relativamente all'uomo, si deva compire in questa vita, e che tutto per l'uomo finisca con la morte. Dico necessarie all'assunto; giacchè, se s'ammette che l'ordine morale non si compisca che al di là di questa vita, e che, per conseguenza, tutto non finisca con la morte, l'accusa cade da sè. Dico poi, supposizioni che, oltre all'essere totalmente arbitrarie, si contradicono. Infatti, il supporre un ordine compito in questa vita, è supporre che l'uomo la passi tutta, non solo nell'integrità dell'innocenza, ma nel perfetto esercizio della virtù; e d'altra parte, il supporre che per l'uomo tutto finisca con la morte, è supporre che quest'uomo, dotato com'è di mente e di volontà e, per una conseguenza necessaria, d'un amore intelligente e illimitato del proprio essere, ne sia spogliato in un dato momento: cioè riceva la più ineffabile pena, in uno stato d'innocenza e di virtù. Non si può negare più apertamente di quello che faccia questa seconda supposizione, l'ordine che è l'oggetto della prima. È poi, nello stesso tempo, la più dimessa confessione d'ignoranza, e la più altera pretensione di sapienza, il dire che non s'intende punto come l'ordine ci sia, e che s'intende benissimo come ci potrebb'essere.

[52] L'illustre autore, dopo aver detto: L'Église s'empara de la morale, aggiunge: comme étant purement de son domaine: parole che non esprimono esattamente la dottrina cattolica, e perciò richiedono un'osservazione. La Chiesa non dice che la morale appartenga puramente (nel senso d'esclusivamente) a lei; ma che appartiene a lei totalmente. Non ha mai preteso che, fuori del suo grembo, e senza il suo insegnamento, l'uomo non possa conoscere alcuna verità morale: ha anzi riprovata quest'opinione più d'una voltar perché è comparsa in più d'una forma. Dice bensì, come ha detto e dirà sempre, che, per l'istituzione che ha avuta da Gesù Cristo, e per lo Spirito Santo mandatole in suo nome dal Padre, essa sola possiede originariamente e inamissibilmente l'intera verità morale (omnem veritatem), nella quale tutte le verità particolari della morale sono comprese; tanto quelle che l'uomo può arrivare a conoscere col semplice mezzo della ragione, quanto quelle che fanno parte della rivelazione, o che si possono dedurre da questa; come fa la Chiesa stessa, con assoluta autorità, nelle nove decisioni che siano richieste da novi bisogni; e come si fa nella Chiesa, con autorità condizionata e sottomessa, da quelli che hanno da essa l'incarico d'istruire i fedeli nella legge di Dio; e come si fa anche da' semplici fedeli medesimi, senza autorità, ma senza usurpazione, quando riconoscano questa mancanza in loro d'ogni autorità, e abbiano l'intenzione sincera di non dipartirsi dagl'insegnamenti della Chiesa, e di sottomettersi in ogni caso a ogni sua decisione.

[53] Quaerite primum regnum Dei, et iustitiam eius: et haec omnia adiicentur vobis. Matth. VI, 33

[54] Quamdiu fecistis uni ex his fratribus meis minimis, mihi fecistis. Matth. XXV, 40.