Giovanni Boccaccio

 

Teseida

 

 

Edizione di riferimento: Giovanni Boccaccio: Teseida delle nozze d'Emilia, a cura di A. Limentani, in Tutte le opere, a cura di V. Branca, vol. II, Mondadori, Milano 1964

 

 

 

TESEIDA DELLE NOZZE D'EMILIA

 

 

A FIAMMETTA

 

Come che a memoria tornandomi le felicità trapassate, nella miseria vedendomi dov'io sono, mi sieno di grave dolore manifesta cagione, non m'è per tanto discaro il riducere spesso nella faticata mente, o crudel donna, la piacevole imagine della vostra intera bellezza. La quale, più possente che il mio proponimento, di sé e d'amore, giovane d'anni e di senno, mi fece suggetto. E quella, quante volte vi viene, con intero animo contemplando, più tosto celestiale che umana figura esser con meco dilibero; e che essa quello che io considero sia, il suo effetto ne porge argomento chiarissimo, però che ella, con gli occhi della mia mente mirata, nel mezzo delle mie pene ingannando non so con che ascosa soavità l'aflitto core, li fa quasi le sue continue amaritudini obliare, e in quello di se medesima genera un pensiero umilissimo, il qual mi dice: "Questa è quella Fiammetta, la luce de' cui belli occhi prima i nostri accese, e già fece contenti con gli atti suoi gran parte de' nostri ferventi disii". Oh, quanto allora, me a me togliendo di mente, parendomi essere ne' primi tempi, li quali io non immerito ora conosco essere stati felici, sento consolazione! E certo, se non fossero le pronte sollecitudini delle quali la nemica fortuna m'ha circundato, che non una volta ma mille in ogni picciolo momento di tempo con punture non mai provate mi spronano, io credo che così contemplando, quasi gli ultimi termini della mia beatitudine abracciando, morre'mi. Tirato adunque da quello a che, quantunque sia stato lungo lo spazio, appena essere stato mi pare, quale io rimanga, Amore, che i miei sospiri conosce, il può vedere. Il quale, ancora che voi ingiustamente di piacevole sdegnosa siate tornata, però non m'abandona. Né possono né potranno le cose avverse, né il vostro turbato aspetto, spegnere nell'anima quella fiamma la quale mediante la vostra bellezza esso v'accese; anzi essa, più fervente che mai, con isperanza verdissima vi nutrica: sono adunque del numero de' suoi sogetti, com'io solea.

 

Vero è che dove bene avventurato già fui, ora infelicissimo mi ritruovo, sì come voi volete, di tanto solamente appagato che torre non mi potete ch'io non mi tenga pur vostro e ch'io non v'ami, posto che voi per vostro mi rifiutate, e il mio amarvi forse più gravezza che piacere riputiate. E tanto m'hanno oltre a questo le cose traverse di conoscimento lasciato, che io sento che per umiltà ben servendo ogni durezza si vince e merita uom guiderdone. La qual cosa non so se a me s'averrà, ma come che seguir me ne debba, né da sé mi vedrà diviso umiltade, né fedel servire stanco giammai. E acciò che l'opera sia verissimo testimonio alle parole, ricordandomi che già ne' dì più felici che lunghi io vi sentii vaga d'udire e tal volta di leggere una e altra istoria, e massimamente l'amorose, sì come quella che tutta ardavate nel fuoco nel quale io ardo – e questo forse faciavate acciò che i tediosi tempi con ozio non fossero cagione di pensier più nocevole –, come volonteroso servidore, il quale non solamente il comandamento aspetta dal suo maggiore, ma quello, operando quelle cose che crede che piacciano, previene, trovata una antichissima istoria e alle più delle genti non manifesta, bella sì per la materia della quale parla, che è d'amore, e sì per coloro de' quali dice, che nobili giovani furono e di real sangue discesi, in latino volgare e per rima, acciò che più dilettasse, e massimamente a voi che già con sommo titolo le mie esaltaste, con quella sollecitudine che conceduta mi fu da l'altre più gravi, disiderando di piacervi, ho ridotta. E che ella da me per voi sia compilata, due cose fra l'altre il manifestano. L'una si è che ciò che sotto il nome dell'uno de' due amanti e della giovane amata si conta essere stato, ricordandovi bene, e io a voi di me e voi a me di voi, se non mentiste, potreste conoscere essere stato detto e fatto in parte: quale de' due si sia non discuopro, ché so che ve ne avvedrete. Se forse alcune cose soperchie vi fossero, il volere bene coprire ciò che non è onesto manifestare da noi due infuori e il volere la storia seguire ne son cagioni; e oltre, a ciò dovete sapere che solo il bomere aiutato da molti ingegni fende la terra. Potrete adunque e qual fosse innanzi e quale sia stata poi la vita mia che più non mi voleste per vostro, discernere. L'altra si è il non avere cessata né storia né favola né chiuso parlare in altra guisa, con ciò sia cosa che le donne sì come poco intelligenti ne sogliano essere schife, ma però che per intelletto e notizia delle cose predette voi dalla turba dell'altre separata conosco, libero mi concessi il porle a mio piacere. E acciò che l'opera, la quale alquanto par lunga, non sia prima rincresciuta che letta, disiderando di disporre con afezione la vostra mente a vederla, se le già dette cose non l'avessero disposta, sotto brevità sommariamente qui appresso di tutta l'opera vi pongo la contenenza.

 

Dico adunque che dovendo narrare di due giovani nobilissimi tebani, Arcita e Palemone, come, innamorati d'Emilia amazona, per lei combattessero, primamente posta la invocazione poetica, mi parve da dimostrare e donde la donna fosse e come ad Attene venisse, e chi fossero essi e come quivi venissero similemente; laonde sì come premessioni alla loro istoria due se ne pongono. E primamente dopo la invocazione predetta, disegnato il tempo nel quale le seguenti cose furono, la battaglia fatta da Teseo con Ipolita, reina dell'Amazzone, e la cagione d'essa e la vittoria seguitata discrivo; procedendo oltre, come Teseo, presa Ipolita per isposa, con lei insieme Emilia sua sorella triunfando ne menò ad Attene; quinci, acciò che onde e come i due amanti venissero sia aperto, un'altra battaglia, e la felice vittoria di quella seguita, fatta da Teseo co' Tebani, premessa la cagione, si disegna; e, come appare, i due giovani, presi in quella parte del triunfo di Teseo, vennero in Attene. Dove come da lui; imprigionati fossero e come e in che tempo d'Emilia s'innamorassono, procedendo si legge; pervenendo poi da questo alla diliberazione fatta d'Arcita a' prieghi di Peritoo e al pellegrinaggio suo in Egina e alla sua vita e alla tornata d'esso sconosciuto ad Attene e al suo dimorar con Teseo; quindi scrivendo qual Palemone rimanesse, come a lui la tornata d'Arcita sotto cambiato nome si discoprisse e come per lo ingegno di Panfilo suo famigliare elli uscisse de la prigione, e la battaglia con lui fatta nel bosco; mostrando apresso come da Emilia prima combattendo veduti, e poi da Teseo, e riconosciuti, manifestandosi essi medesimi, fossero, e quello che Teseo con lor componesse, e la loro tornata in Attene; dichiarando poi qual fosse la vita loro, e l'avenimento di molti prencipi ad una battaglia futura, e i sacrificii fatti e da loro e da Emilia, e poi la loro battaglia e chi vincesse; e dopo a tutte queste cose lo infortunio d'Arcita, il suo triunfo, la liberazione di Palemone, la sponsalizia d'Emilia e la morte d'Arcita si pongono interamente; giungendosi ad esse l'onore publico fattoli da Teseo e dagli altri greci prencipi al sepellire, e il mirabile tempio nel quale le sue ceneri furon poste. E ultimamente come Emilia conceduta fosse a Palemone, e le sue nozze, e de' prencipi la partita finendo si truova. Le quali cose se tutte insieme e ciascuna per sé, o nobilissima donna, da voi con sana mente saranno pensate, potrete quello che di sopra dissi conoscere, e quindi la mia affezione discernendo, potrete il preso orgoglio lasciare, e, lasciatolo, potrete la mia miseria in disiderata felicità ritornare. Ma se pure gravi vi fossero le dette cose e vincesse la vostra altierezza la mia umilità, in questa una sola cosa per suppremo dono addomando, che, dando ad essa luogo, il presente picciolo libretto, poco presento alla vostra grandezza ma grande alla mia picciolezza, tegnate. Questo se 'l fate, alcuna volta ne' miei affanni sarà di rifrigerio cagione, pensando che in quelle dilicate mani nelle quali io più non oso venire, una delle mie cose alcuna volta pervenga. Io procederei a molti più prieghi, se quella grazia la quale io ebbi già in voi non se ne fosse andata; ma però che io del niego dubito con ragione, non volendo che a quello uno che di sopra ho fatto, e che io spero d'ottenere sì come giusto, gli altri nocessono, e sanza essermene niuno conceduto mi rimanessi, mi taccio, ultimamente pregando colui che mi vi diede, allora che io primieramente vi vidi, che se in lui quelle forze sono che già furono, raccendendo in voi la spenta fiamma, a me vi renda, la quale, non so per che cagione, inimica fortuna m'ha tolta.

 

 

SONETTO

 

Nel quale si contiene un argomento generale a tutto il libro

 

Nel primo vince Teseo l'Amazone,

nel secondo Creon certanamente;

nel terzo amore Arcita e Palemone

occupa, e 'l quarto mostra la dolente                                       4

 

vita d'Arcita uscito di prigione;

il quinto la battaglia virilmente

da Penteo fatta col suo compagnone,

e 'l sesto poi convoca molta gente                                           8

 

alla battaglia; il settimo li afrena,

l'ottavo l'un di lor fa vincitore,

il nono mostra il triunfo e la pena                                             11

 

d'Arcita, e l'altro il suo mortal dolore;

e l'undecimo Arcita al rogo mena;

l'ultimo Emilia dona all'amadore.                                              14

 

 

 

LIBRO PRIMO

 

 

Sonetto nel quale si contiene uno argomento particulare del primo libro

 

La prirna parte di questo libretto

a chi 'l riguarda mostra apertamente

la cagion che Teseo fece fervente

dell'Amazone a vengiare il difetto;                                            4

 

e come el fosse in Scizia provetto

col suo navilio e con l'armata gente,

e come il suo scender primamente

dall'Amazone gli fosse interdetto;                                             8

 

mostrando appresso come discendesse

per viva forza, e come combattendo

con quelle donne poscia le vincesse,                                        11

 

l'assedio poi alla città ponendo;

e come a patti Ipolita si desse,

con pace lui per marito prendendo.                                         14

 

 

Incomincia il primo libro del Teseida delle nozze d'Emilia. E prima la invocazione dell'autore

 

1

 

O sorelle castalie, che nel monte

Elicona contente dimorate,

dintorno al sacro gorgoneo fonte,

sottesso l'ombra delle frondi amate

da Febo, delle quali ancor la fronte

spero d'ornarmi, sol che 'l concediate:

le sante orecchi a' miei prieghi porgete

e quelli udite come voi dovete.

 

2

 

E' m'è venuto in voglia con pietosa

rima di scrivere una istoria antica,

tanto negli anni riposta e nascosa

che latino autor non par ne dica,

per quel ch'io senta, in libro alcuna cosa;

dunque sì fate che la mia fatica

sia graziosa a chi ne fia lettore

o in altra maniera ascoltatore.

 

3

 

Siate presenti, o Marte rubicondo,

nelle tue armi rigido e feroce,

e tu, madre d'Amor, col tuo giocondo

e lieto aspetto, e 'l tuo figliuol veloce

co' dardi suoi possenti in ogni mondo;

e sostenete e la mano e la voce

di me che 'ntendo i vostri effetti dire

con poco bene e pien d'assai martire.

 

4

 

E voi, nel cui conspetto il dir presente

forse verrà com'io spero, ancora

quant'io più posso priego umilemente,

per quel signor che' gentili innamora,

che attendiate con intera mente;

voi udirete come elli scolora

ne' casi avversi ciascun suo seguace

e come dopo affanno e' doni pace.

 

5

 

E questo con assai chiara ragione

comprenderete, udendo raccontare

d'Arcita i fatti e del buon Palemone,

di real sangue nati, come appare,

e amendun tebani, e a quistione,

parenti essendo, per soverchio amare

Emilia bella, vennero, amazona;

donde l'un d'essi perdeo la persona.

 

 

Seguita il tempo e la cagione nel quale e per che Teseo, duca d'Attene, andò adosso alla reina delle donne amazone

 

6

 

Al tempo che Egeo re d'Attene era,

fur donne in Scizia crude e dispietate,

alle qua' forse parea cosa fiera

esser da' maschi lor signoreggiate;

per che, adunate, con sentenzia altiera

diliberar non esser soggiogate,

ma di voler per lor la signoria;

e trovar modo a fornir lor follia.

 

7

 

E come fer le nepoti di Belo

nel tempo cheto alli novelli sposi,

così costor, ciascuna col suo telo

de' maschi suoi li spirti sanguinosi

cacciò, lasciando lor di mortal gielo

tututti freddi, in modi dispettosi;

e 'n cotal guisa libere si fero,

ben che poi mantenersi non potero.

 

8

 

Recato adunque co' ferri ad effetto

lor malvoler, voller maestra e duce

che correggesse ciascun lor difetto

e a ben viver desse forma e luce;

né a tal voglia dier lungo rispetto,

ma delle donne che 'l luogo produce

elesser per reina en la lor terra

Ipolita gentil, mastra di guerra.

 

9

 

La quale, ancora che femina fosse

e di bellezze piena oltre misura,

prese la signoria, e sì rimosse

da sé ciascuna feminil paura,

e in tal guisa ordinò le sue posse,

che 'l regno suo e sé fece sicura;

né di vicine genti avea dottanza,

sì si fidava nella sua possanza.

 

10

 

Regnando adunque animosa costei,

alle sue donne fé comandamento

che Greci, Trazii, Egizii o Sabei,

né uomini altri alcun nel tenimento

entrar lasciasser, se esse avean di lei

la grazia cara; ma ciascuno spento

di vita fosse che vi s'appressasse,

se subito il terren non isgombrasse.

 

11

 

Se per ventura lì fosser venute

femine, di qual parte si volesse,

da lor benignamente ricevute

comandò fossero e, se lor piacesse

d'esser con loro insieme, ritenute

dovessono esser, sì che si riempiesse

il luogo di color che lì morieno

di quelle che d'altronde lì venieno.

 

12

 

Sotto tal legge più anni quel regno

istette, e' porti furon ben guardati,

sicché non vi venia nave né legno,

o da fortuna o da altro menati

che fosser lì, che non lasciasser pegno

oltre al parer loro; e malmenati

li conveniva del luogo fuggire,

se non volevan miseri morire.

 

13

 

A questo scotto i Greci assai sovente

incappavan per lor disaventura;

per che a Teseo, allor signor possente,

duca d'Attene, spesso con rancura

eran posti richiami di tal gente

e di lor crudeltate a dismisura;

ond'elli, in sé di ciò forte crucciato,

propose di purgar cotal peccato.

 

14

 

Marte tornava allora sanguinoso

dal bosco dentro al qual guidati avea,

con tristo agurio del re furioso

di Tebe, l'aspra schiera, e si tenea

lo scudo di Tideo, il qual pomposo

della vittoria, sì come potea,

ad una quercia l'aveva appiccato

cotal qual era, a Marte consecrato.

 

15

 

E 'n cotal guisa, in Trazia ritornando,

si fé sentire al crucciato Teseo,

in lui di sé un fier caldo lasciando;

e col suo carro avanti procedeo,

dovunque giva lo cielo infiammando;

poi nelle valli del monte Rifeo,

ne' templi suoi posando, si raffisse,

sperando ben che ciò che fu seguisse.

 

16

 

Quinci Teseo magnanimo chiamare

li baron greci fé, e lor propose

ch'elli intendeva voler vendicare

la crudeltà e l'opere noiose

delle donne amazone; e a ciò fare

richiese lor, nelle cui virtuose

opere si fidava; e ciascun tosto

rispose sé al suo piacer disposto.

 

17

 

Commossi adunque i popoli dintorno,

qual per dovere e qual per amistate,

tutti ad Attene in un nomato giorno

si ragunar, con quella quantitate

ch'ognun poteva; e, sanza far sogiorno,

sopra le navi già apparecchiate

cavalli e arme ciascun caricava

con ciò che a fare oste bisognava.

 

 

Come Teseo co' suoi entrò in mare e andò sopra le donne amazone

 

18

 

E quando parve tempo al buon Teseo

di navigar vedendol chiaro e bello,

tutta la gente sua raccoglier feo

con debito dover, sì come quello

che altra volta il buon partito e 'l reo

avea provato del mar piano e fello;

e nel mar col suo stuol tutto si trasse,

vento aspettando ch'al gir gli aiutasse.

 

19

 

Essendo a tal partito sopra l'onde

la greca gente bene apparecchiata,

la notte che le cose ci nasconde

aveva l'aer tututta occuppata;

onde alcun dorme, e tal guarda e risponde,

e così infino alla stella levata;

la qual sì tosto com'ella appario,

l'amiraglio dell'oste si sentio;

 

20

 

e a guardare il ciel col viso alzato

tutto si diè, e quindi fé chiamare

li marinar, dicendo: – Egli è levato

prospero vento, onde mi par d'andare

a nostra via, e però sia spiegato

ciaschedun vel sanza più dimorare. –

E e' fu fatto il suo comandamento,

e quindi si partir con util vento.

 

 

Come ad Ipolita reina pervenne che Teseo s'apparecchiava d'andarle adosso.

 

21

 

Ma la corrente fama, che transporta,

con più veloce corso ch'altra cosa,

qualunque opera fatta, dritta o torta,

sanza mai dare alli suoi passi posa,

cotal novella tosto la rapporta

ad Ipolita bella e graziosa,

e in pensier la pon di sua difesa

di mal talento e di furore accesa.

 

22

 

Ma poi che l'ira alquanto fu affreddata

con utile consiglio immantanente

di volersi difendere avvisata,

fece chiamar ciascuna, di presente,

donna che nel suo regno era pregiata,

e tutte a sé venirle tostamente;

alle qua' poi in publico consiglio

a parlar cominciò con cotal piglio.

 

 

Diceria d'Ipolita alle donne sue

 

23

 

– Perciò che voi in questo vostro regno

coronata m'avete, e' s'appartiene

a me di porre e la forza e lo 'ngegno

per la salute vostra u' si convene,

sanza passar di mio dovere il segno

nel prestar guiderdoni o porger pene

ond'io, a ciò sollecita, chiamate

v'ho, perché voi e me con voi atiate.

 

24

 

Non vede il sol, che sanza dimorare

dintorno sempre ci si gira in terra

donne quanto voi sete da pregiare;

le qua', se 'n ciò il mio parer non erra,

per voler virile animo mostrare,

contro a Cupido avete presa guerra,

e quel ch'a l'altre più piace fuggite,

uomini fatti, non femine ardite.

 

25

 

E che questo sia vero, assai aperto

non ha gran tempo ancora il dimostraste,

allor ch'amor, né paura, né merto

non vi ritenne che voi non mandaste

a compimento il vostro pensier certo,

quando da servitù vi dilibraste;

nell'arme sempre esercitate poi,

cacciando ogni atto feminil da voi.

 

26

 

Ma se mai virile animo teneste,

ora bisogno fa, per quel ch'io senta,

perciò che voi, sì com'io, intendeste

che 'l gran Teseo di venir s'argomenta

sopra di noi, avendoci moleste

perché nostro piacer non si contenta

di quel che l'altre, ciò è suggiacere

a gli uomini, faccendo il lor volere.

 

27

 

Al suo inimicarci altra cagione

veder non so, né voi credo veggiate,

perciò che mai alcuna offensione

ver lui non commettemmo, onde assaltate

dovessomo essere; e questa ragione

assai è vota di degna onestate,

perciò che non fa mal que' che s'aiuta

per raver libertà, se l'ha perduta.

 

28

 

Ma qual che sia la cagion che il mova,

a noi il difender resta solamente,

sì che non vinca per forza la pruova;

laond'io vi richeggio umilemente

e priego, se in tal vita vi giova

di viver qual noi tegniamo al presente,

che l'animo, lo 'ngegno e ogni possa

mettiate contro a chi guerra v'ha mossa.

 

29

 

Né vi metta paura conscienza

d'aver peccato negli uomini vostri,

ché morte lor la loro isconoscenza

lecita impetrò nelli cor nostri,

che non stimavan che d'equal semenza

con lor nascessim, ma come da mostri,

da quercie, over da grotte partorite,

eravam poco qui da lor gradite.

 

30

 

E' si tenevan l'altezze e gli onori

sanza participarle a noi giammai,

le quali eravam degne di maggiori

ch'alcun di loro, a dir lo vero, assai;

per che di ciò gl'iddii superiori

rison che noi facemmo, e sempre mai

n'avranno per miglior, l'altre schernendo

che per viltà si van sottomettendo.

 

31

 

Né vi spaventi il nome di costoro,

perch'e' sien Greci; ché non son guarniti

di forza divisata da coloro

che nel passato fur vostri mariti;

se fiere vi mostrate verso loro,

e' non saranno inver di voi arditi,

ché niun può più ch'un uom, chi ch'el sia;

però da voi cacciate codardia.

 

32

 

Non risparmiate qui, donne, il valore

non risparmiate l'armi, non l'ardire;

non risparmiate il morire ad onore

considerate ciò che può seguire

dell'esser vigorose o con timore;

voi non avrete aguale a far morire

padri o figliuo' che vi faccian pietose,

ma inimiche genti a voi odiose.

 

33

 

Ritorni in voi agual quella fierezza

che quella notte fu, quando ciascuna

mai non usata usò crudele asprezza

ne' padri e ne' figliuo'; né sia nessuna

che qui, se dell'iddii la forza prezza,

istea, per aver nosco equal fortuna;

usi pietà altrove, ché qui morta

la comando io in ogni donna accorta.

 

34

 

Ben che forse l'iddii non ne saranno

contrarii per la nostra gran ragione;

anzi, se giusti son, n'aiuteranno,

dimenticando quel, se fu offensione

e se atarci forse non vorranno,

il danno suppliran nostre persone

contra colui che si move a gran torto

per navigare inverso il nostro porto.

 

35

 

E acciò ch'io non ponga in più parole

il tempo, il qual ne bisogna al presente,

a ciascheduna che libertà vole

ricordo e priego ch'ella sia valente;

e a qual morte per libertà dole,

dipartasi da noi immantanente;

noi varrem molto me' sanza di lei. –

E così detto si tacque colei.

 

36

 

Grande fu tra le donne il favellare,

quasi pendendo tutte in tal sentenza:

del dover pure a Teseo dimostrare

quanta e qual fosse la lor gran potenza,

se e' si ardisse a' lor porti appressare;

per che, sanza alcun'altra resistenza,

sé offerse ciascuna infino a morte

alla reina vigorosa e forte.

 

 

Come Ipolita, fatta la diceria, guarnì le terre sue

 

37

 

Ipolita, poi le proferte intese,

sanza dimoro i porti fé guarnire,

e le miglior del regno alle difese

sanza nessuno indugio fece gire;

e in tal guisa armò il suo paese,

ch'assai sicura poteva dormire,

se soverchio di gente oltre pensata

non fosse, come fu, su quello entrata.

 

38

 

Né altramenti il cinghiar c'ha sentiti

nel bosco i can fremire e' cacciatori,

i denti batte e rugghia e gli spediti

sentieri a sua salute cerca e, pe' romori

ch'egli ha in qua in là in giù e 'n su uditi,

non sa qua' vie per lui si sien migliori,

ma ora in giù e ora in su correndo,

fino al bisogno, incerto, va fuggendo

 

39

 

che facesse colei per lo suo regno,

in dubbio da qual parte quivi vegna

Teseo, o con che arte overo ingegno;

onde a gire in ciascuna non disdegna,

né di pregar che ciascheduna al segno

di quel c'ha imposto ben ferma si tegna;

però che, s'a tal punto son vincenti,

più non cal lor curar mai d'altre genti.

 

 

Come Teseo navigando pervenne nel regno dell'Amazone

 

40

 

L'alto duca Teseo, con tempo eletto

a suo viaggio, lieto navigava;

passando pria Macron sanza interdetto,

ad Andro le sue prode dirizzava;

il qual lasciato, con sommo diletto

pervenne a Tenedòs e quel passava,

entrando poi nel mar ch'a l'abideo

Leandro fu soave e poscia reo.

 

41

 

E oltre quel cammin che Frisso tenne

allor che la sorella cadde in mare,

servò, finch'a Bisanzio pervenne

Quivi fatta sua gente rinfrescare,

per picciola stagion vi si ritenne;

e come nel mar Tanao ad intrare

incominciò, così delle donzelle

le terre vide graziose e belle.

 

42

 

E come leoncel cui fame punge,

il qual più fier diventa e più ardito

come la preda conosce da lunge,

vibrando i crin, con ardente appetito

e l'unghie e' denti aguzza infin l'agiunge

cotal Teseo, rimirando espedito

il regno di color, divenne fiero,

volonteroso a fare il suo pensiero.

 

43

 

Esso mandò solenni avvisatori

a discerner la più leggiera scesa;

li qua', mirate dintorno e di fori

le rive tutte con la mente intesa,

tornarono, avvisati de' migliori

dove discender con minore offesa

potessero, e al duca il raccontaro;

e 'n quella parte lo stuol dirizzaro.

 

 

Come Teseo mandò ambasciadori alla reina, e la risposta

 

44

 

Quindi Teseo, per due de' suoi baroni,

significare ad Ipolita feo

la sua venuta e ancor le cagioni;

e oltre a questo, sì le concedeo

termine a poter fare eccezioni

ne' patti fatti a lei, se per men reo

consiglio forse le fosse piaciuta

la pace, pria che fosse scombattuta.

 

45

 

Ma di que' patti che e' domandava

da lei niun non ne fu accettato;

anzi di lui assai si ramarcava

pur di quel tanto ch'aveva operato,

riprendendol di ciò, che s'impacciava,

fuor del suo regno, dell'altrui stato;

ma che, s'ella potesse, ancor pentere

nel faria tosto; e ciò l'era in calere.

 

46

 

Tornaron que' con sì fatta risposta

qual fu lor data, sanza star niente,

e a Teseo davanti l'han proposta;

il qual l'udì mal pazientemente,

dicendo: – Poco a questa donna costa

così risponder; ma certanamente

io la trarrò d'error, se 'l cuor non erra. –

Quinci gridò: – Signori, ogni uomo a terra! –

 

 

Come Teseo, volendo scendere in terra, fosse dalle donne impedito

 

47

 

A questa voce i legni fur tirati

quasi in sul lito; e voleano smontare,

e già le scale ponean, quando, alzati

gli occhi, d'un bel castel vicino al mare

sopra una montagnetta, onde calati

i ponti, genti vidono avvallare

bene a cavallo armati, e 'n su la rena

in prima fur che 'l vedessero appena,

 

48

 

e quasi presi d'ogni parte i passi,

con gli archi in mano, or qua or là correndo,

traendo le saette de' turcassi,

con viva forza givan difendendo

tagliate avanti fatte, e di gran sassi

i balzi a grosse schiere provedendo;

Arpalice era questa che 'l facea,

a cui commesso Ipolita l'avea.

 

49

 

Il gran Teseo, magnifico barone,

poi che co' suoi alle terre pervenne,

vedendole guarnite per ragione,

per savie donne en l'animo le tenne;

e alquanto mutato d'oppinione,

fra mare il suo stuol fermo ritenne,

poi fé ciascun de' suoi apparecchiare,

pur dilivrando di volervi entrare.

 

50

 

Poi che ciascun fu bene apparecchiato,

inverso il porto si tiraro i legni;

e per iscender nel luogo avvisato

si fero avanti li baron più degni;

e in quel modo ch'avean divisato

gittaro in terra scale e altri ingegni;

ma troppo fu più forte lor la scesa

che non fu divisar cotale impresa!

 

51

 

Egli eran quasi con le poppe in terra

delli lor legni i Greci tutti quanti,

e con ogni artificio utile a guerra

arditamente si traeno avanti;

ma bene era risposto, se non erra

la mente mia, a lor da tutti i canti,

però che quelle donne saettando

forte gli gieno ognora dammeggiando.

 

52

 

Esse gittavan fuoco spessamente

sovra l'armate navi, il quale acceso

molto offendeva i Greci; e similmente,

con artifici, pietre di gran peso,

che rompevan le navi di presente

dove giugnean, se non era difeso;

e oltre a questo, pece, olio e sapone

sopra lo stuol gittavano a fusone.

 

53

 

Battaglia manual nulla non v'era,

perciò ch'ancora non avean potuto

prender li Greci di quella rivera

parte nessuna; e 'l conforto e l'aiuto

del buon Teseo per niente gli era;

anzi pareva ciaschedun perduto,

di quelle donne mirando le schiere

crescere ognora e diventar più fiere.

 

54

 

Di dardi, di saette e di quadrella

non fo menzion, che 'l ciel n'era coverto

e occupata tutta l'aere bella,

gittando l'uno a l'altro; e per lo certo

battaglia non fu mai sì dura e fella,

né in alcuna mai tanto sofferto;

molti ve ne fedien le donne accorte,

ben che di loro alcune fosser morte.

 

55

 

Grandi eran quivi le grida e 'l romore

che le donne faceano e' marinari,

tal che Nettunno o Glauco mai maggiore

sentito non l'aveano; e' duoli amari,

ch'a' marinar feriti gieno al cuore,

eran cagion di molto, perché rari

ve n'eran che nel capo o nel costato

o in altra parte non fosse piagato.

 

56

 

E 'l sangue lor vedevan sopra l'onde

con trista schiuma molto rosseggiare

e male a' Greci l'aviso risponde,

poi che così si veggon malmenare;

e qual più cuore aveva or si nasconde

temendo delle donne il saettare,

perciò ch'ell'eran di cotal mestiere,

più ch'altre, somme e vigorose e fiere.

 

 

Come Teseo, vedendo a' suoi fare falsa pruova, prima verso Marte e poi a' suoi cavalieri turbato parlò, gittandosi poi solo sopra il lito

 

57

 

Teseo che d'alta parte riguardava

la falsa punta della greca gente,

di rabbia tutto in sé si consumava,

maladicendo il duro convenente,

e d'ultima vergogna dubitava,

e quasi uscia per doglia della mente;

per che sdegnoso al cielo il viso tolto,

così parlò alto gridando molto:

 

58

 

– O fiero Marte, o dispettoso iddio,

nemico alle nostre armi, io mi vergogno

d'aprirti con parole il mio disio;

e certo priego per cotal bisogno

non averai, né sacrificio pio;

ma sanza te la vittoria ch'agogno

farò d'avere, o l'alma sanguinosa

ad Acheronta n'andrà dolorosa.

 

59

 

Opera omai in male i tuoi rossori,

e contro a me le femine fa forti

con l'arte che in Flegra i successori

d'Anteo vincesti; e fa che le conforti

quanto tu sai, e piovi i tuoi vapori

sopra li miei, ch'or fossero e' già morti;

però che sol mi credo me' valere

che io non fo con tutto lor potere.

 

60

 

E tu, Minerva, che il sommo loco

tra l'iddii tien nella nostra cittade,

non aspettar da me altar né foco,

né ch'io ti liti bestie in quantitade,

né che per te io ordini alcun gioco

in onor fatto di tua maestade;

aiuta pure a queste le qua' sono

teco d'un sesso, e me lascia in bandono.

 

61

 

Poi si rivolse a' suoi con vista viva,

con piggior piglio, e cominciò a dire:

– Ahi, vitupero della gente achiva,

ov'è fuggito il vostro grande ardire?

é la forza di voi tanto cattiva

che molli donne vi faccian fuggire?

Tornate adunque nelle vostre case,

e qua le donne vengan, là rimase.

 

62

 

Il chiaro Appollo e 'l cielo e 'l salso mare

fien testimoni etterni e immortali

del vostro vile e tristo adoperare;

e porterà la fama i vostri mali

con perpetuo nome, e voi mostrare

farà a dito a genti disiguali,

dicendo: "Vedi i cavalier dolenti,

che vinti fur dall'amazone genti".

 

63

 

Fuggitevi di qui, vituperati,

poi Marte, più che voi, donne sovene;

e delli vostri arnesi dispogliati,

li lasciate vestire a chi convene;

or non v'era e' miglior che onorati

di morte aveste sostenute pene,

che con vergogna indietro rinculare

e a donzelle lasciarvi avanzare?

 

64

 

Entri nell'armi adunque chi n'è degno

(l'altro le lasci che non vole onore)

morte pigliando per fuggire sdegno;

e a cui piace più con disinore

vita che pregio, non segua il mio segno;

vivasi quanto vuol sanza valore,

ch'io sarò troppo più, solo, onorato

ch'essendo da cotali accompagnato.

 

65

 

Or che avreste voi fatto se avversi

vi fosser forse i Centauri usciti

o i Lapiti, popoli diversi,

turba dolente, o uomini scherniti?

Credo nel mar vi sareste sommersi,

poiché per donne vi sete fuggiti.

Or vi tornate e fate novo duca,

e Marte me, sì come vuol, conduca. –

 

66

 

E questo detto, sotto l'arme chiuso,

tirar fe' la sua nave inver lo lito,

e sanza scala por ne saltò giuso,

né si curò perché fosse ferito

da molte parti; ma, come duca uso

di tal mestier, più si mostrava ardito,

sé riparando e di sopra e dintorno;

e fuor dell'acqua uscì sanza sogiorno.

 

67

 

Non altramente si gittano in mare

li marinari il cui legno già rotto

per la fortuna sentono affondare,

e chi più può, sanza a gli altri far motto,

briga, notando, di voler campare,

che' Greci si gittar tutti di botto

dietro a Teseo nell'acqua lui vedendo,

né ben né male al suo dir rispondendo.

 

68

 

E sì gli aveva vergogna spronati

con le parole del fiero Teseo,

ch'egli eran presti e arditi tornati;

per che ciascun com più tosto poteo,

così com'eran tututti bagnati

e ta' feriti, al suo duca si feo

vicino; e fero in sul lito una schiera

subitamente assai possente e fiera.

 

 

Come Teseo per battaglia ottenne il lito

 

69

 

Fatta la schiera tal quale e' poteano,

nel marin lito ov'essi eran discesi,

perciò che bene i luoghi non sapeano,

né seco avevan tutti i loro arnesi,

a lor poter le donne sosteneano,

d'alto vigor ne' loro animi accesi,

disposti a far gran cose in poca d'ora,

pur che le donne lì faccian dimora.

 

70

Le donne in su' cava' forti e isnelli

givano armate in abiti dispari

(e que' correan come volano uccelli),

faccendo spesso li lor colpi amari

sentire a' Greci, che ne' campi belli

eran discesi a piè non avea guari,

or qua or là correndo e ritornando,

spesso e rado i Greci molestando.

 

71

 

Così pugnavano a la morte loro,

poi che potuto non avean la scesa

con le lor forze vietare a coloro;

li qua', sentendo ognor crescer l'offesa,

chieser di poter gir, sanza dimoro,

dal duca lor, ver quelle in lor difesa;

e poi a piè entr'alle donne entraro

e a combatter fieri incominciaro.

 

72

 

E' ferirono a loro arditamente,

sì come que' che ben lo sapean fare;

e a' lor colpi non valea neente

di quelle donne a' colpi riparare;

e se non fosse ch'eran poca gente

a rispetto del lor multiplicare,

tosto l'avrebber del campo cacciate,

o morte tutte, over prese e legate.

 

73

 

Ma il numero di lor, ch'era infinito,

ogni ora la battaglia rinfrescava;

questo contra Teseo fiero e ardito

il campo lungamente sostentava;

esso sanza riposo e ispedito

ferendo, or qua or là correndo andava,

e ammirar di sé ciascun facea

che 'n quello stormo mirar lo potea.

 

74

 

Né altramente infra le pecorelle

si ficca il lupo per fame rabbioso,

col morso strangolando or queste or quelle,

fin c'ha saziato il suo disio guloso,

che faceva Teseo tra le donzelle

a piè con la sua spada furioso,

coperto dello scudo, ognor ferendo,

or questa or quella misera uccidendo.

 

75

 

Così Teseo fieramente andando

co' suoi compagni infra le donne ardite,

molte ne gian per terra scavallando,

e morte quelle e quelle altre ferite

lasciando per lo campo, indi montando

sopr'a' cava' ch'a redine sbandite,

le lor donne lasciate, si fuggieno

or qua or là sì come e' potieno.

 

76

 

E già di lor gran parte eran montati

per tal procaccio sopra i buon destrieri,

e tutti in sé di ciò riconfortati,

contra color ferivan volontieri;

e esse, lor vedendo inanimati

più ch'al principio non erano e feri,

temendo cominciarono a voltare,

e 'l campo a' Greci del tutto lasciare.

 

77

 

Fuggiensi adunque in quel castel tututte,

e dietro ad esse la duchessa loro;

e sopra l'alte mura fur ridutte,

armate, sanza fare alcun dimoro,

fra lor dicendo: – Noi sarem distrutte

se a le man pervegnàn di costoro. –

E la sconfitta lor quasi non suta,

a ben guardar si dier la lor tenuta.

 

78

 

Era la terra forte, e ben murata

da ogni parte, e dentro ben guarnita

per sostener assedio ogni fiata,

lunga stagion, ch'ella fosse assalita;

però ciascuna dentro bene armata

non temeva né morte né ferita;

chiuse le porti al riparo intendeano

e quasi i Greci niente temeano.

 

 

Come Teseo, sconfitte le donne e preso il lito, s'acampò

 

79

 

Come Teseo le vide fuggire,

in un raccolse tutta la sua gente,

e comandò che le lasciasser gire;

poi fé cercare il campo prestamente,

e fece i corpi morti sepellire;

e le ferite assai benignamente

lasciò andar, sanza ingiuria nessuna,

là dove piacque di gire a ciascuna.

 

80

 

E 'n cotal guisa avendo preso il lito

con la sua gente, malgrado di quelle,

in su un picciol poggio fu salito,

dirimpetto al castel delle donzelle;

e comandò che quel fosse guarnito,

sì che resister si potesse ad elle

senza battaglia, infin che scaricate

sien le galee e le genti posate.

 

81

 

Li Greci prestamente scaricaro

tutte le navi delli arnesi loro,

e altri in brieve il poggetto afforzaro

quanto poteron sanza alcun dimoro;

né dì né notte mai non riposaro,

infin ch'ebber fornito lor lavoro;

ben fer le donne loro ingombro assai,

che d'assalirli non calavan mai.

 

82

 

Poscia che' Greci furono afforzati

sì, che le donne neente temeano,

e' legni loro in mar furon tirati

per corseggiar dintorno ove poteano,

e i feriti furon medicati,

e quelli ancor che 'l mar temuto aveano

posati fur, parve a Teseo che stare

quivi poria più nuocer che giovare.

 

83

 

Esso, ch'ognor con sollecita cura

al suo più presto spaccio più pensava,

imaginò che, se 'ntorno alle mura

di quella terra il suo campo fermava,

e' potrebbe avvenir per l'avventura

che sanza utile il tempo trapassava;

però che quando pure elli avvenisse,

poco avea fatto perché lor vincesse.

 

84

 

E tornandoli a mente come Alcide

a l'ldra, che de' suoi danni crescea,

avea la vita tolta, seco vide

che là dov'era Ipolita volea

sua pruova far; perché, se lei conquide

più contasto nessun non vi sapea;

e per cotal pensiero il campo mosse

per colà gir dove Ipolita fosse.

 

 

Come Ipolita, sentendo la venuta di Teseo, aspettò sicura l'asedio

 

85

 

Corse la fama per tutto il paese

della sconfitta stata tostamente,

per che ciascuna sé alle difese

si metteva di sé velocemente;

ma quella cui tal cosa più offese

Ipolita è da creder certamente;

la qual, poi che così la cosa andare

vide, propose di volersi atare.

 

86

 

Né fu stordita per quella sciagura,

ma le sue donne a sé chiamò dicendo

– Or ciascuna convene esser sicura,

non dico in campo Teseo combattendo,

ma in difender ben le nostre mura,

le quali ad assalir vien, com'io intendo,

perciò che non potrà lunga stagione

dimorar qui, per nulla condizione.

 

87

 

Noi siam di ciò ch'al vivere ha mestiere

fornite bene, e la terra è sì forte,

che non è sì ardito cavaliere,

se al guardar vorremo essere accorte,

ch'appressar ci si possa, che pentere

non nel facciam forse con trista morte.

quando ci fieno stati e vederanno

il nostro ardir, per vinti se ne andranno.

 

88

 

Dunque, se mai amaste libertate

se vi fu caro mai il mio onore,

ora mostrate vostra probitate,

ora si scopra l'ardire e 'l valore

ver chi s'appressa alla vostra cittate

per voler noi di quella trarre fore.

Etterna fama ora acquistar potete,

se ben contra Teseo vi difendete. –

 

89

 

E questo detto, niente interpose,

ma ciò che seco aveva divisato

fece, dando ordine a tutte le cose;

per le mura ponendo in ogni lato,

a guardia, donne savie e valorose,

faccendo ancor ciascuno altro apparato

ch'a tal cosa bisogna, sempre andando

or queste or quelle tutte confortando.

 

90

 

E per salute ancor delle sue genti

gran doni a' templi poi fece portare,

l'iddii pregando che negli emergenti

casi dovesser lor pietosi atare;

quinci, operando tutti altri argomenti

ch'a sua difesa potevan giovare,

e guarnita così come poteo,

con le sue donne aspettò poi Teseo.

 

 

Come Teseo assediò Ipolita

 

91

 

Poi che Teseo si fu di quel loco

partito onde le donne avea cacciate,

a la città sen venne in tempo poco,

dove Ipolita e molte erano armate;

e lì giurò per Vulcan, dio del foco,

di non partirsi mai, se conquistate

da lui non fosser per forza o per patti

prima elli e' suoi vi sarebber disfatti.

 

92

 

E' fé tender trabacche e padiglioni

e afforzar suo campo di steccati,

a' cavalier dicendo e a' pedoni

che si facesser e tende e frascati;

e che niun di lor mai non ragioni

di ritornare a' suoi liti lasciati,

se Ipolita pria non si vincea,

così come con lor proposto avea.

 

93

 

E' fé drizzar trabocchi e manganelle

e torri per combattere a le mura,

e fé far gatti, e a le mura belle

spesso faceva con essi paura,

e con battaglia spesso le donzelle

assaliva con sua gente sicura;

ma di tal cuor guarnite le trovava,

che poco assalto o altro li giovava.

 

94

 

Elli stette più mesi a tal berzaglio

e poco v'acquistò, anzi niente,

fuor che paura e onta con travaglio,

perché le donne dentro assai sovente

di morte si metteano a ripentaglio,

predando sopra loro arditamente

cotanto s'eran già assicurate

per lo non potere esser soperchiate!

 

95

 

Di ciò era Teseo assai crucciato,

e nel pensiero sempre gia cercando

come potesse abbatter loro stato.

Un dì avvenne che e' cavalcando

a la terra dintorno, fu avvisato

ch'ella s'avrebbe sotterra cavando,

per che, avendo mastri di tali arti,

cavar la fé da una delle parti.

 

 

Come Ipolita scrisse a Teseo

 

96

 

Quando la donna del cavare intese,

dubbiò, e tosto di mura novelle

un cerchio dentro più stretto comprese,

il qual fer tosto e donne e damigelle;

appresso inchiostro e carta tosto prese

e con le mani dilicate e belle

una pìstola scrisse; e trovar feo

due savie donne, e mandolla a Teseo.

 

97

 

Eran le donne belle e di gran core,

con compagnia leggiadra disarmate,

vestite in drappi di molto valore;

le qua', giunte nel campo, fur menate

da' maggior Greci davanti al signore,

al quale, assai da lui prima onorate,

le lettere lor diero, e la risposta

addomandaron graziosa e tosta.

 

98

 

Teseo le prese assai benignamente,

e innanzi a sé chiamati i suoi baroni

insieme con molta altra buona gente,

disse: – Signori, le donne amazzoni

queste lettere mandan veramente;

però l'udite, e con belle ragioni

lor si risponda. – E poi le fé aprire,

e legger sì ch'ognun poteva udire.

 

 

Il tenore della lettera mandata da Ipolita a Teseo

 

99

 

La lettera era di cotal tenore:

"A te, Teseo, alto duca d'Attene,

Ipolita, reina di valore,

salute, se a te dir si convene,

e crescimento sempre di tuo onore,

sanza mancar di quel che m'appartiene,

e pace con ciascuno, e ancor meco

che ho ragion d'aver guerra con teco.

 

100

 

Io ho veduta la tua gente forte

ne' porti miei con isforzata mano,

tal ch'essi avrebber paura di morte

data a qualunque popol più sovrano,

fuor ch'alle donne mie, di guerra scorte

più ch'altra gente che al mondo siano;

le qua' di que' cacciasti assai superbo,

delle qua' meco una parte ne serbo.

 

101

 

E poi venuto se' ad assediarmi,

come nemica d'ogni tuo piacere,

e hai più volte provate tue armi

a le mie mura, e ancora potere

da quelle non avesti di cacciarmi;

per che, per adempier lo reo volere

c'hai contro a me, la terra fai cavare,

per poi potermi sanza arme pigliare.

 

102

 

Certo di ciò la cagion non conosco,

ch'io non ti offesi mai, né son Medea

che per invidia ti voglia dar tosco;

anzi la tua virtute mi piacea

quando si ragionava talor nosco,

e di vederti gran disio avea,

e ancor disiava tua contezza,

tanto gradiva tua somma prodezza.

 

103

 

Ma di ciò veggo contrario l'effetto,

considerando la tua nuova impresa,

pensando ch'io non abbia il difetto

commesso, e sia subitamente offesa,

sanza di te avere alcun sospetto;

di che nel core non poco mi pesa,

e non men forse per la tua virtute

che faccia per la mia propia salute.

 

104

 

Tu non hai fatto come cavaliere

che contro a par piglia debita guerra,

ma come disleale uom barattiere

subitamente assalisti mia terra,

e come vile e cattivo guerriere

mai non pensasti, se 'l mio cor non erra

che 'l guerregiar con donne e aver vittoria

del vincitore è più biasmo che gloria.

 

105

 

Ben ti dovresti di ciò vergognare,

se figliuol se', com dì, del buono Egeo;

né ti dovresti con arme appressare

a le mie mura; e già se ne penteo

chi ha volute mie forze provare,

però che mal sembiante mai non feo

nessuna ancora delle mie donzelle,

ma tutte sono ardite, prodi e snelle.

 

106

 

Ma poscia c'hai le tue forze provate,

e 'l tuo pensiero hai ritrovato vano,

diverse vie hai sotterra trovate

per avermi in prigione a salva mano

ma non sarà così in veritate,

ché già c'è preso rimedio sovrano;

e di combattere in oscura parte

non è di buon guerrier mestier né arte.

 

107

 

Dunque mi lascia in pace per tuo onore,

sanza voler più tua fama guastare,

ch'io ti perdono ciascun disinore

che fatto m'hai o mi volessi fare;

e se nol fai, per forza e con dolore

io ti farò la mia terra sgombrare;

né qui mi troverai qual festi al lito,

perch'io ti giucherò d'altro partito".

 

 

Come Teseo rispose ad Ipolita, e mostrò alle messaggiere le cave

 

108

 

Quando Teseo la lettera ebbe udita,

a' suoi baroni e' disse sorridendo:

– Beato me, che campata ho la vita

mercé di questa donna, ch'amonendo

mi manda acciò che mia fama fiorita

tra le genti dimori, me vivendo! –

Poi si rivolse a quelle donne e disse:

– Risposto tosto fia a chi ne scrisse.

 

 

Il tenore della risposta di Teseo

 

109

 

E 'n cotal guisa fé scrivere allora:

"Ipolita, reina alta e possente,

la quale il popol feminile onora,

Teseo, duca d'Attene, e la sua gente,

salute, quale ella ti bisogna ora,

cioè la grazia mia veracemente:

una tua lettera e messi vedemmo

per questa ad essa così rispondemo

 

110

 

chi 'l nostro popol uccide e discaccia

dalle sue terre, a noi fa villania;

però s'adoperiam le nostre braccia

in far vendetta, grande onor ne fia;

né viltà nulla i nostri cori impaccia,

se sottoterra cerchiam di far via,

per tuo orgoglio volere abbassare;

ma facciam quel che buon guerrier suol fare,

 

111

 

cioè prender vantaggio, acciò che' suoi

più salvi sieno, e vincasi il nemico;

e tosto ci vedrai ne' cerchi tuoi

della città, non miga come amico,

se non t'arrendi tostamente a noi,

uccidendo e tagliando; ond'io ti dico

che 'l mio comando facci, e avrai pace,

ché in altra maniera non mi piace".

 

112

 

E poi che l'ebbe scritte e suggellate,

le lettere donò alle donzelle,

e quali avanti avea molto onorate;

e a cavallo poi salì con quelle,

e tutte le sue forze ha lor mostrate,

e similmente en le cave con elle

entrò, e fece lor chiaro vedere

le mura puntellate per cadere.

 

113

 

Poi disse loro: – O messaggiere care,

a la reina vostra tornerete,

e 'n verità potrete raccontare

ciò che apertamente ora vedete;

sì che le piaccia di non farmi fare

asprezza contro a quantunque voi sete,

e contro a lei, la qual mi par valente;

ch'io ne sarei poi più di voi dolente. –

 

 

Come le damigelle, partendosi da Teseo, tornarono ad Ipolita

 

114

 

Le danmigelle allor preson commiato,

dicendo: – Signor nostro, volentieri. –

E nella terra per occulto lato

si ritornar, non pe' mastri sentieri;

e a la donna lor tutto han contato,

ciò c'han veduto infra li lor guerrieri.

e poi le lettere hanno presentate,

le qua fur tosto lette e ascoltate.

 

115

 

Poi che di quelle Ipolita il tenore

ebbe compreso, e 'l dir delle donzelle,

nel cor sentì gravissimo dolore,

e simile sentiron tutte quelle

ch'eran presenti, ch'avesser valore,

pensose assai e nello aspetto felle;

ma dopo alquanto Ipolita, chiedendo

con mano udirsi, incominciò dicendo

 

 

Diceria d'Ipolita a le donne sue

 

116

 

– Chiaro vedete, donne, a qual partito

ci abbian gl'iddii recate, e non a torto.

Se di ciascuna qui fosse il marito,

fratel, figliuolo o padre che fu morto

da tutte noi, non saria stato ardito

Teseo mai d'appressarsi al nostro porto;

ma perché non ci son, ci ha assaltate,

come vedete, e ancora assediate.

 

117

 

Venere, giustamente a noi crucciata,

col suo amico Marte il favoreggia;

e tanta forza a lui hanno donata,

che contro a nostro grado signoreggia

dintorno a noi la città assediata,

e come vuole ognora ne dammeggia,

e perciò che vie più che noi è forte,

se noi non ci rendiam, minaccia morte.

 

118

 

Però a noi bisogna di pigliare

de' due partiti l'un subitamente

o contra lui ancora riprovare

le forze nostre in campo virilmente,

o a lui, poi ci vuol, ci vogliàn dare,

perciò che qui più tenerci niente

noi non possiam, ché, come voi udite,

le mura tosto in terra vederite.

 

119

 

E 'l dir che noi con esso combattiamo

mi par che sia assai folle pensiero,

perciò che tutte quante conosciamo

la gente sua e lui ardito e fiero;

e se ancora ben ci ricordiamo

e con noi stesse vogliam dir lo vero,

noi il provammo non ha molto ancora;

di che noi ci pentemmo in poca d'ora.

 

120

 

E oltre a questo, egli ha seco l'aiuto

degli alti iddii, che noi han per nemiche

e noi l'avemo assai chiaro veduto,

ché orazion, vigilie, né fatiche,

forza di corpo o atto proveduto,

campar non ci han potuto che mendiche

della sua grazia esser non ci convegna,

se noi vogliam che 'n vita ci sostegna.

 

121

 

Però terrei consiglio assai migliore

renderci a lui, che del valor mondano,

per quel ch'io senta, ha il pregio e l'onore,

e è, a chi s'umilia, umile e piano;

e già non ci sarà e' desinore

se vinte siam da uom così sovrano,

perciò ch'ogn'uom per femine ci tiene,

come noi siamo, e lui duca d'Attene. –

 

122

 

Tacquesi qui; ma un gran mormorio

infra le donne surse, lei udita,

ch'una reputa buono e altra rio

cotal consiglio; ma nessuna ardita

è di dir contra o d'aprir suo disio;

per che cotal sentenzia diffinita

per le più sagge fu, che si mandasse

chi con Teseo per lor patti trattasse.

 

 

Come Ipolita trattò patti con Teseo e poi li si arrendé

 

123

 

Poi che cotal sentenzia fu fermata,

Ipolita due donne fé venire,

Polisto e Dinastora, e informata

ebbe ciascuna di ciò c'hanno a dire

e poi che lor libertà ebbe data

quanta ne bisognava a ciò fornire,

disse: – Omai, donne, a vostra posta andate,

ma sanza pace qui non ritornate. –

 

124

 

Fur costoro a Teseo, e e' con esse

e dopo lungo d'una e d'altra cosa

parlar, fermarsi che esso prendesse

Ipolita per sua etterna sposa,

e che la terra per lui si tenesse,

sotto le leggi della valorosa

Ipolita reina, e accordarsi

con molti altri più patti e ritornarsi.

 

125

 

Ipolita era a maraviglia bella

e di valore accesa nel coraggio;

ella sembiava matutina stella

o fresca rosa del mese di maggio

giovine assai e ancora pulcella,

ricca d'avere, e di real legnaggio,

savia e ben costumata, e per natura

nell'armi ardita e fiera oltre misura.

 

126

 

A cui le donne, da Teseo venute,

e a molte altre i patti raccontaro,

recando a tutte da Teseo salute;

il che fu alle più grazioso e caro.

E poi che fur le parole compiute,

le donne l'arme di botto lasciaro,

e ella comandò, per suo amore,

ch'a Teseo e a' suoi sia fatto onore.

 

 

Come Teseo, fermati i patti, entrò nella città, e ricevuto onorevolemente da Ipolita, la sposò, e i suoi cavalieri sposaro dell'altre.

 

127

 

Poscia che furono i patti fermati,

Teseo co' suoi montati in su' destrieri,

i più di loro essendo disarmati,

a picciol passo e lieti i cavalieri,

sanza contasto en la città menati,

nella qual ricevuti volontieri,

umili d'essa preser possessione,

sanza fare ad alcuna offensione.

 

128

 

Incontro venne, sopra un bel destriere,

al suo Teseo Ipolita reina,

e più bella che rosa di verziere

con lei veniva una chiara fantina,

Emilia chiamata, al mio parere,

d'Ipolita sorella picciolina;

e dopo lor molte altre ne venieno,

ornate e belle quanto più poteno.

 

129

 

E 'n cotal guisa con solenne onore

ricevetter Teseo e la sua gente;

né fu guari di lì lontano Amore,

ma co' suoi dardi molte prestamente

e molti ancora ne ferì nel core.

E' se ne andaron tutti lietamente

fino al palagio, e quivi dismontaro,

e in su quel Teseo accompagnaro.

 

130

 

Egli era bello e d'ogni parte ornato

di drappi ad oro e d'altri cari arnesi,

per ogni cosa ricco e bene agiato;

ma Teseo gli occhi non teneva attesi

a ciò guardar, ma il viso dilicato

d'Ipolita mirando, con accesi

sospir dicea: "Costei trapassa Elena,

cui io furtai, d'ogni bellezza piena".

 

131

 

Elli avea già nel cor quella saetta

la qual Cupido suole aver più cara;

e seco nella mente si diletta

d'aver per cotal donna tanta amara

fatica sostenuta; e lieto aspetta

d'avere in braccio quella stella chiara,

parendoli colei assai più degno

acquisto che tututto l'altro regno.

 

132

 

Le donne avevan cambiati sembianti,

ponendo in terra l'arme rugginose,

e tornate eran quali eran davanti,

belle, leggiadre, fresche e graziose;

e ora in lieti motti e dolci canti

mutate avean le voci rigogliose,

e' passi avevan piccioli tornati,

che pria nell'armi grandi erano stati.

 

133

 

E la vergogna, la qual discacciata

avean la notte orribile, uccidendo

li lor mariti, loro era tornata

ne' freschi visi, gli uomini vedendo;

e sì era del tutto transmutata

la real corte, a quel che prima, essendo

sanza uomini le femine, parea,

ch'appena alcuna di loro il credea.

 

134

 

Ripresi adunque i lasciati ornamenti,

di Citerea il tempio fero aprire,

serrato ne' lor primi mutamenti;

lì fé Teseo Ipolita venire;

e dati sacrifici reverenti

a Venere, sposò con gran disire

Ipolita, l'aiuto d'Imeneo

chiamando quivi i baron di Teseo.

 

135

 

Molte altre donne a greci cavalieri

si sposarono allora lietamente,

e per signor li preser volontieri,

com'avean gli altri avuti primamente;

con iuramenti santissimi e veri

lor promettendo che, al lor vivente,

nella prima follia non tornerieno

e che lor cari sempre mai avrieno.

 

136

 

Tra l'altre belle vedove e donzelle

che fossero in quel loco, una ve n'era

che di bellezze passava le belle,

come la rosa i fior di primavera;

la qual Teseo, vedendola tra quelle,

fé prestamente domandar chi era.

Detto li fu: – Sorella alla reina,

Emilia nominata è la fantina. –

 

137

 

Piacque a Teseo la bella donzelletta

non men che alcuna altra che vi fosse,

ancor che li paresse giovinetta;

e nella mente sua seco proposse

che ad Acate, sua cosa distretta,

per moglie la darà; quindi si mosse,

e al palagio real ritornaro,

dove pien di letizia ogn'uom trovaro.

 

138

 

Le nozze furon grandi e liete molto,

e più tempo durò il festeggiare,

e ciascun dalla sua fu ben raccolto,

e a tutti pareva bene stare,

perché fortuna avea cambiato volto;

e le donne sapeano or che si fare,

sé ristorando del tempo perduto

mentre nel regno non era uomo issuto.

 

Qui finisce il libro primo

 

 

 

LIBRO SECONDO

 

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del secondo libro

 

Questo secondo mostra il ritornare

che fé Teseo di Scizia vincente;

e delle Greche il tristo lagrimare,

col priego insieme d'Evannès dolente;                                      4

 

per lo qual, sanza del carro smontare,

con picciola orazione a la sua gente

persuadendo, si mosse ad andare

contra Creon, re di Tebe possente;                                         8

 

e come, in campo vinto, a lui la vita

tolse e a' corpi fé dar sepoltura,

avendo Tebe a le donne largita;                                               11

 

e poi, feriti, per loro sciagura,

presi da lui Palemone e Arcita

mostra, mettendo poi loro in chiusura.                                     14

 

 

Incomincia il libro secondo di Teseida. E prima perché e come Teseo si partisse di Scizia per tornare ad Attene con Ipolita e con Emilia

 

1

 

Il sole avea due volte dissolute

le nevi en gli alti poggi, e altrettante

Zeffiro aveva le frondi rendute

e i be' fiori alle spogliate piante,

poi che d'Attena s'eran dipartute

le greche navi, Africo spirante,

da cui Teseo co' suoi furon portati

nelli scitichi porti conquistati;

 

2

 

quando esso con la sua novella sposa

in lieta vita e dolce dimorava,

sanza pensiero d'alcuna altra cosa,

e appena d'Atene si curava;

ma il piacer divin più gloriosa

vittoria assai che quella li serbava;

onde li fé nuova vision vedere,

per che del ritornar li fu in calere.

 

3

 

Nel dolce tempo che il ciel fa belle

le valli e' monti d'erbette e di fiori,

e le piante riveste di novelle

frondi, sopra le quali i loro amori

cantan gli uccelli, e le gaie donzelle

di Citerea più senton gli ardori,

era Teseo da dolce amor distretto,

in un giardin, pensando a suo diletto.

 

4

 

Nel qual da una parte solo stando

gli parve seco con viso cruccioso

tener per man Peritoo ragionando,

dicendo a lui: – Che fai tu ozioso

con Ipolita in Scizia dimorando,

sotto amore offuscando il tuo famoso

nome? Perché in Grecia oramai

non torni, ove più gloria avrai assai?

 

5

 

Essi da te quell'animo gentile,

ch'ancor simile ad Ercul prometteva

di farti, dipartito? Se' tu vile

tornato nella tua età primeva?

E stando entra la turba feminile,

la tua prodezza, la qual già sapeva

ciaschedun regno, hai qui messa in oblio

d'Ipolita nel grembo e nel disio? –

 

6

 

A cui Teseo volendo dar risposta

e iscusar la sua lunga dimora,

subito agli occhi suoi si fu nascosta

la imagine di quel che parlava ora;

per che e' dubbioso col passo si scosta

dal loco ove era, a sé mirando ancora

dintorno, per veder se el vedea

colui che quivi parlato gli avea.

 

7

 

Ma poi che la paura luogo diede

a l'animal vertù, si ruppe il velo

della 'gnoranza, e con intera fede,

che non lì Peritoo, ma che dal cielo,

da qualche deità la qual provede

al suo onor con caritevol zelo,

era venuto cotal ragionare;

onde pensò ad Atene tornare.

 

8

 

Ad Ipolita adunque il suo volere

con donnesco parlar fé manifesto;

la qual rispose ad ogni suo piacere

essere apparecchiata e anche a questo;

ond'elli, allor ch'a lui fu in parere,

il suo navilio fé preparar presto,

e poi dispose del regno lo stato,

per modo che alle donne fu a grato.

 

9

 

E fatto questo, entrò sanza dimoro

in mare, e 'nsieme Ipolita reina;

e tra più donne ne menar con loro

la bella Emilia, stella matutina;

quindi spirando tra Borea e Coro

ottimo vento da quella marina

li tolse, lor portando verso Attene

il più del tempo con le vele piene.

 

 

Transgressione dalla propria materia, per mostrare qual fosse la cagione per la quale Teseo andasse contra Creonte.

 

10

 

Ma Marte, il quale i popoli lernei

con furioso corso avea commossi

sopra' Tebani, e' miseri trofei

donati avea de' prencipi percossi

più volte già, e de' Greci plebei

ritenuti talvolta e tal riscossi,

con asta sanguinosa fieramente

trista avea fatta l'una e l'altra gente;

 

11

 

perciò che, dopo Anfiorao, Tideo

stato era ucciso, e 'l buono Ippomedone,

e similmente il bel Partenopeo,

e più Teban, de' qua' non fo menzione,

innanzi e dopo al fiero Campaneo;

e dietro a tutti, in doloroso agone,

Etiocle e Polinice, ferito,

morti, e Adastro ad Argo era fuggito;

 

12

 

onde 'l misero regno era rimaso

voto di gente e pien d'ogni dolore;

ma in picciola ora da Creonte invaso

fu, che di quel si fé re e signore,

con tristo agurio, e 'n doloroso caso

recò insieme e 'l suo regno e l'onore

per fiera crudeltà da lui usata,

mai da nullo altro davanti pensata.

 

13

 

Esso, con fiero cuor li Greci odiando,

poi che fur morti in lor l'odio servava,

per ch'elli avea con gravissimo bando

vietato a chi sua grazia disiava,

ch'a nullo corpo quivi morto stando

fuoco si desse, e 'mputridir lasciava

lor sozzamente sanza sepoltura

qual delle fiere pria non fu pastura.

 

14

 

Onde le donne argoliche, le quali

venien dolenti a far lo stremo ofizio

con somma maestà di tutti i mali,

anzi giungesser quivi, ebbero indizio

dello editto crudele; e però tali

quali eran, triste di tal malefizio,

proposer con le lagrime pregare

Teseo a tale ingiuria vendicare.

 

15

 

E quindi i passi ad Attena drizzaro,

atate dal dolor nella fatica

e a quella venute, con amaro

segno mostrar la fortuna nemica.

Gli Atteniesi assai si marvigliaro

di quella turba, d'ogni ben mendica,

e domandaron di ciò la cagione,

perché venute e di qual regione.

 

16

 

I qua', poscia ch'udir la nobiltate

di quelle donne e la cagion del pianto,

con tenerezza lor prese pietate

di veder loro in tormento cotanto;

e gli alti cittadini apparecchiate

proferser lor le case d'ogni canto,

finché Teseo in Attene tornava,

che d'ora in ora in essa s'aspettava.

 

17

 

Esse non voller da nessuno onore,

ma solo il tempio cercar di Clemenza

e in quel con gravissimo dolore

istanche e lasse fecer residenza,

aspettando con lagrime il signore,

assai crucciose della sua assenza;

e le donne atteniesi in compagnia

di loro stetter quivi tuttavia.

 

 

Come Teseo ritornò triunfando in Attene, e la festa che vi si fece

 

18

 

Teseo, con vento fresco a suo viaggio,

contento ritornava inverso Attene

con gran partita del suo baronaggio

e con colei che 'l suo cuor guida e tene,

Ipolita reina; e 'l suo passaggio

tosto fornito fu e sanza pene;

né prima giunto fu alla marina

che si seppe in Attene, la mattina.

 

19

 

Gli Atteniesi, che lui attendieno

con gran disio, per la sua ritornata

mirabil festa preparata avieno,

la qual fu incontanente incominciata;

secondo il lor poter, ch'assai potieno,

fu la lor terra tutta quanta ornata

di drappi ad oro e d'altri paramenti,

con infiniti canti e istrumenti.

 

20

 

Quanto le donne allor fossero ornate,

ne' teatri, ne' templi e a' balconi

e per le vie mostrando lor biltate,

nol potrieno spiegare i miei sermoni;

la lor presenzia tal solennitate

facea maggior per diverse ragioni;

e 'n brieve in ogni parte si cantava

e con somma allegrezza si festava.

 

21

 

Gli alti suoi cittadini apparecchiare

li fero un carro ricco e triunfale,

il qual gli fer là dov'era menare;

né altro ne fu mai a quello equale

veduto per alcuno; e apprestare

li fer con esso vesta imperiale

e corona d'allor, significante

che per vittoria venia triunfante.

 

22

 

Teseo adunque, come fu smontato

di mare in terra, in sul carro salio,

degli ornamenti reali addobbato;

e sopra quello appresso il suo disio,

Ipolita, gli stette dall'un lato,

da l'altro Emilia fu, al parer mio;

poi l'altre donne e' cavalier con loro

a cavallo il seguir sanza dimoro.

 

23

 

In diverse brigate festeggiando,

a cavallo e a piè erano andati

gli Atteniesi inver di lui cantando,

di varii vestimenti divisati,

con infiniti suoni ogn'uom festando,

e con esso in Attene rientrati:

diritto andò al tempio di Pallade

a reverir di lei la deitade.

 

24

 

Quivi con reverenza offerse molto,

e le sue armi e l'altre conquistate;

e poi per altra via il carro volto,

alquanto circuendo la cittate,

con infinito d'uomini tomolto,

ovunque gia, con grida eran lodate

l'opere sue magnifiche, e con gloria

le dicean degne d'etterna memoria.

 

 

Come a Teseo si fero incontro le donne greche piagnendo

 

25

 

E mentre ch'elli in cotal guisa giva,

per avventura davanti al pietoso

tempio passò, nel quale era l'achiva

turba di donne in abito doglioso;

la qual udendo che quindi veniva,

su si levar con atto furioso:

con alte grida e pianto e gran romore

pararsi innanzi al carro del signore.

 

26

 

– Chi son costor ch'a' nostri lieti eventi

co' crini sparti, battendosi il petto,

di squalor piene in atri vestimenti,

tutte piangendo, come se 'n dispetto

avesson la mia gloria, a l'altre genti,

sì com'io veggo, cagion di diletto? –,

disse Teseo stupefatto stando;

a cui una rispose lagrimando:

 

27

 

– Signor, non ammirar l'abito tristo

che 'nnanzi a tutti ci fa dispettose,

né creder pianger noi del tuo acquisto,

né d'alcun tuo onore esser crucciose;

ben che l'averti in cotal gloria visto

pe' nostri danni ne faccia animose

a pianger più che non faremmo forse,

essendo pur dal primo dolor morse. –

 

28

 

– Dunque chi sete? – disse a lor Teseo,

– e perché sì nella publica festa

sole piangete? – Allora oltre si feo

Evannès, più che nessuna altra mesta,

dicendo: – Isposa fui di Campaneo,

e qualunque altra ancora vedi in questa

turba, di re fu moglie o madre o suora

o figlia; e aprirotti che ci accora.

 

29

 

La perfida nequizia del tiranno

figliuol d'Edippo, contro a Polinice,

suo unico fratello, e 'l fiero inganno

del regno, degli Argivi lo 'nfelice

esercito tirò al suo gran danno,

che è maggiore assai che non si dice,

davanti a Tebe, dove trista sorte

ciascuno alto baron tolto ha con morte.

 

30

 

E dove noi, invano, speravamo

con quello onor vederli ritornare

alle lor terre ch'agual te veggiamo

nella tua laurato triunfare,

nell'abito dolente in che noi siamo

a sepellirli ci conviene andare;

ma l'aspra tirannia di que' c' ha preso

il regno dietro a lor ciò ci ha difeso.

 

31

 

Il perfido Creon, a cui più dura

l'odio ch' a' morti non fece la vita,

a' greci corpi nega sepoltura

(crudeltà, credo, non mai più udita),

e di qua l'ombre a la padule oscura

di Stigia ritiene; onde infinita

doglia ci assal tra gli altri nostri mali,

sentendoli mangiare agli animali.

 

32

 

Pietose adunque a questo estremo onore

voler donar, d'Acaia ci movemmo;

ma come a noi contato fu il tenore

di tale editto, i passi qua volgemmo

e porger prieghi a te, pio signore,

di tale oltraggio con noi proponemmo

i qua' l'abito nostro per noi doni

a te in prima, e poi a' tuoi baroni.

 

33

 

Se alto valor, come crediam, dimora

in te, a questo punto sie pietoso;

tu n'averai alto merito ancora,

e oltre a ciò, ciò che uom virtuoso

de' far, farai. Deh, s'altro da te infora

far lo volesse, en dovresti cruccioso

essere e impedirlo, acciò ch'avessi

la gloria tu di punir tali eccessi.

 

34

 

Deh, se l'abito nostro e il lagrimare

non ti movon, né prieghi, né ragione

a far che 'l pio oficio possiam fare,

movati almen la trista condizione

di que' che già fur re; non gli lasciare

nella futura fama in dirisione:

 

         TESEIDA

 

di Stigia ritiene; onde infinita

doglia ci assal tra gli altri nostri mali,

sentendoli mangiare agli animali.

 

32

 

Pietose adunque a questo estremo onore

voler donar, d'Acaia ci movemmo;

ma come a noi contato fu il tenore

di tale editto, i passi qua volgemmo

e porger prieghi a te, pio signore,

di tale oltraggio con noi proponemmo

i qua' l'abito nostro per noi doni

a te in prima, e poi a' tuoi baroni.

 

33

 

Se alto valor, come crediam, dimora

in te, a questo punto sie pietoso;

tu n'averai alto merito ancora,

e oltre a ciò, ciò che uom virtuoso

de' far, farai. Deh, s'altro da te infora

far lo volesse, en dovresti cruccioso

essere e impedirlo, acciò ch'avessi

la gloria tu di punir tali eccessi.

 

34

 

Deh, se l'abito nostro e il lagrimare

non ti movon, né prieghi, né ragione

a far che 'l pio oficio possiam fare,

movati almen la trista condizione

di que' che già fur re; non gli lasciare

nella futura fama in dirisione:

e' furon teco già d'un sangue nati,

e come te ancor Greci chiamati. –

 

35

 

Le lagrime non eran mai mancate,

perché parlasse, agli occhi di costei,

ma sempre in quantità multiplicate;

e 'l simile era a l'altre dietro a lei,

le qua' con forza avean messa pietate

in ciaschedun di que' baroni attei;

per che con seco ognun forte dannava

la crudeltà la qual Creon usava.

 

36

 

Teseo attento le parole dette

racogliea tutte, l'abito mirando

di quelle donne, e ben che lor neglette

vedesse, chiaro assai, seco stimando,

la maestà nascosa conoscette;

e greve duol nel cor gli venne quando

udì de' re la morte; e dopo alquanto

così rispose al doloroso canto:

 

 

La risposta di Teseo alle donne greche

 

37

 

– L'abito oscuro e 'l piangere angoscioso,

e 'l voi conoscer pe' vostri maggiori,

e 'l ricordarmi il vostro esser pomposo,

gli agi e' diletti e' regni e' servidori

e de' re vostri il regnar glorioso,

hanno trovato ne' miei sommi onori

luogo a' vostri prieghi, e la mutata

fortuna trista di lieta tornata.

 

38

 

Io vorrei ben poter nel primo stato

e in vita li vostri re tornare,

com'io credo poter far che fia dato

onor di sepoltura a cui donare

vel piacerà; e l'orgoglio abbassato

di colui fia che ciò vi vuol negare;

però, se a male avuto può conforto

vendetta porger, per me vi fia porto.

 

39

 

Fortificate gli animi dolenti

con isperanza buona, ch'io vi giuro,

prima che io o' miei baron possenti

ci riposiam d'Attene dentro al muro,

di ciò faremo interi esperimenti;

e io son già di vittoria sicuro,

non tanto avendo in mie forze fidanza,

quanto mi dà di Creon la fallanza. –

 

 

Come Teseo dispose Ipolite ed Emilia del carro, per gire a Tebe

 

40

 

E detto questo, con benigno aspetto

si rivolse ad Ipolita, dicendo:

– Bene hai udito, donna, ciò c'han detto

queste donne reali a noi piangendo:

priegoti adunque non ti sia dispetto

se al presente a lor giustizia intendo.

Dismonta, e col mio padre ti starai

finché tornato me qui vederai. –

 

41

 

A cui così Ipolita rispose:

– Caro signor, ben ch'io sia amazona,

io non son sì crudel, ch'a cota' cose

volentier non mettessi la persona

per vendicarle, sì son dispettose,

se vero è ciò che delle donne sona

il tristo ragionar, sol ch'io credesse

che 'n ciò il mio portare arme ti piacesse.

 

42

 

Però, signor, secondo il tuo piacere

opera omai, e s'elli è di tal fretta

qual esse dicon, non soprasedere;

va e fa ciò ch'al tuo enore aspetta,

ché ciò m'è più ch'altra gioia in calere. –

E questo detto, intra la turba eletta

di molte donne che l'accompagnaro,

essa e Emilia del carro smontaro.

 

43

 

Poi che Teseo le donne ebbe posate

del carro suo, tenendo il viso fitto

nella miseria delle sconsolate,

da intima pietà nel cor trafitto,

sopra 'l carro si volse a le pregiate

schiere de' suoi sanz'altro alcun respitto;

e con voce alta, di furore acceso,

parlò sì che da tutti fu inteso:

 

 

Diceria di Teseo a' cavalieri suoi per andare sopra Creonte

 

44

 

– Tanto è nel mondo ciascun valoroso,

quanto virtute li piace operare;

dunque ciascun di vivere ozioso

si guardi che in fama vuol montare;

e noi, acciò che stato glorioso

intra' mondan potessimo acquistare,

venimmo al mondo, e non per esser tristi

come bruti animali e 'ntra lor misti.

 

45

 

Adunque, cari e buon commilitoni

che meco in tante perigliose cose

istati sete in dubbie condizioni,

per far le vostre memorie famose

a le future nuove nazioni,

ora li cuori all'opre gloriose

vi priego dispognate, né vi caglia

prender riposo d'avuta travaglia.

 

46

 

Udito avete tutti, sì com' io,

ciò che le donne ne dicon presenti;

certo ciascun ne dovrebbe esser pio,

e al vengiar dovreste esser ferventi,

ché l'aspre nimistà e il disio

del nuocer debbon ciaschedune genti

lasciare e obliar, poi l'uomo è morto;

ma or Creon fa nuovo a' morti torto.

 

47

 

Andiamo adunque, e lui, fiero Creonte,

umil facciàn con le spade tornare,

sì che e' lasci l'ombre ad Acheronte,

poi fien sepulti i corpi, trapassare;

noi non andiamo acciò che a Demofonte

rimanga regno, a l'altrui usurpare,

ma a ragion rilevare in sua gloria;

per che l'iddii ne daranno vittoria.

 

48

 

E' non fu più lasciato avanti dire,

ch'un romor surse che il ciel toccava

– Tutti siam presti di voler morire

dintorno a te, e già molto ne grava

che 'nver Creonte non prendiamo a gire,

poi ch'opera commette così prava:

voi vederete nell'operar nostro,

signor, se ci fia caro l'onor vostro. –

 

 

Come Teseo andò contra Creonte, re di Tebe

 

49

 

Teseo adunque, sanza rivedere

il vecchio padre o parente o amico,

uscì d'Attene, né li fu in calere

d'Ipolita l'amor dolce e pudico,

né altro alcun riposo, per potere

gloria acquistar sopra 'l degno nemico;

e com'elli era entrato nella terra,

così n'uscì a la novella guerra.

 

50

 

Le 'nsegne, che ancora ripiegate

non eran, si drizzaron di presente;

e' cavalier con le schiere ordinate,

dietro a la sua ciascuno acconciamente,

ne givano, e le donne sconsolate

lor precedean, di ciò molto contente;

e dopo giorno alcun giunsero a Tebe,

e fermar campo in su le triste glebe.

 

51

 

Sentì Teseo l'aere corrotto

pe' corpi ch'eran senza sepoltura;

onde mandò a Creonte di botto

che e' lasciasse aver de' morti cura,

o s'aprestasse, sanza più dir motto,

della battaglia dispietata e dura.

I messi andaro e fecer l'ambasciata;

a' qua' Creon cotal risposta ha data:

 

52

 

– Dite a Teseo ch'io sono apparecchiato

della battaglia, e ch'elli avrà a fare

con franco popol tutto bene armato,

e non si creda qui donne trovare,

come in altra parte egli ha trovato;

e però venga, qualora gli pare,

che corpi fuoco non avranno, e esso

giacer farò con loro assai di presso. –

 

53

 

Il buon Teseo la risposta intese

superba assai, della quale e' si rise;

e al pian campo con li suoi discese,

e in tre parti tutti i suoi divise,

e fece loro il loro affar palese;

quindi davanti a tututti si mise;

e bene in concio ne gir ver Creonte,

che con sua gente lor veniva a fronte.

 

 

La battaglia intra Teseo e Creonte, e come Teseo fu vincitore

 

54

 

Allora trombe, nacchere e tamburi

sonaron forte d'una e d'altra parte;

fremivano i cavalli, e i securi

cavalier tutti gridavano: – O Marte,

or si parranno li tuoi colpi duri,

ora conoscerassi la tua arte. –

Allora lance e saette pungenti

cominciarsi a gittar tra le due genti.

 

55

 

E' cavalieri insieme si scontraro

con tal romore e con sì gran tempesta,

che 'nsino al ciel le voci risonaro;

e con le lance ciaschedun s'infesta

di vender bene il romper quelle caro;

poi con le spade battaglia molesta

incominciar, dove molti moriro

nel primo assalto che 'nsieme feriro.

 

56

 

Il buon Teseo, sopra un alto destriere,

con una mazza in man pel campo andava

ferendo forte ciascun cavaliere

e abbattendo cui elli incontrava,

e spesso confortando le sue schiere:

col suo ben far tutti l'incoraggiava,

porgendo arme sovente a chi l'avesse

perdute e rimontando chi cadesse.

 

57

 

E ben vedea chi con tremante mano

moveva i ferri, e chi arditamente

sovra' nemici suoi valor sovrano

combattendo mostrava, e chi niente

pigro operava dimorando invano;

li qua' gridando spregiava vilmente,

lodando gli altri, e per nome chiamando

or questo or quel, gli giva confortando.

 

58

 

Da l'altra parte il simile facea

Creonte, come ardito conduttore,

e quasi in sé del nemico credea

sanza alcun fallo farsi vincitore.

L'un contra l'altro ben si difendea

arditamente e con sommo valore;

ma sì andando, insieme si scontraro

Creon e 'l buon Teseo, e si sgridaro.

 

59

 

Corsorsi adosso li due cavalieri,

chiusi nell'armi e valorosamente

si cominciaro a ferire i guerrieri,

com'uomin che s'odiavan mortalmente,

e come que' ch'avrebber volentieri

l'un l'altro a morte dato certamente;

e già co' colpi tutte magagnate

s'avevan l'armi, e le carni tagliate.

 

60

 

Teseo di cruccio tutto quanto ardeva,

vedendo di Creon il gran durare,

e fra se stesso fremendo diceva:

– Deh, de'mi questi a la fine menare? –

Poi tutte in sé sue forze raccoglieva,

e furioso li si lascia andare

adosso, e lui per sì gran forza fiere,

che lì il gittò per morto del destriere.

 

61

 

Teseo allora da caval discese,

dicendo: – O fier tiranno, or è venuto

il dì che 'l tuo mal viver tanto attese;

ora sarà tuo fallo conosciuto,

or fien punite le già fatte offese

da te, or fia il tuo viver compiuto;

e le tue arme io sacrerò a Marte,

benigno iddio a me in ogni parte.

 

62

 

E' corpi contra i qua' fosti spietato

arsi saranno, e 'l tuo regno distrutto,

e 'l nome tuo di memoria privato;

e a le donne, a cui cagion di lutto

fosti, sarà il tuo corpo donato,

ch'esse ne facciano il lor piacer tutto:

così la tua superbia fia abbattuta,

ch'a rispondermi fu cotanto arguta. –

 

63

 

Non spaventar le parole Creonte,

perch'abattuto si vedesse in terra,

né sembianza mutò l'ardita fronte,

né mitigossi nel cuor la sua guerra;

anzi più fiero, e con parole pronte,

aspra risposta parlando diserra

a que' che sopra il petto fier li stava

e col suo ferro morte gli aprestava;

 

64

 

dicendo a lui: – Fanne tuo piacere,

pur che io muoia avanti che vittoria

io veggia a te e a tua gente avere;

ché l'alma mia almeno alcuna gloria

ne porterà con seco nel parere,

e segnato terrà nella memoria

che 'n dubbio i tuoi e' miei lascio d'onore;

e credo che li miei hanno il migliore.

 

65

 

Questo ne porterò a l'infernali

iddii, quasi contento; e se e' fia

il corpo mio donato agli animali

sanz'altro foco, ciò l'alma disia;

però che parte delli miei gran mali

di qua dalla riviera oscura e ria,

la qual vuo' far passare a' regi morti,

io celerò, se non fia chi men porti.

 

66

 

Or fa omai quel che più t'è in grato,

ch'io non men curo. – E tacque; e intratanto

l'avea Teseo già tutto disarmato,

e quasi tutto del sangue e del pianto

il vide il duca nel viso cambiato;

e già era freddato tutto quanto:

per che conobbe l'anima dolente

esser partita dal corpo spiacente.

 

67

 

Il quale e' lasciò quivi, e risalio

sopra 'l destriere, e fra' suoi ritornossi;

e tutto quanto ardendo nel disio

d'aver vittoria, focoso ficcossi

tra li nemici, e 'l primo che ferio

a li suoi piedi morto coricossi;

e 'l simil fece a' più degli altri fare,

per che nessun l'ardiva d'aspettare.

 

68

 

E' suoi facevan nell'armi gran cose,

contra' nemici gran forze mostrando;

e per lo campo le genti orgogliose

uccidendo, ferendo e scavallando

andavan, pur pensando a le pietose

donne ch'avean vedute lagrimando;

tal che non li potean più sofferire

li Teban, salvo chi volea morire.

 

69

 

E d'altra parte già saputo aveno

del lor signor la morte dolorosa,

per che che farsi tra lor non sapeno;

laonde in fuga trista e angosciosa,

sì come gente che più non poteno,

si volser tutti, ché nessun non osa

volversi indietro o insieme aspettarsi,

tanto di presso vedean seguitarsi.

 

70

 

I miseri cacciati non fuggiro

nella città per quivi aver riparo,

ma per li monti Ogigii se ne giro,

chi per lo bosco ove Tideo assediaro,

e qua' su Citeron se ne saliro,

altri ne' cavi monti s'appiattaro;

e 'n cotal guisa con greve dolore

tutti fuggir davanti al vincitore.

 

71

 

Questo vedendo, i cittadin tebani,

le donne e' vecchi e' piccioli figliuoli

rimasi in quella miseri e profani,

di quella usciron faccendo gran duoli,

li suoi seguendo pe' luoghi silvani;

e così tristi per diversi stuoli

lasciar di Bacco e d'Ercule la terra

nelle man di Teseo in tanta guerra.

 

72

 

Al buon Teseo non piacque seguitare

que' che fuggien, ma tosto se ne gio

inver la terra, de la qual nello entrare

nessuno incontro con arme gli uscio.

Passato adunque dentro, ad ammirare

cominciò i templi di qualunque iddio,

l'antiche rocche di Cadmo cercando,

e l'altre cose mire riguardando.

 

73

 

E poi ch'egli ebbe vedute le cose

magnifiche a ciascun quelle guardante,

fuor se n'uscì, e a le sue vogliose

genti di rubar quella rimirante

licenzia diè; ver è ched elli impose

che tutte salve sien le case sante

delli tebani iddii: per che cercata

fu tosto tutta e per tutto rubata.

 

 

Come Teseo fé sepellire Creon, e concedette a le donne d'andare a sepellire cui esse volessero, concedendo loro, oltre a questo, Tebe

 

74

 

Teseo sé veggendo vincitore,

sopra Asopo il suo campo fé porre,

e de' vincenti chetato il romore,

del campo il corpo di Creon fé torre,

e con esequie degne grande onore

li fé, e fé la cenere riporre

dentro ad una urna, e poscia di Lieo

nel tempio in Tebe collocar la feo,

 

75

 

dicendo: – I' vo' che all'ombre infernali

possi di me miglior testimonianza

render, che quelli eccelsi e gran reali,

a' qua' negavi con grande arroganza

gli ultimi onori e' fuochi funerali,

di te non posson, per la tua fallanza. –

E questo fatto, a sé fece chiamare

le greche donne, e lor prese a parlare:

 

76

 

– Donne, gl'iddii a la nostra ragione

hanno prestata debita vittoria,

e però con dovuta oblazione

tenuti siam d'esaltar la lor gloria,

perciò mettete ad esecuzione

ciò che de' vostri faceste memoria;

date alli vostri re l'uficio pio,

secondo che avete nel disio.

 

77

 

E questo fatto, la terra prendete

che cagion fu di morte a' vostri regi,

e sì ne fate ciò che voi volete,

come di nido di tutti i dispregi;

sicuramente in quella andar potete,

ch'alcun non v'è ch'al gir vi privilegi. –

Le donne quasi liete il ringraziaro,

e quindi a fare il loro oficio andaro.

 

 

Come le donne, arsi i corpi e Tebe, si tornarono ad Argo

 

78

 

Esse giron nel campo doloroso,

dove gli argivi re morti giaceano;

e ben che fosse a l'olfato noioso

per lo fiato che' corpi già rendeano,

non fu però a lor punto gravoso

cercar pe' morti che elle voleano,

in qua in là or questo or quel volgendo,

il suo ciascuna intra molti caendo

 

79

 

Il quale in prima non avean trovato

che, dopo molto pianto, mille volte

non si ristavan sì l'avean basciato,

usando ne' lor pianti voci molte,

qua' soglion far le donne a cotal piato;

quindi, de' corpi le parti raccolte,

prima ne' fiumi li bagnavan tutti,

poi li ponean sopra li roghi estrutti.

 

80

 

E sopra lor, carissimi ornamenti

quali a ciascun di lor si confacea,

arme, corone, scettri e vestimenti,

di quelle donne ciascuna ponea;

e dietro a tutto, con pianti dolenti,

ne' roghi ornati fuoco si mettea,

dicendo versi di maniere assai,

appartenenti tutti a tristi guai.

 

81

 

E 'n cotal guisa la turba piangente

co' fuochi i corpi morti consumaro,

e poi le cener diligentemente

dentro da l'urne, con dolore amaro,

ch'avean portate, miser di presente,

e per portarle ad Argo le serbaro;

ma prima giro in Tebe, e non potendo

altra vendetta far, la giro ardendo.

 

82

 

Quindi a Teseo tornate, una di loro

incominciò: – Valoroso signore,

della vendetta c'hai fatta in ristoro

del nostro inestimabile dolore,

grazie ti rendan l'iddii e coloro

c'hanno o avranno mai di ciò valore,

e noi, in ciò che femine han potere,

l'onestà salva, siamo al tuo piacere.

 

83

 

L'eccelsa gloria de' nostri reali,

che morti sono in questo tristo loco,

cui noi aspettavàn con triunfali

solennità, con doloroso foco

avèn tornata in ceneri, le quali,

ristrette tutte in vassello assai poco

ce ne portiamo; e tu riman con dio,

il quale adempia ciascun tuo disio.

 

84

 

Così sen giro; ma Teseo cercare

fatto avea il campo, e ciaschedun ferito

che fu trovato fatto medicare,

e ogni morto aveva sepellito;

e quindi a sé avea fatto recare

ciò ch'avean guadagnato, e quel partito

secondo i merti tra' suoi cavalieri,

liberamente el diede e volontieri.

 

 

Come Arcita e Palemone furono trovati e menati a Teseo

 

85

 

Mentre li Greci i lor givan cercando,

e ruvistando il campo sanguinoso,

e' corpi sottosopra rivoltando,

per avventura in caso assai dubbioso

due giovani feriti dolorando

quivi trovaron, sanza alcun riposo;

e ciaschedun la morte domandava,

tanto dolor del lor mal gli agravava.

 

86

 

E' non eran da sé guari lontani,

armati tutti ancora, e a giacere;

i qua', come coloro a le cui mani

pervenner prima, udendo lor dolere,

gli vider, si pensar che de' sovrani

esser doveano; e ciò fecer vedere

le lucenti armi e loro altiero aspetto

che dio nell'ira lor facea dispetto.

 

87

 

E' s'appressaro ad essi e umilmente,

quasi già certi di lor condizione,

né disarmarli, come l'altra gente

nemica avevan fatta e cui in prigione

avevan messi; e poi benignamente

recatilisi in braccio, con ragione

gli ripigliavan del disperar loro;

e menarli a Teseo sanza dimoro.

 

88

 

I qua' Teseo come gli ebbe veduti,

d'alto affar li stimò, lor dimandando

se del sangue di Cadmo fosser suti.

E l'un di loro altiero al suo dimando

rispose: – In casa sua nati e cresciuti

fummo, e de' suo' nepoti semo; e quando

Creon contra di te l'empie arme prese,

fummo con lui, co' nostri, a sue difese. –

 

89

 

Ben conobbe Teseo nel dir lo sdegno

real ch'avean costor, ma non seguio

però l'effetto a cotale ira degno;

ma verso lor più ne divenne pio,

e co' medici suoi, con ogni ingegno,

fé sì che tutte lor piaghe guario;

e poi con gli altri in prigion li ritenne,

lor riservando al triunfo solenne.

 

 

Come Teseo triunfando tornò ad Attene

 

90

 

Poi che parve a Teseo del ritornare,

distrutta Tebe e data sepoltura

a cui vi fu da dovergliele dare,

raccolti i suoi con diligente cura,

inver d'Attene si mise ad andare;

né prima fur vicini alle sue mura

che ciò ch'all'altra festa era mancato,

a quel punto trovaron ristorato.

 

91

 

Gli Atteniesi un carro li menaro

più ricco assai che 'l primo, e tutti quanti

generalmente inverso lui andaro

con allegrezza, e con solenni canti

di vittoria doppia il commendaro;

e 'n cotal guisa, andandoli davanti,

entrarono in Attene, e quivi Egeo,

suo vecchio padre, incontro li si feo.

 

92

 

Esso davanti al suo carro fé gire

Arcita e Palemon, presi baroni,

a' qua' facea tutti gli altri seguire

ch'avea nel campo presi per prigioni;

e dietro al carro faceva venire

di preda onusti i suoi commilitoni;

ma al carro d'ogni lato era ripieno

di donne assai che gran festa facieno.

 

93

 

A così alto e magnifico onore

Teseo vegnendo, Ipolita reina

li venne in petto, il suo alto valore

mostrando più che mai quella mattina;

la quale e' vide con allegro core,

e Emilia con lei, rosa di spina,

con altre donne assai e cavalieri,

li quali ora nomar non fa mestieri.

 

94

 

A cotal festa e sì lieto sembiante

fu Teseo ricevuto e onorato

da tutti i suoi, e così triunfante

quasi per tutto con gioia menato;

ma com di Marte al tempio fu davante,

quivi li piacque che fosse arrestato

il carro suo, e in terra discese,

e 'n quello entrò a tututti palese.

 

95

 

Lì si fé dare l'arme che a Creonte

avea nel campo teban dispogliate,

e a Marte l'offerse, e dalla fronte

con man le frondi di Pennea levate

diè similmente, e con parole pronte

delle vittorie da lui acquistate

grazie rendé a Marte copiose,

offerendoli vittime pietose.

 

96

 

Quindi uscì poi, e al mastro palagio

tornò, accompagnato dal suo padre;

quivi prendendo gioco e festa e agio,

alla reina le cose leggiadre

narrava ch'avea fatte e 'l suo disagio,

spesso assalito dalle luci ladre

di quella donna, che 'l mirava fiso;

per ch'esser li pareva in paradiso.

 

 

Come Teseo fece mettere in prigione Palemone e Arcita

 

97

 

Riposato più giorni in lieta vita,

il buon Teseo si fé innanzi venire

il teban Palemone e 'l bello Arcita,

e ciascun vide molto da gradire

e nello aspetto di sembianza ardita;

per che pensò di farli ambo morire,

dubbiando che s'andare e' li lasciasse,

non forse ancora molto li noiasse.

 

98

 

Poi fra sé disse: «Io farei gran peccato,

nullo di loro essendo traditore»;

e in se stesso fu diliberato

che li terrà in prigion per lo migliore;

e tosto al prigioniere ha comandato

che ben li guardi e faccia loro onore.

Così da lui Arcita e Palemone

dannati furo ad etterna prigione.

 

99

 

Li prigion furon tutti incarcerati

e dati a guardia a chi 'l sapea ben fare;

e questi due furon riservati

per farli alquanto più ad agio stare,

perché di sangue reale eran nati;

e felli dentro al palagio abitare

e così in una camera tenere,

faccendo lor servire a lor piacere.

 

Qui finisce il secondo libro

 

 

 

LIBRO TERZO

 

 

Sonetto nel quale si contiene uno argomento particulare del terzo libro

 

Nel terzo a Marte dona alcuna posa

l'autore, e discrive come Amore

d'Emilia, bella più che fresca rosa,

a' duo prigion con li suoi dardi il core                                       4

 

ferendo, elli accendesse in amorosa

fiamma, mostrando poi l'aspro dolore

del soverchio disio e l'animosa

voglia di far sentire il lor valore.                                               8

 

E poi, pregando il figliuol d'Isione

il gran Teseo, suo amico caro,

Arcita fa fuor trarre di prigione;                                               11

 

e mostra i patti che con lui fermaro

e poi, preso congio da Palemone,

d'Attene il mostra uscir con duolo amaro.                                14

 

 

Incomincia il libro terzo di Teseida

 

1

 

Poi che alquanto il furor di Iunone

fu per Tebe distrutta temperato,

Marte nella sua fredda regione

con le sue Furie insieme s'è tornato

per che omai con più pio sermone

sarà da me di Cupido cantato

e delle sue battaglie, il quale io priego

che sia presente a ciò che di lui spiego.

 

2

 

Ponga ne' versi miei la sua potenza

quale e' la pose ne' cuor de' Tebani

imprigionati, sì che differenza

non sia da essi alli loro atti insani;

li qua', lontani a degna sofferenza,

venir li fero a l'ultimo a le mani,

in guisa che a ciascun fu discaro,

e a l'un fu di morte caso amaro.

 

3

 

In cotal guisa adunque imprigionati

i due Tebani, in supprema tristizia

e quasi più che ad altro al pianger dati,

del tutto d'ogni futura letizia

dovere aver giammai più disperati,

maladicean sovente la malizia

dello 'nfortunio loro, e 'l tempo e l'ora

ch'al mondo venner bestemmiando ancora,

 

4

 

morte chiamando seco spessamente

che gli uccidesse, se fosse valuto.

E in istato cotanto dolente

presso che l'anno avevan già compiuto,

quando per Vener, nel suo ciel lucente,

d'altri sospir dar lor fu proveduto;

né prima fu cotal pensiero eletto,

che al proposto seguitò l'effetto.

 

 

Il tempo prima, e poi come Arcita e Palemone s'innamorarono d'Emilia.

 

5

 

Febo, salendo con li suoi cavalli

del ciel teneva l'umile animale,

ch'Europa portò sanza intervalli

là dove il nome suo dimora aguale;

e con lui insieme graziosi stalli

Venus facea de' passi con che sale,

per che il cielo rideva tutto quanto

d'Amon, che 'n Pisce dimorava intanto.

 

6

 

Da questa lieta vista delle stelle

prendea la terra graziosi effetti,

e rivestiva le sue parti belle

di nuove erbette e di vaghi fioretti.

e le sue braccia le piante novelle

avean di fronde rivestite, e stretti

eran dal tempo gli alberi a fiorire

e a far frutto e 'l mondo ribellire.

 

7

 

E gli uccelletti ancora i loro amori

tututti avean cominciato a cantare,

giulivi e gai, nelle frondi e ne' fiori;

e gli anima' nol potevan celare,

anzi 'l mostravan con sembianti fori;

e' giovinetti lieti, che ad amare

eran disposti, sentivan nel core

fervente più che mai crescere amore.

 

8

 

quando la bella Emilia giovinetta,

a ciò tirata da propria natura

non che d'amore alcun fosse constretta,

ogni mattina, venuta l'aurora,

in un giardin se n'entrava soletta

ch'allato alla sua camera dimora

faceva, e 'n giubba e scalza gia cantando

amorose canzon, sé diportando.

 

9

 

E questa vita più giorni tenendo

la giovinetta semplicetta e bella,

con la candida man talor cogliendo

d'in su la spina la rosa novella,

e poi con quella più fior congiugnendo

al biondo capo fando ghirlandella,

avvenne nova cosa una mattina

per la bellezza di questa fantina.

 

10

 

Un bel mattin ch'ella si fu levata

e' biondi crin ravolti alla sua testa,

discese nel giardin, com'era usata:

quivi cantando e faccendosi festa,

con molti fior, su l'erbetta assettata,

faceva sua ghirlanda lieta e presta,

sempre cantando be' versi d'amore

con angelica voce e lieto core.

 

11

 

Al suon di quella voce grazioso

Arcita si levò, ch'era in prigione

allato allato al giardino amoroso,

sanza niente dire a Palemone,

e una finestretta disioso

aprì per meglio udir quella canzone,

e per vedere ancor chi la cantasse,

tra' ferri il capo fuori alquanto trasse.

 

12

 

Egli era ancora alquanto il dì scuretto,

ché l'orizonte in parte il sol teneva,

ma non sì ch'elli con l'occhio ristretto

non iscorgesse ciò che lì faceva

la giovinetta con sommo diletto,

la quale ancora esso non conosceva;

e rimirando lei fisa nel viso,

disse fra sé: «Quest'è di paradiso!».

 

13

 

E ritornato dentro pianamente

disse: – O Palemon, vieni a vedere:

Vener è qui discesa veramente!

Non l'odi tu cantar? Deh, se 'n calere

punto ti son, deh, vien qua prestamente!

Io credo certo che ti fia in piacere

qua giù veder l'angelica bellezza,

a noi discesa della somma altezza. –

 

14

 

Levossi Palemon, che già l'udiva

con più dolcezza che que' non credea,

e con lui insieme alla finestra giva,

cheti amenduni, per veder la dea;

la qual come la vide, in voce viva

disse: – Per certo questa è Citerea;

io non vidi giammai sì bella cosa

tanto piacente né sì graziosa. –

 

15

 

Mentre costoro, sospesi e attenti,

gli occhi e gli orecchi pur verso colei

tenendo fissi facevan contenti,

forte maravigliandosi di lei,

e del perduto tempo in lor dolenti

passato pria sanza veder costei,

Arcita disse: – O Palemon, discerni

tu ciò ch'io veggo ne' belli occhi etterni? –

 

16

 

– Che? – li rispose allora Palemone.

Arcita disse: – Io veggo in lor colui

che già per Danne il padre di Fetone

ferì, se io non erro, e in man dui

istral dorati tene, e già l'un pone

sovra la corda, e non rimira altrui

che me; non so se forse li dispiace

ch'io miri questa che tanto mi piace. –

 

17

 

– Certo – rispose Palemone allora

– il veggo, ma non so s'ha saettato

l'un, ché non ha più che uno in mano ora. –

Arcita disse: – Sì, e' m'ha piagato

in guisa tal che di dolor m'acora,

se io non son da quella dea atato. –

Allora Palemon tutto stordito

gridò: – Omè, che l'altro m'ha ferito! –

 

18

 

A quello omè la giovinetta bella

si volse destra in su la poppa manca;

né prima altrove ch'alla finestrella

le corser gli occhi, onde la faccia bianca

per vergogna arrossò, non sappiendo ella

chi si fosser color; poi, fatta franca,

co' colti fiori in piè si fu levata,

e per andarsen si fu inviata.

 

19

 

Né fu nel girsen via sanza pensiero

di quello omè, e ben che giovinetta

fosse, più che non chiede amore intero,

pur seco intese ciò che quello affetta;

e parendole ciò saper per vero

d'esser piaciuta, seco si diletta,

e più se ne tien bella, e più s'adorna

qualora poi a quel giardin ritorna.

 

20

 

Dentro tornaron li due scudieri,

poscia che videro Emilia partita;

e, stati alquanto con nuovi pensieri,

pria cominciò così a dire Arcita:

– lo non so che nel cor quel fiero arcieri

m'ha saettato, che mi to' la vita,

e sentomi fallire a poco a poco,

acceso, lasso! non so in che foco.

 

21

 

E non mi si diparte della mente

l'imagine di quella creatura,

né pensiero ho d'altra cosa niente;

sì m'è fissa nel cor la sua figura,

e sì mi sta nell'animo piacente,

ch'io mi riputerei somma ventura

s'io le piacessi com'ella mi piace;

e sanza ciò mai non credo aver pace. –

 

22

 

Palemon disse: – Il simile m'avene

che tu racconti, e mai più nol provai;

per che io sento al cor novelle pene,

tal ch'io non credo si sentisser mai;

e veramente io credo che ci tene

quel signore in balia, che già assai

volte udi' ricordar, cioè Amore,

ladro sottil di ciascun gentil core.

 

23

 

E dicoti che già sua prigionia

m'è grave più che quella di Teseo;

già più d'affanno nella mente mia

sento, ch'io non credea che questo iddeo

donar potesse; e gran nostra follia

a quella finestretta far ci feo,

quando colei cantava tanto vaga,

che già per lei di morte il cor si smaga.

 

24

 

Io mi sento di lei preso e legato,

né per me trovo nessuna speranza;

anzi mi veggo qui imprigionato

e ispogliato d'ogni mia possanza;

dunque che posso far che le sia in grato?

Nulla; ma ne morrò sanza fallanza;

e or volesse Iddio ch'io fossi morto!

Questo mi fora sommo e gran conforto.

 

25

 

Oh, quanto ne sarieno a tal fedita

gli argomenti esculapii buoni e sani!

Il qual dice om che tornerebbe in vita

con erbe i lacerati corpi umani.

Ma che dich'io, poi ch'Apollo, sentita

cotal saetta, che' sughi mondani

tutti conobbe, non seppe vedere

medela a sé che potesse valere? –

 

26

 

Così ragionan li due nuovi amanti,

e l'un l'altro conforta nel parlare;

né san se questa è dea ne' regni santi

che sia qua giù venuta ad abitare,

o se donna mondana; e li suoi canti

e le bellezze li fan dubitare;

per che, ignoranti di chi sì gli ha presi,

molto si dolgon, da dolore offesi.

 

27

 

Né escon delle sicule caverne,

allora ch'Eol l'apre, sì furenti,

ora le basse e ora le superne

parti cercando, li rabbiosi venti,

come costor delle parti più interne

producean fuor sospiri assai cocenti,

ma con picciole voci, perché ancora

era la piaga fresca che gli accora.

 

28

 

Continuando adunque il gir costei,

sola tal volta e tal con compagnia,

nel bel giardino a diporto di lei,

nascosamente gli occhi tuttavia

drizzava alla finestra, ove l'omei

prima di Palemone udito avia:

non che a ciò amor la costrignesse,

ma per veder se altri la vedesse.

 

29

 

E se ella vedeva riguardarsi,

quasi di ciò non si fosse avveduta,

cantando cominciava a dilettarsi

in voce dilettevole e arguta;

e su per l'erbe con li passi scarsi

fra gli albuscelli, d'umiltà vestuta,

donnescamente giva e s'ingegnava

di più piacere a chi la riguardava.

 

30

 

Né la recava a ciò pensier d'amore

che ella avesse, ma la vanitate,

che innata han le femine nel core,

di fare altrui veder la lor biltate;

e quasi nude d'ogni altro valore,

contente son di quella esser lodate,

e per quel di piacer sé ingegnando,

pigliano altrui, sé libere servando.

 

31

 

Li due novelli amanti ogni mattino,

nello apparir primier dell'aurora

levati, rimiravan nel giardino

per veder se in quel venuta ancora

fosse colei il cui viso divino

oltre ad ogni misura gl'innamora;

né di quel loco si potean levare

mentre lei nel giardin vedeano stare.

 

32

 

E' si credevan, mirandola bene,

saziar l'ardente sete del disio

e minor far le lor gravose pene:

e essi più dal valoroso iddio

Cupido si stringean nelle catene;

e or con lieto aspetto e or con pio

si dimostravan rimirando quella,

sol per piacere a lei quanto a loro ella.

 

33

 

E come avven che 'l dente del serpente

pria lede altrui con picciola morsura,

sé dilatando poi subitamente

offusca il membro della sua mistura,

poi l'uno a l'altro successivamente,

infin che 'l corpo tutto quanto oscura;

così costor di dì in dì, mirando,

d'amore il fuoco gieno aumentando.

 

34

 

E sì per tutto l'avevan raccolto,

che ogni altro pensier dato avea loco

e a ciascun già si parea nel volto

per le vigilie lunghe e per lo poco

cibo che e' prendean; ma di ciò molto

davan la colpa a l'allegrezza e 'l gioco

ch'aver soleano, e ora eran prigioni;

così coprendo le vere cagioni.

 

35

 

E da' sospiri già a lagrimare

eran venuti, e se non fosse stato

che 'l loro amor non volean palesare,

sovente avrian per angoscia gridato.

E così sa Amore adoperare

a cui più per servigio è obligato:

colui il sa che tal volta fu preso

da lui e da cota' dolori offeso.

 

36

 

Era a costor della memoria uscita

l'antica Tebe e 'l loro alto legnaggio,

e similmente se n'era partita

la 'nfelicità loro, e il dammaggio

ch'avevan ricevuto, e la lor vita

ch'era cattiva, e 'l lor grande eretaggio;

e dove queste cose esser soleano

Emilia solamente vi teneano.

 

37

 

Né era lor troppo sommo disire

che Teseo gli traesse di prigione,

pensandosi ch'a lor converria gire

in esilio in qualch'altra regione,

né più potrebber veder né udire

il fior di tutte le donne amazone;

ver è ch'uscir di lì per sommo bene

disideravano, e starsi in Attene.

 

38

 

Così costor da amor faticati,

vedendo questa donna, il loro ardore

più leve sostenean; poi ritornati,

partita lei, nel lor primo furore,

in lor conforto versi misurati

sovente componean, l'alto valore

di lei cantando; e in cotale effetto

nelli lor mal sentieno alcun diletto.

 

39

 

E non sappiendo ben chi ella fosse

ancora, un dì un lor fante chiamaro,

al quale Arcita ta' parole mosse:

– Deh, dinne per amore, amico caro,

sai tu chi sia colei che dimostrosse

l'altrieri a noi, cantando tanto chiaro,

in quel giardino? Haila tu mai veduta

in altra parte, o è dal ciel venuta? –

 

40

 

Il valletto rispose prestamente:

– Questa è Emilia, suora alla reina,

più ch'altra che nel mondo sia piacente;

la qual, perché ancor molto fantina,

al giardin se ne vien sicuramente,

sanza fallir giammai, ogni mattina;

e canta me' che mai cantasse Appollo,

e io l'ho già udita, e così sollo. –

 

41

 

Disser fra lor costoro: – E' dice il vero;

ell'è bene essa che n'ha tolto il core

e a lei volto ogni nostro pensiero;

e ciaschedun di noi albergatore

di pianti e di sospiri e di severo

tormento ha fatti e d'ogni altro dolore

con tanta forza sé fa disiare

con la bellezza che in lei appare! –

 

42

 

Così li due amanti con sospiri

vivevan tutto il giorno discontenti,

e vegnente 'l mattino i lor martiri

avevan sosta, infin gli occhi lucenti

vedean d'Emilia, che li lor disiri

ciaschedun'ora facean più ferventi;

e così visser mentre fu la state,

con doglia insieme e con soavitate.

 

43

 

Ma poi ch'al mondo tolse la bellezza

Libra ch'aveva donata Ariete,

li due amanti perder la dolcezza

che quietava lor focosa sete,

ciò è vedere la somma chiarezza

che gli teneva d'amor nella rete;

donde rimaser dolorosi forte,

chiamando giorno e notte sempre morte.

 

44

 

Il tempo aveva cambiato sembiante

e l'aere piangea tutto guazzoso;

secche eran l'erbe e spogliate le piante,

e 'l popol d'Eol correa tempestoso

or qua or là nel tristo mondo errante;

per che Emilia col viso amoroso,

lasciati li giardin, sempre si stava

in camera e del tempo non curava.

 

45

 

Allor tornarono i martiri e' pianti,

gli aspri tormenti e le noie angosciose

in doppio a ciaschedun de' due amanti,

e non vedevan né udivan cose

che lor piacesse; e così tutti quanti

si consumavano in pene dogliose;

e ciaschedun disperar si volea,

ma pure in fine se ne ritenea.

 

46

 

Grandi erano i sospiri e il tormento

di ciascheduno, e l'esser prigionati

vie più che mai faceva discontento

ciascun di loro, a tal punto recati;

e ogni giorno lor pareva cento

che fosser morti o quindi liberati,

e per lor solo e unico conforto

Emilia chiamavan, lor diporto.

 

 

Come Arcita fu tratto di prigione ad istanzia di Peritoo

 

47

 

In questo tempo un nobil giovinetto,

chiamato Peritoo, venne a vedere

Teseo, suo caro amico; e con diletto

un dì si poser parlando a sedere;

e ragionando, a Teseo venne detto

de' due Teban li qua' facea tenere

imprigionati, Arcita e Palemone,

ciaschedun grande e nobile barone.

 

48

 

Allora Peritoo il prese a pregare

che li dovesse far veder costoro;

per che Teseo per lor fece mandare

e li si fé venir sanza dimoro.

Essi eran belli e di nobile affare,

e ben parea la gentilezza loro

nella forma e nell'abito ch'aveano,

posto ch'alquanto scolorati seano.

La forma e l'esser di Palemone.

 

49

 

Era Palemon grande e ben membruto,

brunetto alquanto e nello aspetto lieto,

con dolce sguardo e nel parlare arguto;

ma ne' sembianti umile e mansueto,

poi che fu innamorato, divenuto;

d'alto intelletto e d'operar secreto,

di pel rossetto e assai grazioso,

di moto grave e d'ardir copioso.

 

 

La forma e l'esser d'Arcita

 

50

 

Arcita era assai grande ma sottile,

non di soperchio, e di sembianza lieta;

bianco e vermiglio com rosa d'aprile,

e' cape' biondi e crespi, e mansueta

statura aveva, e abito gentile;

gli occhi avea belli e guardatura queta;

ma nel parlar gran coraggio mostrava,

e destro e visto assai a chi 'l mirava.

 

51

 

Conobbe Peritoo, nel lor venire,

Arcita e 'ncontro li si fu levato,

e abbracciollo e cominciolli a dire:

– O caro amico, come se' tu stato

qui tanto sanza farlomi sentire,

ché l'uscir di prigion t'avre' impetrato?

Mal grado n'abbi tu, ché ti sta bene

d'avere avute queste e maggior pene. –

 

52

 

Poi si rivolse a Teseo, suo amico,

dicendo: – Se giammai per mio amore

nulla facesti, quel ch'ora ti dico

ti priego facci, dolce mio signore,

che questo Arcita, mio compagno antico,

facci che di prigione egli esca fore;

io ten sarò tutto tempo tenuto,

e elli, in ciò che per te fia voluto. –

 

53

 

Teseo rispose: – Dolce amico caro,

ciò che tu mi domandi sarà fatto,

ma odi come, non ti sia discaro.

I' 'l trarrò di prigion con questo patto,

che nel mio regno e' non faccia riparo,

né ci venga giammai per nessuno atto;

ch'io l'ho disfatto e tenuto in prigione,

perch'a dritto di lui ho sospeccione.

 

54

 

S'io cel prendessi, io gli farò tagliare

la testa sanza fallo immantanente;

però, se vuol cotal patto pigliare,

vada dove li piace di presente

per lo tuo amor, che lo mi fai lasciare;

ché altramente mai al suo vivente

uscito non saria di prigionia,

ben lo ti giuro per la fede mia. –

 

55

 

Peritoo disse: – E io vo' ch'elli il faccia

e te ringrazio di cotanto dono. –

E tosto i ferri da' piè li dislaccia,

e libero lui lascia in abandono.

Arcita s'inginocchia e sì l'abraccia,

dicendo: – Peritoo, dovunque io sono,

son tutto tuo, e ciò ch'io posso fare,

sol che ti piaccia a me tuo comandare. –

 

56

 

Poi se n'andò innanzi al gran Teseo,

ginocchion disse: – Nobil signore,

se per me cosa incontro a te si feo

giammai, perdona per lo tuo onore,

ch'altro per me al ver non si poteo;

il danno che m'hai fatto e 'l disinore

i' 'l ti perdono, e ti ringrazio assai

di questa grazia ch'agual fatta m'hai.

 

57

 

E in che che parte io me ne debba gire,

son tutto tuo, quando ti sia in piacere;

non men che vita avrò caro il morire

per te, pur che ci sia il tuo volere.

A così grande e fervente disire

mi pinge Amor, che m'ha nel suo potere,

e a te e a' tuoi sì obligato,

ch'io sarò sempre tuo in ogni lato. –

 

58

 

Teseo cotal parlar non intendea

donde venisse, ma semplicemente

di puro cuor le parole prendea;

e però fé venir subitamente

nobili doni, e disse li piacea

che, oltre a quel ch'è 'ntra lor convenente,

e' pigliasse que' doni e glien portasse,

e del patto e di que' si ricordasse.

 

59

 

Arcita, a cui niente avea lasciato

la misera fortuna, bisognoso

ebbe i don di Teseo non poco a grato,

e poscia, con uno atto assai pietoso,

piangendo prese da Teseo commiato,

e del palagio discese doglioso,

pensando al suo esilio che 'l doveva

privar di veder ciò che li piaceva.

 

60

 

Ma Palemon, vedendo queste cose,

quasi nel cor moriva di dolore

per la fortuna sua, che più noiose

cose serbava al suo misero core,

e pel compagno suo, al qual gioiose

credea novelle del comune amore;

e quasi prese nova gelosia

di ciò ch'ancor non aveva in balia.

 

61

 

Esso fu rimenato alla prigione,

e Peritoo se ne gì con Arcita

e disse: – Caro amico e compagnone,

la voglia di Teseo tu l'hai udita;

ben che 'l tempo sia duro e la stagione,

e' si pur vuol pensar della partita;

ben me ne pesa, e sappi, s'io potessi,

non vorrei mai da me ti dividessi.

 

62

 

Io sì ti donerò arme e destrieri

di gran valore, belle e ben fornite,

per te e anco per li tuo' scudieri;

e poi, dove vi piace, ve ne gite;

tu se' di nobil sangue e buon guerrieri,

nato di genti valenti e ardite,

e non potrai fallire ad alto stato:

dove ch'arrivi, e' ti sarà donato. –

 

63

 

Arcita li rispose lagrimando

e ringraziollo del proferto onore,

e poi li disse: – Bello amico, quando

la mia partita è a grado al signore,

io la farò; ma sempre lamentando

andrò la mia fortuna con dolore,

poi c'ho perduto ciò ch'al mondo avea,

e converrà che d'altrui servo stea.

 

64

 

E certo io non conosco a cui servire

con maggior fede e con minor fatica

io possa ch'a Teseo, che dal morire

mi tolse, presso alla mia terra antica;

ma poi non vuol, convemmi intorno gire,

né so che farmi e vie men ch'io mi dica.

Or foss'io qui rimaso per servente

di chi si fosse, e non vi dria niente!

 

65

 

Non sai tu, Peritoo, come l'andare

attorno per lo mondo pien d'affanni

m'è conceduto? E' ti de' ricordare

ch'ancor non son trapassati due anni,

che sei gran re per lo nostro operare

fur morti a Tebe, e gravissimi danni

n'ebber gli Argivi e popoli altri assai,

per che odiati sarén sempre mai.

 

66

 

E oltre a ciò l'iddii ne sono avversi:

come tu sai, antica nimistate

serva Giunon ver noi, e diè perversi

mali a color che passar questa etate;

e noi ancor perseguendo ha somersi,

come tu vedi, in infelicitate

estrema; e Ercul né Bacco n'aiuta,

per che io tengo mia vita perduta. –

 

67

 

Queste parole facea dire Amore;

ma Peritoo non le conosceva,

sì come que' che non sapea l'ardore

che per Emilia dentro l'accendeva;

e però pur con purità di core

lui confortava, e spesso li diceva:

– Deh, non pensar che ti fallin l'iddii

che tu non abbi ancor quel che disii.

 

68

 

Molti altri regni ci ha dove potrai

miglior fortuna attender pianamente,

così com'io; e tu udito l'hai

che del qui rimaner saria niente

il ragionare, e a me parve assai

ricever pur quand'io liberamente

ti trassi di prigion; sie valoroso,

ché Dio non mancò mai a virtuoso. –

 

69

 

Poscia che Arcita, doppio ragionando

con Peritoo, sentì che 'l rimanere

non avea luogo, in sé stette pensando;

e tornandoli a mente che vedere

Emilia non potrebbe, essendo in bando,

quasi vicin fu a dir di volere

innanzi la prigion che tale esilio,

sospignendolo amore a tal consilio.

 

70

 

Ma la ragion, che subita prevenne

alla volontà folle di costui,

con tre buoni argomenti appena il tenne,

dicendo: «Se tu di' questo ad altrui,

e' non fia detto: "Amore il ci ritenne",

ma: "Non credendo sé valer, per lui

donato s'è a questa gran viltate,

prima ch'abbia voluta libertate".

 

71

 

E oltre a questo, se di prigion fora

se', molte cose potranno avvenire

che in istato ti porranno ancora;

e se 'n palese non potrai venire

in questa terra, come vorresti, ora,

forse altro tempo ci potrai reddire;

e se non in palese, almeno ascoso,

tanto che veggi il bel viso amoroso.

 

72

 

E se e' fosse tanta tua ventura

che 'n altro regno ella si maritasse,

non ti sarebbe soperchia sciagura

se in prigione allora ti trovasse?

Il che s'avien, con sollecita cura

esser potrai là dovunque ella andasse;

e posto che sua grazia non acquisti,

pur la vedranno almen gli occhi tuoi tristi».

 

73

 

Questi consigli distolser Arcita

dal suo sconcio e reo intendimento,

e confortossi l'anima invilita,

in ciò sperando; e preso il guarnimento

da Peritoo proferto, fé partita,

sé offerendo al suo comandamento,

dove che fosse, e sé raccomandando,

co' suoi scudier se ne gì sospirando.

 

 

Come Arcita, preso commiato da Palemone, uscì d'Attene

 

74

 

Da Peritoo partito, se ne gio

dov'era Palemone imprigionato,

e sì li disse: – Caro amico mio,

da te convien che io prenda commiato

e ch'io mi parta, contro al mio disio,

sì come fuor bandito e iscacciato;

né ci oserò, credo, tornar giammai,

ond'io morrò in dolorosi guai.

 

75

 

Io me ne vo, o caro compagnone,

con redine a fortuna abandonate,

e vorria inanzi certo esta prigione,

che isbandito usar mia libertate;

almen vedrei alla nuova stagione

colei che ha 'l mio core in potestate,

ché mai, partito, vederla non spero,

ond'io morrò di doglia, questo è 'l vero.

 

76

 

Io lascio l'alma qui innamorata

e fuor di me vagabundo piangendo

men vo, né so là dove l'adirata

fortuna mi porrà così languendo;

per ch'io ti priego, s'alcuna fiata

vedi colei per cu' i' ardo e incendo,

che tu le raccomandi pianamente

que' che morendo va per lei dolente. –

 

77

 

Mentre 'n tal guisa favellava Arcita,

Palemon sempre lagrimava forte,

dicendo: – Lassa, trista la mia vita!

Perché non mi confonde tosto morte,

acciò che prima della tua partita

fosse finita la mia trista sorte?

Ché sanza te in doglioso tormento

rimango, lasso! tristo e iscontento.

 

78

 

Ma tu, se savio se' sì come suoli,

dei di fortuna assai bene sperare

e alquanto mancar delli tuoi duoli,

pensando ch'assai puoi adoperare,

libero come se' di quel che vuoli,

là dove a me conviene ozioso stare:

tu vederai andando molte cose

ch'alleggeranno tue pene amorose.

 

79

 

Ma io, che sol rimango, a poco a poco

verrò mancando come cera ardente;

e ben che tal fiata mi dea gioco

il riguardare il bel viso piacente,

tutto mi fia uno accender più foco,

come a me più non dimorrà presente;

ond'io non so omai quel ch'io mi faccia,

e par che 'l cuore in corpo mi si sfaccia. –

 

80

 

Così piangean con amari sospiri

li due compagni forte innamorati,

e parean divenuti due disiri

di pianger forte, sì eran bagnati;

per che, tra lor crescendo i lor martiri,

da' lor valletti furon rilevati

e della lor follia forte ripresi

del mostrarsi d'amor cotanto accesi.

 

81

 

Allora i due compagni si levaro

per le parole de' loro scudieri,

e amenduni stretti s'abracciaro

di buono amor e di cuor volontieri,

e poco appresso in bocca si basciaro,

e più che prima nel lagrimar fieri,

con rotta voce si dissero addio.

E così quindi Arcita si partio.

 

82

 

Nulla restava a far più ad Arcita

se non di girsen via, e già montato

era a caval per far sua dipartita,

fra sé dicendo: «O lasso sconsolato!

Sol tanto fosse a Dio cara mia vita

ch'io solo un poco il viso dilicato

d'Emilia vedessi anzi 'l partire,

poi men dolente me ne potrei gire».

 

83

 

Passò i cieli allor quella preghiera,

e seguì tosto d'Arcita l'affetto,

ché quel giglio novel di primavera

sovr'un balcone appoggiata col petto

si venne a star, con una cameriera,

mirando il grazioso giovinetto

che in esilio dolente n'andava,

e compassione alquanto gli portava.

 

84

 

Ma esso dopo il priego alzò il viso,

incerto del futuro, e vide allora

l'angelico piacer di paradiso;

per ch'el disse con seco: «Omai se fora

di qui mi to' fortuna, e' m'è avviso

non poter male avere». E quindi ancora

la riguardò, dicendo: «Anima mia,

piangendo sanza te me ne vo via».

 

85

 

E così detto, per fornir la 'mposta

fattoli da Teseo, a cavalcare

incominciò; ma dolente si scosta

dal suo disio, il qual quanto mirare

poté il mirò, pigliando talor sosta,

vista faccendo di sé racconciare;

ma non avendo più luogo lo stallo,

uscì piangendo d'Attene a cavallo.

 

Qui finisce il terzo libro di Teseida

 

 

 

LIBRO QUARTO

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del quarto libro

 

 

Dimostra il quarto dipartito Arcita

con greve tempo, e 'l suo ramaricare,

mutato il nome per sicura vita,

e di Boezia a Corinto l'andare;                                                4

 

e quindi appresso la sua dipartita,

e in Mecena poscia l'arrivare,

dove con Menelao con ismarrita

mente si pose per famiglio a stare.                                           8

 

Quindi ad Egina a Pelleo se ne vene,

e con lui non potendo lungamente

durar, non conosciuto entrò in Attene,                                     11

 

e di Teseo diventò servente;

quindi dimostra la vita che tene,

faccendol noto a Panfil primamente.                                        14

 

 

Incomincia il libro quarto del Teseida. E prima come Arcita con tempestoso tempo, mutatosi nome, ramaricandosi se ne va.

 

1

 

Quanto può fare il tempo più guazzoso,

cotanto allora il faceva Orione,

molto nel cielo allora poderoso

con le Pliade in sua operazione;

e Eol d'altra parte più ventoso

il faceva che mai, in quella stagione

ch'uscì d'Attena il doloroso Arcita

sanza speranza mai di far reddita.

 

2

 

Grande era l'acqua, il vento e 'l balenare

quel dì che Arcita si partì d'Attene,

dal termine costretto dell'andare,

posto che 'l dove e' non sapesse bene;

ma non pertanto, sol per sodisfare

a Peritoo, avendo ancora spene

del ritornar, dolente a capo chino

inver Boezia prese suo cammino.

 

3

 

Poco era ancor dalla terra partuto,

quand'elli a' suo' scudieri: – Amici cari,

io non intendo d'esser conosciuto,

mentre che duran questi tempi amari;

però che forse, se fosse saputo

là dov'io fossi, io non viverei guari;

e però non Arcita, ma Penteo

mi nominate in questo tempo reo. –

 

4

 

E poi con tempo iniquo camminando,

lo 'nnamorato Arcita si voltava

ispesse volte la città mirando,

e quindi, lei veduta, sospirava,

seco sovente così ragionando:

"Deh, quanto pò amor, poi che mi grava

partir del loco ch'io dovrei odiare,

se degnamente volessi operare!".

 

5

 

E quinci alla cagion che a ciò il traeva,

ciò era Emilia bella e graziosa,

subitamente l'animo volgeva;

onde con voce alquanto più pietosa,

fra sé parlando, misero diceva:

"O nobile donzella, o amorosa

più ch'altra fosse mai, esemplo degno

delle bellezze dello etterno regno,

 

6

 

dove, partendom'io contra volere,

posto che tu giammai non fosse mia,

essendo io tuo, ti lascio, o bel piacere?

Perché non m'era la prigion men ria,

potendo alcuna volta te vedere,

ch'avere il mondo tutto in mia balia

sanza di te, che io più che me amo,

né altra cosa ch'al mondo sia bramo.

 

7

 

Deh, se io fossi en la mia libertate

dimorato in Attene tanto ch'io

un poco pur la tua novella etate

avessi, omè, accesa del disio

del quale io ardo, credo in veritate

ch'io sentire' il lungo esilio mio

con men dolor, sentendo que' sospiri

in te per me c'ho per te, e' disiri.

 

8

 

Ma tu appena non conosci amore

non che tu m'ami, e però non ti cale

del mio intollerabile dolore,

né puoi compassione al mio gran male

portare; e ciò che mi dà duol maggiore

e con asprezza più il cor m'asale,

è che mi par vederti maritata

ad uom che mai non t'avrà più amata.

 

9

 

E così 'l mio fedele e buon servire

sarà perduto, e angosciosamente

lontano a te mi converrà morire.

Deh, or foss'io pur certo solamente

che per tal morte tu dovessi dire:

"Certo costui amò ben fedelmente;

e' me ne incresce!". Poi, dove ch'io gissi,

altro che ben non credo ch'io sentissi.

 

10

 

Deh, lasso me!, or che vo io cercando

ne' sospir dispietati e angosciosi,

che in me ognora van multiplicando,

ciò che esser non pò? O tenebrosi

regni di Dite, s'alcun tormentando

in voi tenete, dite che si posi,

poiché vivendo io son colui che porto

sol pena più che altro vivo o morto".

 

11

 

Poi ad Amor le sue voci volgea

con troppo più orribile favella

dolendosi di lui; poscia dicea:

"Omè, Fortuna dispietata e fella,

che t'ho io fatto che sì mi se' rea?

O Morte trista, vien, che 'l cor t'appella;

coniugni me, col tuo colpo feroce,

co' miei passati nella infernal foce".

 

 

Come Penteo pervenne in Boezia, e quel che disse vedendo Tebe disabitata

 

12

 

Così piangendo con seco Penteo,

più doloroso assai che non appare,

il dì secondo del regno d'Egeo

uscì co' suoi, e cominciò a intrare

in quel nel qual già felice poteo,

cioè in Boezia; e dopo alquanto andare,

Parnaso avendo dietro a sé lasciato,

alla distrutta Tebe fu arrivato.

 

13

 

E' vide tutta quella regione

esser diserta allora d'abitanti,

per ch'elli incominciò: "O Anfione,

se tu, intanto che co' dolci canti

della tua lira, tocca con ragione,

per chiuder Tebe i monti circustanti

chiamasti, avessi immaginato questo,

forse ti saria suto il suon molesto.

 

14

 

Dove sono ora le case eminenti

del nostro primo Cadmo? Dove sono,

o Semelè, le camere piacenti

per te a quel che del più alto trono

governa il cielo, e per le qua' le genti

tebane mai non meritar perdono

da Iuno? E quelle dove son d'Almena,

che doppia notte volle a farsi plena?

 

15

 

Ove di Dionisio appaiono ora,

misero me, li triunfi indiani?

Deh, dove son gli eccelsi segni ancora

de' popoli silvestri libiani?

Nessun qui al presente ne dimora:

li re son morti, e voi, tristi Tebani,

dispersi gite, e 'n cenere è tornato

ciò che di voi fu già molto lodato.

 

16

 

Ov'è lo spesso popolo, ove Laio,

ove Edippo dolente, ove i figliuoli?

Ogni cosa ha distrutto il fuoco graio;

e per multiplicar li nostri duoli

con vergogna, le femine il primaio

v'accesero. O Iunon, dunque che vuoli

del nostro miser sangue più omai?

Non ti pare aver fatto ancora assai?

 

17

 

Piccola forza omai al tuo furore

finire ha luogo, ch'io e Palemone,

né altro più, del sangue d'Agenore

rimasi siamo; e elli è in prigione,

e io in tristo esilio; né piggiore

stato potresti donarci, o Iunone,

fuor se ci uccidi; e questo per conforto

disidera ciascun, d'esser già morto".

 

 

Come Penteo, partitosi di Boezia, andò a Corinto, e quindi in Mecena

 

18

 

E detto ciò, con ira sospirando,

da quella torse il viso disdegnoso,

co' suo' scudieri inver Corinto andando;

nella qual giunto, assai piccol riposo

fece, ma ver Mecena cavalcando,

in essa quasi fuor di sé pensoso

pervenne, e quivi così sconosciuto

a servir Menelao fu ricevuto.

 

19

 

Egli era ancora molto giovinetto,

sì come il barba non aver mostrava;

bello era assai e di gentile aspetto,

e a gran pena quel ch'era celava;

ben l'avea fatto alquanto palidetto

l'amorosa fatica che portava,

ma non sì ch'elli molto non piacesse

a chiunque era que' che lui vedesse.

 

20

 

Egli era già vicin d'uno anno stato

con Menelao in gran doglia e tormento,

né mai, ben che n'avesse domandato

celatamente, del suo intendimento

niuna cosa n'aveva spiato;

per che ad Egina li venne in talento

d'andar, là dove reggeva Pelleo,

e, concedendol Menelao, il feo.

 

21

 

Quivi sperava di potere udire

d'Emilia novelle tal fiata;

questa sola cagion vel fece gire.

Elli avea già la forma sì mutata,

né di sé cosa alcuna sentia dire,

sì ch'a fidanza con la sua brigata

prese 'l cammino e gissene ad Egina,

là dove giunse la terza mattina.

 

 

Come Penteo in guisa di povero valletto si pose a stare con Pelleo

 

22

 

Quivi in maniera di pover valletto,

non delli suoi maggior ma compagnone,

al servigio del re sanza sospetto

fu ricevuto e messo in commessione

e ubidendo a ciò che gli era detto,

si fece a modo che un vil garzone,

acciò che e' potesse lì durare,

fin che fortuna li volesse atare.

 

23

 

Quivi con seco sovente piangeva

la sua fortuna e la sua trista vita,

e spesse volte con sospir diceva:

"Ahi, doglioso più ch'altro e tristo Arcita!

Se' fatto fante, laddove soleva

esser tua casa di fanti guarnita;

così fortuna insieme e povertate

t'ha concio, e il voler tua libertate.

 

24

 

Per libero esser, più servo che mai

se' divenuto, misero dolente!

Ahi, real sangue, che vitupero hai

sed e' mi conoscesse questa gente!

Certo per mio peccar nol meritai,

ma di Creon la dispietata mente

di questo, lasso!, m' è cagione stato,

e ancor dello stare imprigionato".

 

25

 

Così senza nell'animo riposo

aver giammai, in doglia sempre stava;

e l'esser già istato glorioso

vie più che gli altri danni il tormentava;

e vorria inanzi sempre bisognoso

essere stato e in vita trista e prava,

ch'avere avuto tal fiata bene

e ora sostener noiose pene.

 

26

 

E ben che di più cose e' fosse afflitto

e che di viver gli giovasse poco,

sopra ogn'altra cosa era trafitto

d'amor nel core, e non trovava loco;

e giorno e notte sanza alcun respitto

sospir gittava caldi come foco,

e lagrimando sovente doleasi,

e ben nel viso il suo dolor pareasi.

 

27

 

Egli era tutto quanto divenuto

sì magro, che assai agevolmente

ciascun suo osso si saria veduto;

né credo ch'Erisitone altramente

fosse nel viso che esso paruto

nel tempo della sua fame dolente;

e non pur solamente palido era,

ma la sua pelle parea quasi nera.

 

28

 

E nella testa appena si vedeano

gli occhi dolenti; e le guance, lanute

di folto pelo e nuovo, non pareano;

e le sue ciglia pelose e acute

a riguardare orribile il faceano

le come tutte rigide e irsute;

e sì era del tutto tramutato,

che nullo non l'avria raffigurato.

 

29

 

La voce similmente era fuggita

e ancora la forza corporale;

per che a tutti una cosa reddita

qua su di sopra dal chiostro infernale

parea, più tosto ch'altra stata in vita;

né la cagion onde venia tal male

giammai da lui nessun saputa avea,

ma una per un'altra ne dicea.

 

30

 

Come d'Attene lì nessun venia,

onestamente e con savio parlare

di molte cose domandandol pria,

d'Emilia trascorrea nel ragionare,

addomandando s'ella fosse o fia

nelli tempi vicin per maritare,

e d'altre cose circustanti molte;

ben che ciò gli avenisse rade volte.

 

 

Come e perché Penteo si dispose di tornare ad Attene

 

31

 

Ma i dolenti fati, i qua' tirando

gian d'una in altra miseria costui,

vegnendosi il suo fine appropinquando,

con poca festa rallegraron lui,

diversamente l'opere menando

quando per esso e quando per altrui;

fin ch'al veduto termine pervenne,

dove si ruppe il fil che 'n vita il tenne.

 

32

 

Per avventura un dì, come era usato,

Penteo soletto alla marina gio,

e 'nverso Attene col viso voltato

mirava fisamente e con disio;

e quasi il vento ch'indi era spirato

più ch'altro li pareva mite e pio,

e ricevendol dicea seco stesso:

"Questo fu ad Emilia molto appresso".

 

33

 

E mentre che 'n tal guisa dimorava,

una barchetta dentro al porto entrare

vide; laonde ad essa s'appressava,

e cominciò di loro a domandare

donde venisse; e un che 'n essa stava

disse: – D'Attene, e là crediam tornare

assai di corto; s'tu vorrai venire,

qui su potrai con esso noi salire. –

 

34

 

A cotal voce sospirò Penteo;

poi, tratto quel da parte, pianamente

il domandò che era di Teseo,

e di più cose diligentemente,

a le qua' tutte que' li sodisfeo;

ma poi della reina ultimamente

e della bella Emilia domandando,

così que' li rispose al suo domando.

 

35

 

– Qualunque dea nel cielo è più bella,

nel cospetto di lei parrebbe oscura;

ell'è più chiara che alcuna stella,

né dicesi che mai bella figura

fosse veduta tanto come quella;

ver è che per la sua disaventura

l'altrier morì Acate, a cui sposa

esser doveva quella fresca rosa. –

 

36

 

E altre cose molte più li disse,

le qua' misor Penteo in gran pensiero;

e 'l tramortito amor quasi rivisse,

e il disio più focoso e più fiero

parve subitamente divenisse;

né ciò li parve a sostener leggiero,

e in sé conobbe che 'n tal disiare

non potrebbe or, come già fé, durare.

 

37

 

E' si sentiva sì venuto meno,

ch'appena si poteva sostenere;

onde, se a quelle pene che 'l coceno

nol medicasse l'Emilia vedere,

assai in brieve lui ucciderieno;

per che diliberò pur di volere

in ogni modo tornare ad Attene

ad alleggiare o a finir sue pene

 

38

 

fra sé dicendo: "Io son sì trasmutato

da quel ch'esser solea, che conosciuto

io non sarò, e vivrò consolato,

me ristorando del mal c'ho avuto,

vedendo il bello aspetto ove fu nato

il disio che mi tene e ha tenuto;

e s'al servigio di Teseo potessi

esser, non so che poi più mi chiedessi.

 

39

 

Se forse è sì crudel la mia ventura

ch'io sia riconosciuto, e' m'è il morire

vie più grazioso che vita sì dura,

come io fo in sempre mai languire".

Poi in su tal proposta s'asicura

e si dispon del tutto a ciò seguire;

e mille anni gli par che a ciò sia,

tanto vedere Emilia disia.

 

 

Come Penteo tornò in Attene

 

40

 

E' non tardò di metter ad effetto

cotal pensiero, anzi commiato prese,

e 'nver di quella navicò soletto;

e 'n pochi giorni lì giunto discese

in maniera di povero valletto,

e in Attene con tema si mise;

e acciò ch'elli Emilia vedesse,

stette più dì, né fu chi 'l conoscesse.

 

41

 

Quando s'avide ben ch'era del tutto

fuor delle menti di tutte persone,

e che l'angoscia e 'l doloroso lutto

ora li torna in consolazione,

disse fra sé: "Ancor sentirò frutto

della mia lunga tribulazione;

e la fortuna, a me stata nemica,

sotto altro aspetto mi fia forse amica".

 

 

Come Penteo andò nel tempio d'Apollo ad adorare

 

42

 

Quinci agli eccelsi templi se ne gio

del grande Appollo, e 'nnanzi alle sue are

s'inginocchiò, e con sembiante pio

volendo quivi li suoi prieghi dare,

subito pianto molto lo 'mpedio,

venutoli da nuovo memorare

quel che già fu e quel che egli ora era

poi cominciò in sì fatta maniera:

 

43

 

– O luminoso Iddio che tutto vedi,

il cielo e 'l mondo e l'acque parimente,

e con luce continua procedi

tal che tenebra non t'è resistente,

e sì tra noi col tuo girar provedi

ched e' ci vive e nasce ogni semente,

volgi ver me il tuo occhio pietoso

e questa volta mi sie grazioso.

 

44

 

A me non legne, non fuoco, né incenso,

non degno armento a la tua deitate,

non lauree corone, e or pur censo

mi fosse a sodisfar necessitate;

e quinci vien che con giusto compenso

non son da me le tue are onorate,

e tu il ti vedi, ché di ciò ingannare

non ti potrei, perch'i' 'l volessi fare.

 

45

 

Di lagrime, d'affanni e di sospiri,

d'ogni infortunio e povertate intera

son io fornito, e ancor di disiri

d'amor, vie più che bisogno non m'era;

di questi a te che l'universo giri

fo sacrificii con nuova maniera;

prendili per accetti, io te ne priego,

e al mio domandar non metter niego.

 

46

 

Sì come te alcuna volta Amore

costrinse il chiaro cielo abandonare

e lungo Anfrisio, in forma di pastore,

del grande Ameto a gli armenti guardare,

così or me il possente signore

qui in Attene ha fatto ritornare,

contra 'l mandato che mi fé Teseo,

allor ch'a Peritoo mi rendeo.

 

47

 

E ben ch'angoscia transformato m'abbia,

e 'l nuovo nome, di ciò ch'io solea

altra volta esser, la smarrita labbia

priego mi servi o nuova in me la crea,

sotto la qual coverta la mia rabbia,

vedendo Emilia, contento mi stea,

e a servir Teseo sia ricevuto,

sanza mai esser lì riconosciuto.

 

48

 

Se ciò mi fai, e io sia rivestito

giammai del mio, sì come tu se' degno

t'onorerò. – E fu esaudito

d'ogni suo priego, e cognobbene segno;

per che dal tempio tosto dipartito,

a fornir sua intenzion lo 'ngegno

pose, e pensò come fatto venisse

ch'esser potesse che Teseo servisse.

 

 

Come Penteo fu ricevuto al servigio di Teseo, e come elli prima rivide Emilia, da lei solamente riconosciuto

 

49

 

Com'elli avea con seco immaginato,

così lo immaginar seguì l'effetto;

e s'elli avesse a lingua dimandato

non gli saria sì ben venuto detto,

però che fu con Teseo allogato,

né fu dell'esser suo preso sospetto,

né domandato fu chi fosse o donde:

così gli andaron le cose seconde!

 

50

 

E' non fu prima a tal partito giunto,

che 'l suo aspetto un pochetto più chiaro

si fé che pria parea così compunto,

e dipartissi il suo dolore amaro

il qual l'avea col lagrimar consunto,

e le sue membra forze ripigliaro;

ma tutte altre allegrezze furon nulla

a petto a quando vide la fanciulla.

 

51

 

Teseo, faccendo una mirabil festa,

tra l'altre donne Emilia fé venire,

la qual più ch'altra leggiadra e onesta,

piacevol, bella e molto da gradire,

ornata assai in una verde vesta,

tal che di sé ciascuno uom facea dire

lode maravigliose, e tal dicea

che veramente ell'era Citerea.

 

52

 

Ma oltre a tutti gli altri con disio

la rimirava più lieto Penteo,

dicendo seco: – O Giove, sommo iddio,

se e' mi fa omai morir Teseo,

alli tuoi regni me ne verrò io;

omai non mi può nuocer tempo reo,

e di buon cuor perdono alla fortuna

se mai di mal mi fece cosa alcuna,

 

53

 

poi ch'ella m'ha condotto a cotal porto,

ch'io veggio il chiaro viso di colei

ch'è sommo mio diletto e mio conforto.

Fuggan da me e sospiri e gli omei,

fugga 'l disio ch'aveva d'esser morto,

siemi ben sommo il rimirar costei;

questo mi basti. – E sì dicendo, fiso

sempre mirava l'angelico viso.

 

54

 

Maggior letizia non credo sentisse

allor Tereo quando li fu concesso

per Pandion che Filomena en gisse

alla sua suora in Trazia con esso,

che or Penteo; ma come ch'avenisse,

essendogli ella non molto di cesso,

inver di lui alquanto gli occhi alzati,

ebbe li suoi di botto affigurati.

 

55

 

Mirabil cosa a dir quella d'amore,

che rade volte è che la cosa amata,

quantunque ella abbia male abile core

d'esser per tale obietto innamorata,

pur nella mente porta l'amadore;

e quantunque ella si mostri adirata,

non le dispiace, e se non ama altrui,

poco o assai conven ch'ami colui.

 

56

 

Era, com'è già detto, giovinetta

Emilia tanto, ch'ella non sentia

quanto nel core amor punge o diletta,

allor ch'Arcita pria se n'andò via

le' rimirando, come su si detta;

il quale, ancor che la fortuna ria

così deforme l'avesse renduto,

da essa sola fu riconosciuto.

 

57

 

Ella nol vide prima che ridendo

con seco disse: "Questi è quello Arcita

il quale io vidi dipartir piangendo.

Ahi, misera dolente la sua vita!

Che fa e' qui? Or che va e' caendo?

Non conosc'el che se fosse sentita

la sua venuta da Teseo, morire

gli converrebbe o in prigion reddire?".

 

58

 

Vero è che tanto fu discreta e saggia,

che più di ciò non parlò ad alcuno,

e a lui fa sembianti che non l'aggia

giammai veduto più in loco nessuno;

ma ben si maraviglia quale scaggia

di bianco l'abbia così fatto bruno

e dimagrato, che par pur la fame

nel suo aspetto e pien di tutte brame.

 

59

 

Incominciò il nobile Penteo,

ammaestrato da fervente amore,

sì a servir sollecito a Teseo

e ad ogni altro per lo suo valore,

ch'elli in tutto suo segreto il feo,

amando lui più ch'altro servidore;

e 'l simile l'amava la reina

di buono amor, e ancor la fantina.

 

60

 

E ben che la fortuna l'aiutasse

e fosse a lui benigna ritornata,

mai dal diritto senno lui non trasse,

né 'l fece folleggiare una fiata;

e posto che ferventemente amasse,

sempre teneva sua voglia celata,

tanto ch'alcun non se ne accorse mai,

ben che facesse per amore assai.

 

61

 

Come io dico, saviamente amava,

né si lasciava a voglia trasportare,

e a luogo e a tempo rimirava

Emilia bella, e ben lo sapea fare;

e ella savia talor se ne addava,

mostrando non saper che fosse amare;

ma pur l'età già era innanzi tanto,

che ella conoscea di ciò alquanto.

 

62

 

Esso cantava e faceva gran festa;

faceva pruove e vestia riccamente,

e di ghirlande la sua bionda testa

ornava e facea bella assai sovente;

e 'n fatti d'arme facea manifesta

la sua virtù, che assai era possente;

ma duol sentiva, in quanto esso credea

Emilia non sentir per cui il facea.

 

63

 

Né e' non gliele ardiva a discovrire,

e isperava e non sapea in che cosa,

donde sentiva sovente martire;

ma per celar ben sua voglia amorosa,

e per lasciar li sospir fuori uscire

che facean troppo l'anima angosciosa,

avea in usanza tal volta soletto

d'andarsene a dormire in un boschetto.

 

64

 

E questo aveva in costuma di fare

nel tempo caldo, ch'era fresco il loco,

e era sì rimoto da l'andare

di ciaschedun, che ben poteva il foco

d'amor con voci fuor lasciare andare

e a sua posta lungamente e poco;

e non era lontano alla cittate

oltre tre miglia giuste misurate.

 

65

 

Egli era bello, e d'alberi novelli

tutto fronzuto e di nova verdura;

e era lieto di canti d'uccelli,

di chiare fonti fresche a dismisura,

che sopra l'erbe facevan ruscelli

freddi e nemici d'ogni gran calura;

conigli, lepri, cervi e cavriuoli

vi si prendean con cani e con lacciuoli.

 

66

 

Come io dico, in quello assai sovente,

quando con arme e quando senza, gire

Penteo usava, e 'n su l'erba ricente

sotto un bel pin si poneva a dormire,

a ciò invitato da l'acqua corrente

che mormorava; ma del suo disire

focoso, in prima che s'adormentasse,

con Amor convenia si lamentasse.

 

67

 

E cominciava così a parlare:

– Io non pensava, Amor, che tu potessi

tanto in un cuor d'uno uomo adoperare,

ch'al piacer d'una donna sì 'l traessi,

ch'ogni altra cosa il facessi obliare,

e in potenzia di lei tutto il ponessi,

come hai posto tutto quanto il mio,

che altro che servirla non disio.

 

68

 

Ma tu m'hai fatto in alcun caso torto,

però ch'io amo e non son punto amato,

ond'io non spero mai d'aver conforto;

e haimi sì tutto l'ardir levato,

che dir non l'oso, e tu te ne se' accorto,

perché troppo m'hai posto in alto lato

a quel ch'a mia fortuna si convene,

ché non son ricco d'altro che di pene.

 

69

 

Deh, quanto mi saria stata più cara

la morte ch'aspettar la tua saetta!

Oh, quanto dicer può che l'abbia amara

qualunque è que' che dolente l'aspetta,

però che in essa poco ben ripara

a rispetto del mal che ella getta!

E però s'io mi dolgo, io ho ragione,

vedendo me legato in tua prigione.

 

70

 

Ma tu se' tanto e tal, caro signore,

ch'ogni mia doglia puoi volvere in pace,

faccendo ch'ella mi senta nel core

quale essa dentro al mio sentir si face;

e io, sì come umil servidore,

ti priego il facci, Amor, se e' ti piace.

Deh, chi sarà di me poi più contento,

se per me pruova quel ch'io per lei sento?

 

71

 

Io viverò tutto tempo gioioso,

né biasmerò giammai tua signoria;

io ti farò sacrificio pietoso,

signor mio caro, della vita mia,

e sempre il tuo onore in grazioso

verso da me lieto cantato fia:

adunque fallo, se di me ti cale,

ch'io mi consumo per soverchio male. –

 

72

 

Questo ripete spesso con sospiri,

chiamando Emilia, e nel dir si contenta,

e quasi in mezzo delli suoi martiri

istanco tutto quivi s'adormenta;

e mentre il ciel co' suoi etterni giri

l'aere tien di vera luce spenta,

si stava, e sempre si svegliava allora

che da Titon partita ven l'Aurora.

 

73

 

Allor, sentendo cantar Filomena

che si fa lieta del morto Tereo,

si drizza, e 'l polo con vista serena

mirato un pezzo, lauda Penteo

la man di Giove d'ogni grazia piena,

che lavoro sì bello e grande feo;

poi ad Emilia il suo pensier voltava,

vedendo Citerea che si levava

 

74

 

mostrando innanzi al sol la sua chiarezza,

alla qual gli occhi d'Emilia lucenti

assomigliava e la mira bellezza;

e gli augelletti, del giorno contenti,

davan, cantando in su' rami, dolcezza,

per che a Penteo i pensier più cocenti

si facevano ognora, e più a quelli

dava gli orecchi, sì gli parean belli.

 

75

 

E quando aveva gran pezza ascoltato,

mirava inver lo cielo e sì dicea:

– O chiaro Febo, per cui luminato

è tutto il mondo, e tu piacente dea

del cui valor m'ha tuo figliuol piagato

vie troppo più che io non mi credea,

mettete in me sì del vostro valore,

che io non pera per soverchio amore.

 

76

 

Deh, date al mio amar fine piacente,

sì ch'io non moia per fedelmente amare;

per glovanezza Emilia non sente

che cosa sia ancora innamorare,

né come piace conosce niente,

se ad Amor non gliel fate mostrare;

e io non l'oso più fare assentire,

tanta è la mia paura del morire.

 

77

 

E così vivo in speranza dubbiosa,

e 'l mio adoperare è sanza frutto;

per ch'io ti priego, o Venere amorosa,

entrale in core omai, e me che tutto

son sanza fallo suo, fa che pietosa

senta, sì che si termini il mio lutto;

e tu, Febo, la fa tanto discreta,

che la mia voglia in sé ritenga cheta. –

 

78

 

E queste e altre più parole ancora

metteva in nota lo giovine amante;

ma poi che e' vedeva chiara l'ora

e le stelle partite tutte quante,

sanza far quivi più lunga dimora,

se ne veniva ad Attene festante,

e alla cambra del signor n'andava

per lui servir, se nulla bisognava.

 

 

Come Penteo, nel boschetto ramaricandosi, fu conosciuto da Panfilo

 

79

 

Questa maniera teneva Penteo

molto sovente, fuor d'ogni paura,

e a grado servendo il gran Teseo,

di suo amore ognora avea più cura;

ma poco n'avanzava, e di ciò reo

li parea molto, onde di sua sventura

una mattina con greve parlare

così si cominciò a ramarcare:

 

80

 

– O misera Fortuna de' viventi,

quanti dai moti spessi alle tue cose!

Deh, come abbassi li sangui e le genti,

e quando vuoli ancora graziose

le vilissime fai, e non consenti

di legge avere in esse mervigliose,

sì come uom vede in me che son verace

esemplo del girar che fai fallace.

 

81

 

Di real sangue, lasso!, generato,

venni nel mondo d'ogni pena ostello,

e con gran cura in ricchezza allevato,

nella città di Bacco tapinello

vissi e con gioia tenni grande stato,

sanza pensare al tuo operar fello;

poi per l'altrui peccato, non per mio,

la gioia e 'l regno e 'l sangue mio perio.

 

82

 

E fui del campo per morto,doglioso

feruto, tolto e recato a Teseo,

il qual, sì come signor poderoso,

come li piacque, imprigionar mi feo;

quivi, per farmi peggio, l'amoroso

dardo m'entrò nel cor, focoso e reo,

per la bellezza d'Emilia piacente,

che mai di me non si curò niente.

 

83

 

E cominciai di novo a sospirare

per tal cagione, e a sostener pene;

né mi pareva assai avere a fare

di sostener di Teseo le catene,

delle qua' Peritoo mi fé cacciare;

onde convenne partirmi d'Attene,

credendo aver mio affar migliorato,

e di gran lunga il trovai piggiorato;

 

84

 

ch'io mi trovai povero e pellegrino

del regno mio cacciato, e per amore

gir sospirando a guisa di tapino;

e là dove altra volta fui signore,

servo divenni per lo gran dichino

della fortuna; e non potendo il core

più sofferir, da Pelleo fei partita,

Penteo essendo tornato d'Arcita.

 

85

 

E sì d'Emilia strinse la bellezza,

che di Teseo cacciai via la paura,

e qui mi misi per la mia mattezza

a ritornare con mente sicura,

essendo suo nemico; alla sua altezza

divenni servidor con somma cura,

sì ch'io Emilia vedessi sovente,

colei ch'è donna mia veracemente.

 

86

 

E essa, omè, del mio greve tormento

nulla si cura né pensa este cose,

sì che io servo vie peggio ch'al vento,

e stonne sempre in pene dolorose;

e or m'avesser sol fatto contento

d'un bel guardarmi le luci amorose!

Ma tu, crudel Fortuna, mi ci nuoci,

ch'ognor con nuovo foco più mi coci.

 

87

 

Di tanto sol seconda mi se' stata,

che 'l nome mio hai ben tenuto cheto;

e ha' mi ancor tanta grazia donata,

che al servir m'hai fatto mansueto;

e di Teseo la grazia m'hai prestata,

di che io son vivuto molto lieto;

ma tutto è nulla, s'Emilia non fai

che com'io l'amo conosca oramai.

 

88

 

Io ardo e 'ncendo per lei tutto quanto,

e dì né notte non posso aver posa,

ma mi consumo e in sospiri e 'n pianto;

né mi pò confortare alcuna cosa,

se non Emilia cui io amo tanto,

mostrandomi la sua faccia amorosa,

dalla qual, morto, lei mirando vita

riprendo, tanta speranza m'aita. –

 

89

 

Così di sopra da l'erbe e da' fiori

Penteo la sua fortuna biasimava

un bel mattin, nel venir degli albori.

Allor per avventura indi passava

Panfilo, ch'era l'un de' servidori

di Palemone, e intento ascoltava

dello scudiere il gran ramarichio

di sua fortuna e ancor del disio.

 

90

 

E fra se stesso si fu ricordato

chi fosse Arcita, e udì che Penteo

nel suo ramaricar s'era chiamato,

per che tantosto lo riconosceo,

e molto seco s'è maravigliato

com'elli avea la grazia di Teseo:

non disse nulla, ma ver la prigione

se ne tornò per dirlo a Palemone.

 

91

 

Ma il giovine Penteo, di ciò ignorante,

come ora fu in Attene sen venne,

e con allegro viso e con festante

al loco ove era il suo signor pervenne;

col qual di molte cose ragionante,

sì com'elli era usato, si ritenne;

poi, partito da lui, gì a sapere

s'un poco Emilia potesse vedere.

 

Qui finisce il libro quarto del Teseida

 

 

 

LIBRO QUINTO

 

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro quinto

 

Marte, che troppo s'era riposato,

entrato in Palemon novo sospetto

il suo compagno udendo ritornato,

dimostra il quinto a lui entrar nel petto;                                     4

 

quindi dichiara lo 'ngegno trovato

a sprigionarlo dal savio valletto,

poi dal medico suo il mostra armato,

e lui orante conduce al boschetto.                                            8

 

Poscia le lor carezze, e 'l quistionare

d'ognun volere Emilia, e 'l fiero Marte

può chiaro assai chi più legge trovare;                                      11

 

quindi venendo Emilia d'una parte,

vedendo lor, Teseo fece chiamare,

il qual con patto lor, già noti, sparte.                                        14

 

 

Incomincia il libro quinto del Teseida. E prima come Palemone, pensoso rimaso in prigione, seppe che Arcita era tornato

 

1

 

Rimase Palemon, partito Arcita,

com'è già detto di sopra, in prigione,

e poco cara aveva la sua vita,

tanta sentiva più sconsolazione

che altro, e simil per la dipartita

la qual già fatta avea il suo compagnone;

e 'l tempo suo in lagrime e sospiri

tutto spendeva, pien d'aspri martiri.

 

2

 

In parte paurosa gelosia

lo stimola che Arcita, dell'amore

d'Emilia forse rinvestito, sia

per suo sollecitar di prigion fore;

e quinci pensa ch'Arcita si fia

dileguato del mondo per temore

dell'aspra morte che Teseo dicea

di darli se lì giunger lo potea.

 

3

 

Poi d'altra parte lo stringeva assai

amor più che l'usato, e disiare

li facea ciò ch'a lui non parea mai

possibil di potere appressimare;

speranza d'altra parte li suoi guai

faceva alquanto più lievi passare;

così di cose varie si gravava

dentro al pensiero, e simil s'alleggiava.

 

4

 

E pur portava nel core speranza

che di prigion quando che sie uscirebbe,

della qual fuor, l'amor della sua amanza

sanz'alcun fallo crede acquisterebbe;

e quasi li parea sanza fallanza

ch'ancor per sua nel mondo la terrebbe;

e 'n cotal guisa sua vita menando,

viveva in doglia e 'n gioia talora stando.

 

5

 

Al qual Panfil, tornando del boschetto,

venne in prigione e d'una parte il trasse;

e ragionando con esso soletto,

molto il pregò che non si sconfortasse,

e poi li disse senza alcun difetto

come conobbe Arcita, e ciò che trasse

del suo parlare, e ch'e' servia Teseo

e faceasi per nome dir Penteo.

 

6

 

Maravigliossi Palemone assai,

e disse: – Panfil, guarda non errassi;

ché io non credo che Arcita mai

né tu né altri per qua lo scontrassi. –

Rispose Panfil: – Certo sì scontrai,

e ancora è nel boschetto e istassi,

e ben che sia molto transfigurato,

e' pure è desso, tanto l'ho mirato. –

 

7

 

Palemon disse allora: – Grande amore

e poco senno cel fa dimorare,

ché se venisse ad orecchie al signore,

tututto il mondo nol poria campare.

O sommo Giove, quanto l'amadore

al suo disio sé lascia tirare,

e quanti ingegni s'usan per venire

all'amoroso fin di tal disire! –

 

8

 

Poi disse a Panfil: – Guarda che non sia

sentito da nessun ciò che m'hai detto,

ché posto ch'elli a me per gelosia

sanza colpa di lui mi sia sospetto

per uscir di prigione, in fede mia

non vorre' io ch'egli avesse difetto;

se gl'iddii l'aman più che me non fanno,

abbiasi il pro' e mio si sia il danno. –

 

 

Come a Palemone venne del tutto in disio d'uscire di prigione, e il perché; e come Panfilo trovò il modo

 

9

 

Poi cominciò a pensar fortemente

sopra l'affar d'Arcita innamorato,

e crede che d'Emilia veramente

il lieto amore egli abbia guadagnato,

e poscia dice: "O me lasso dolente,

in che mal punto nel mondo fui nato!

Ch'io amo e sto in priglone, e altri face

quel ch'io faccendo poria sentir pace.

 

10

 

E or mi fosse un poco di speranza

rimasa, o mi venisse, dell'uscire

di questo loco! Io mi crederei, sanza

la doglia che io ho, gioia sentire,

e ancora la mia somma intendanza

sanz'alcun fallo crederei fornire;

ma sì m'è gran nemica la fortuna,

ch'io n'uscirò quando starà la luna!

 

11

 

E s'io di quinci uscissi per ventura,

da Arcita converria che io sapesse,

su buon cavallo e con forte armadura,

quel che tra lui e me esser dovesse

dell'amor della nobil creatura

che mi fa sentir pene così spesse;

e fermamente ella mi rimarrebbe,

o sopra il campo l'un di noi morrebbe.

 

12

 

Ma come avrei io ardir contro a lui,

che per uscirci giammai non tentai?

E el non cura lo star con colui

ch'è suo nemico per vederla, e mai

non ha posato di servire altrui

per servir lei; e io in trarre guai

ho speso il tempo, ov'io dovea più tosto

morir voler che sempre star nascosto".

 

13

 

E sì come Tesifone, chiamata

dal cieco Edippo nella oscura parte

dov'elli lunga notte avea menata,

a' due fratei del regno con su' arte

mise l'arsura, così a lui 'ntrata

con quel velen che 'l suo valor comparte,

d'Emilia aver, dicendo: – Signoria

né amore stan ben con compagnia. –

 

14

 

E subito così cambiò il pensiero,

e chiamò Panfil di cui si fidava,

e disse: – Amico, ora sappi per vero

che troppo qui l'adimorar mi grava,

e però fa che il mio dire intero

vegna, se puoi, sicch'io di questa prava

prigion mi parta e possa conquistare

per arme Emilia, se e' si può fare.

 

15

 

Questo pensier di novo m'è venuto

e sanza fallo il metterò ad effetto;

e se e' fia per ventura saputo

prima che sia con l'opera perfetto,

da me si dica che sia proceduto

ciò che farai, ché e' mi fia diletto

morire anzi che stare in tal tormento,

perciò ch'io fo il dì ben morti cento. –

 

16

 

Panfil rispose: – Caro signor mio,

morir per voi a me sarebbe vita,

e però penserò sì ch'al disio

di voi darò bene opera compita,

avvegnane che puote omai; ché s'io

ne dovessi morir, darovvi uscita

di questo loco; onde vi confortate

e di cuor lieto alquanto v'aspettate.

 

17

 

Elli uscì fori e gio in loco solo,

e 'nfra se stesso cominciò a pensare;

e pria li venne nel pensiero il volo

che Dedal fé con Icar per campare,

ma nol vide possibil; poi d'imbolo

s'immaginò lui di prigion cavare,

ma non li parve via ben ben sicura;

però non se ne mise in avventura.

 

18

 

Similemente pensò per denari

voler corromper le guardie vegghianti,

sentendo loro in generale avari;

ma mal pareali a fidarsi di tanti

quanti di nuovo lì venien vicari

sanza lunga dimora essere stanti;

e 'n brieve non vedea di poter fare

ciò che 'ntendea con le guardie trattare.

 

19

 

Ma pur li venne un modo in pensamento

che infra gli altri li parve migliore,

e dopo molto disaminamento

il si fermò con ordine nel core,

pensando che il suo intendimento

saria fornito e quel del suo signore;

al qual n'andò, là dov'era in prigione,

e così cominciò: – O Palemone,

 

20

 

e' non ha guar che qui venne Alimeto,

di medicina maestro sovrano,

uom d'alto senno e di vita quieto;

e so che esso fu nostro tebano,

e puolli l'uom ben dire ogni segreto

e da lui prender buon consiglio e sano:

questi ci fornirà il nostro fatto,

per mio avviso, e udite in che atto:

 

21

 

che voi v'infignerete esser malato

in sul mutar che le guardie si fanno,

e io avraggio ben lui informato

e avvisato dello nostro inganno,

e 'ncontanente a voi l'avrò menato,

perché e' curi voi del vostro affanno;

e' vestirà li miei panni, ma voi,

sì come mastro, vi vestite i suoi.

 

22

 

E sanza fare alcun dimostramento,

con lui fuor ve n'uscite baldanzoso,

e me lasciate qui sanza pavento

in vostro luogo, e dite ch'io riposo;

essi non fien di tanto avvedimento

che vi conoscan, se voi uscite oso;

poi se Arcita volete, soletto

voi il troverete nel lieto boschetto. –

 

23

 

– Tu hai ben detto – disse Palemone;

– però metti ad effetto queste cose. –

E malato si fece alla stagione

che Panfilo con lui insieme pose;

e Panfil, sanza far dimoragione,

ad Alimeto il loro affar dispose.

Egli era a Palemon fedele amico;

disse: – Io son presto, e farol com'io dico. –

 

 

Come Panfilo, inebriate le guardie, fece Palemone uscire di prigione

 

24

 

Panfilo allor si cominciò a dolere

con que' ch'avean Palemon a guardare,

che 'l suo signore è infermo, e a sedere

con lor si puose, e fé vino arrecare

a gran dovizia, e cominciò a bere;

e però che non l'aveano a pagare,

sanza ordine nessun n'hanno cioncato,

tanto ch'ognun s'è bene inebriato.

 

25

 

Allora Panfil fé il mastro venire,

il qual vi venne molto lietamente,

e tosto de' suo' panni il fé vestire,

e Palemone ancor similemente

di que' del mastro fece rifornire;

e sanza più addimorar niente,

Palemon, fatto medico, assai lieto

fuor di prigione uscì con Alimeto.

 

26

 

Le guardie allora incontro li si fanno,

e del prigion domandan come stava,

e e' con fermo viso dello inganno

che Panfil fatto aveva, ben s'adava,

e disse: – Certo egli ha assai affanno,

ma al presente alquanto si posava;

però il lasciate questa notte stare,

domattina il verrò a ricercare. –

 

 

Come Palemone, uscito di prigione, andò armato al boschetto

 

27

 

Lasciato adunque il suo buon servidore

Palemone in prigion, col suo maestro

se n'andò all'ostiere, e di bon core,

dimenticato già il tempo sinestro,

dormì alquanto, e già vegnenti l'ore

vicine al giorno su si levò destro;

e fattesi armi e buon caval ancora

prestar, quivi s'armò sanza dimora.

 

28

 

Alimeto sapeva il convenente,

sì come Palemon gli avea contato;

per ch'elli il lasciò fare, e prestamente

ben l'aiutò, però che n'era usato.

E quelli uscì d'Attene di presente,

e inverso il boschetto s'è avviato,

là dove Arcita allora si dormia

sicuro sì come faceva in pria.

 

29

 

Cheto era il tempo, e la notte le stelle

tutte mostrava ancora per lo cielo,

e 'l gran Chiron Aschiro avea, con quelle

che vanno seco, il pianeto che 'l gielo

conforta, il quale le sue corna belle

coperte aveva con lucente velo,

e quasi piena, ove Cenìt facea

il ciel, nel mezzo cerchio, rilucea.

 

30

 

Inver la qual, poi l'ebbe rimirata

alquanto, Palemon cominciò a dire:

– O di Latona prole inargentata,

che or meni i passi miei sanza fallire

con la tua luce meco accompagnata,

piacciati alquanto li miei prieghi udire;

e come in questo se' ver me pietosa,

così nell'altro mi sii graziosa.

 

31

 

Io vado tratto da quella fortezza

d'amor che trasse Pluto a innamorarsi

sopra Tifeo della tua gran bellezza,

allor che tu ne' prati con iscarsi

passi ten givi en la tua giovanezza

cogliendo i fiori per li campi sparsi.

Acciò che per battaglia io possa avere

l'amor di quella sol che m'è in calere,

 

32

 

guida li passi miei, come facesti

più volte in mar di Leandro i lacerti;

e sì col padre tuo fa che mi presti

quella virtù che fa gli uomini esperti;

e come tu del tuo lume mi vesti,

così da' colpi i membri fa coperti

che mi darà l'avversario potente,

sì ch'io di lui ne rimanga vincente. –

 

 

Come Palemone pervenne al bosco, ove trovò Arcita dormire

 

33

 

E mentre che così dicendo andava,

giunse nel bosco per gli albori ombroso,

e con intento sguardo in quel cercava

acciò ch'Arcita trovasse amoroso;

e mentre in dubbio fortuna il portava,

s'avenne sopra il prato ove riposo

prendeva Arcita, ch'ancora dormiva

e Palemon vegnente non sentiva.

 

34

 

E poi che fu di sopra la rivera

sotto il bel pino infra le fresche erbette

che lì avea produtte primavera,

vide dormire Arcita; onde ristette,

e appressato quivi dov'egli era,

il rimirava, e a ciò molto stette;

e sì nel viso li parea mutato,

che non l'avrebbe mai raffigurato.

 

35

 

Ma Febea, che chiara ancor lucea,

co' raggi suoi il viso li scopria,

sicché aperto Palemon vedea

perché il risomigliarlo li fuggia;

ma poi ch'alquanto mirato l'avea,

in sé la sua effigie risentia,

per che disse fra sé: "Desso è per certo,

né 'l può celar la barba ond'è coverto".

 

36

 

E' nol voleva miga risvegliare,

tanto pareva a lui che e' dormisse

soavemente; ma si pose a stare

allato a lui, e così fra sé disse:

"O bello amico molto da lodare,

se al presente tu ti risentisse,

tosto fra noi credo si finirebbe

qual di noi due per donna Emilia avrebbe".

 

 

Come, risvegliato, Penteo si fece carezze con Palemone, e il loro ragionare

 

37

 

E 'n questo il giorno a fare era già presso,

e a cantar gli uccelli han cominciato,

per che Penteo, risentendosi addesso,

in piè si fu prestamente levato.

Ver Palemon, che veniva verso esso,

con maraviglia tosto s'è voltato,

e disse: – Cavalier, che vai cercando

per questo bosco, sì armato andando? –

 

38

 

A cui tosto rispose Palemone:

– Cosa del mondo nulla altra cercava

se non di trovar te, o compagnone;

questo voleva e questo disiava,

e però sono uscito di prigione. –

E poi benignamente il salutava.

Penteo li rispose al suo saluto

e tostamente l'ha riconosciuto.

 

39

 

E 'nsieme si fer festa di buon core

e li loro accidenti si narraro;

ma Palemon, che tutto ardea d'amore,

disse: – Or m'ascolta, dolce amico caro;

io son sì forte preso del valore

d'Emilia bella col visaggio chiaro,

che io non trovo dì né notte loco,

anzi sempre ardo in amoroso foco.

 

40

 

E tu so ch'ancor l'ami similmente,

ma più che d'uno ella esser non poria;

per ch'io ti priego molto caramente

che tu consenta che ella sia mia;

e' mi dà 'l cuor di far sì fattamente,

se questo fai, che quel che ne disia

di lei 'l mio core avrò sanza tardanza;

lasciala dunque a me sol per amanza. –

 

41

 

Quando Penteo queste parole intese,

tutto si tinse e divenne fellone,

e d'ira dentro tutto il cor s'accese,

e poi rispose e disse: – Palemone,

e' ti puote esser certo assai palese

ch'i' ho messa mia vita a condizione

sol per poter ad Emilia servire,

cui io tanto amo, ch'i' nol poria dire.

 

42

 

Pero ti priego, se t'è la mia vita

niente cara, che quel che dimandi

tu il conceda al tuo parente Arcita,

il qual s'è messo a pericoli grandi

per procacciar di lei gioia compita;

e tu il sai se e' son ammirandi,

che uditi gli hai, raccontandotegli io:

fa dunque, caro amico, il mio disio. –

 

43

 

Palemon disse allor: – Veracemente

questa non è l'amistà ch'io credea

aver di te, poi sì palesemente

un don mi nieghi il quale io ti chiedea;

ma io ti giuro, per l'onipotente

Giove del cielo e per Venere dea,

che prima ch'io di qui faccia partenza,

co' ferri partirén tal differenza.

 

44

 

Però t'acconcia come me' ti piace

dell'arme omai, e tua ragion difendi,

ché di tal guerra non sarà mai pace,

poi quel di ch'io ti priego mi contendi,

e 'l core in corpo tutto mi si sface.

Perché tu peni e del campo non prendi

contra di me, che vincer o morire

per la mia donna porto nel disire? –

 

45

 

A cui Penteo disse: – O cavaliere,

perché vuo' por te e me in periglio

forse di morte (e non ti fa mestiere)?

Deh, noi possiam pigliar miglior consiglio,

che ciascun si procacci a suo potere

d'aver l'amor del grazioso giglio,

e a cui il concede la fortuna

colui se l'abbia sanza briga alcuna.

 

46

 

Tu sai che io son quiritto sbandito,

e tu hai rotta a Teseo la prigione;

però se 'l nostro affar fosse sentito,

non ci bisogneria far più ragione

d'Emilia bella col viso chiarito,

ma seremmo di morte a condizione;

e però piano amiamo intrambendui,

infin che Giove altro faccia di noi.

 

47

 

Forse le cose avranno mutamento,

e potremmo tornare in nostro stato;

o io partirmi e tu esser contento,

come fui io, da Teseo accettato,

e così alleggiarsi il tuo tormento;

o quello amor mancar che m'ha infiammato,

e sola Emilia a te si rimarebbe,

ch'essere in questo punto non potrebbe. –

 

48

 

Palemon più di ciò non volle udire,

anzi li disse tosto: – Vedi, Arcita,

se io dovessi qui oggi morire,

tra noi convien che ella sia partita;

chi me' saprà della spada ferire,

a lui rimanga la donna e la vita;

se tu mi fai per forza ricredente,

mai più non l'amerò veracemente. –

 

49

 

– Deh ! – disse Arcita, – Questo a dir che vene?

Pognàn che tu quiritta m'abbi morto,

che farai tu? Avrai tu minor pene?

Che ben te ne verrà o che conforto?

Io pur conosco che e' ti convene

in prigion ritornare, o, pel più corto

cammin che tu potrai, fuggirne via:

Emilia, poscia, che util ti fia?

 

50

 

E pognàm pur che tu fossi in amore

a Teseo com'io sono, è tua credenza

che le volesse te dar per signore?

Tu se' ingannato; egli ha più alta intenza!

Io sono stato e son suo servidore

quanto esser posso, e sempre sto in temenza,

dove ch'io sia, pur di rimirarla;

e tu come ardirai di domandarla?

 

51

 

E se io qui con fé ti promettessi

di non amarla, credi tu che fare

con tutto il mio ingegno io il potessi?

Certo più tosto sanza mai mangiare

crederei viver che d'amarla stessi;

e amor non si può così cacciare

come tu credi; e poco ama chi posa,

per impromessa, d'amare una cosa.

 

52

 

Dunque che vuoi pur far? Combatteremo,

e con le spade in man farén le parti

di quella cosa che noi non avemo?

Deh, perché lasci così abagliarti

al tuo folle consiglio? Omè, ch'io temo

lo 'mpedimento tuo, se non ti parti

prima che 'l giorno sia, né sicur sono,

s'io son riconosciuto, di perdono. –

 

53

 

– Di mia salute – disse Palemone,

– non aver tu pensier; del tutto, avanti

che io mi parta, la nostra quistione

si finirà, sì che l'un de' due amanti

solo d'amarla fia in possessione;

e' consigli che dai ho tutti quanti

esaminati meco, e son contento

più di morir che di vita in tormento.

 

54

 

Se tu fai quel ch'io cheggio, gelosia,

s'altro non me ne segue, avendo fede

in te come in amico, anderà via;

e ben nel tempo di ciò mi procede,

rendronne grazie alla fortuna mia;

dunque t'apresta, ché il mio cor crede

vittoria aver, se non vuogli altramente

in ciò far cosa che mi sia piacente. –

 

55

 

Allora disse Penteo sospirando:

– Omè, ch'io sento l'ira dell'iddii,

li quali ancor ne vanno minacciando

contrarii tutti alli nostri disii;

e la fortuna ci ha qui lusingando

menati con effetti lieti e pii,

e non Amore, a voler che moiamo

per le man nostre, come noi sogliamo.

 

56

 

Omè, che m'era assai maravigliosa

cosa a pensar che Iunon ci lasciasse

nostra vita menare in tanta posa,

e come i nostri noi non stimolasse,

de' quali alcun giammai a gloriosa

morte non venne, che si laudasse;

ond'io mi posso assai ramaricare,

vedendo noi a simil fin recare.

 

57

 

I primi nostri, che nacquer de' denti

seminati da Cadmo, d'Agenore

figlio, ver lor furon tanto nocenti,

che sanza riguardar fraterno amore

fra lor s'uccisero; e i can mordenti

Atteon disbranaron lor signore;

e Atamante i suoi figliuoli uccise,

tal Tesifone in lui fiera si mise!

 

58

 

Latona uccise i figliuoi d'Anfione

intorno a Niobè, madre dolente;

e la spietata nemica Iunone

arder fé Semelè miseramente;

e qual d'Agave e delle sue persone

fosse la rabbia, il si sa tutta gente;

e simile d'Edippo, il quale il padre

uccise e prese per moglie la madre.

 

59

 

Quai fosser poi fra loro i due fratelli,

d'Edippo nati, non cal raccontare:

il fuoco fé testimonianza d'elli,

nel qual fur messi dopo il lor mal fare

e 'l misero Creonte dopo quelli

molto non s'ebbe di Bacco a lodare;

or resta sopra noi, che ultimi siamo

del teban sangue, insieme n'uccidiamo.

 

60

 

E e' mi piace, poi che t'è in piacere,

che pure infra noi due battaglia sia;

io sarò presto a fare il tuo volere,

ma pria mi lascia addobbar l'arma mia

e ripigliare lo mio buon destriere;

quindi farén tutto ciò che disia

la mente folle che sì ti consiglia:

piangasi il danno a cui di ciò mal piglia. –

 

61

 

Isnellamente Penteo si fu armato,

se forse alcuna cosa li mancava,

e ebbe tosto il caval ripigliato,

e destramente sopra vi montava;

e inver Palemon si fu voltato,

che fiero e tutto ardente l'aspettava,

e sì li disse: – Omai, come ti piace,

prendi con meco o vuo' guerra o vuo' pace.

 

62

 

Ma siemi il ciel, che queste cose vede,

ver testimonio, e Appollo surgente,

e' Fauni e le Driade, se si crede

che 'n questo loco alcun ne sia possente;

e le stelle ch'io veggio faccian fede

come io son del combatter dolente,

e Priapo con esse, li cui prati

ci apparecchiàn di fare insanguinati.

 

63

 

Non mi si possa mai rimproverare

ch'io sia cagion di battaglia con teco;

tu mossa l'hai e tu pur la vuoi fare,

e pace schifi di voler con meco;

sallosi Iddio ch'io non poria lasciare

mai d'amar quella c'ha 'l mio cor con seco;

ma, così amando, volentier vorrei

con teco pace, e presto a ciò sarei. –

 

 

Come tra Penteo e Palemone, dopo lungo ragionare, si cominciò la battaglia

 

64

 

Dette queste parole, nulla cosa

rispose Palemon, ma inanzi al petto

lo scudo si recò, quindi l'ascosa

spada nel foder trasse, e 'l viso eretto,

inver Penteo con voce orgogliosa

disse: – Or si parrà chi più diletto

avrà d'amare Emilia. – A cui Penteo:

– Tu di' il vero; – e 'nver di lui si feo.

 

65

 

E' non avevan lance i cavalieri,

e però insieme giostrar non potero;

ma con li spron punsero i buon destrieri,

e con le spade in man presso si fero

l'un verso l'altro, e sì si scontrar fieri,

che maraviglia fu, a dir lo vero,

e sì de' petti i cava' si feriro,

che rinculando a forza in terra giro.

 

66

 

Ma non pertanto il valoroso Arcita

su l'elmo con la spada a Palemone

diede un tal colpo, ch'appena la vita

li rimanesse fu sua oppinione,

e ben credette alla prima ferita

che terminata fosse lor quistione;

ma poi che sotto il buon destrier caduto

si vide, su si levò sanza aiuto.

 

67

 

E Palemon, nel cader del cavallo,

percosse il capo sopra il verde prato;

il che acrebbe il gran mal sanza fallo

ch'aveva per lo colpo a lui donato

dal buon Penteo, per che di quello stallo

non si moveva, anzi parea passato

di questa vita, e a giacer si stava;

e 'l buon Penteo ardito l'aspettava.

 

68

 

Ma poi che elli il vide pur giacere,

disse fra sé: "Che potrebbe esser questo?"

E sanza indugio lui gì a vedere,

e trovol che non era ancora desto

dello spasmo profondo, e 'n suo parere

disse: "Morto è, ché troppo li fu infesto

il colpo della mia spada tagliente,

di ch'io sarò tutto tempo dolente".

 

69

 

Elli il tirava degli arcion di fori

soavemente, e l'elmo li traeva,

e 'n su l'erbetta fresca e sopra i fiori

teneramente a giacer lo poneva;

e poi con man delli freschi liquori

del vicin rivo a suo poter prendeva,

e 'l viso li bagnava acciò che esso,

se fosse vivo, si sentisse addesso.

 

70

 

Ma Palemone ancor non si sentia,

per che Penteo piangeva doloroso,

dicendo: – Lassa omai la vita mia!

Morto è il mio compagno valoroso;

ma di ciò testimon Febo mi sia,

che io non fui di ciò volonteroso,

né mai battaglia con lui disiai.

O me dolente, perché mai amai?

 

71

 

S'io questa donna non avessi amata,

com'io faceva, di tutto mio core,

questa battaglia non sarebbe stata;

ma per difendere il leale amore

che io porto ad Emilia, è incontrata

l'aspra giornata piena di dolore;

or foss'io morto il giorno che a Teseo

prima tornai, nominato Penteo! –

 

72

 

E 'n questo punto tornò Palemone

in sua memoria e 'n piè si fu levato,

ché non aveva altro che stordigione

per lo gran colpo in sé di mal provato;

e come ardito e franco e buon campione,

davanti al petto lo scudo recato,

si vide presso che forte piangea

il buon Penteo, a cui così dicea:

 

73

 

– Leva su, cavalier, che io non sono

ancora vinto, perch'io sia abbattuto;

e se della tua spada il greve trono

mi spaventò, in me son rivenuto;

e non creder però aver perdono

da me, perché pietoso t'ho veduto;

e' ti convien con forza e con valore

combatter meco d'Emilia l'amore. –

 

74

 

Maravigliossi allor Penteo assai,

e dentro al cor nascose la sua ira,

e disse: – Palemon, gran ragione hai

di mal volere a chi per te sospira,

ma d'altra foggia ti sarò omai;

però come tu vuo' così ti gira,

prendi come ti piace ogni vantaggio,

ché di te vincer ho fermo coraggio. –

 

75

 

Ciaschedun chiama in suo aiuto Marte

e Venere e Emilia insiememente,

e imprometton doni; e d'altra parte

ciascun si reca dentro alla sua mente

la nobiltà, l'ardire e la molta arte

delle battaglie e 'l ferir prestamente

e l'uno inver dell'altro de' baroni

s'andarono a ferir come dragoni.

 

76

 

Li scudi in braccio e le spade impugnate,

sopra l'erbette l'un l'altro ferendo,

sanza aver più l'un dell'altro pietate,

si gieno i due baroni e ricoprendo:

tututte l'armi s'aveano spezzate,

per la lunga battaglia combattendo

e poco s'era ancora conosciuto

ch'alcun vantaggio fra lor fosse suto.

 

 

Come ai due combattenti Emilia sopravenne

 

77

 

Ma come noi veggiam venire in ora

cosa che in mille anni non avvene,

così avvenne veramente allora

che Teseo con Emilia d'Attene

uscir con molti in compagnia di fora,

e qual di loro uccello e qual can tene,

e nel boschetto entraro, alcun cornando,

alcun compagni e alcun can chiamando.

 

78

 

E cominciar lor caccia e lor diletto,

e ciascun gia sì come li piacea

in qua in là per lo folto boschetto,

e chi uccelli e chi bestie prendea;

e in tal guisa, senza alcun sospetto,

con un falcone in pugno procedea,

per pervenire alla chiara rivera,

Emilia, ove per lei tal battaglia era.

 

79

 

Ell'era sopra d'un bel pallafreno

co' can dintorno, e un corno dallato

avea e dalla man contraria al freno,

dietro alle spalle, un arco avea legato

e un turcasso di saette pieno,

che era d'oro tratto lavorato;

e ghirlandetta di frondi novelle

copriva le sue treccie bionde e belle.

 

80

 

E sopravenne lì subitamente,

e s'arestò vedendo i cavalieri;

ma conosciuta fu immantanente

da ciaschedun delli due buon guerrieri;

li qua' però non ristetter niente,

ma ne divenner più forti e più fieri,

sì si raccese in ciaschedun l'ardore

della donzella ch'amavan di core.

 

81

 

Ella si stava quasi che stordita,

né giva avanti né 'ndietro tornava;

e sì per maraviglia era invilita,

ch'ella non si movea né non parlava,

ma poi ch'alquanto fu in sé reddita,

della sua gente a sé quivi chiamava,

e similmente ancor chiamar vi feo

a veder la battaglia il gran Teseo.

 

82

 

Il quale assai di maraviglia prese

chi fosser questi due che combatteano,

e a mirarli lungamente intese;

e stima ben che gran mal si voleano,

quando considerava ben l'offese

che essi insieme tra lor si faceano;

ma poi ch'egli ebbe assai ciascun mirato,

cavalcò oltre e lor si fu appressato.

 

 

Come Penteo e Palemone si palesassero a Teseo

 

83

 

Poi disse loro: – O cavalier, se Marte

vittoria doni a chi più la disia,

ciascun di voi si tragga d'una parte,

e s'elli è in voi alcuna cortesia,

mi dite chi voi sete e chi in tal parte

a battaglia v'induce tanto ria,

secondo ne mostrate nel ferire

che fate l'uno a l'altro da morire. –

 

84

 

Li cavalier quando vider Teseo

e lui udiro a lor così parlare,

ciascuno indietro volentier si feo,

e vorrebbero avere a cominciare

quella battaglia; ma il buon Penteo

prima così rispose al dimandare:

– Noi siam duo cavalier che per amore

con le spade proviàn nostro valore. –

 

85

 

Disse Teseo: – Ditene chi sete. –

A cui Penteo: – Noi 'l farem volentieri,

se voi, caro signor, ne promettete

la pace vostra, se a noi fia mestieri. –

A cui Teseo rispose: – Vo' l'avete,

perch'io vi veggio sì pro' cavalieri,

e combattete ancor per tal cagione,

ch'offendervi saria contra ragione. –

 

86

 

Allora que' rispose prestamente:

– Io sono il vostro Penteo che vi parlo,

il qual con questo cavalier valente,

per troppo amor, volendo soperchiarlo,

battaglia fo; e e' me similmente

vuol soperchiar, perch'io accompagnarlo

voglio ad amar; chi e' sia, ecco lui

che vel dirà assai me' che altrui. –

 

87

 

A Palemon pareva male stare;

ma non pertanto e' cacciò la paura

e disse: – Siri, io nol posso celare

chi io mi sia, e ancor mi sicura

vostra virtù che non vorrete usare

la vostra forza contro alla mia pura

mente, che per amor fuor di prigione

usci', e sono il vostro Palemone. –

 

88

 

Teseo, udendo nominar costoro,

prima sdegnò, poi ringraziolli assai

che s'eran nominati, e disse loro:

– Deh, non vi spiaccia, ditemi oramai

come Cupido con lo stral dell'oro

amendun vi ferì di pari guai,

con ciò sia cosa che l'un vien d'Egina,

l'altro fu preso a Tebe la meschina.

 

89

 

E se licito m'è ch'io sappia ancora

chi sia la donna, vi priego il diciate. –

Palemon sospirò, e disse allora

come le cose tutte erano andate;

e ciò Teseo vie più che l'altre accora

che prima gli erano state contate,

e disse: – Amor v'ha dato grande ardire,

poi non curate per lui il morire. –

 

90

 

A cui Palemon disse: – Alto signore,

saputo hai ciò che vuoli interamente

e a contarlo m'ha dato valore

disiderio di morte certamente,

la qual mi finiria l'aspro dolore

che sempre offende la mia trista mente

e io, che son di tua prigion fuggito,

ho d'esser morto molto ben servito. –

 

 

Come Teseo, perdonando loro, rispose, e i patti posti loro da lui

 

91

 

Allor Teseo: – Non piaccia a Dio che sia

ciò che dimandi, ben che meritato

l'aggiate per la vostra gran follia;

ché l'un contra 'l mandato è ritornato,

e l'altro ha rotta la mia prigionia,

sì ch'io non ne saria mai biasimato

se i' 'l facessi, né faria fallanza,

ma serverei l'antica buona usanza.

 

92

 

Ma però ch'io già innamorato fui

e per amor sovente folleggiai,

m'è caro molto il perdonare altrui,

perch'io perdon più fiate acquistai,

non per mio operar, ma per colui

pietà a cui la figlia già furtai;

però sicuri di perdono state:

vincerà il fallo la mia gran pietate.

 

93

 

Ma non fia assoluto il perdonare,

ch'io ci porrò piacevol condizione,

la qual voi mi prometterete fare,

se io perdono a vostra falligione. –

Essi il promisero, e e' fé giurare

lor di servarla sanza offensione,

e felli insieme far pace solenne;

poi in questo modo con lor si convenne.

 

94

 

E' cominciò: – Be' signori, io avea

la giovinetta la qual voi amate

meco guardata, e donar la credea

per vera sposa al piacevole Acate,

nostro cugin; ma la fortuna rea

con morte queste cose ha via levate,

e ella s'è rimasa senza sposo,

come vedete, col viso amoroso.

 

95

 

Dunque convene a me pensar d'altrui,

perché l'età di lei omai il richiede,

né io non so pensar ben bene a cui

io la mi dea, che con più ferma fede

l'ami e onor che farà un di voi,

se sì l'amate come il mio cor crede;

ma non la può di voi aver ciascuno

però convien ch'ella rimanga a l'uno.

 

96

 

A l'un di voi sarà bene investita,

però che sete di sangue reale

e d'alto affare e di nobile vita;

e ella similmente è altrettale,

e è sorella a la reina ardita

che meco stato serva imperiale;

per la qual cosa sdegnar non dovete

per moglie lei, se averla potete.

 

97

 

Ma per cessar da voi ogni quistione,

con l'arme indosso vi convien provare

nel modo ch'io dirò: che Palemone

cento compagni farà di trovare

quali e' potrà a sua elezione,

e a te simil converrà di fare;

poi a battaglia nel teatro nostro

sarete insieme col seguito vostro.

 

98

 

Chi l'altra parte caccerà di fore

per forza d'arme, marito le fia;

l'altro, di lei privato e dell'onore,

a quel giudicio converrà che stia

che la donna vorrà, al cui valore

commesso da questa ora innanzi sia;

e 'l termine vi sia a ciò donato

uno anno intero. – E così fu fermato.

 

99

 

Sì come per mal sol palida fassi

candida rosa o per Noto spirante,

che poi, vegnendo Zeffiro, rifassi

o per la fresca aurora levante,

e gloriosa in su li pruni stassi,

bella come tal volta fu davante,

così costor diventaron, raccolto

il parlar di Teseo lor caro molto.

 

100

 

E risposero a lui umilemente:

– Signore, a tanta grazia quanta fai

a ciaschedun di noi, nessun possente

a ciò guiderdonar sarebbe mai;

ma que' che 'l cielo e 'l mondo parimente

governa ti contenti, sì come hai

noi contentati de l'alto perdono

del nostro fallo, il qual ci è sommo dono.

 

101

 

Noi siam disposti ad ogni tuo piacere,

e penserem di metter ad effetto

quel che n'hai comandato a tuo volere. –

Poi cominciaron mirabil diletto,

vedendo ciò che più era in calere

sicura dimorar nel lor cospetto;

la qual li rimirava vergognosa

e delle lor ferite assai pietosa.

 

102

 

A cui Teseo: – O giovine donzella,

vedi tu quanto per te faccia Amore,

perché tu se' più ch'alcuna altra bella?

Ben tel dei reputar sovrano onore,

e oltre a ciò isposa se' novella

dell'un de' due di cotanto valore. –

Nulla rispose Emilia, ma cambiossi

tutta nel viso, tanto vergognossi!

 

 

Disegna il tempo e l'ora, e come Penteo e Palernone con Emilia ne vennero in Attene

 

103

 

Febo era già a mezzo il ciel salito.

nell'animal che tenne Garamante

allor che Giove, di Creti partito,

in Africa passava ad Atalante;

quando ciascun di loro, assai ferito,

le piaghe si stagnava tutte quante;

ma 'l tempo caldo mosse a dir Teseo

– Medichera'ti alla città, Penteo. –

 

104

 

E poi li fé sovra i cavai salire

con tutte l'arme, e in mezzo di loro

Emilia bella di grazia fé gire;

di che contenti tanto eran costoro,

che lingua alcuna nol potrebbe dire;

e poco gli occhi lor facean dimoro,

che non mirasser lei assai celato,

finché per loro in Attene fu intrato.

 

105

 

Quivi con festa al palagio maggiore

disceser tutti, e Teseo disarmare

fé li teban baron di gran valore,

e dolcemente li fece curare;

e più ancora lor fece d'onore,

che li fé dentro al palagio abitare;

e rendé lor castella e possessioni,

quante n'avean pria che fosser prigioni.

 

Qui finisce il libro quinto del Teseida

 

 

 

LIBRO SESTO

 

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro sesto

 

Il sesto libro nel cominciamento

li due teban baron pacificati

dimostra, e il lor ricco portamento,

e le feste e' conviti dilicati.                                                       4

 

Appresso ciò, dichiara il lieto avvento

in Attene di molti convitati

baroni, acciò che ognun n'avesse cento

tra molti eletti, arditi e più pregiati.                                           8

 

E in che modo e abito ciascuno

e di qual parte in Attena venuti

discrive, e oltre a ciò come ognuno                                          11

 

e tutti inseme fosser ricevuti;

de' qua', veduta Emilia, nessuno

biasima lor se e' ne son perduti.                                               14

 

 

Incomincia il libro sesto del Teseida. E prima parole dell'autore

 

1

 

L'alta ministra del mondo Fortuna,

con volubile moto permutando

di questo in quel più volte ciascheduna

cosa togliendo e tal volta donando,

or mostrandosi chiara e ora bruna

secondo le pareva e come e quando,

avea co' suoi effetti a' due Tebani

mostrato ciò che può ne' ben mondani.

 

2

 

Però che con lei lieta furon nati

e allevati, e già mutato il viso

avea quando nel campo fur pigliati;

indi da lor ciascun suo ben diviso

avendo, li lasciò isconsolati

e in prigion fuor d'ogni lieto avviso;

poi l'un ne trasse e quasi a lieta vita

l'avea recato, e questi fu Arcita.

 

3

 

L'altro che poi, com'ella volle, fore

se n'era uscito ancor, mis'ella in esso

con matto imaginare un tal furore,

che sé col primo quasi ebbe rimesso

d'acquistata salute in gran dolore;

alla qual cosa essendo assai appresso

e ben credendo ciò, com'ella volse,

Teseo lor perdonò e li raccolse.

 

4

 

Né solamente li mise in speranza

di posseder quel che ciascuno amava,

ma oltre a ciò, sanza alcuna mancanza,

quel che ciascuno in pria signoreggiava,

com'è detto, rendé, sì ch'abondanza

ebber dove ognun prima mendicava;

così da morte, over da rea prigione,

condusse loro in tale esaltazione.

 

5

 

Deh, chi fia qui che dica che' mondani

provvedimenti a' moti di costei

possan mai porger argomenti sani?

Se non fosse mal detto, io dicerei

certo che fosser tutti quanti vani,

questo mirando e ciò ch'ancor di lei

si legge e ode e vede ognora aperto,

ben che ne sia come ciò fa coverto.

 

 

Della vita de' due Tebani riconciliati a Teseo

 

6

 

Costoro insieme tenner buona pace

e l'amistà antica rifermaro,

e quel voleva l'un che all'altro piace,

e così era il contrario discaro.

La rea fortuna loro ora si tace,

fuggito è il tempo d'ogni parte amaro;

ma pure Amor li teneva ristretti

vie più che mai con tutti i lor diletti.

 

7

 

Elli avean di lor terre grande entrata,

per che essi spendevan largamente;

ogni persona da loro onorata

era in Attene graziosamente;

e sì gran cortesia da loro usata,

che sen maravigliava tutta gente;

onde gli amavan tutti i cittadini,

quantunque egli eran, grandi e piccolini.

 

8

 

Altro che canti, suoni e allegrezza

nelle lor case non si sentia mai,

e ben mostravan la lor gentilezza;

a chi prender volea davano assai;

astor, falconi e can di gran prodezza

usavano a diletto, né giammai

erano in casa sanza forestieri,

conti e baroni e donne e cavalieri.

 

9

 

E vestien robe per molto oro care,

con gran destrier, cavalli e pallafreni;

e nulla si lasciavano a donare,

sì eran di larghezza i baron pieni;

giostre faceano e grande l'armeggiare

con lor brigate ne' giorni sereni;

e ciascun s'ingegnava di piacere

più ad Emilia, giusto il suo potere.

 

10

 

E ben che fosse la festa e 'l diletto

ched e' facevan, ciascun giorno cento

pareva lor che 'l dì ch'aveva detto

Teseo venisse, acciò che di tormento

uscissero o con gioia o con dispetto

e ciascheduno aveva intendimento

di vincer l'altro sanza alcun fallire,

e se perdesse, perdendo morire.

 

11

 

E per non aspettar l'ultimo giorno

ch'esser doveva tra lor la battaglia,

ciaschedun manda messaggi dintorno

e d'invitare amici si travaglia;

e d'altra parte, per esser adorno,

ciascun fa paramenti di gran vaglia

per sé ornare e per donare a' sui

che arme porteranno il dì con lui.

 

12

 

E 'n brieve tempo si furon forniti

d'armi lucenti e forti ad ogni pruova,

e di cavalli feroci e arditi,

grandi, alli Greci a veder cosa nova.

e in sé ciascheduno i più spediti

fatti di guerra pensando ritrova,

per non venir disaveduti a fare

cosa ch'a danno lor possa tornare.

 

 

Discrive l'avvenimento de' prencipi invitati da' Tebani

 

13

 

In questo mezzo il giorno s'appressava

che dato avea Teseo a' cavalieri,

onde ciascuno i suoi sollecitava

che e' venisser, ch'elli era mestieri;

per che ad Attene assai gente abbondava

d'ogni paese, per tutti i sentieri,

chi ad Arcita e chi a Palemone

venia per vinta dar la sua quistione.

 

 

Viene il re Ligurgo

 

14

 

Il primo venne, ancora lagrimoso

per la morte d'Ofelte, a ner vestito,

il re Ligurgo, forte e poderoso,

di senno grande e di coraggio ardito;

e menò seco popol valoroso

del regno suo pure il più fiorito,

e ad Arcita s'offerse in aiuto,

per cui era di Nemea venuto.

 

 

Viene il re Pelleo

 

15

 

Venne d'Egina lì il re Pelleo,

giovane ancora e di sommo valore,

e seco quella gente, che si feo

di seme di formiche en le triste ore

che Eaco lo suo popol perdeo,

menò con pompa grande e con onore:

bianco e vermiglio e chiaro nel visaggio,

più che non fu giammai rosa di maggio.

 

16

 

Vestito era il buon re in drappi d'oro

cari per molte pietre e rilucente,

e sovra un destrier grande di pel soro,

era fra tutti i suoi più eminente,

e un turcasso, ricco per lavoro,

pien di saette, ciascuna pungente,

dal destro lato, e dal manco pendea

d'Arcadia uno arco forte ch'elli avea.

 

17

 

I biondi crini e 'l collo e' biancheggianti

omeri ricoprien, cadendo stesi;

la sella e 'l freno eran d'oro micanti,

e similmente tutti gli altri arnesi;

e' suoi gli gien dintorno tutti quanti

d'alta prodezza e sommo ardire accesi;

e 'n mano avea, quale a lui si convenne,

una termodontiaca bipenne.

 

18

 

Così li piacque nella terra entrare;

alla vista del qual ciaschedun trasse,

né di mirarlo si potean saziare,

né fu alcuno il dì che non lodasse.

Oh, quante donne allor fé sospirare!

E è credibil che ne innamorasse,

se gentilezza e biltate han potere

di fare a donna giovane uom piacere.

 

19

 

Cefal, d'Eol figliuol, seguì costui;

seguillo Foco e seguil Telamone;

Agreo epidaurio gì con lui,

Flegiàs di Pisa e sicionio Alcone;

e altri molti nobili, di cui

la spenta fama non fa menzione,

vi furo, i qua' si de' creder che onore

v'acquistar molto per lo lor valore.

 

 

Viene il re Niso

 

20

 

Né Nisa, di gran boschi copiosa,

tra gli urli dionei Niso ritenne,

ma con sembianza lieta e valorosa,

con bella gente, d'Alcatoe venne,

armati tutti in arme luminosa,

con quelli arnesi ch'a lor si convenne:

guardando quel capel dal qual tenea

la signoria delle terre ch'avea.

 

 

Vegnono Agamenone, Menelao, Castore, Polluce

 

21

 

Sopra un carro, da quattro gran tori

tirato, di Trenarea, Agamenone

vi venne accompagnato da plusori,

armato tutto a guisa di barone,

sé già degno mostrando degli onori

ch'ebbe da' Greci nella ossidione

a Troia fatta: nel sembiante arguto,

con nera barba, grande e ben membruto.

 

22

 

Non arme chiare, non mantel dorato,

non pettinati crin, non ornamenti

d'oro o di pietre aveva, ma legato

d'orso un velluto cuoio con rilucenti

unghioni al collo, il qual da ogni lato

ricoprien l'armi tutte rugginenti;

e chiunque il vedea diceva d'esso:

– Que' vincerà con cui questi fia messo. –

 

23

 

Di dietro a lui, in abito dispari,

Menelao sen veniva giovinetto,

vestito in drappi belli e molto cari:

piacevol, bello e gentil nello aspetto,

sanz'alcuna arme, e' crin come oro chiari

Zeffiro ventilava, e giuso al petto

la barba bionda come oro cadea,

lodata da chiunque la vedea.

 

24

 

Egli era sopra un gran caval ferrante

reggendo il freno grave per molto oro,

con un mantel ch'al collo ventilante

da' circustanti s'udiva sonoro;

e se Venere fosse sanza amante,

ch'ella prendesse lui credean coloro

che lui vedean: così la sua bellezza

lodavano e 'l valore e la destrezza!

 

25

 

Costui seguieno il nobile Castore

e 'l suo fratel Polluce, tutti armati,

e ben mostravan che di gran valore

gli avesse 'l cigno lor padre dotati;

i qua' ne' loro scudi per onore

aveano il quando e 'l come generati

fur, con ingegno, della bella Leda,

allor che ella fu del cigno preda.

 

26

 

Seguien costor più uomini lernei,

armati tutti e fieri ne' sembianti,

nobili misti insieme con plebei;

e qual giva di dietro e qual davanti,

in forme ta' che dir non le saprei,

sì eran divisati tutti quanti;

e con onor nella cittade entraro,

e al real palazzo dismontaro.

 

 

Viene Cromis, figliuol d'Ercule, e Ippodomo

 

27

 

Un cuoio d'un leon nemeo velluto

vi recò Cromis, tirinzio vestito

che già al padre era stato veduto,

da cui il giel mortale avea sentito;

e con un baston grande e noderuto

e di tutte l'altre armi ben guarnito,

sopra Strimon, caval di Diomede,

d'uomini mangiator, sì com si crede,

 

28

 

non altramenti la testa menando

che faccia il toro poi ch'è amazzato,

e sanza alcun riposo ognor ringhiando

giva di suon tal, chente fu ascoltato

tal volta già quando i cani abbaiando

si fer sentir di Silla nel turbato

mare, in quell'ora che Eolo spira

il vento che quel loco più martira.

 

29

 

Con esso d'Oetalia molta gente

vi venne ancora, tutta ben guarnita;

Ippodomo vi fu sirnilemente,

figliuolo d'Oemomia pulita,

con quello sforzo donde era possente

a mostrar la grandezza di sua vita,

sovr'un caval calidonio coverto

di drappi sirii, ben ne' campi esperto.

 

 

Viene Nestore, figliuolo di Neleo, di Pilos

 

30

 

Di Pilos venne il giovane Nestore,

di Neleo figliuol, la cui etate

nelle vermiglie guancie il primo fiore

mostrava, poco ancora seminate

di crespo pel che d'oro avea colore,

il qual multiplicava sua biltate;

costui ornò il padre in guisa tale,

che d'ornamento a lui non vi fu iguale.

 

184 31

 

Natura ornato l'avea di bellezza,

quanto giovane donna disiare

poté giammai, e poi di gentilezza

di real sangue; né potea celare

l'ardito cuor ch'avea e la prodezza

con disio sommo di bene operare;

e la Fortuna de' ben ch'ella dona

più li fu larga ch'ad altra persona.

 

32

 

Costui armato, il ferro sotto argento,

quanto era, in piatte tutto nascondea,

ma della maglia il molto guarnimento

tutto fu d'oro, quantunque n'avea;

di ricche pietre assai fu l'ornamento

che ad arnese cotal si richiedea,

e sì lucea, che in ogni parte oscura

luce avria data come giorno pura.

 

33

 

E in su un gran caval di pel morello,

sanza riposo tuttavia fremendo,

cavalcava Nestor leggiadro e bello,

un gran baston di ferro in man tenendo;

e sì come falcon che di cappello

esce, s'andava tutto plaudendo,

da molti cavalier da ogni lato

molto nobilemente accompagnato.

 

34

 

Nella terra de' Ciclopi festando

in cotal guisa se n'entrò Nestore,

di che ciascun si gia maravigliando,

faccendo a lui iusto 'l potere onore;

e e', che ben sapeva dimostrando

andare a tutti il suo sommo valore,

a tutti onor facea, finché pervenne

dove Teseo con gli altri lui ritenne.

 

 

Viene il re Evandro

 

35

 

Evandro, nato nel gelido colle

Cilleno di Carmenta e di colui

che l'anime da' corpi morti tolle,

in ozio star con li popoli sui

nella steril Nonacria non volle;

ma per mostrar la sua potenza altrui,

essendo ancora prospero e regnante,

con molti suoi baron giunse festante.

 

36

 

Egli era in su tesalico destriere,

co' suoi insieme andando baldanzoso,

e era armato d'armi forti e fiere,

e per mantello un cuoio d'orso piloso

libistrico, le cui unghie già nere

sotto oro eran nascose luminoso,

e de' suoi molti avean tal copertura,

e di leone alcun la pelle dura.

 

37

 

Altri avean pelli di tori lunati,

tutte di cari limbi circuite,

e alcuni erano in cinghiar fasciati,

nullo v'aveva con armi pulite;

così insieme tutti divisati

circuivano Evandro, come udite,

il qual dall'una man saette avea,

dall'altra uno arco e il caval reggea.

 

38

 

A cui da l'armo pendeva sinestro

uno scudo, assai rozzo per lavoro,

nel qual pareasi Atlanciade, silvestro

fatto, Argos ingannar col suo sonoro

nuovo strumento, e lui uccider destro

lì si vedeva ancor, sanza dimoro;

eravi ancor quando divenne Geta

per far del padre la volontà cheta.

 

39

 

Eravi ancor ciò che per Erse fece;

e altre opere sue v'eran distinte,

le qua' per brevità dir qui non lece,

ma pur tra l'altre da parte dipinte,

l'opere sue già fatte dritte o biece,

eran le braccia sue al collo avvinte

di Carmenta, di cui Evandro nacque

ne' tempi ch'ella in Cilleno a lui piacque.

 

40

 

In cotal guisa co' suoi, rugginoso

dell'arme e del sudor, venne in Attene,

e ben che bel non paia, valoroso

chiunque il vede veramente il tene;

e fé del modo suo, non borioso

ma utile, parlare a tutti bene;

ben s'amiraron della condizione,

chiunque il vide, a sì fatto barone.

 

 

Viene Peritoo, figliuolo d'Isione

 

41

 

Vennevi Peritoo, che della madre

ancor le guancie sanza pelo avea;

questi, con veste di drappi leggiadre,

di biltà tutto nel viso splendea:

bianco, vermiglio e con le luci ladre,

chi 'l rimirava con amor prendea;

e biondo assai vie più che fila d'oro,

incoronato di frondi d'alloro.

 

42

 

Né crede alcun che sì bel fosse Adone

di Cinera, da Vener tanto amato,

quanto era Peritoo ancor garzone,

morbido nello aspetto e dilicato;

costui montato sopra un gran roncione,

del seme di Nettunno procreato,

venne ad Attene, e 'ncontro li si feo

il suo amico, con festa, Teseo.

 

43

 

E ben che fosse molto conosciuto

Peritoo in Attene, nondimeno

sì era elli volontier veduto;

per che ciaschedun luogo v'era pieno

di popol ch'era a lui veder venuto,

tanto ch'appena in loco non capeno;

così col suo Teseo sen venne adagio,

e con lui smontò nel suo palagio.

 

 

Vegnono Ulisse e Diomede

 

44

 

E il duca narizio, giovinetto

ancora molto, vi mandò Laerte,

da cui li fur con paternale affetto

l'arme lucenti primamente offerte;

le quali e' prese con sommo diletto,

e assai parli ogni poco che esperte

l'abbia; e con seco menò Diomede,

cui sempre amò con amichevol fede.

 

 

Vegnonvi Pigmaleone e Sicceo

 

45

 

E di Sidonia ancor Pigmaleone

vi venne; e fuvvi con esso Siceo,

che poi fu sposo dell'alta Didone,

e a' Fenici nobili si feo

seguire a guisa di sommo barone;

e con li suoi insieme da Teseo

fu onorato magnificamente

e ricevuto molto caramente.

 

 

Vegnono Minòs re di Creti, e Radamante e Sarpedone

 

46

 

Quivi nell'arme con solenne stuolo

il gnosiaco re della dittea

isola, già d'Europa figliuolo,

vi venne, che ancora non avea

del suo bello Androgeo sentito il duolo;

e 'n su la riva d'Attene lernea

discese, e fé con l'ancore fermare

le navi lì che 'l doveano aspettare.

 

47

 

Di dietro a cui discese Radamante,

fratel di lui, e Sarpedone appresso,

e le lor genti ancora tutte quante.

Quivi era un carro orrevole per esso,

sovra 'l quale e' montò; e messa avante

la gente sua, non però molto cesso,

inverso Attene il camin prese tosto,

sì come avea nella mente disposto.

 

48

 

Il manco lato uno scudo gli armava,

nel qual vedeansi i regni di Nereo,

e come Giove in que' toro notava,

carico d'Europa onde nasceo;

e' liti v'eran dove la posava

soavemente nel regno ditteo;

e similmente la casside bella

tutta lucea della paterna stella.

 

49

 

Erano i campi, l'argini e le strade,

le porte de' palazzi e li balconi,

come che fossero o ispesse o rade,

piene di donne tutte e di baroni,

per veder di Minòs la dignitade;

e vecchi antichi e giovani garzoni

tutti venuti v'erano a mirare

il gran baron nella lor terra entrare.

 

50

 

Il qual v'entrò con molto grande onore,

e più vide ciascun che non credea

veder di lui d'altezza e di valore;

e furvi assai che poi non disser rea

né biasimarono il focoso amore

di Silla, allor ch'ogni altro la dicea

degna di morte per lo padre ucciso,

sé rimembrando quale e' l'avean viso.

 

 

Viene Anchelado bistone

 

51

 

Vennevi ancora Anchelado bistone

a dimostrar della sua gran prodezza,

con nobil compagnia d'ogni ragione:

audaci erano e pien di fiereza

dintorno a lui, che sopra un gran roncione

mostrava chiara la sua adornezza;

e' fu da tutti in Attene, veduto,

con lieto viso assai ben ricevuto.

 

Viene Ida pisano

 

52

 

E ben che molti de' liti d'Alfeo

venissor quivi a volere onorarsi,

non volle rimanere Ida piseo,

ma per alquanto quivi dimostrarsi,

pensando al suo valore, il quale il feo

nelli giuochi olimpiaci pregiar, sì

che coronato fu; e 'n compagnia

gente menò di somma valentia.

 

53

 

Questi era tanto nel corso leggiere,

veloce e presto, che nulla saetta

da Partico o Cidone o altro arciere

mandata fu di nervo con tal fretta,

che lenta non paresse e che diriere

non li fosse rimasa per dispetta;

e tanto e sì e' tal fiata correa,

ch'agli occhi de' miranti si togliea.

 

54

 

Questi saria nel fluttuoso mare,

qualora e' più inver lo ciel crucciato

istende i suoi marosi col gridare,

correndo con asciutte piante andato;

né li saria paruto grave affare

l'esser trascorso sanza aver guastato

alcuna spiga sopra li tremanti

campi spigati e col vento sonanti.

 

Viene Ameto, re di Tesaglia

 

55

 

E oltre a questi ancor vi venne Ameto

lucente di reale adornamento,

di mezza etate, nello aspetto lieto,

il quale in uno scudo d'ariento,

in forma di pastore umile e queto

d'oro portava Febo, che l'armento

di lui ne' verdi boschi pasturava,

e in Anfriso poi gli abeverava.

 

56

 

Questi infra' suoi Foloèn cavalcando

di verde quercia inghirlandato, giva;

il qual da il castalio somigliando

gregge fremendo adizzato anitriva,

or qua or là co' piedi il suol pestando,

ferendo chi appresso li veniva;

e Irim gli menava avanti a destro,

tutto coverto uno scudier sinestro.

 

57

 

E così con gli Ematici sen venne

fino in Attene in atto baldanzoso;

quivi al palagio di Teseo si tenne

il caval fiero e d'andare animoso;

là dove fu, sì come si convenne,

ben ricevuto assai dal valoroso

Teseo, il qual l'aveva per amico,

non or di nuovo, ma già ab antico.

 

 

Vennervi altre genti e popoli assai

 

58

 

Di Boezia vi venne molta gente,

quali ad Arcita e quali a Palemone,

però che lì ciascuno era possente

e ne' popoli avea iurisdizione;

onde ciascuno in tal punto fervente

a far servigio di sua soiezione

venne ad Attene sanza dimorare,

armati bene e belli a riguardare.

 

59

 

Quivi i Dircei, per tema di Teseo

fuggiti già, le spelunche lasciate,

chi venne a Palemon, chi a Penteo;

tra' qua' le genti fur che son bagnate

dalle spumanti ripe d'Ismeneo,

e quelle ch'a Citeron suggiocate

sono e a' monti Ogigii tutti quanti,

o vicini ad Elicona abitanti.

 

60

 

E quelli, i quali Esopo, troppo altiero

contra l'iddii per Egina furata,

veggono spesso torbido e sincero,

vi furon tutti, gente bene armata;

e 'l popol d'Antedon tututto intero

con altri molti di quella contrata,

contenti assai de' signor riavuti,

li qua' credean del tutto aver perduti.

 

 

Assegna la cagione d'alquanti che vi sarebbono suti, per che non vi furono

 

61

 

Avrebbe quivi Cefiso mandato

Narcisso, se non fosse che in fiore

già ne' campi tespiaci mutato

era, per troppo a sé avere amore,

spesso dal padre in su il lito bagnato,

sì com'io credo, per troppo dolore

d'aver perduto en la sua fanciullezza

il caro figlio per troppa bellezza.

 

62

 

E Leandro era già stato raccolto

dalla sua Ero nel lito di Sesto,

sospinto dal dalfin, con tristo volto

e di lagrime pieno amare e mesto,

e da lei pianto con sospiri molto;

il non esservi adunque fu per questo,

né' suoi vi gir, perché perduto aveno

il lor signor cui seguitar doveno.

 

63

 

Sarebbevi Erisiton driopeo

similemente a combatter venuto,

ma per la debolezza non poteo,

già magro e sanza forza divenuto

per l'albero lo quale e' tagliar feo,

che era stato a Ceres conceduto;

rimase adunque e non vi poté gire,

ma li convenne di fame morire.

 

64

 

Furvi altri assai e popoli e contrade,

tanti che ben non gli saprei contare,

sì gli nasconde in sé la lunga etade;

né li vi fece bisogno menare,

ma de' signori il voler nobiltade

ciascun con le sue genti dimostrare,

vaghi d'acquistar fama con onore,

ciascun secondo fosse il suo valore.

 

 

Come tutti coloro che vi vennero furono da tutti onorevolmente ricevuti

 

65

 

Qualunque fu de' possenti signori,

re, duca, prenze o altro d'onor degno,

o qual si fosser piccoli o maggiori,

che di Teseo venisse allor nel regno,

e' fur con sommi e lietissimi onori

ricevuti, ciascun con tutto ingegno;

e per sé prima gli onorava Egeo,

e poi con lieto viso il buon Teseo.

 

66

 

Ipolita reina lietamente

quanti ne venner tutti ricevette

con alta festa e graziosamente;

né la giovane Emilia si stette,

ma quanto più poté similemente.

bella tenuta da chi la vedette,

tanto a tututti si mostrava lieta,

d'ogni grazia piena e mansueta.

 

67

 

Né furon folli Arcita e Palemone

tenuti da chi seppe i fatti loro,

se l'un s'era fuggito di prigione

e l'altro oltre il mandato a far dimoro

nella vietata bella regione,

per acquistar così fatto tesoro;

né s'amiraron se non voller loco

dar l'uno a l'altro en l'amoroso foco.

 

68

 

E ben fu giudicato che 'l suo amore

fosse troppo più caro da comprare,

che pria non fu di Tebe esser signore

o di quantunque cinge il verde mare,

e che bene investito era 'l valore

di tanti probi quanti ivi adunare

avea fatti fortuna a dar sentenza

ultima con lor arme a tale intenza.

 

69

 

Se gli alti regi furono onorati

da Palemone e dal gentile Arcita,

non cal ch'i' 'l narri, ché uomini nati

non si crede che mai in questa vita

fossero co' servigi lieti e grati

veduti come questi, a' qua' fornita

era ogni voglia, sol che essi dire

volesser ciò che non potean sentire.

 

70

 

Alti conviti e doni a regi degni

s'usavan quivi, e sol d'amor parlare,

e' vizii si biasmavano e li sdegni;

giovenil giuochi e sovente armeggiare

il più del tempo occupavan gl'ingegni,

o in giardin con donne festeggiare;

lieti v'erano i grandi e i minori,

e adagiati da' fini amadori.

 

71

 

E certo, poi che Pallade quistione

con Nettunno ebbe a nomar la cittade,

gente adunata d'alta condizione

né tanta né di sì gran nobiltade

non s'era vista per nulla stagione;

il che Teseo in somma dignitade

il si tenea, e fra l'altre sue cose

più degne di memoria questa pose.

 

Qui finisce il libro sesto del Teseida

 

 

 

LIBRO SETTIMO

 

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro settimo

 

 

Dimostra il libro settimo il parlare

che fé Teseo a' prencipi adunati,

e dopo quello assai aperto appare

quai d'essi fosser da ciascun de' lati                                         4

 

de' due Tebani, e poscia il loro orare;

quindi le case delli iddii pregati

disegna, appresso lor faccendo andare

u' di milizia furono adornati.                                                     8

 

E al teatro quindi li conduce

per vie diverse, ove gli Atteniesi

già eran tutti; quivi, alla lor luce                                                11

 

Emilia miran; ma, nel viso accesi,

i suoi conforta e priega ciascun duce,

ad aspettare il segno poscia attesi.                                           14

 

Incomincia il libro settimo del Teseida. E prima la diceria di Teseo e il partire de' prencipi greci in due parti

 

1

 

Mentre che la fortuna sì menava

in Attene le cose in allegrezza,

il giorno dato alli due s'appressava,

per che con lieta e gran piacevolezza

Teseo i duci, li quali onorava,

raunò insieme tutti e la grandezza

del teatro mostrò loro, e appresso

tutti s'affisser a seder con esso.

 

2

 

Stette Teseo con li venuti regi

labdacii nel teatro eminente,

co' quali insieme li baroni egregi

furono alquanto più umilemente,

e tutti gli altri popoli e collegi

nel pian sedettero intentivamente,

sì che Teseo potessero udire,

che, in piè levato, così prese a dire:

 

3

 

– Signori, io credo che ciascun sentito

abbia perché tra li Teban quistione

sia nata tale, e ancora 'l partito

che io die' loro e non sanza ragione,

però di ciò c'han contro a me fallito

né della mia pietà qui far menzione

più non intendo, né del loro amore,

non conosciuto da chi non l'ha in core.

 

4

 

Ma certo, quand'io loro in pace posi

e nelle man di cento e cento diedi

l'amor di quella ond'eran sì bramosi,

non mi credetti che lance né spiedi

né troppi ferri chiari o rugginosi

né gran cavai né grandi uomini a piedi

dovesser terminar cotanto foco,

ma esser ciò com'un palestral gioco.

 

5

 

E non credetti che tutta Lernea

sotto li regi achivi si movesse

per sì poca di cosa, anzi credea

che ciaschedun de' suoi vassalli avesse

a terminar così fatta mislea,

e che con brievi forze li piacesse

l'un contra l'altro questo amore avere,

lo qual mostra sia lor tanto in piacere.

 

6

 

Ma essi forse credendosi ch'io

non conoscessi loro esser potenti,

di mostrarlomi lor venne in disio,

e voi han fatto qui con vostre genti

venire per pagar d'amore il fio,

per cui e' son contra 'l dover ferventi;

e io son ben contento che ci siate

e che essi abbian lor forze mostrate.

 

7

 

Ma tuttavia la cosa ad altro segno

vi priego che mandiate, com diraggio;

qui non ha zuffa per acquistar regno

o per pigliar perduto ereditaggio,

qui non è tra costor mortale sdegno,

qui non si cerca di commesso oltraggio

vendetta, ma amore è la cagione,

com'ho già detto, di cotal quistione.

 

8

 

Dunque amorosa dee questa battaglia

esser, s'io ben discerno, e non odiosa;

l'odiose sien di chi mal far travaglia,

o di chi n'ha ragion per altra cosa,

o degli aspri Centauri di Tesaglia,

i qua' non sanno mai che si sia posa,

e non tra noi che, ben che siam creati

chi qua chi là, pur d'un sangue siam nati.

 

9

 

E come poria io mai sofferire

vedere il sangue larisseo versare

e l'un pe' colpi dell'altro morire

come al seme di Cadmo piacque fare?

Oggi non è quel tempo né quelle ire;

però con lor le lasciàn dimorare,

e noi viviam come inseme dovemo,

e leggier per amor ne combattemo.

 

10

 

Chi sarà que' che per sì fatta cosa

volesse tanti popoli in periglio

porre di gente tanto valorosa

quant'io qui veggio? E' saria mal consiglio,

e all'iddii saria molto odiosa

veder qui contro al padre uscire il figlio

e ferir l'un contra l'altro parente

co' ferri in man nimichevolemente.

 

11

 

Poi ch'a tal fine qui sete adunati,

perché vostra venuta invan non sia,

secondo che più son da voi amati

li due amanti, come ognun disia,

così si tragga, e cento nominati

per parte siate, sì come la mia

sentenzia diè il dì ch'io li trovai

d'affanno, d'ira e d'amor pieni assai.

 

12

 

E acciò ch'odio fra voi non nascesse,

le lance più nocive lascerete;

sol con le spade o con mazze l'espresse

forze di voi contenti proverete;

e le bipenni porti chi volesse,

ma altro no: di queste assai avete;

e quelli a cui il bene ovrar vittoria

darà, s'avrà e la donna e la gloria.

 

13

 

Questo sarà come un giuoco a Marte,

li sacrifici del qual celebriamo

il giorno dato; e vederassi l'arte

di menar l'armi in che c'esercitiamo;

e perciò ch'io giudice, non parte,

qui esser debbo dove noi seggiamo,

sanza arme i vostri fatti porrò mente;

però di ben portarvi aggiate a mente. –

 

14

 

De' nobili e del popolo il romore

toccò le stelle, sì fu alto e forte,

– L'iddii – dicendo, – servin tal signore

che delli amici suoi fugge la morte,

e con pietoso e grazioso amore

dà ne' contrasti men gravosa sorte. –

E in quel loco, sanza dipartirsi,

cento e cento s'elessero e partirsi.

 

15

 

Levossi adunque prima in piedi Arcita

e in parte del teatro si trasse;

appresso Palemon d'altra partita

a fronte disse Teseo se n'andasse,

e ciaschedun della gente lì sita

con cui più li piacesse si tirasse.

Avea detto, e però immantanente

se n'andaro ad Arcita questa gente.

 

16

 

Il primo fu il fiero Agamenone,

poi Menelao e Polluce e Castore

con la lor gente, e poi Pignaleone;

il re Ligurgo e di Pilos Nestore,

e 'l gran Pelleo col popol mirmodone,

e 'l tirinzio Cromis di valore,

Sicceo e Peritoo ancor vi giro,

e Ippodomo e altri più il seguiro.

 

17

 

A Palemone andò Ida pisano,

e dopo lui Ulisse e Diomede,

e Minòs e' fratelli a mano a mano,

e 'l re Evandro, a cui non servar fede

li suoi che 'l fer del suo reame strano

gir per lo mondo, come ancor si crede;

andovvi di Tesaglia il grande Ameto,

e Anchelado, e Niso a lui dirieto.

 

18

 

Così divisi, delli suoi elesse

Arcita diece, li qua' caramente

pregò che ciascun nove ne prendesse

con seco della sua più cara gente,

acciò che cento de' migliori avesse;

e essi il fecero assai prestamente,

e scritti furo, e agli altri fu detto

che buon tempo si desser con diletto.

 

19

 

Il simil fece ancora Palemone;

e di buoni uomin si trovar sì pari,

ched e' non v'era variazione;

e credesi che non ne fosser guari

rimasi al mondo di tal condizione,

così gentili e per prodezza pari,

quale era quivi l'uno e l'altro cento:

di che Teseo fu assai contento.

 

20

 

Adunque, posto sotto grave pena

lo stare in pace per cosa ch'avegna

a tutti gli altri, Teseo ne li mena

seco per via onorevole e degna

per la cittade d'allegrezza piena,

dove col padre insiememente regna;

e come prima insieme assai contenti

li re si stavan tutti e le lor genti.

 

21

 

E posto che l'un l'altro conoscea

col qual dovea le sue forze provare,

nulla division vi si vedea

però in alcuno atto adoperare;

anzi ciascuno quanto più potea

a quelli a' qua' doveva incontro andare,

con tutto cuor di piacer s'ingegnava;

così in ben con festa vi si stava.

 

 

Come i Tebani andaro a' templi a pregare l'iddii che gli atassero nella battaglia futura; e prima Arcita in quel di Marte

 

22

 

Già era il dì al quale il dì seguente

combatter si dovea, quando l'iddii

Palemone e Arcita umilemente

giro a pregare, e con affetti pii,

sopra gli altari stando foco ardente,

incensi diero, e con sommi disii

dier prieghi a tutti che ciascun gli atasse

il dì seguente in ciò che bisognasse.

 

23

 

Ma pure Arcita ne' templi di Marte,

poscia ch'egli ebbe gli altri visitati

e dati fuochi e 'ncensi in ogni parte,

si ritornò, e quelli alluminati

più ch'altri assai e con più solenne arte

e di liquor sommissimi rorati,

con cuor divoto tale orazione

a Marte fece con gran divozione

Orazione d'Arcita a Marte.

 

24

 

– O forte Iddio, che ne' regni nevosi

bistonii servi le tue sacre case,

ne' luoghi al sol nemici e tenebrosi,

de' tuoi ingegni piene per quai rase

d'ardir le fronti furo agli orgogliosi

fi' della Terra, allor ch'ognun rimase

di morte freddo in sul suol per le prove

fatte da te e dal tuo padre Giove,

 

25

 

se per alto voler la mia etate

e le mie forze meritan che io

de' tuoi sia detto, per quella pietate

ch'ebbe Nettunno allor che con disio

di Citerea usavi la biltate,

rinchiuso da Vulcano, ad ogni iddio

fatto palese, umilmente ti priego

ch'alli miei prieghi tu non facci niego.

 

26

 

Io son, come tu vedi, giovinetto,

e per nuova bellezza tanto Amore

sotto sua signoria mi ten distretto,

che le mie forze e tutto mio valore

conviene ovrarmi, se io vo' diletto

sentir di ciò che più disia il core;

e sanza te io son poco possente,

anzi più tosto non posso niente.

 

27

 

Dunque m'aiuta per lo santo foco

che t'arse già, sì come me arde ora,

e nel presente mio palestral gioco

con le tue forze nel pugnar m'onora;

certo sì fatto don non mi fia poco,

ma sommo bene; adunque qui lavora;

s'io son di questa pugna vincitore,

io il diletto e tu n'abbi l'onore.

 

28

 

I templi tuoi etterni s'orneranno

dell'arme del mio vinto compagnone,

e ancora le mie vi penderanno,

e fiavi disegnata la cagione;

etterni fuochi sempre v'arderanno,

e la barba e' miei crin, che offensione

di ferro non sentiron, ti prometto,

se mi fai vincer come io ho detto. –

 

 

Come l'orazione di Arcita pervenne a Marte, e come e dove sia fatto il tempio suo

 

29

 

Era allor forse Marte in esercizio

di chiara far la parte rugginosa

del grande suo e orribile ospizio,

quando d'Arcita l'Orazion pietosa

pervenne lì per fare il dato ofizio,

tututta nello aspetto lagrimosa;

la qual divenne di spavento muta,

com di Marte ebbe la casa veduta,

 

30

 

ne' campi trazii, sotto i cieli iberni,

da tempesta continua agitati,

dove schiere di nimbi sempiterni

da' venti or qua e or là trasmutati

in varii luoghi ne' guazzosi verni,

e d'acqua globi per freddo agroppati

gittati sono, e neve tuttavia

che 'n ghiaccio a mano a man s'indura e cria;

 

31

 

e una selva steril di robusti

cerri, dove era, folti e alti molto,

nodosi e aspri, rigidi e vetusti,

che d'ombra etterna ricuoprono il volto

del tristo suolo, e 'ntra gli antichi fusti

di ben mille furor sempre ravolto

vi si sentia grandissimo romore,

né v'era bestia alcuna né pastore:

 

32

 

in questa vidde la ca' dello dio

armipotente, questa edificata

tutta d'acciaio splendido e pulio,

dal quale era dal sol riverberata

la luce che abborreva il luogo rio;

tutta di ferro era la stretta entrata,

e le porte eran d'etterno adamante

ferrate d'ogni parte tutte quante.

 

33

 

E le colonne di ferro costei

vide che l'edificio sosteneno;

lì l'Impeti dementi parve a lei

veder, che fier fuor della porta uscieno;

e il cieco Peccare, e ogni Omei

similemente quivi si vedieno;

videvi l'Ire rosse come foco,

e la Paura pallida. in quel loco.

 

34

 

E con gli occulti ferri i Tradimenti

vide, e le 'nsidie con giusta apparenza;

lì Discordia sedea e sanguinenti

ferri avea in mano, e ogni Differenza;

e tutti i luoghi pareano strepenti

d'aspre Minacce e di Crudele Intenza;

e 'n mezzo il loco la Vertù tristissima

sedea, di degne lode poverissima.

 

35

 

Videvi ancora l'allegro Furore,

e oltre a ciò con volto sanguinoso

la Morte armata vide e lo Stupore;

e ogni altar quivi era copioso

di sangue, sol nelle battaglie fore

de' corpi uman cacciato, e luminoso

era ciascun di fuoco tolto a terre

arse e disfatte per le triste guerre.

 

36

 

E era il tempio tutto istoriato

da sottil mano e di sopra e dintorno;

e ciò che pria vi vide disegnato

eran le prede, di notte e di giorno

tolte alle terre; e qualunque sforzato

fu, era quivi in abito musorno;

vedeanvisi le genti incatenate,

porti di ferro e fortezze spezzate.

 

37

 

Videvi ancor le navi bellatrici,

i voti carri e li volti guastati,

e i miseri pianti e infelici,

e ogni forza con gli aspetti elati;

ogni. fedita ancor si vedea lici,

e' sangui con le terre mescolati;

e in ogni luogo con aspetto fiero

si vedea Marte torbido e altiero.

 

38

 

E tal ricetto edificato avea

Mulcifero sottil con la sua arte,

prima che 'l sol gli avesse Citerea

mostrata co' suoi raggi esser con Marte.

Il quale di lontan ciò che volea

colei sentì, e seppe di che parte

ella venia a lui sollecitare;

per che la prese e 'ntese il suo affare.

 

39

 

Udita questa adunque di lontano

da Arcita mandata umilemente,

sanza più star sen gio a mano a mano

là dov'era chiamato occultamente;

né prima i templi il loro iddio sovrano

sentiron che tremaron di presente

e rugghiar tutte ad una ora le porte:

di che Arcita in sé temette forte.

 

40

 

Li fuochi dieron lume vie più chiaro

e diè la terra mirabile odore,

e' fummiferi incensi si tiraro

a l'imagine lì posta ad onore

di Marte, le cui armi risonaro

tutte in sé mosse con dolce romore;

e segni dierono al mirante Arcita

che la sua orazion era esaudita.

 

41

 

Dunque contento il giovinetto stette

con isperanza di vittoria avere;

né quella notte di quel tempio uscette,

anzi la spese tututta in preghiere,

e più segnali in quella ricevette

che gli affermaron più le cose vere;

ma poscia che li apparve il novo giorno,

fecesi armare il giovinetto adorno.

 

 

Come Palemone andò ad orare nel tempio di Venere

 

42

 

Palemon similmente fatto avea

ciaschedun tempio d'Attene fummare,

né 'n cielo avea lasciato dio o dea

il qual per sé non facesse pregare;

ma sopra tutti gli altri Citerea

li piacque più il giorno d'onorare

con incensi e con vittime pietose,

e nel suo tempio ad adorar si pose.

 

43

 

E fé divoto cotale orazione:

– O bella dea, del buon Vulcano sposa,

per cui s'allegra il monte Citerone,

deh, i' ti priego che mi sii pietosa

per quello amor che portasti ad Adone;

e la mia voglia per te amorosa

contenta, e fa la mia destra possente

doman, per modo ch'io ne sia godente.

 

44

 

Nulla persona sa quanto io amo,

niun conosce il mio sommo disio,

nullo poria sentir quant'io la bramo,

la bella Emilia, donna del cor mio,

cui giorno e notte e sempre e ognor chiamo,

se non se tu e 'l tuo figliulo iddio,

li qua' sentite dentro quanto amore

per lei martira me suo servidore.

 

45

 

Io non poria con parole l'affetto

mostrar ch'io ho, né dir quanto io sento;

tu sola il ti conosci e al difetto

puoi, dea, dar lontan contentamento

e 'l mio penar ritornare in diletto,

se tu fai ciò di che io qui attento

tanto ti priego, ciò è che io sia

in possession di Emilia, donna mia.

 

46

 

Io non ti cheggio in arme aver vittoria

per li templi di Marte d'armi ornare;

io non ti cheggio di portarne gloria

di que' contra de' quai doman provare

mi converrà né cerco che memoria

lontana duri del mio operare;

io cerco sola Emilia, la qual puoi

donarmi, dea, se donar la mi vuoi.

 

47

 

Il modo trova tu, ch'io non ne curo;

o ch'io sia vinto o ch'io sia vincitore

m'è poco caro, s'io non son sicuro

di possedere il disio del mio amore;

però, o dea, quel che t'è men duro

piglia, e sì fa che io ne sia signore;

fallo, i' te ne priego, o Citerea,

e ciò non mi negare, o somma dea.

 

48

 

Li templi tuoi saran sempre onorati

da me, sì come degni fermamente,

e di mortine spesso incoronati;

e ogni tuo altar farò lucente

di fuoco, e sacrifizii fien donati

quali a tal dea si deon certamente;

e sempre il nome tuo per eccellenza

più ch'altro iddio avrò in reverenza.

 

49

 

E se t'è grave ciò ch'io ti domando

far, fa che tu nel teatro la spada

primaia prendi, e il mio cor forando,

costringi che lo spirto for ne vada

con ogni vita, il campo insanguinando;

ché cotal morte troppo più m'agrada

che non farebbe sanza lei la vita,

vedendola non mia, ma sì d'Arcita. –

 

 

Come l'orazione pervenne a Venere, e come fatto e dove sia il tempio suo

 

50

 

Come d'Arcita Marte l'orazione

cercò, così a Venere pietosa

se n'andò sopra 'l monte Citerone

quella di Palemon, dove si posa

di Citerea il tempio e la magione

fra altissimi pini alquanto ombrosa;

alla quale appressandosi, Vaghezza

la prima fu che vide in quella altezza.

 

51

 

Con la quale oltre andando, vide quello

ad ogni vista soave e ameno,

in guisa d'un giardin fronzuto e bello

e di piante verdissime ripieno,

d'erbette fresche e d'ogni fior novello,

e fonti vide chiare vi surgeno,

e intra l'altre piante onde abondava,

mortine più che altro le sembiava.

 

52

 

Quivi sentì pe' rami dolcemente

quasi d'ogni maniera uccei cantare,

e sovra quelli ancor similemente

li vide con diletto i nidi fare;

poscia fra l'erbe fresche prestamente

vide conigli in qua e 'n là andare,

e timidetti cervi e cavriuoli

e altri molti varii bestiuoli.

 

53

 

Similemente quivi ogni strumento

le parve udire e dilettoso canto;

onde passando con passo non lento

e rimirando, in sé sospesa alquanto,

dell'alto loco e del bello ornamento,

ripieno il vide quasi in ogni canto

di spiritei, che qua e là volando

gieno a lor posta; a' quali essa guardando,

 

54

 

tra gli albuscelli, ad una fonte allato,

vide Cupido fabricar saette,

avendo alli suoi piè l'arco posato

le quai sua figlia Voluttà selette

nell'onde temperava; e assettato

con lor s'era Ozio, il quale ella vedette

che con Memoria poi l'aste ferrava

de' ferri ch'ella prima temperava.

 

55

 

Poi vide in quel passando Leggiadria

con Addornezza e Affabilitate,

e la smarrita in tutto Cortesia;

e vide l'Arti c'hanno potestate

di fare altrui a forza far follia,

nel loro aspetto molto sfigurate

da l'imagine nostra; e Van Diletto

con Gentilezza vide star soletto.

 

56

 

Poi presso a sé vide passar Bellezza

sanza ornamento alcun, sé riguardando;

e gir con lei vide Piacevolezza,

e l'una e l'altra seco commendando;

poi con lor vide starsi Giovanezza,

destra e adorna, molto festeggiando;

e d'altra parte vide il folle Ardire,

Lusinghe e Ruffiania insieme gire.

 

57

 

E 'n mezzo il luogo in su alte colonne

di rame un tempio vide, al qual dintorno

danzando giovinetti vide e donne,

qual da sé bella e qual d'abito adorno,

discinte, scalze, in capelli e in gonne,

e in ciò sol dispendevano il giorno;

poi sopra 'l tempio vide volitare

passere molte e colombi ruccare.

 

58

 

E all'entrata del tempio vicina

vide che si sedeva pianamente

madonna Pace, e in mano una cortina

'nanzi alla porta tenea lievemente;

appresso a lei, in vista assai tapina,

Pazienza sedea discretamente,

palida nello aspetto; e d'ogni parte

dintorno a lei vide Promesse e Arte.

 

59

 

Poi dentro al tempio entrata, di Sospiri

vi sentì un tumulto che girava

focoso tutto di caldi Disiri;

questo gli altari tutti alluminava

di nuove fiamme nate di Martiri,

de' quai ciascun di lagrime grondava

mosse da una donna cruda e ria,

che vide lì, chiamata Gelosia.

 

60

 

E in quel vide Priapo tenere

più sommo luogo, in abito tal quale

chiunque il volle la notte vedere

poté, quando ragghiando l'animale

più pigro destò Vesta, che 'n calere

non poco gli era e 'nver di cui cotale

andava; e simil per lo tempio grande

di fior diversi assai vide ghirlande.

 

61

 

Quivi molti archi a' cori di Diana

vide appiccati e rotti, intra' quali era

quel di Calisto, fatta tramontana

Orsa; e le pome v'eran della fiera

Atalanta che 'n correr fu sovrana,

e ancor l'arme di quell'altra altiera

che partorì il bel Partenopeo,

nepote al calidonio Oeneo.

 

62

 

Videvi istorie per tutto dipinte,

intra le quai, con più alto lavoro,

della sposa di Nin vide distinte

l'opere tutte; e vide a piè del moro

Piramo e Tisbe, e già le gelse tinte;

e il grande Ercul vide tra costoro

in grembo a Iole, e Biblis dolorosa

andar pregando Cauno pietosa.

 

63

 

Ma non vedendo Vener, le fu detto,

né conobbe da cui: – In più secreta

parte del tempio si sta a diletto;

se tu la vuo', per quella porta cheta

te n'entra. – Ond'essa sanz'altro rispetto,

in abito quale era mansueta,

là s'appressò per entrar dentro ad essa,

per l'ambasciata fare a lei commessa.

 

64

 

Ma essa lì nel suo primo venire

trovò Ricchezza la porta guardare,

la qual le parve assai da reverire;

e lasciata da lei quiv'entro entrare,

il luogo vide oscur nel primo gire;

ma poca luce poscia per lo stare

vi prese, e vide lei nuda giacere

sopr'un gran letto assai bello a vedere.

 

65

 

Ella avea d'oro i crini e rilegati

intorno al capo sanza treccia alcuna;

il suo viso era tal, che' più lodati

hanno a rispetto bellezza nessuna;

le braccia e 'l petto e' pomi rilevati

si vedean tutti, e l'altra parte d'una

veste tanto sottil si ricopria,

che quasi nulla appena nascondia.

 

66

 

Oliva il luogo di ben mille odori;

dall'un de' lati Bacco le sedea,

da l'altro Ceres con li suoi savori;

e essa seco per la man tenea

Lascivia e 'l pomo il quale, alle sorori

prelata, vinse nella valle idea.

E tutto ciò veduto, porse il priego,

il qual fu conceduto sanza niego.

 

67

 

Di Palemon le voci adunque udite,

subito gì la dea ove chiamata

era, per che allora fur sentite

diverse cose en la casa sacrata,

e sì ne nacque in ciel novella lite

intra Venere e Marte; ma trovata

da lor fu via con maestrevol arte

di far contenti i prieghi d'ogni parte.

 

68

 

Stettesi adunque, mentre il mondo chiuso

tenne Appollo di luce, Palemone

dentro dal tempio sagrato rinchiuso

continuo in divota orazione,

sì come forse in quel tempo era in uso

a chi doveva far mutazione

d'abito scuderesco in cavaliere,

come e' doveva che era scudiere.

 

69

 

E certo li predetti innamorati

per lor piacevolezza in generale

da tutti gli Atteniesi erano amati;

per che l'iddii da ciascun con equale

animo furon tututti pregati

che li guardasser d'angoscia e di male,

e ciascheduno in modo contentasse

che di lor nullo mai si biasimasse.

 

 

Come Emilia sacrificò a Diana

 

70

 

Fra gli altri che all'iddii sacrificaro,

fu l'una Emilia più divotamente;

la qual, sentendo quanto ciascun caro

era de' due amanti alla sua gente,

non sofferse il suo cuor d'esser avaro

di porger prieghi a Diana possente,

in servigio di que' ch'amavan lei

più che gli uomini in terra o 'n cielo i dei.

 

71

 

E le serventi sue tutte chiamate,

co' corni pien d'offerte ragunare

le fé davanti a sé e disse: – Andate,

fate di Diana li templi mondare,

e le veste e' liquor m'aparecchiate

e l'altre cose da sacrificare. –

Elle n'andaro, e essa, in compagnia

di molte donne onesta, là seguia.

 

72

 

Fu mondo il tempio e di bei drappi ornato,

al quale ella pervenne, e quivi presto

tutto trovò ch'ella avea comandato;

e poi in loco a poche manifesto,

di fontano liquore il dilicato

corpo lavossi, e poi, fornito questo,

di bianchissima porpora vestissi,

e' biondi crin dalli veli scoprissi.

 

73

 

Quinci scoperse la sacra figura

di quella dea cui ella più amava,

e con la bianca man la fece pura,

se forse alcuna nebula vi stava;

poi senza avere in sé nulla paura

sovra l'altar soave la posava,

e quindi, di mirifici liquori

rorando, il tempio riempié d'odori.

 

74

 

E coronò di quercia cereale,

fatta venire assai pietosamente,

tututto il tempio e 'l suo capo altrettale;

poi fatto il grasso pin minutamente

spezzare a' servi, con misura equale

sopra l'altare, molto reverente

due roghi fece di simil grossezza,

né ebbe l'un più che l'altro d'altezza.

 

75

 

Quindi con pia man v'accese il foco;

e quel di vino e di latte inaffiato

per tre fiate temperò un poco;

e poi lo ncenso preso e seminato

sopra di quello, riempié il loco

di fummo assai soave in ogni lato;

e poi si fé più tortole recare,

e 'l sangue lor sopra 'l foco sprizzare.

 

76

 

E molte bianche agnellette bidenti,

elette al modo antico e isvenate,

si fé recare avanti alle sue genti;

e tratti loro i cuori e le curate,

ancor li caldi spiriti battenti,

sopra gli accesi fuochi l'ha posate;

e cominciò pietosa nello aspetto

così a dir come appresso fia detto:

L'orazione d'Emilia a Diana.

 

77

 

– O dea a cui la terra, il cielo e 'l mare

e' regni di Pluton son manifesti

qualor ti piace di que' visitare,

prendi li miei olocausti modesti

in quella forma che io gli so fare;

ben so se' degna di maggior che questi,

ma qui al più innanzi non sapere

supplisca, dea, lo mio buon volere. –

 

78

 

E questo detto, tacque tanto ch'ella

vide ogni parte delli roghi accesa;

poi dinanzi a Diana la donzella

s'inginocchiò e, da pietate offesa,

di lagrime bagnò la faccia bella,

la quale inver la dea avea distesa;

quindi chinata stette assai pensosa,

poi la drizzò tututta lagrimosa;

 

79

 

e cominciò con rotta voce a dire:

– O casta dea, de' boschi lustratrice,

la qual ti fai a vergini seguire,

e se' delle tue ire vengiatrice,

sì come Atteon poté sentire,

allora ch'el più giovin che felice,

dalla tua ira ma non dal tuo nervo

percosso, lasso!, si mutò in cervo,

 

80

 

odi le voci mie, s'io ne son degna,

e quelle per la tua gran deitate

triforme priego che tu le sostegna;

e se e' non ti fia difficultate,

a lor donar perfezion t'ingegna,

se mai ti punse il casto cor pietate

per vergine nessuna che pregasse

over che grazia a te adomandasse.

 

81

 

Io sono ancora delle tue schiere

vergine, assai più atta a la faretra

e a' boschi cercar che a piacere

per amore a marito; e se s'aretra

la tua memoria, bene ancor sapere

dei quanto fosse più duro che petra

nostro voler contra Venere sciolta,

cui più che ragion segue voglia stolta.

 

82

 

Per che se 'l mio migliore è che' tuoi cori

seguiti ancora vergin giovinetta,

attuta gli aspri e focosi vapori ,

ch'accendono il disio, che sì m'affetta,

de' giovinetti di me amadori,

di cui gioia d'amor ciascuno aspetta;

e di lor guerra tra lor metti pace,

ché certo molto, e tu il sai, mi dispiace.

 

83

 

E se' fati pur m'hanno riservata

a giunonica legge sottostare,

tu mi dei certo aver per iscusata,

né dei però li miei prieghi schifare

e vedi ch'ad altrui son suggiugata,

e quel che i piace, a me convien di fare;

dunque m'aiuta e li miei prieghi ascolta,

s'io ne son degna, dea, questa volta.

 

84

 

Coloro i qua' per me ne' ferri aguti

doman non savi s'avilupperanno,

caramente ti priego che gli aiuti;

e' pianti miei, li quai d'ogni lor danno

per merito d'amor sarien renduti,

ti priego cessi, e facci il loro affanno

volvere in dolce pace o in altra cosa

ch'alla lor fama sia più gloriosa.

 

85

 

E se l'iddii forse hanno già disposto

con etterna parola che e' sia

da lor seguito ciò c'hanno proposto,

fa che e' venga nelle braccia mia

colui a cui più col voler m'acosto

e che con più fermezza mi disia,

ché io nol so in me stessa nomare,

tanto ciascun piacevole mi pare.

 

86

 

E basti a l'altro la vergogna sola,

sanza altro danno, d'avermi perduta;

e, se licita m'è questa parola,

fa che da me, o dea, sia conosciuta

in queste fiamme il cui incenso vola

a la tua deità, da cui tenuta

sarò; che per Arcita ci si pone

l'una, e l'altra poi per Palemone.

 

87

 

Almen s'adatterà l'anima trista

a men sospir per la parte perdente,

e più leggiera sosterrà la vista

quando il vedrò del teatro fuggente,

e la mia volontà, ch'è ora mista,

dell'una parte si farà parente;

l'altra con più forte animo fuggire

vedrà sappiendo ciò che dee venire. –

 

 

Ciò che ad Emilia orante apparve e come ella si partì del tempio

 

88

 

I fuochi ardean mentre Emilia pregava,

dando soave odor nel tempio adorno,

ne' quali Emilia tuttora mirava,

quasi per quelli sanza alcun sogiorno

veder dovesse ciò che disiava,

quando di Diana il cor l'apparve intorno

infaretrato, e disser: – Giovinetta,

tosto vedrai ciò che per te s'aspetta;

 

89

 

e già nel ciel tra l'iddii è fermato

che tu sii sposa dell'un di costoro,

e Diana n'è lieta, ma celato

poco ti sia qual debbia esser di loro,

se ben da te nel tempio fia mirato

ciò che averrà non fuor di questo coro;

però intenta inver gli altar rimira

e vedrai ciò che il tuo cor disira. –

 

90

 

E questo detto, sonar le saette

della faretra di Diana bella,

e l'arco per sé mossesi, né stette

più nulla lì di quelle, ma isnella

ciascuna a' boschi ginne onde venette.

Fremiro i cani, e il corno di quella

si sentì mormorar, laonde segni

Emilia prese che' prieghi eran degni.

 

91

 

La giovinetta le lagrime spinse

dagli occhi belli, e dimorando attenta

più ver lo foco le luci sospinse;

né stette guari che l'una fu spenta,

poi per sé si raccese, e l'altra tinse

e tal divenne qual talor diventa

quella del solfo, e, le punte menando,

in qua in là gia forte mormorando.

 

92

 

E parean sangue gli accesi tizzoni,

da' capi spenti tututti gemendo

lagrime tai, che spegnieno i carboni;

le quali cose Emilia vedendo,

gli atti non prese né le condizioni

debitamente del fuoco, che ardendo

si spense prima e poscia si raccese,

ma sol di ciò quel che le piacque intese.

 

93

 

E così nella camera dubbiosa

si ritornò com'ella n'era uscita,

ben che dicesse aver veduta cosa

che le mostrava sua futura vita.

Ella passò quella notte angosciosa

infin che ogni stella fu fuggita,

poi si levò e rifecesi bella

più che non fu mai matutina stella.

 

 

Come i due Tebani armati co' lor compagni uscir de' templi

 

94

 

Il ciel tutte le stelle ancor mostrava,

ben che Febea già palida fosse,

e l'orizonte tutto biancheggiava

nell'oriente, e eransi già mosse

l'ore, e col carro in cui la luce stava

giungevano i cavai, vedendo rosse

le membra del celeste bue levato,

dall'amica Titonia accompagnato;

 

95

 

per che ne' templi armati i due amanti

li lor compagni quivi convocaro,

e i fatti futuri tutti quanti,

dico del giorno, tra sé ordinaro,

e qua' fosser di dietro e qua' davanti

alla battaglia ancora stanziaro;

poscia con loro armati se n'usciro

de' templi e 'nverso Teseo se ne giro.

 

 

Come Teseo co' Tebani andò al tempio di Marte

 

96

 

Il gran Teseo, dagli alti sonni tolto,

ancor le ricche camere tenea

del suo palagio, en la cui corte molto

di popol cittadin vi si vedea;

il qual vi s'era per veder raccolto

che modo per li due vi si tenea

di ciò che e' doveano il giorno fare,

per Emilia la bella conquistare.

 

97

 

Quivi destrier grandissimi vediensi

con selle ricche d'ariento e d'oro,

e ispumanti li lor fren rodiensi,

tenuti da chi guardia avea di loro;

ringhiare e anitrir spesso sentiensi,

qual per amor, qual per odio tra loro;

e l'uno in qua e l'altro in là andava

di tali a piè, e alcun cavalcava.

 

98

 

Vedeanvisi venire i gran baroni,

di robe strane e varie addobbati,

e intra tutti eran varie quistioni;

qui tre, là quatro, e lì sei adunati,

tra lor mostrando diverse ragioni

di qual credevan dell'innamorati

che rimanesse il dì vittorioso,

faccendo un mormorar tumultuoso.

 

99

 

L'aula grande d'alti cavalieri

tutta era piena e di diversa gente;

quivi aveva giullari e ministrieri

di diversi atti copiosamente,

girfalchi, astor, falconi e isparvieri,

bracchi, levrieri e mastin veramente

su per le stanghe e in terra a giacere,

assai a' cuor gentil belli a vedere.

 

100

 

Tra queste genti magnifico molto

uscì Teseo con real vestimento,

ov'è con somma reverenza accolto;

e e' con alto e visto portamento

tutti li vide assai con lieto volto,

e domandò se ancora i duecento

eran venuti; a cui e' fu risposto:

– No, signor mio, ma e' verranno tosto. –

 

101

 

In questa venner, non per un cammino,

quasi in un punto, li due gran Tebani;

e qual, qualora a Libero divino

fa sacrificio ne' luoghi montani

la dircea plebe, s'ode infino al chino

di quai vi son li vallon più sottani,

di voci e d'altri suoni e di romore,

tal s'udì quivi allora e non minore.

 

102

 

Essi, ciascun co' suoi, tratti da parte,

aspettaron Teseo, che prestamente

venuto, inverso del tempio di Marte

con lor n'andò, e là pietosamente

diè sacrificio e con senno e con arte;

poscia levato, sanza star niente,

sopra 'l gran soglio della porta venne

e lì fermato i suoi passi ritenne.

 

 

Come i Tebani, fatti cavalieri da Teseo, n'andarono verso il teatro per combattere

 

103

 

E sanza star, con non piccolo onore,

cinse le spade alli due scudieri;

e ad Arcita Polluce e Castore

calzar d'oro li sproni e volontieri,

e Diomede e Ulisse di core

calzarli a Palemone, e cavalieri

amendun furono allora novelli

l'innamorati teban damigelli.

 

104

 

E ciascheduno sotto una bandiera

d'un segnal qual li piacque con sue genti

si ragunò, e con faccia sincera

gir per la terra visti e apparenti;

e già del cielo al terzo salito era

Febo co' suo' cavai fieri e correnti,

quando per loro al teatro fu giunto

quasi ch'a uno medesimo punto.

 

105

 

E ben che non avesser ancor vista

di sé alcuna in quel loco, pensando

per che venieno e ciò che vi s'acquista,

e l'un dell'altro le trombe sonando

udendo, e 'l grido della gente mista

che or l'uno or l'altro gien favoreggiando,

quasi dubbiando, dentro al cor sentiro

subitamente men caldo disiro.

 

106

 

E ciaschedun per sé divenne tale,

qual ne' getuli boschi il cacciatore,

a' rotti balzi accostatosi, il quale

il leon, mosso per lungo romore,

aspetta e ferma in sé l'animo equale,

e nella faccia giela per tremore,

premendo i teli con forza sudanti,

e li suoi passi trieman tutti quanti;

 

107

 

né sa chi venga né quale e' si sia,

ma di fremente orribili segni

riceve nella mente, che disia

di non avere a ciò tesi l'ingegni;

e 'l mormorar che sente tuttavia,

con cieca cura in sé par che disegni,

per quel talora sua tema alleggiando,

e ancora tal volta più gravando.

 

 

Disegna l'autore il teatro e come Egeo e molti altri v'andarono

 

108

 

Poco era fuori della terra sito

il teatro ritondo, che girava

un miglio, che non era meno un dito,

del quale il mur marmoreo si levava

inverso il ciel sì alto, con pulito

lavor, che quasi l'occhio si stancava

a rimirarlo, e avea due entrate

con forti porte assai ben lavorate.

 

109

 

Delle quai, l'una inverso il sol nascente

sovra colonne grandi era voltata,

l'altra mirava inverso l'occidente,

come la prima apunto lavorata;

per queste entrava là entro ogni gente:

d'altronde no, ché non v'aveva entrata;

nel mezzo aveva un pian ritondo a sesta

di spazio grande ad ogni somma festa,

 

110

 

dal quale scale in cerchio si moveno,

e cre' che in più di cinquecento giri

infino all'alto del muro salieno,

con gradi larghi, per petrina miri;

sopra li quali le genti sedeno

a rimirare gli arenarii diri

o altri che facesser alcun gioco,

sanza impedir l'un l'altro in nessun loco.

 

111

 

Al qual davanti era venuto Egeo

con pompa grande per voler vedere;

e similmente v'era già Teseo,

che per fuggire scandal me' potere,

del teatro le porte guardar feo

da molti, che là entro forestiere

o cittadin con arme non entrasse:

sanza esse chi volesse sì v'andasse.

 

112

 

A questo tutti i popoli lernei,

poscia che' lor maggiori ebber lasciati,

sen venner, tanti che dir nol potrei,

benché v'entrasser tutti disarmati;

e come avean li lor con li Dircei

veduti, così s'eran separati,

tenendo l'un la parte del ponente,

e l'altra incontro tenea l'oriente.

 

113

 

Vennervi i citadini e tutte quante

le belle donne, realmente ornate,

e qual per l'uno e qual per l'altro amante

prieghi porgeva, e, così adunate,

dopo tututte con lieto sembiante

Ipolita vi venne, in veritate

più ch'altra bella, e Emilia con lei,

a rimirar non men vaga che lei.

 

 

Come i Tebani entraron nel teatro, l'un per l'una porta e l'altro per l'altra

 

114

 

Venuti adunque li due campioni

armati di tutte arme, in esso entraro;

e ciaschedun co' suoi decurioni

l'un dopo l'altro assai ben si mostraro,

seguendo li già detti lor pennoni,

come ne' templi è detto ch'ordinaro;

e dalla porta donde Euro soffia,

Arcita entrò con tutta sua parroffia,

 

115

 

tale a veder qual tra giovenchi giunge

non armati di corna il fier leone

libico, e affamato i denti munge

con la sua lingua e aguzza l'unghione,

e col capo alto, quale innanzi punge,

l'occhio girando, fa dilibrazione;

e sì negli atti si mostra rabbioso,

ch'ogni giovenco fa di sé dottoso.

 

116

 

Egli era inanzi in su un gran destriere

a tutti i suoi tutto quanto soletto;

e ben mostrava ardito cavaliere,

sì feroce veniva nello aspetto,

quando attraverso e innanzi e arriere

gia senza posa il buon cavallo eletto;

e elli aveva lo scudo imbracciato,

e il forte elmo in testa ben legato.

 

117

 

Appresso gli era col pennone in mano

il forte Dria montato da vantaggio,

di cuore ardito e di poder sovrano;

il qual seguiva il nobil baronaggio,

e il primo era Agamenon spartano

e 'l secondo Pelleo nobile e saggio.

Ligurgo il terzo e 'l quarto era Castore,

Menelao il quinto e 'l sesto Nestore;

 

118

 

poi Peritoo e Cromis virilmente,

e Ippodamo e poi Pigmaleone,

ciascun co' nove suoi arditamente;

e in quel preser quella porzione

che giustamente lor fu contingente;

ma d'altra parte entrò poi Palemone,

fiero e ardito, il cavallo spronando,

negli atti bene il suo valor mostrando.

 

119

 

Qual per lo bosco il cinghiar ruvinoso,

poi c'ha di dietro a sé sentiti i cani,

con le sete levate e isquamoso,

or qua or là per viottoli strani

rugghiando va fuggendo furioso,

rami rompendo e schiantando silvani,

cotale entrò mirabilmente armato

Palemon quivi da ciascun mirato.

 

120

 

Il qual col segno in man Panto seguia,

e dopo lui Minòs, fiero a guardare,

e co' suoi Niso di dietro li gia;

poi Sarpedon e Ida seguitare

e Radamanto, appresso il qual venia

Evandro re, poté ciascun mirare;

Anchelado e Ameto vi si vede,

e dietro a tutti Ulisse e Diomede.

 

121

 

E come già aveva fatto Arcita,

così e Palemon co' suoi si trasse

e del teatro tenne una partita,

solo aspettando che 'l segno sonasse;

ma guardando Teseo la gente ardita,

comandò che giammai non si trombasse,

se nol dicesse, lor fiso mirando,

ciascun per sé e tututti lodando.

 

 

Stando il campo in pace, Arcita, vedendo Emilia, seco medesimo parla

 

122

 

Mentre così mansueta la cosa

si stava attesa dalli circustanti,

Arcita sotto l'elmo l'amorosa

vista levò, e quasi a sé davanti

vide colei che a tanto perigliosa

battaglia gli metteva tutti quanti;

e, sotto l'elmo sospirando molto,

così parlava con levato volto:

 

123

 

"Ahi, bella donna, più degna di Giove

che d'uom terren, se moglie non avesse,

e degno guiderdon di maggior prove

che qualunque Ercul al mondo facesse,

o qual pur fu più forte iddio là dove

bisogno fu la rabbia s'abbattesse

de' perfidi giganti, ch'agognaro

il ciel donde venisti, o lume chiaro;

 

124

 

tu se' bellezza ineffabile tale,

che 'l mondo mai non vide simigliante,

né credo che il ciel n'abbia altra equale

a te, che vinci Titan luminante

di lungo andar di splendor naturale

e con lui insieme l'altre luci sante;

se' di virtù fontana e d'onestate,

di leggiadria esemplo e d'umiltate.

 

125

 

Non isdegnare adunque il mio amore,

ch'a combatter per te fiero m'induce;

ma con preghiere lo sommo Fattore,

che creò te e ciascuna altra luce,

tenta per me e per lo mio onore;

il fin del qual più là non si conduce,

che per premio poterti possedere

e me per tuo in etterno tenere.

 

126

 

E' non saprebbe, posto che volesse,

tornare indietro, bella donna e cara,

cosa che la tua bocca li chiedesse;

dunque non m'esser de' tuoi prieghi avara,

alli qua' domandar, se io potesse,

sanza fallo verria; ma tu che rara

savia tra l'altre se', conoscer puoi

ciò ch'i' domando, tacend'io, se vuoi.

 

127

 

E ciò che è con prieghi domandato,

donna, non è soverchio da gradire,

però che par venduto e non donato;

adunque, poi che sai il mio disire,

che di te fui pria ch'altro innamorato,

sanza aprirtel, provedi al mio languire

e fammi lieto di sì fatto dono,

ché vaglio sol perciò che di te sono".

 

128

 

In cotai prieghi tacito si stava

Arcita, e gli occhi non partia da quella;

e Palemon, ch'ancora la mirava,

quasi con questa medesma favella

tacito sotto l'elmo ragionava,

quasi dea fosse quella damigella;

e così stando fuor di sé ciascuno,

de' suon della battaglia sonò l'uno.

 

129

 

E quale è que' che dal sonno disciolto

si leva su di subito stordito

e qua e là va rivolgendo il volto

per conoscer che è quel c'ha sentito,

così ciascun di loro, in sé raccolto,

del pensier fuori si fu risentito,

e del combatter ritornò il furore

per lo già conosciuto trombatore.

 

 

Teseo dichiara le condizioni pertinenti alla battaglia

 

130

 

Levossi allor Teseo, e con la mano

silenzio pose al molto mormorare

che nel teatro i popoli faciano,

e sanza troppo lungo dimorare

del loco dove stava scese al piano,

largo alle genti faccendosi fare,

e qui alquanto stette fermo in piede;

seco pensando giudica e provede.

 

131

 

Esso li fece avanti sé venire,

ciascun con parte delli suoi armati,

e lor le condizion fé referire

a le quai s'eran davanti obligati;

e poi v'agiunse, cominciando a dire:

– Signor, que' che di voi saran pigliati,

l'arme per mio comando lasceranno,

e staranno a veder se e' vorranno.

 

132

 

E qual, forse per caso fortunoso

o per altra cagion, di fuori uscisse

del teatro, da ora non sia oso

che più nella battaglia rivenisse;

della qual chi sarà vittorioso

avrà la donna, e l'altro ciò che disse

la mia prima sentenza. Adunque andate

e valorosamente vi portate. –

 

 

Come Arcita parlando confortò i suoi

 

133

 

Poi questo detto, il secondo sonare

fece Teseo sanza tardar niente;

laonde Arcita cominciò a parlare

in cotal guisa, volto alla sua gente:

– Signor, che sete in così dubbio affare

per me venuti com'è il presente,

poco conforto di parole a voi

credo ch'abbiate bisogno da noi.

 

134

 

Ma tuttavia, per una antica usanza

servar, m'ascolterete, se vi piace:

in voi è ferma la mia speranza,

in voi la vita e la mia morte giace,

in voi la pena e la mia dilettanza,

in voi è la mia guerra e la mia pace,

in voi sta e nel vostro potere

quanto di bene o male io posso avere.

 

135

 

Dunque, per Dio, la vostra virtute

oggi si mostri davanti a Teseo,

acciò ch'io prenda di quella salute

che è il fin che qui venir vi feo;

non risparmiate le vostre ferute,

né la morte, al bisogno, per Penteo,

il qual da morte a vita recherete

e per vostro in etterno il comperrete.

 

136

 

Poi potete veder ch'i' ho ragione

di tal battaglia; onde avremo il favore

del forte Marte en la nostra quistione,

e 'l cor mi dice io sarò vincitore,

però ch'io volli già con Palemone

participare amando questo amore

con pace, e e' non volle; ond'io son certo

che dall'iddii n'avrà debito merto.

 

137

 

E se non m'ingannaron le calde are

del nostro grande iddio armipotente

ier, quando a lui andai sacrificare,

sanza dubbio niun sarò vincente;

ma se 'l contrario ne dovesse fare

per ira concreata iustamente,

sopra la testa mia priego che caggia,

anzi ch'alcun di voi nessun mal n'aggia.

 

138

 

Ma io non sento averla meritata,

sì che pur ben mi promette speranza

insieme con vittoria, ch'acquistata

mi fia non già per mia poca possanza,

ma per la vostra grande e onorata

fama, che 'n ciò mi dà ferma fidanza;

e dello affanno me per vostro avrete,

se ben pugnando per forza vincete.

 

139

 

E ben ch'i' non sia premio a tanto affanno,

né per me vi movesse amor né fede

a sostenere il già offerto danno,

ricordivi di cui voi sete erede,

e qual sia il nome che' vostri primi hanno,

se alla prisca fama nessun crede,

e chi voi sete ancora vi pensate:

poi com vi piace, così operate.

 

140

 

Hanno l'iddii in mezzo a questo prato

posto della vertù per premio onore,

se più v'agrada ch'io ne sia levato

ch'ancor vi son legato da amore;

e ben sappiate, e' non fia repugnato

da gente vile e sanza alcun valore,

ma ben da tali chenti noi qui siamo,

o miglior forse convien che l'abbiamo.

 

141

 

Li qua' se voi vincete, maggior gloria

ne fia che non saria di gente vile;

ella sarà di lor doppia vittoria

quella che d'essi avrem, non gente umile;

e la crescente fama con memoria

etterna a' successor con dritto stile

ci renderà, e sarenne lodati

da tai ch'ancor non sono ingenerati.

 

142

 

Dunque di voi vi ricordi, per Dio!

E se ne fu niun mai inamorato,

dimostri qui chente avesse il disio;

voi non avete con duplificato

popolo a ricercar di Marte il fio,

anzi è, come sapete, appareggiato

di numero con voi, e voi il sapete,

e tutti a voi davanti li vedete.

 

143

 

Pensate ancora quanti riguardanti

e che persone sono in questo loco;

voi li vedete tutti a voi davanti,

però, come volete, o molto o poco

adoperate omai, ché cotai vanti

avrà la fiamma chente fia il foco;

priegovi pur quant'io posso di bene,

però che male a voi non si convene. –

 

144

 

Egli era tale a veder nello aspetto

quando parlava, qual nel cielo avverso

è da mane o da sera nuvoletto

al sol: con parlare alto, assai diverso

dal suo usato, e 'n su le strieve eretto,

con l'una man reggea 'l caval perverso,

ch'anitrendo era sanza alcuna posa,

l'altra la spada nel foder ascosa.

 

145

 

Elli avea detto; e Palemone ancora

con alte voci li suoi invitava

a grandi onori, e a ben far l'incora

quanto poteva, e molto glien pregava:

laonde l'una parte e l'altra allora

sì per lo dir de' due incoraggiava,

ch'appena suon volevano aspettare,

tanto disio avean d'avanti andare.

 

Qui finisce il libro settimo del Teseida

 

 

 

LIBRO OTTAVO

 

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro ottavo

 

L'ottavo libro il fiero incominciare

ne mostra dello stormo primamente,

e il crudele e aspro adoperare

che fé ciascun de' prencipi possente;                                       4

 

di Teseo e de' presi il riguardare

con laude di ciascun combattente

seguita poi, e quindi il favellare

d'Emilia seco tacito e dolente.                                                 8

 

Poi finge Marte, in Teseo transformato,

in Arcita raccendere il furore,

che per riposo in parte era tirato;                                             11

 

poi come Palemon con gran dolore

dal gran caval di Cromis fu pigliato,

e quindi Arcita mostra vincitore.                                              14

 

 

Incomincia il libro ottavo del Teseida. E prima invoca, cominciando poi la battaglia

 

1

 

Taceva tutto il teatro aspettando

il terzo cenno del sonar tireno,

in qua in là in giù in su mirando,

e or dell'uno or dell'altro diceno

ciò che nel cor ne givano stimando,

e qua' con questi e qua' con que' teneno;

e mentre stavano attenti a costoro,

subito udissi il terzo suon fra loro.

 

2

 

Ora la Musa a cui più di me cale

per me versi componga, or per me canti,

e noto faccia il gioco marziale

fieramente operato da' due amanti,

con compagnia ciascun di schiera equale

di cavalier valorosi e atanti;

ch'io per me non varria a far sentire

il duro scontro e l'amaro seguire.

 

3

 

Se il romore del gonfiato mare

da fieri venti e forti stimolato

e quanto mai ne fero nel pigliare

porto li marinar fosse adunato

o quello insieme che si dovea fare

quando a Pompeo Cesar assembrato

si fu in Tesaglia, non fora ad assai

quanto fu quel, che non si udì più mai;

 

4

 

né saria stato, s'agiunto vi fosse

quel che Lipari fé, o Mongibello,

o Strongolo, o Vulcan quando più cosse,

o quando Giove, più crucciato, il fello

Tifeo di spavento più percosse,

tonando forte: omai chente fu quello

pensil ciascun che ha fior d'intelletto;

forse che 'l sentirà qual io ho detto,

 

5

 

d'arme, di corni, nacchere e trombette,

di voci messe da' popoli strani,

il qual dicon che 'n Corinto s'udette,

tanto nel ciel si dilatar sovrani:

ciascuno uccello di volar ristette,

e temer tutti gli animai silvani;

e qualunque era quivi non venuto

pensò parte del ciel fosse caduto.

 

6

 

E qual là, dove Appennin da Peloro

tronchi si truovan, per li venti avversi

gli alti marosi per forza tra loro

romponsi e bianchi ritornan di persi,

giunsersi sì le schiere di costoro

con corsi più veloci e più perversi,

che d'alto monte, per subita piova,

rabbioso il rivo il pian letto ritrova.

 

7

 

Così adunque le schiere animose

li gran destrieri urtaron con li sproni;

sanz'aver lance, co' petti, focose

insieme si ferir de' buon roncioni.

La polver alta tutti li nascose

in un nuvol di sé; e degli arcioni

usciron molti allor, che non montaro

più a caval, né quindi si levaro.

 

8

 

E' si sostenner, né poter passare

oltre fra lor, ma ricularsi indietro

per le percosse equal, sì come fare

suol raggio in acqua percosso o in vetro,

che riflettendo i raggi fa tornare

subitamente per lo cammin tetro;

e vigorosi spronar li destrieri,

in sé tornando gli arditi guerrieri.

 

9

 

Né credo, quando più la fucina arse

di Vulcan nera ne' regni sicani,

o quando maggior fummo fuori sparse,

tale il facesse qual salivan vani

vapori al cielo, i quai delle riarse

terre nascean dalli cavalli strani

premute, e dagli anari e da' sudori

mossi e dagli spumanti corridori.

 

10

 

Nullo dintorno alcun di lor vedea,

se non come per nebbia ne' turbati

tempi si vede, e l'un non conoscea

l'altro di loro, e gran colpi donati

erano in danno, che ciascun credea

dare a color cui aveno scontrati;

per che Arcita – Pegaso! – a gridare

cominciò forte e' suoi a confortare.

 

11

 

Ma Palemon solo – Asopo! – gridava,

e con tal voce a sé i suoi raccolse

e di bene operar li confortava;

poi ver gli avversi la testa rivolse

del suo cavallo, e la spada vibrava;

inver di cui il buono Arcita si volse,

avendo lui appena conosciuto

per lo gran polverio che v'era suto;

 

12

 

e con li sproni urtato il gran destriere,

li corse adosso con la spada in mano;

e que' ver lui come pro' cavaliere

corse feroce e certo non invano;

ma tal de' petti, in mezzo delle schiere,

si riferiro e de' corpi, ch'al piano

insieme co' cavai che rincularo

amendun cadder sanza alcun riparo.

 

13

 

Cremiso quivi, in Elicona nato,

e Parmenon, che l'onde d'Ismeneo

tutte sapeva, e con lor Polimato,

questo vedendo, incontro di Fegeo

d'Antedon sceser, ch'era dismontato,

e con lui il teumesio Alfesibeo,

per lo lor Palemon volere atare

e, se potesser, Arcita pigliare.

 

14

 

E cominciar fra loro aspra battaglia

così a piè con le spade impugnate,

e ciaschedun per lo suo si travaglia,

dando alla parte avversa gran collate,

sforzandosi per vincer la puntaglia;

e ben mostravan lor gran probitate

in mantenersi per ispazio molto,

sanza mai volger, l'uno a l'altro volto.

 

15

 

Quivi rimase per misera sorte

Artifilo Itoneo, il qual ferio

d'una bipenne il buon Cremiso a morte;

e mentre lui lo suo fratel pio

volea levar, li sopragiunse il forte

Eleno, e orgoglioso il perseguio

e lui uccise ancor similemente

allato al frate dolorosamente.

 

16

 

E 'nnanzi si potesser riavere

ciascun da' suoi, vi fur colpi assai dati,

però che l'uno l'altro ritenere

voleva; e dopo molto in ciò provati

e a ciascuno mancato il potere,

amenduni a caval fur rimontati,

mercè de' lor che gli aiutaron bene,

oprando ciò ch'a tal cosa convene.

 

17

 

La pressa grande e lo spesso ferire

tolse di sé a questi due la vista;

e cominciaron per lo campo a gire,

dipartendo ove più la gente mista

si combatteva, ciascun con disire;

e andar sen potea l'anima trista

all'infernali iddii di cui giugnea

Arcita: in saldo ta' colpi traea!

 

 

Come gli altri baron tutti s'afrontarono

 

18

 

Il gran Minòs il fiero Agamenone

presto nell'arme gì a riscontrare,

e 'l buon Nestor iscontrò Almeone,

e Ida Peritoo nell'afrontare,

e Evandro s'urtò con Sarpedone;

ma Radamanto venne ad ovviare

il fiero Niso, e appetto a Castore

Anchelado s'oppose con valore.

 

19

 

E contro Alimedon Pelleo sen venne,

e Menelao si fé incontro ad Ameto;

né il buon Ligurgo di correr si tenne

inver d'Ulisse, il qual non mansueto

andò ver lui ; ma Diomede attenne

al buon Polluce, d'ira assai repleto;

gli altri ciascun secondo che poteo

nella battaglia più innanzi si feo.

 

20

 

Chi passò innanzi e chi rimase appresso

de' prencipi primai nella scontrata;

ciascun feriva e era ferito esso,

la battaglia tenendo lunga fiata;

ma per lo in qua e 'n là ferire spesso,

tosto fu tutta in sé rimescolata;

né ordine servossi, anzi correa

ciascun colà dove me' far credea.

 

21

 

E' si scontrò Arcita in Almeone

e battaglia aspra insieme incominciaro;

né di lor nullo pareva garzone,

anzi vendea ciascun suo colpo caro;

e d'altra parte il fiero Palemone

e 'l nobile Polluce si scontraro;

quivi Polluce mostrò aspramente

ch'elli era del ciel degno veramente.

 

22

 

El feria Palemon con tal valore,

che quasi a forza ritenuto l'ebbe;

se non che Ulisse, buon combattitore,

lasciò Ligurgo, sì di ciò l'increbbe,

e lui riscosse; ma Pollùs di core,

tal contra Ulisse mal voler li crebbe,

col buon Nestore insieme accompagnato

a forza fuor de' suoi l'hanno tirato.

 

23

 

Lì Laertin maravigliosa prova

mostrò di sé con Filacide insieme

in riscuotere Ulisse, ma non giova;

ciascun, quantunque pò, sopra lor preme,

e certo egli era a veder cosa nova

ciò che Liarco faceva e Crusteme

per lui raver; ma Acarnan pisano

li facea fatigar del tutto invano.

 

24

 

Col quale insieme era 'l buono Agilleo,

dell'ardir del fratel tutto focoso;

e 'l buon Toàs col suo frate Euneo,

ciascun nell'arme forte e poderoso;

de' quali ognun tanto per forza feo,

che 'ndietro si tornò ciascuno iroso

di que' d'Ulisse; e essi della spessa

turba lui trasser con non poca pressa.

 

25

 

Quivi, tratteli l'arme, a riguardare

che fesser gli altri il mandaro a sedere.

Fé dunque il dì assai di sé parlare

Polluce, e fece assai chiaro sapere

che sed e' non l'avesse fatto andare

Giove sì tosto il cielo a possedere,

che elli avrebbe per Elena a Troia

al grande Ettor donata molta noia.

 

26

 

Ma qual la leonessa negli ircani

boschi, per li figliuo' che nel covile

non trova, sé con movimenti insani

messa in oblio, la sua ira gentile

mugghiando corre e per monti e per piani,

né mai la fa se non affanno umile;

cotal correndo Diomede andava,

veggendo Ulisse preso che si stava.

 

27

 

Niuno aveva resistenza a lui;

e' ferì Eris e ferì Sicceo

e Alcion sicionio, e con lui

molto aspramente l'epidaurio Agreo,

né nulla aveva paura d'altrui;

e 'n quello andare il buon Iolao Ianteo

preso, da Niso e da Almeone

atati, lui ritenner per prigione.

 

28

 

Poi ritornati valorosamente

alla battaglia, Cefalo scontraro

e lui ferir; ma valorosamente

Cefalo fé a tal corsa riparo;

ma sua prodezza non valse niente:

Alcidamàs e lui insieme pigliaro,

e dello stormo li mandaron fuori,

sicché non fur più il dì feritori.

 

 

Come Diomede fu preso

 

29

 

Agamenone di parte lontana

questo vedeva, tuttor combattendo;

per che, chiamata sua gente spartana,

in quella parte se ne gì correndo,

e gridò forte: – O Diomede, appiana;

troppo ci vai di dammaggio faccendo! –

E questo detto, in sul capo il ferio,

ond'elli a terra tramortito gio.

 

30

 

Prender lo volle allora Eliodoro

e 'l buon Mefiso, e eran dismontati;

ma ben vi fu chi contradisse loro,

Arbato e Cidoneo quivi arrivati,

li quali a piè s'opposero a costoro,

e tra lor fur di gran colpi donati;

e Diomede, tutto sanguinoso,

fu tratto dello stormo per riposo.

 

 

Come Minòs fu preso

 

31

 

Avea Niso ferito il buon Castore

e quasi già che stancato l'avea,

ove Agilleo ancor con gran valore

mostrava ben tutto ciò che valea;

allor Minòs con furia e con furore,

che assai vicino a sé questo vedea,

vi corse e gli assaliti riscotendo

giva, aspramente in qua e 'n là ferendo.

 

32

 

A questo venne correndo Pelleo,

mostrando sé degno padre d'Accille,

e in mezza la pressa far si feo

vie più di luogo assai, che se con mille

vi fosse giunto, e il figliuol di Perseo

con lui insieme; e parea che faville

gittasser d'ogni parte, sì ferventi

quivi pervenner con tutte lor genti.

 

33

 

E 'ncontro al gran Minòs Pelleo si mise

con un bastone di ferro impugnato,

né mai alcun per colpir li divise,

sì parea ciascheduno inanimato;

e tanto il buon Pelleo s'inframise,

ferendo forte e sostenendo armato,

che mal suo grado ebber Minòs prigione:

egli, e co' suoi, lo buon Mirmodone,

 

34

 

Al qual riscuoter Ditteo operava

con quella forza che potea maggiore,

e 'l ciprian Rifeo forte l'atava,

e 'l simile faceva il buon Mintore,

alli quali Astragon alto gridava:

– Deh, riscotiamo il nostro car signore. –

E Piro e Cenis e Tricon sagace,

ciaschedun sopra ciò quanto pò face.

 

35

 

Ma Telamone incontro resistenza

aspra facea con Foco suo fratello,

e Fenice con loro, a tale intenza;

Tarso, Cidone, Parmeso e 'l gemello

Arion con Acon la lor potenza

dimostravan nell'armi a tal zimbello;

tra' quali aspra battaglia e angosciosa

fu certo e grande e per tai dolorosa.

 

36

 

Quivi Rifeo fu da Talamone

ucciso, il qual gli avea morto davanti

miseramente il dolente Arione,

il qual parole, sangue e tristi pianti

ad una ora nel sen del suo Acone,

alla morte vicin, tra tutti quanti,

gittava; e quivi l'anima rendeo,

perché cacciata star più non poteo.

 

37

 

Ma al da sezzo dopo molti danni,

dopo gran colpi e morti dolorose,

dopo molti sudori e molti affanni,

menar sì Foco e Telamon le cose,

che gli uomini Gnosiachi, e gl'inganni

loro e le forze e l'opre mervigliose

quasi per vinte, indietro rincularo

e lì preso Minòs pur vi lasciaro.

 

 

Come Evandro e Sicceo furono tratti della battaglia

 

38

 

Quando l'arcado Evandro di lontano

di tal campion si vide rimanere

sol, quasi l'ira il fé tornare insano,

e sanza più di sua vita temere,

la bella spada recatasi in mano,

inver di Sicceo corse e con potere

sommo li fece da presso sentire

come sapeva di spada ferire.

 

39

 

Ben si difese il giovinetto accorto

e ben l'ataro i suoi arditamente,

tal che 'l narizio Leles vi fu morto,

e abbattuta d'una e d'altra gente;

ma alla fine Evandro bene scorto,

abbracciato Sicceo fortemente,

giù del cavallo il voleva tirare,

né il potean colpi da lui separare.

 

40

 

Tenevasi Sicceo e abbracciato

aveva lui, e 'n qua e 'n là correndo

givan, ciascun dal suo destrier menato;

ultimamente ciascun, pur tenendo,

fu dal cavallo in tal modo portato,

ched e' votaron gli arcioni, e cadendo

si magagnaron di maniera tale,

che più non fero il dì né ben né male.

 

41

 

Dintorno a loro era la pressa molta,

chi per pigliare e chi per ritenere;

e sì di genti e d'armi v'era folta,

che fu più volte loro in dispiacere;

e ciascun si sprovò più ch'una volta

di levar su, ma non v'era il potere;

laonde il meglio che essi poteno

dalli menati colpi si coprieno.

 

42

 

Era lì Sipil di Menalo monte,

e 'l forte Menfìs, nato in Cinosura,

e d'Azan v'era il crudo Ginodonte,

e di Partenio con vista sicura

v'era Bricol, e con ardita fronte

Croton vi stava, che giammai paura

non si crede ch'avesse, e il nifeo

Nirilo e anche Trofilo tegeo.

 

43

 

Questi volean Sicceo del tutto preso,

e in ciò si sforzavan; ma e' v'era

ben gente dalla quale e' fu difeso

quivi Plesippo e Tosea con fiera

vista si videro, e Acasto acceso

di mal talento, il quale in tal maniera

Croton, tegnente allor Sicceo, ferio,

che morto a' piè tramazzato li gio.

 

44

 

E con lor fu Linceo e Eurizio

e 'l buon Fenice, figliuol d'Amintore,

 e Etion e Pelopeo Narizio,

ciaschedun uom di non piccol valore,

e ancora con loro era Caspizio;

li qua', ben ch'essi avesser le loro ore

più messe in caccie che nell'arme armati,

fer d'arme sì, che ne furo onorati.

 

45

 

E 'l buon Sicceo, lor compagno caro,

malgrado di Menfìs, soavemente

fuor della calca fra' suoi il menaro,

e in riposo quivi pianamente,

con li suoi disarmati, lui lasciaro,

e allo stormo tornar fieramente;

e quei d'Evandro fero il simigliante;

poi al ferir seguiron Radamante.

 

 

Come Pelleo fu trasportato dal cavallo fuor del teatro

 

46

 

Non si ritenne per questo Pelleo,

ma, tra gli Arcadi fieramente messo,

quasi che 'ndietro rivoltar li feo

sanza signore, e furvi assai appresso;

al quale Alimedon quanto poteo

si fece incontro, e altri assai dop'esso,

e sì d'una bipenne in capo il fiere,

ch'appena si ritenne in sul destriere.

 

47

 

Il quale il ne portò tutto stordito

del teatro di fuor, forte correndo,

dove da Tarso e da Cidon seguito

fu, che 'l ritenner, che giva dormendo;

ma nol ritenner pria che risentito

si fu il re, e a caval credendo

esser ancora, voleva tornare

il colpo ricevuto a vendicare.

 

48

 

Ma nulla fu, poi si trovò smontato

e al ritondo teatro di fore;

per che conobbe ch'elli era privato

di combattere il dì; onde dolore

intollerabile ebbe e non provato

da altrui mai; onde con tristo core,

co' suoi ch'eran con lui, al suo ostello

se n'andò disdegnoso e tutto fello.

 

49

 

E quale, degli armenti ancor bramoso,

sol pien di sangue rimane il leone,

cotal Pelleo, tutto sanguinoso,

sanza trovar né bestie né persone

de' già feriti, sen gia polveroso,

rodendo sé in sé, tutto fellone,

perché non s'era ritornar potuto

com'elli avrebbe volentier voluto.

 

50

 

E Telamon, che nel vide portare,

l'aveva richiamato più fiate,

credendol far, gridando, ritornare,

ma non eran le sue voci ascoltate

da lui che non sapea dove s'andare,

sì le sue posse s'eran dileguate

pel ricevuto colpo, duro e forte,

ch'ad altro avria forse data la morte.

 

 

Della battaglia che fu tra Ameto e Arcita

 

51

 

Ameto, sovra Foloèn ardito,

del buon Sicceo seguitò la schiera:

con un baston d'acciaio, chiaro e forbito,

si fé conoscer qual nell'armi egli era;

e 'l buono Appollo ben l'aveva udito,

quando li porse l'umile preghiera;

per che fra tutti aspramente correndo,

si fé far luogo col baston ferendo.

 

52

 

Esso ferio d'Amintor Fenice

e l'abbatté, e l'ardito Linceo,

e dopo loro Eurizio infelice,

e dop'essi il dolente Pelopeo;

e se ciò che l'antica fama dice

è ver, di Testio ferì il buon Toseo;

e tai cose facea, che ammirazione

a chi 'l vedeva dava con ragione.

 

53

 

E 'n poca d'ora tanto fatto avea,

che quasi in volta parte n'avea messi;

di che Arcita molto si dolea,

e quasi che sconfitto allor vedessi;

ma nol sofferse, anzi ver là correa,

aspreggiando 'l caval con sproni spessi,

e fier si mise ad Ameto davanti,

che giva i suoi cacciando tutti quanti.

 

54

 

Quivi si cominciò l'aspra battaglia,

e' ferri eran mezzan della tencione.

Ameto con li suoi buon di Tesaglia

facevan forte e buona difensione;

né miga dimostravan che lor caglia

di rivedere o paese o magione,

anzi mostravan lor le morti care

pria che volessero indietro tornare.

 

55

 

Né già Arcita dalli suoi Dircei

era peggio d'Ameto seguitato;

onde di parte in parte fra' Lernei

era di molto male adoperato:

quelli il sapevan che gridando omei

cadevan sanguinosi d'ogni lato;

e lungo e aspro tra loro il ferire

fu più assai che io non potrei dire.

 

56

 

Quivi era Aschiro, al gran Chiron nepote,

che poi nudrì Acchille piccioletto,

al qual quantunque dii nell'alte rote

con Giove regnano erano in dispetto;

costui con furia qualunque percote,

del viver più non gli ha luogo rispetto.

E del monte Ossa Fillaro crudele

era con lui, e di Pindar Linfele.

 

57

 

A lo scontro de' qua' Cremiso venne,

e vennevi Anfion, sopra Permesso

nato, e ciascun per forza li ritenne;

e 'l parnasio Cirreo v'era, e con esso

Decalione, quanto si convenne

armato; e sì in quel bisogno espresso

adoperar, che la foga di quelli

ristette, e furo offesi alquanti d'elli.

 

 

Come Ida pisano fu preso

 

58

 

Ma mentre in tal contasto si sudava,

Ida, leggier più ch'altro, destramente

del suo destriere in terra dismontava,

e di dietro ad Arcita prestamente,

sopra la groppa, armato si gittava,

credendo lui ritener fermamente;

e sì faceva el, ma e' fu corto

l'avviso, perché Arcita ne fu accorto.

 

59

 

El s'avisava d'Arcita pigliare

di dietro per le braccia molto stretto,

e il cavallo ad una ora spronare,

per portarnel tra' suoi; ma ciò effetto

non ebbe, ché Arcita, nel montare

di lui, l'un braccio alzò, e poi ristretto

con l'altra mano il freno, il buon destriere

rivolger fé inver delle sue schiere;

 

60

 

sì ch'Ida dietro per iscudo gli era,

il qual lui forte abbracciato stringendo

volea tirar, con la sua forza fiera,

in terra del caval; ma non potendo

e lui veggendo già nella sua schiera,

per iscampo di sé volle, scendendo,

fuggir di lì e fra' suoi ritornare;

ma non poté, com'elli avvisò, fare.

 

61

 

Però che l'un delli suoi spron prese

del destrier la coverta ventilante,

sicché col piè impacciato, quando scese,

rimase e gir non sen poteva avante,

ma in terra cadendo si distese,

onde addosso li furon tutte quante

le genti allor d'Arcita per pigliarlo;

ma' suoi si fero avanti per atarlo.

 

62

 

Quivi era Archesto con altri Pisani,

li quali il preser per tirarlo a loro

e a caval riporlo; ma' Tebani

forte il tenean per lo busto fra loro;

onde co' ferri vennero alle mani,

sé percotendo agramente costoro;

altri il tiravan per lui riavere

e altri forte per lui ritenere.

 

63

 

E tal rissa era tra costor, qual vene

tra 'l gioviale uccello e il serpente

il quale i parvi nati di lei tene:

quella di riaverli con tagliente

becco ricerca, adiungendoli pene;

questi solo al fuggire sta intendente

con essi; onde la briga cresce ognora,

mentre il serpente li presi divora.

 

64

 

Così era tra questi, ma Eleno

gridò: – Signor, se voi nol ci lasciate,

tra noi e voi qui lo straziereno. –

Ma non eran le sue voci ascoltate;

ond'elli insieme col fiero Parmeno,

gravanti scuri nelle man recate,

feriro Archesto e Limaco sì forte,

che ad amendun sentir fecer la morte.

 

65

 

Gli altri, per far di se stessi difesa,

lasciarono Ida quivi, e per vengiare

de' lor compagni la crudele offesa

cominciar colpi spietati a menare;

ma poco valse lor focosa impresa,

ché pure ad Ida ne convenne andare,

malgrado suo, per prigione a posarsi

là dove gli altri lì vedeva starsi.

 

 

Della battaglia fatta da Ameto per abbattere la bandiera d'Arcita

 

66

 

Poscia che Ameto vide che scampato

quindi era Arcita maestrevolmente

e Ida per prigion n'era mandato;

turbato nello aspetto, fieramente

inverso Drias ha co' suoi spronato,

lo quale la bandiera fortemente

tenea nel campo; e giusto suo potere

s'ingegnò di volerla far cadere.

 

67

 

Ma il giovane con anima sicura

non si mutò, ma stretto l'abracciava,

e sostenendo la battaglia dura

de' colpi che Ameto li donava,

a' suoi gridava con solerte cura

ch'atasser lui, e li rincoraggiava;

quivi Ligurgo con li suoi ardito

era a guardarla posto per perito.

 

68

 

El tornò il suo caval verso d'Ameto,

e con lui fu il gran Pigmaleone;

né alcun lì si mostrò mansueto,

ma fiero più che mai alcun dragone;

e dieron colpi assai, che pien di fleto

furono a chi sentì tale offensìone;

né si partì in brieve la mislea,

per ciò ch'Ameto pur fare intendea.

 

69

 

Quivi di spade e di baston ferrati

era sì grande la batosta e tale,

che molti ve ne furon magagnati,

né stata v'era nel campo cotale;

e' Pegasei quasi erano avanzati;

per che Anchelado, corso a questo male,

co' suoi raccolto, per costa ferio,

e quasi quindi ciascun si fuggio.

 

70

 

E' vi rimase Apintos nemeo,

e Faleron che agli aspri cinghiari

già nelli boschi molta guerra feo;

e tra li sparti sangui nelli amari

campi rimase il misero Neseo,

e altri ancora, non delli men cari;

ma non pertanto Ameto non posava,

ma il suo proposto di far s'ingegnava.

 

71

 

El ritornò ver Drias banderese,

e solo abbatter il segno volea:

questo con forze e con diverse offese

verso Ligurgo che gliel difendea,

cercava, di cui venne alle difese

Peritoo, tosto che questo vedea;

e iscontrossi con Alimedonte,

figliuolo stato d'Eurimedonte.

 

72

 

E' si feriron di tutta lor possa

sugli elmi con le spade, e ispezzaro

parte di quelli; ma qual si move Ossa

per picciol vento, cotal si mutaro

d'in su' destrier; ma quivi si ringrossa

l'ira; per che più volte si toccaro

e fer maravigliar chi li mirava,

tanto d'arme ciascuno adoperava.

 

73

 

Corsevi ancora Artofil mirmodone

contro ad Ameto, ma il buon cavallo

li mancò sotto, donde e' fu prigione

dagli altri messo fuor senza intervallo;

e gissene con esso Sarpedone,

il quale aveva quivi lungo stallo

fatto, abbattuto, e scalpitato spesso

da qualunque ivi gli era andato presso.

 

74

 

Questo vedendo Giapeto feroce,

che da l'alber fatale aveva tratta

possa durabil, pessima e atroce,

poscia che Egina fu tutta disfatta

e di formiche si rifé veloce,

come Eaco ebbe sua orazion fatta,

corse ferendo tanto furioso

quanto per piova è rivo ruvinoso.

 

75

 

E Dromone il seguì il qual solea

di Calidonio le grotte cercare,

e Cinfalio con lui e 'l buon Finea

e 'l fier Cresippo, credendosi fare

ciò che il lor poter non concedea,

ciò era il buono Artofil racquistare;

per che incontro a loro il larisseo

uscì, con molti armati, Dodoneo.

 

76

 

Aveva lungamente combattuto

Peritoo, e Ameto, e veramente

l'un di lor due saria stato tenuto,

se e' non fosse per la molta gente

che venne a dare a ciascheduno aiuto;

ma pure a Peritoo massimamente,

perch'era stanco, vie più bisognava

che ad Ameto ch'ancor fresco stava.

 

77

 

Lì venne il buon Leonzio Crimione

e l'epidaurio Doricon ancora,

e ciaschedun di ferro un buon bastone

portava, e ben ciascun per sé lavora;

e Amintor di Lelegia a ragione

di Peritoo l'affanno ristora,

e Fizio Filacido; e sì fero

ch'alcuna lena a Peritoo rendero.

 

 

Come Arcita valorosamente, dopo alcun riposo, combatté

 

78

 

Così per lungo spazio combattendo

givano alcuni, e altri per vigore

maggior pigliar si givan ritraendo;

tra' quali Arcita, asciugando il sudore

che sanguinoso gli gia trascorrendo

già per lo viso, della calca fore

alquanto s'era tratto e riprendeva

un poco d'aer sì come poteva.

 

79

 

Ma mentre che prendeva tal riposo

così nell'arme, alquanto gli occhi alzati

gli venner là dove 'l viso amoroso

vide d'Emilia e' belli occhi infiammati

di luce tanto lieta, che gioioso

facean qualunque a cui eran voltati;

e tutto in sé tornò quale in prima era,

sì come fior per nova primavera.

 

80

 

E quale Anteo, quando molto affannato

era da Ercul con cui combattea,

come a la terra, sua madre, accostato

s'era, tutte le forze riprendea,

cotale Arcita, molto faticato,

mirando Emilia forte si facea;

e vie più fiero tornò al ferire

che prima, sì lo spronò il disire.

 

81

 

El sì ferì tra la gente più folta,

e con la spada si facea far via;

e questo qua e quello in là rivolta,

costui abbatte e quello altro feria;

e combattendo dimostra la molta

prodezza che Amor nel cor li cria;

el non ne giva nullo risparmiando,

ma, come folgor, tutti spaventando.

 

82

 

Egli abbatté Aschiro e Piragmone

e dopo loro il ferrigno Cefeo

e l'etolo Cheron di Pleurone

e 'l gran cavalcatore Erimeteo

e Filon poi, nepote a Palemone,

al qual di morte doglia sentir feo:

tal con la spada in sul capo li diede,

che per morto sel fé cadere a piede.

 

83

 

Poi sen gì oltre, e costui istordito

rimase in terra lì villanamente;

ma poi che fu di stordigione uscito,

con voce fioca dolorosamente

disse: – Va oltre, cavaliere ardito,

col primo agurio della nostra gente,

e cotai basci Emilia ti dea spesso,

qual tu m'hai dato! – E giù ricadde addesso.

 

84

 

Similemente Erimeteo dicea,

il qual di sangue avea la faccia sozza;

ma le parole più rotte porgea,

però ch'era ferito nella strozza;

laonde forte seco si dolea,

tal di quel colpo sentiva la 'ndozza,

dicendo: – Se te padre raspettasse,

quale hai me concio qui ti ritrovasse! –

 

85

 

Maraviglie facea il buono Arcita,

in qua in là per lo campo correndo;

e con gran voci le sue schiere aita,

or questo or quello andando soccorrendo;

e ciascheduno a bene ovrare invita

che vede lui così andar ferendo;

e d'altra parte facea il simigliante

l'ardito Palemon, pro' e atante.

Della disposizione del campo.

 

86

 

Dopo il crudele e dispietato assalto,

orribile per suoni e per ferite,

lì fatto prima, sopra il rosso smalto,

si dileguaron le polveri trite:

non tutte, ma tal parte, che da alto

e ancora da basso eran sentite

parimente e vedute di costoro

l'opere e 'l marziale aspro lavoro.

 

87

 

Il sangue quivi de' corpi versato

e de' cavalli ancor similemente

aveva tutto quel campo inaffiato,

onde attutata s'era veramente

e la polvere e 'l fummo, e imbragacciato

di sangue era ciascun destrier corrente,

o qualunque omo vi fosse caduto,

ben che a caval poi fosse rivenuto,

 

88

 

Ciascuno aveva i ferri sanguinosi,

e 'l viso rotto, e l'armi dispezzate;

e' più morbidi aspetti rugginosi

eran di vero, e le veste squarciate,

e i cavai non erano orgogliosi

come soleano, e le schiere scemate

erano assai e scemavano ognora:

tanto di cuor ciascuno a ciò lavora!

 

 

Ciò che Teseo e gli altri riguardanti diceano

 

89

 

Miravali, ammirando, il grande Egeo,

con vista aguta del suo real loco;

e 'l simile faceva ancor Teseo,

tutto nel viso rosso come foco,

tanto 'l disio del combatter poteo,

di che più volte si tenne per poco!

Esso vedeva e conosceva aperto

qual di lor fosse più nell'arme esperto.

 

90

 

E similmente assai chiaro notava

l'opere di ciascuno e 'l suo ferire;

e chi la morte per onor cercava,

e chi temeva per gloria morire,

e chi più arte en la battaglia usava,

e chi aveva o più o meno ardire,

e chi schifava e chi facea niente,

tutto vedea in sé tacitamente.

 

91

 

E spesso giudicava la dubbiosa

battaglia e 'l fin di quella seco stesso;

ma non poteva fermo di tal cosa

giudicio dar, sì si mutava spesso

il caso d'essa, che non men noiosa

di lontano era che fosse da presso;

e 'n general per prodi e per valenti

lodava seco tutti i combattenti.

 

93

 

Elli avea seco li prigion chiamati,

e de' lor casi con lor si ridea;

e, come volle, quivi disarmati

seco ciascun reverente sedea,

tenendo dell'affar diversi piati:

chi questi e chi quegli altri difendea;

ma tututti dicean ch'alcun vantaggio

non vi vedean, ma eran d'un paraggio.

 

93

 

Ipolita con animo virile

la doppia turba attenta rimirava,

né già fra sé ne teneva alcun vile,

anzi d'alta prodezza li lodava;

e s'elli avesse il suo Teseo gentile

voluto, arme portarvi disiava,

tanto sentiva ancora di valore

di quella donna il magnifico core!

 

 

Come Emilia, rimirando la battaglia, seco parlava

 

94

 

Emilia rimirava similmente

e conosceva ben, tra gli altri, Arcita

e Palemone ancora combattente;

e attonita quasi e ismarrita,

fiso mirava la marzial gente;

e quante volte vedea dar ferita

a nullo, o che el fosse in terra miso,

tante color cangiava il chiaro viso.

 

95

 

E sempre in sé dimorava dubbiosa

non colui fosse Arcita o Palemone,

e con voce soave assai pietosa

dava all'iddii divota orazione.

Ciò che vedeva o udiva noiosa

nell'animo le dava mutazione;

e tutta impalidita nello aspetto,

che ella non fosse essa avria l'uom detto.

 

96

 

Questa con seco talora dicea:

"Omè, Amor, quant'hai male operato!

Io non ti vidi e non ti conoscea,

né costor similmente, in alcun lato;

né per lor venni, né data dovea

essere a lor, né non l'avea pensato

Teseo giammai; ma tu e la fortuna

a tal m'avete recata qui una.

 

97

 

E se tu pur volevi il tuo ardore

in altrui porre per la mia bellezza,

potevil fare, e con lieto colore

adimandarmi far da sua grandezza,

perciò che io non son di tal valore,

che per me si convegna ogni prodezza

mostrar che posson molti. O me amara,

che da vender non fui cotanto cara!

 

98

 

Deh, quanto mal per me mi diè natura

questa bellezza di cui pregio fia

orribile battaglia, rea e dura,

che qui si fa sol per la faccia mia!

La quale avanti ch'ella fosse oscura

istata sempre volentier vorria,

che tanto sangue per lei si versasse,

quanto qui veggio nelle parti basse.

 

99

 

Omè, Amor, con che agurio omai

nella camera di qual di costoro

entrerò io, se non d'etterni guai?

L'anime dolorose di coloro

ch'a torto per me muoion, non fien mai

sanza disio di mio dolore e ploro,

e sempre attente mi spaventeranno

e faran festa di ciascun mio danno.

 

100

 

Oh, quante madri, padri, amici e frati,

figliuoli e altri, me maladicendo,

davanti a l'are staranno turbati,

da' loro iddii i miei danni chiedendo;

e fien da lor con diletto ascoltati

s'egli avverranno, e dell'altro piagnendo;

e sì l'iddii infesteranno forte,

che dannata sarò a crudel morte.

 

101

 

Oh, che duro partito è quello a ch'io

misera son venuta per amore,

di cui non mi scaldò giammai disio,

e sanza colpa ne sento dolore!

O sommo Giove, deh, diventa pio

di me, che sol nel tuo sommo valore

ispero per soccorso del mio male,

più ch'altro greve, se di me ti cale.

 

102

 

E s'io dovea pur per Marte donata

esser a sposo, vie minore affanno

che questo bisognava, ove assembrata

cotanta gente non è sanza danno.

Andromeda fu sola liberata

da Perseo, quando l'ebbe sanza inganno,

e esso al monstro s'oppose marino,

poi fu atato dal coro divino.

 

103

 

Borea sol volò verso Etiopia

e ebbe Orizia, tanto seppe fare!

E Pluto, che patia di moglie inopia,

sol se la seppe in Cicilia furare;

e Orfeo della sua riebbe copia,

tanto sol seppe umilmente pregare!

E Atalanta ancor fu guadagnata

da un da cui fu nel corso avanzata.

 

104

 

Io sola son con le forze di molti

chesta da due, mentre ch'io son mia,

e qui dinanzi a me li veggio accolti,

e iracundi la lor fellonia

l'un verso l'altro con colpi disciolti

veggo mostrar per la lor gran follia;

né so ancor di cui esser mi deggia,

tanto di pari par ch'ognun mi cheggia.

 

105

 

E or pur fosse la mia mente all'uno

col disio appoggiata e mi piacesse!

Ma tanto è bello e nobile ciascuno,

che io non so qual di lor m'eleggesse,

se e' mi fosse detto da alcuno

che qual volessi in isposo prendesse;

così in amorosa erranza posta

m'ha, lassa!, Amor, perché più non li costa.

 

106

 

Io sto di ciascun d'essi sospettosa,

e di ciascuno il mal temo e 'l dammaggio;

e pur son certa che vittoriosa

fia l'una parte, e non so col coraggio

qual io m'aiuti, o di quale io pietosa

diventi, o di qual fosse danno maggio

s'ella perdesse; e l'uno e l'altro miro,

e per ciascuno igualmente sospiro.

 

107

 

Né mi vene all'orecchie: "Pegaseo!"

alcuna volta dalli suoi chiamato,

ch'io non divenga qual si fa Rifeo

per le sue nevi dal sol riscaldato;

e il gridare: "Asopo!" ancor mi feo

parer più volte col viso cangiato;

né veggio nullo, e sia qual vuol, cadere,

che non mi paia il suo duol sostenere.

 

108

 

Deh, or gli avesse pur Teseo lasciati,

quando noi li trovammo nel boschetto,

combatter soli! Almen diliberati

sariensi in lor di me, e con diletto

avrebbe l'un gli abbracciar disiati

di me, tenendol nel suo cor distretto

sanza scoprirsi; e io non sentiria

per lor né ira né malinconia.

 

109

 

Così m'hai fatto, Amore, e più non posso,

e sanza amare innamorata sono:

tu mi consumi, tu mi priemi adosso

per colpa degna certo di perdono;

tu m'hai il cor, dolorosa!, percosso

con disusato e non saputo trono:

e or pur foss'io certa che campasse

l'un d'esti due e sposa men portasse!".

 

110

 

Così la giovinetta in sé dicea,

mirando fuor di sé le cose dire

che l'un baron contra l'altro facea

nel campo, acceso di troppo disire;

e l'altro popol, che questo vedea,

chi gioia ne sentiva e chi martire,

e ciaschedun con voci confortava,

alto gridando, quel che più amava.

 

 

Come Marte in forma di Teseo, disceso nel campo, raccese in Arcita, che si riposava, l'ardore della battaglia

 

111

 

La battaglia era a pochi ritornata,

chi qua chi là per lo campo scorrendo;

e quasi già sì la gente affannata

era, l'un l'altro per forza ferendo,

che poco potean più; ma spessa fiata

di patto fatto si gian sostenendo,

e quasi pari ciascun del partito,

per istanchezza si ristava attrito.

 

112

 

Ma Marte riguardava d'alto loco,

e Venere con lui, i combattenti;

il qual poi vide intiepidire il foco

che facea prima gli animi ferventi,

e le spade chetarsi a poco a poco,

e stanchi vide i buon destrier correnti,

pien d'ira e di coruccio lì discese,

e con parole tali Arcita accese,

 

113

 

in forma rivestito di Teseo:

– Ahi, villan cavalier, falso e fellone,

qual codardia qui fermar ti feo?

Non vedi tu combatter Palemone

e per dispetto nomarti Penteo,

dicendo che 'ntendevi, a tradigione,

sotto altro nome Emilia possedere,

la quale elli in aperto crede avere? –

 

114

 

E detto questo, trascorse en la schiera

d'Arcita con parole accese d'ira;

e sì focoso fé qualunque v'era,

ch'a veder parve a tutti cosa mira.

E Arcita, infiammato com'elli era,

ogni riposo lasciando, si tira

con la sua spada in man, mostrando ch'esso

non fosse quel che si posava addesso.

 

115

 

Agamenone il seguì animoso,

e Menelao e Polluce e Castore,

e Peritoo appresso valoroso,

e con Cromis ancora il buon Nestore;

né cura avendo di nessun riposo,

ver Panto dirizzaro il lor valore,

e lui per forza aspramente pigliaro,

e la bandiera in braccio gli tagliaro.

 

116

 

Ma loro uscì incontro Palemone,

fiero e ardito, con Ameto allato,

li qua' seguiva il feroce Almeone,

e Anchelado, e Niso transmutato

in ira di riposo, e Alimedone

che 'n quello incontro fu forte piagato;

e cominciar la battaglia sì fiera,

che tal non fu veduta qual quella era.

 

117

 

E ben che fosser fieri e animosi,

e al morir più ch'a vergogna dati,

taciti, alquanto nel cor paurosi,

divenner, poi con lor furo scontrati;

perché augusti più e poderosi

parean lor gli avversarii ritornati;

ma nondimen durava la mislea

crudele e fiera quant'ella potea.

 

118

 

Combattea Palemone arditamente

con Menelao, e Cromis combattea

con Almeon, ciascuno assai possente;

Alimedon contra Nestor tenea,

ma il fiero Arcita vigorosamente

vincere Ameto per forza volea;

Ligurgo contro a Niso avea ripresa

battaglia, e e' faceva gran difesa.

 

119

 

E così insieme gli altri combatteno,

tutti nel campo raccesi a battaglia,

e lungo assalto fra lor manteneno:

ciascun di cacciar l'altro si travaglia.

E mentre in guisa tal le cose gieno,

cadde di Foloèn quel di Tesaglia,

e Peritoo vi fu abbattuto

e dagli Asopii forte ritenuto.

 

 

Come Palemon fu preso dal cavallo di Cromis

 

120

 

Cromis avea sì stancato Almeone,

che non poteva più, ma si tirava

indietro; ma di Cromis il roncione,

ch'ancora che solea si ricordava

gli uomin mangiar, pel braccio Palemone

co' denti prese forte, e sì l'agrava

col duol, che 'l fece alla terra cadere

mal grado ch'e n'avesse, e rimanere.

 

121

 

E quale il drago talora i pulcini

dell'aquila ne porta renitenti,

o fa la leonessa i leoncini

per tema degli aguati delle genti,

così faceva quel vibrando i crini,

forte strignendo Palemon co' denti,

cui elli aveva preso in tal maniera,

che merviglia n'avea chiunque v'era.

 

122

 

E se non fosse che e' fu atato

da' suoi avversi, il caval l'uccidea,

a cui di bocca appena fu tirato,

e tratto fuor della crudel mislea,

e sanza alcuno indugio disarmato

per Arcita, che l'arme sue volea

per offerire a Marte, s'avenisse

che 'l dì a lui il campo rimanesse.

 

123

 

Se Palemone allora fu cruccioso,

soverchio qui saria ciò raccontare,

e però di narrarlo mi riposo:

ottimamente il può ciascun pensare.

Egli era alla sua vita invidioso

e quasi si voleva disperare,

e ben si crede del tutto perduta

aver d'Emilia la speranza avuta.

 

 

Parole dell'autore, d'Emilia vedendo preso Palemone

 

124

 

Essa ciò riguardava assai dolente,

e sappiendo qua' patti eran tra loro,

già d'Arcita credendo fermamente

esser, l'animo suo sanza dimoro

a lui voltò, e divenne fervente

dell'amor d'esso, e già, per suo ristoro,

per lui vittoria, pietosa chiedea,

né più di Palemon già le calea:

 

125

 

così le fece il subito vedere

di cui esser credea pensier cangiare!

Ciascun si guardi adunque di cadere

e del non presto potersi levare,

se non gli è forse caro di sapere

chi gli è amico o chi amico pare:

colui che 'n dubbio davanti era amato,

ora è con certo cuore abbandonato.

 

126

 

Or loda Emilia seco la bellezza

d'Arcita tutta e 'l nobil portamento;

ora le par più somma la prodezza

di lui e troppo maggior l'ardimento;

or crede lui aver più gentilezza,

or più cortese il reputa l'un cento:

là dove prima le parieno equali,

or le paion del tutto disiguali.

 

127

 

Or ha preso partito e appagata

dagl'iddii tiensi d'avere il migliore;

e già d'Arcita si dice sposata,

e già li porta non usato amore

occultamente, e già spessa fiata

priega l'iddii per lo suo signore;

e con nuovo disio il va mirando,

l'opere sue sopra tutte lodando.

 

128

 

Già le rincresce il combatter che fanno

più lungo, e fine a quel tosto disia;

e già con nuova cura teme il danno

d'Arcita più che non faceva in pria;

e di lui pensier nuovi al cor le vanno,

li quai davanti punto non sentia;

e sol d'Arcita l'imagine prende,

e sé lascia pigliar, né si difende.

 

 

Come, preso Palemone, il campo rimase ad Arcita

 

129

 

L'aspra battaglia stata infino allora,

poscia che vider preso Palemone,

e Ameto abbattuto in terra ancora,

e sopra lor più fiero Agamenone

vidono e gli altri, ciascun si discora

e lievemente si dà per prigione;

né valse a Palemone il suo gridare

– Tenete il campo! –, che 'l volesser fare.

 

130

 

Laonde Arcita in poca d'ora prese

co' suoi di quelli i tiepidi pugnanti;

il che vedendo tutto si raccese,

sì come soglion sempre far gli amanti,

se dubbiosa speranza mai gli offese,

quando certa ritorna a' disianti

secondo il lor disio; e valoroso

il campo circuia vittorioso,

 

131

 

e lieto i suoi andava ricogliendo,

ben che pochi rimasi ve n'avesse;

e con la spada in mano ancor ferendo,

s'alcun vi fosse che contradicesse

alla vittoria sua; e sì faccendo,

d'allegrezza parea tutto godesse:

e già voleva il caval ritenere,

avendo tutto vinto, al suo parere.

 

Qui finisce il libro ottavo del Teseida

 

 

 

LIBRO NONO

 

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro nono

 

Dimostra il nono libro apertamente

perché e come Arcita vincitore

sotto al caval cadesse, e il dolore

ch'ebbe di ciò Teseo e ogni gente;                                           4

 

ma, com'el puote, poi triunfalmente

in Attene il ne mena con onore.

Quivi Teseo, parlando, ogni signore

contenta ch'era stato il dì perdente.                                          8

 

Libera poi Emilia Palemone,

il qual, pe' patti fatti nel boschetto,

quivi le fu presentato prigione,                                                 11

 

e alti don gli dona; e in cospetto

di ciaschedun notabile barone

la sposa Arcita, come 'n fine è detto.                                       14

 

 

Incomincia il libro nono del Teseida. E prima come Venere, mandata Erinis, infernal furia, a spaventare il cavallo d'Arcita, gliele fé cadere addosso.

 

1

 

Già s'appressava il doloroso fato,

tanto più grave a lui a sostenere,

quanto in più gloria già l'avea elato

il sé vittorioso ivi vedere.

Ma così d'esto mondo va lo stato,

ch'allor è l'uom più vicino al cadere

e vie più grieve cade, quanto ad alto

è più montato sovra il verde smalto.

 

2

 

Sovra l'alta arce di Minerva attenti

Venere e Marte a rimirar costoro

stavan, fra sé dell'ordine contenti

che preso fu per li prieghi fra loro.

Ma già vedendo Venus che le genti

di Patemon non potean dar ristoro

a la battaglia più, rivolta a Marte,

disse: – Oramai fornita è la tua parte.

 

3

 

Bene hai d'Arcita piena l'orazione,

che, come vedi, va vittorioso;

or resta a me quella di Palemone,

il qual perdente vedi star doglioso,

a mio poter mandare a secuzione. –

A la qual Marte, fatto grazioso,

– Amica – disse, – ciò che di' è 'l vero;

fa oramai il tuo piacere intero. –

 

4

 

Ell'avea poco avanti visitati

gli oscuri regni dell'ardente Dite

e al re nero aveva palesati

i suoi disii; per che di quella uscite

più furie eran con alti mandati;

ma ella, Erinis presa, a l'altre: – Gite

dove vi piace – disse; e poi a questa

tutta la voglia sua fé manifesta.

 

5

 

Venne costei di ceraste crinita,

e di verdi idre li suoi ornamenti

erano a cui in Elisso la vita

riconfortata avea, le quai lambenti

le sulfuree fiamme, che uscita

di bocca le facevan puzzolenti,

più fiera la faceano; e questa Dea

di serpi scuriata in man tenea.

 

6

 

La cui venuta diè tanto d'orrore

a chi nel teatro stava a vedere,

ch'ognuno stava con tremante core,

né il perché nessun potea sapere.

Li venti dier non usato romore,

e 'l ciel più ner cominciò a parere;

il teatro tremò, e ogni porta

cigolò forte ne' cardini storta.

 

7

 

Costei, nel chiaro dì rassicurata,

non mutò forma né cangiò sembiante;

ma già nel campo tosto se n'è andata,

là dove Arcita correva festante,

e orribil come era, fu parata

al corrente destrier tosto davante,

il qual per ispavento in piè levossi

e indietro cader tutto lasciossi.

 

8

 

Sotto il qual cadde il già contento Arcita,

e 'l forte arcione li premette 'l petto

e sì il ruppe, che una fedita

tutto pareva il corpo; e 'l giovinetto,

che fu in forse allora della vita

abbandonar da gran dolor costretto,

per molti, che a lui corsero allora,

atato fu sanz'alcuna dimora.

 

9

 

I quali a pena lui disvilupparo

da' fieri arcioni, e con fatica assai

da dosso il caval lasso gli levaro;

il qual, com si sentì libero, mai

non parve faticato, tal n'andaro

le gambe sue fuggendo: tanti guai

li minacciò la Furia con la vista

sua dispettosa, noievole e trista!

 

 

Ciò che ad Emilia parve della caduta d'Arcita

 

10

 

Emilia del loco dove stava

chiaro conobbe il caso doloroso,

per che il cor, che più ch'altro l'amava,

di lui dubbiando si fé pauroso;

onde per tema a sé tutte chiamava

le forze sparte nel corpo doglioso;

per che nel viso tal rimase smorta,

quale è colui che al rogo si porta,

 

11

 

"O me dogliosa!" in sé trista dicendo,

"Quanto la mia felicitate è breve

istata!" questo caso ora vedendo.

"E ben che il pensier mi fosse greve,

e' pur m'andava dentro il cor dicendo

che non poteva con fatica leve

d'amor passar, più che passar si soglia

per gli altri c'han provata la sua doglia.

 

12

 

Ora conosco ciò che volea dire

Bellona sanguinosa, che davanti

oggi m'è stata, senza dipartire,

con atti fieri e morte minaccianti,

quasi io dovessi li danni patire

che si fesser tra lor li due amanti".

E questo detto, sì il dolor la vinse,

ch'errando fuor di sé tutta si tinse.

 

13

 

El fu subitamente disarmato,

e il palido viso pianamente

con acqua fredda lì li fu bagnato,

onde e' si risentì subitamente,

e molto fu da' suoi riconfortato;

ma parlar non poteva ancor niente,

sì gli avea 'l petto il suo arcion premuto

mentre il cavallo adosso gli era suto.

 

 

Come Agamenone, caduto Arcita, ritenne il campo

 

14

 

Agamenon, con contenenza fiera,

con Menelao per lo campo gia,

e scorrendo per quel con la bandiera,

ciascun de' suoi di dietro li venia;

e a qual fosse della vinta schiera

rimaso quivi, sanza villania

alcuna far, per preso nel mandava,

e vincitor sopra 'l campo si stava.

 

 

Come molti vennero per riconfortare Arcita, e del dolore di tutti.

 

15

 

Ma poi che fur le cose riposate

e manifesto a tutti il vincitore,

e 'l molto suon delle trombe sonate

e alti gridi mandati in onore

e d'Arcita e de' suoi, e già levate

le genti varie con novo romore,

trassersi i vincitori inverso Arcita

per vedere il sembiante di sua vita.

 

16

 

Là discendendo venne il vecchio Egeo,

e 'n grembo la sua testa si fé porre;

e dopo lui vi venne il pio Teseo,

e la reina Ipolita vi corre,

e Emilia ancor quanto poteo;

e ciaschedun lui conforta e soccorre

con pietose parole, stropicciando

le mani e' piè di lui, lui domandando.

 

17

 

Ma e' non rispondeva, anzi ascoltava,

e ciò per non potere adivenia;

ma gli occhi erranti in qua e 'n là voltava

or questo or quello con sembianza pia

mirando, e sé quasi non sé mostrava:

tale era il duol che l'anima sentia,

ch'ancora in dubbio di stare o di gire

errava per lo cuor con gran martire.

 

18

 

Ma poi ch'Emilia tabefatto il viso

di polvere, di sangue e di sudore

vide, e sentì che 'l capo avea diviso

in parte alcuna, appena il suo dolore

casto ritenne dentro al cor conquiso,

maladicendo in sé il soverchio amore

che lui a tal partito posto avea

e lei vie troppo di novo pungea.

 

19

 

Ma sì non seppe la cosa celare,

né ritener le lagrime dolenti,

che spesse volte il suo viso cangiare

visto non fosse da' più delle genti.

Ella non sa come racconsolare

onesta il possa, e i disii ferventi

pur la vi tirano; e così sospesa,

da greve doglia lui rimira ofesa.

 

20

 

Quivi era sì dolente Agamenone,

Menelao e Nestore e ciascheduno

altro amico di lui o compagnone,

che non pareva aver vinto a nessuno,

anzi di doglia vie maggior cagione

aver che di pigliar riposo alcuno;

e 'n qua e 'n là si givan lamentando,

l'iddii di tanta offesa biasimando.

 

21

 

Palemon tristo d'una e d'altra cosa,

del mal d'Arcita forte li dolea,

ma più assai sua fortuna angosciosa,

che perditor quivi fatto l'avea;

né sa se isperanza graziosa

si prenda quindi, o se l'aspetta rea;

e pur conosce Arcita per parente,

né può fuggir che non ne sia dolente.

 

 

Come Teseo fece votare il teatro di genti e medicare Arcita, il quale, potendo parlare, domandò d'Emilia, la quale Teseo li fé venire; ond'elli si confortò molto.

 

22

 

Fece Teseo il campo a' vincitori

raccoglier tutto, e fece comandare

che qual non fosse de' combattitori

sanza dimoro sen dovesse andare;

li quai poi furo al teatro di fori,

fece quel dentro alle guardie serrare,

e mise cura solenne in Arcita

in rivocar la sua vita smarrita.

 

23

 

El fé chiamar più medici e venire

nel loco, i quai di vin tutto il lavaro,

e con loro argomenti fer reddire

a lui il parlar, che l'ebber molto caro;

poi le sue piaghe li fecer coprire

di fini unguenti e tututto il lenzaro;

e poi ch'alquanto fu riconfortato,

a seder lì tra lor si fu levato.

 

24

 

E con voce non salda, umilemente

domandò qual di loro era vittore;

a cui Teseo rispose tostamente:

– Amico mio, del campo è tuo l'onore. –

Allor diss'elli: – Adunque la piacente

Emilia ho guadagnata e 'l suo amore? –

Teseo rispose: – Sì, ecco tua sia;

omai ne fa ciò che 'l tuo cor disia. –

 

25

 

A cui el disse: – Se io ne son degno,

deh! fammi alquanto la sua voce udire,

a me più cara ch'alcuno altro regno,

e fa ch'io possa en le sue man morire,

per che 'n core ferma oppinion tegno

che' regni neri sanza alcun martire

visiterò, s'io la posso vedere

o dar l'anima mia al suo piacere. –

 

26

 

Teseo rispose: – Cotal parlamento

non ha qui luogo, che ora non morrai.

Ecco lei qui al tuo comandamento,

con cui vivendo ancor t'allegrerai. –

E a lei disse: – Deh! fallo contento

di quel ch'e' chiede: deh! perché nol fai?

Non vedi tu quant'elli ha per te fatto,

ch'è a partito d'esserne disfatto? –

 

27

 

Emilia più niente disiava,

se non onesta poterli parlare,

e vergognosa così cominciava:

– O signor mio, se vale il mio pregare,

confortati, ché 'l tuo mal sì mi grava,

ch'appena il posso, lassa!, comportare;

io son sempre con teco, o dolce sposo,

oggi stato per me vittorioso. –

 

28

 

Quali i fioretti richiusi ne' prati

per lo notturno freddo, tutti quanti

s'apron come dal sol son riscaldati,

e 'l prato fanno con più be' sembianti

rider fra le verdi erbe mescolati,

dimostrandosi lieto a' riguardanti,

cotal si fece vedendola Arcita,

poscia che l'ebbe sì parlare udita.

 

 

Come Arcita in su un carro triunfale rientrò in Attene

 

29

 

Passata avea il sol già l'ora ottava,

quando finì lo stormo incominciato

in su la terza; e già sopra montava

il Pincerna di Giove, permutato

in luogo d'Ebe, e col ciel s'affrettava

il Pesce bin di Vener lo stellato

polo mostrar; però parve ad Egeo

di partirsi indi, e 'l simile a Teseo.

 

30

 

E già Arcita ne volea pregare,

quando Teseo comandò che venisse

un carro triunfal, che apparecchiare

aveva fatto a chiunque vincesse;

e lì il fé molto riccamente ornare,

e Arcita pregò che su vi gisse

fino all'ostier, se non li fosse noia.

Rispose Arcita che anzi gli era gioia.

 

31

 

E certo, quando Roma più onore

di carro triunfale a Scipione

fece, non fu cotal; né di splendore

passato fu da quello il qual Fetone

abbandonò per soverchio tremore,

quando Libra si cosse e Iscorpione,

e e' da Giove nel Po fulminato

cadde, e lì l'ha l'epitafio mostrato.

 

32

 

E ben che fosse ancor molto stordito

per la caduta del fiero destriere,

non era elli ancor sì indebolito,

che non vi stesse ben suso a sedere

di drappi triunfal tutto vestito

e coronato, secondo 'l dovere,

di verde alloro; e su vi gì con esso

la bella Emilia, sedendoli appresso.

 

33

 

Così volle Teseo che ella andasse,

per più piacere al grazioso Arcita,

e acciò ch'ella ancora il confortasse,

se sua sembianza tornasse smarrita

per accidente che 'n lui si mutasse;

di che Arcita la penosa vita

riconfortò, non poco disioso

mirando spesso il bel viso amoroso.

 

34

 

Cromis ancora, tutto quanto armato,

vi gì, con forte mano i fren reggendo

de' cavai da cui 'l carro era tirato;

e gli avversarii, quello antecedendo,

girono a piè, ma ciascun disarmato,

e certo non costretti ma volendo,

come gli avea pregati Palemone,

per ad Arcita dar consolazione,

 

35

 

ben ch'ella fosse assai dovuta cosa

e ab antico ne' triunfi usata.

Poi di dietro veniva la pomposa

turba de' suoi così come era armata,

e con sembianza assai vittoriosa;

e da molti era, da ciascun, portata

o spada o scudo o mazza o scuricella

bipenne, tolta en la battaglia fella;

 

36

 

e altri ne menavano i roncioni

donde i signor furono scavallati,

coverti tutti, ma con voti arcioni;

e ta' dell'altrui armi gieno armati,

chi elmo e chi barbuta e chi tronconi

d'altre armadure nel campo trovati,

e chi toraca e chi caro balteo,

secondo che trovar quivi poteo.

 

37

 

Ma tra gli altri più nobili davante

giva di Palemon tutto l'arnese,

a Marte già botato, e simigliante

quel v'era con che Arcita si difese.

Da' lati al carro gia gente festante,

giovini e donne in abito cortese,

con dolci suoni e canti festeggiando

diversamente con arte danzando.

 

38

 

Questo ordinato, fé il teatro aprire

Teseo, e 'n cotal guisa n'uscì fore

Arcita triunfando, al cui venire

ciascun faceva mirabile onore;

e fé quelle armi al gran Marte offerire,

e ringraziollo con pietoso core

della vittoria ch'avea ricevuta;

poi fé dal tempio presta dipartuta.

 

39

 

E circuì la terra, triunfando

in questa guisa con molta allegrezza,

la sua Emilia sovente mirando

e più lodando che mai sua bellezza;

e ben mill'anni ognor li parea quando

quella dovesse goder con lietezza;

e l'avenuto caso biasimava

e molto seco se ne contristava.

 

40

 

Ella si giva onesta e vergognosa,

con gli occhi bassi, da ciascun mirata,

in guisa tal qual suol novella sposa

per vergogna nel viso colorata;

a tututti piacente e graziosa

e da ciascuno igualmente lodata;

e simile era ancora il buono Arcita,

ben ch'elli avesse sembianza smarrita.

 

41

 

Nulla persona in Attene rimase,

giovane, vecchio, zita overo sposa,

che non corresse là con l'ale spase

onde venia la coppia gloriosa.

Le vie e' campi e i tetti e le case

tutt'eran pien di gente letiziosa;

e in gloria d'Arcita ognun cantava

e della nuova sposa che menava.

 

42

 

E spesse volte, le prede mirando,

le guaste veste e i voti destrieri,

li givan l'uno a l'altro dimostrando,

dicendo: – Quel fu del tal cavalieri,

e questo del cotale –; e, ammirando,

le cose state più che volentieri

recitavan fra lor, ch'avean vedute

il dì, com'eran gite e come sute.

 

43

 

Ma ciò che più maravigliar facea

e con attenta vista riguardare,

era de' regi la turba lernea,

che giva innanzi in abito dispare

troppo da quel nel quale andar solea

e che 'l mattin si vider cavalcare;

li quali, a capo chino e disarmati,

a piè venien, nell'aspetto turbati.

 

44

 

E chi bene avvisava Palemone,

detto averia che el seco dicesse:

"Ben vive ancora l'ira di Giunone

ver me, e certo, se Giove volesse,

operar non poria ch'io di prigione

o di mortal periglio fuori stesse;

e io vi voglio stare e avvilirmi,

poi che le piace sì di perseguirmi".

 

45

 

Molto era ancor mirato disdegnoso

Minòs da chi 'l vedea, e in dispetto

parea la vita avesse, sì stizzoso

andando si mostrava nello aspetto.

E 'l tesalico Ameto, assai doglioso,

parea di Febo, a lui stato suggetto,

si ramarcasse, perché operato

aveva bene e era mal mertato.

 

46

 

Ida, Evandro e Alimedonte,

Ulisse e Diomede e ciascheduno

degli altri ancora, con chinata fronte,

si vedean tutti, e con aspetto bruno,

più che se al lito tristo d'Acheronte

se ne vedesse per passare alcuno;

e vie più tristi li facea il parlare

che udieno a' circunstanti di sé fare.

 

47

 

Ne' colli lor non sonavan catene,

però ch'Arcita del tutto, pregando,

il tolse via; e così per Attene

disciolti, al picciol passo innanzi andando

al carro, tristi di sì fatte pene,

in questo loco e ora in quel restando,

quasi scherniti tutti si teneano

per gli atti delle genti che vedeano.

 

 

Come, pervenuti al real palagio, Arcita dismontò

 

48

 

In cotal guisa, con alto romore

d'infiniti strumenti e di gridare

che' popoli facean lì per onore

del grande Arcita e del suo operare,

giunsero al gran palagio del signore,

e a lor piacque quivi dismontare;

e di fuor fatta restar la più gente,

gir nella real sala pianamente.

 

49

 

Sovr'un gran letto, quivi fatto allora,

posato fu il faticato Arcita;

allato a cui Ipolita dimora,

bella vie più che gemma margherita,

e di conforto sovente il rincora

con ornata parola e con ardita;

e 'l simil fa Emilia, sua sorella,

con altre molte, ciascheduna bella.

 

50

 

E tutto ciò Palemon ascoltava,

che con li suoi in abito dolente

davanti al vincitor diritto stava

sanza alzare occhio; e nella trista mente

ogni parola con doglia notava,

imaginando ch'omai per niente

pace daria a sé con isperanza,

poi che perduta avea sua disianza.

 

 

Diceria di Teseo a Palemone e a' compagni

 

51

 

Teseo, per pace dare agli affannati

re, si levò e, con sereno aspetto,

con cenni i mormorii ebbe chetati,

che quivi eran per doglia o per diletto

forse da molti fra sé susurrati,

e degli onor veduti e del dispetto;

e con piacevol voce il suo disire

incominciò in cotal guisa a dire:

 

52

 

– Signori, e' non m'è nuova la credenza,

la quale alcuni afferman che sia vera,

cioè che la divina provedenza,

quando creò il mondo, con sincera

vista conobbe il fin d'ogni semenza

razionale e bruta che 'n quell'era,

e con decreto etterno disse stesse

quel che di ciò in sé veduto avesse.

 

53

 

Se ciò è ver non so; ma se ver fosse,

noi siam guidati dal piacer de' fati,

la cui potenza sempre mai si mosse

col giro etterno delli ciel creati;

dunque contra di lor l'umane posse

invan s'affannano, e sono ingannati

chi per senno o per forza contastare

volesson contra il loro adoperare.

 

54

 

E ciò non dico sanza alta cagione,

però che oggi la vostra virtute

ho rimirata e ogni operazione,

e come date e come ricevute

abbiate le percosse e l'offensione

del gridar, sanza stordir, sostenute;

e dico certo che, al mio vivente,

non vidi insieme tanta buona gente,

 

55

 

né tanto ardita, né con tal fortezza

non saggia d'arme, né di tanto affanno

sostenitrice, né di tal fierezza

meno infingarda, né che men di danno

mettesse cura, sol che sua prodezza

mostrar potesse, sì come i buon fanno,

com'io ho oggi tutti voi veduti,

e d'una parte e d'altra conosciuti.

 

56

 

Le prodezze de' quai s'ad uno ad uno

volessi raccontar, ben le saprei;

ma troppo saria lungo, e ciascheduno

le vide sì com'io; dunque direi

ciò che non fa bisogno, ma ognuno

per valente uomo al mondo approverei;

e se tai fosser quei della mia terra,

per forza vincerei ogni mia guerra.

 

57

 

Perché se oggi non vi fu donata

vittoria, ciò non fu vostro difetto,

ma cosa fu avanti assai pensata

nel chiaro e santo divino intelletto;

il quale Emilia mostra abbia servata

al piacevole Arcita e lui eletto

per isposo di lei: di che dovete

esser contenti, poi più non potete.

 

58

 

Né vi dovete di voi biasimare

che non abbiate bene adoperato;

ma sol gl'iddii ne dovete incolpare,

se degno è ciò ch'egli han diliberato

di potere altra volta permutare,

ched e' non l'hanno per voi permutato;

ma credo che deggiate esser contenti

a lor piacer, poi di noi sono attenti.

 

59

 

Questo ch'è stato, non tornerà mai

per alcun tempo che stato non sia;

però vi priego quanto posso assai,

amici car, per vostra cortesia,

che l'abito, ch'avete pien di guai

vestito per dolor, cacciate via,

e nel pristino stato ritornate,

e con noi insieme tutti festeggiate.

 

60

 

Liberi sete omai, poi ch'adempiuto

avete del triunfo la ragione;

ben vo' però che sia fermo tenuto

ciò che nel bosco dissi a Palemone;

il qual dee esser da noi ritenuto

e servato ad Emilia per prigione,

e ella faccia di lui il suo volere,

poco e assai, come l'è in piacere. –

 

 

Come i compagni di Palemone partiti ritornarono

 

61

 

Piacque a costoro il parlar di Teseo,

ben che 'n parte non ver tenesser quello;

per che lieto ciascun quanto poteo,

sanza dimor, tornò al suo ostello;

quivi d'abito nuovo si rifeo,

sì come prima, piacevole e bello,

e a cui fu bisogno medicare,

tosto fur fatti medici trovare.

 

62

 

Gli altri, che non curavan di riposo,

tornaro a corte con fronte cangiata;

e 'nsieme si rivider con gioioso

aspetto, come se fra loro stata

non fosse il dì battaglia; e grazioso

sollazzo insieme ciascuna brigata

faceva quivi, per amor d'Arcita,

che si desse conforto e buona vita.

 

 

Come, dopo le parole di Teseo, Palemone si presentò per prigione ad Emilia, e le parole che disse

 

63

 

Andonne adunque presto Palemone,

con tristo aspetto, molto umilemente,

ad Emilia davanti, e 'n ginocchione,

con voce e con sembianza assai dolente,

disse: – Madonna, io son vostro prigione,

e sono stato continuamente

poi ch'io vi vidi: fate che vi piace

di me, che mai non spero sentir pace.

 

64

 

Poi che l'iddii m'hanno tolta vittoria

e voi insieme in questo dì meschino,

troppo mi fia la morte maggior gloria,

che per lo mondo più viver tapino;

per ch'io vi priego, se di voi memoria

etterna di ben duri e d'amor fino,

dannate me sanza indugio alla morte,

ch'io la disio, vie più che vita, forte. –

 

 

Come Emilia liberò Palemone, datili grandissimi doni

 

65

 

Con pietoso occhio Emilia riguardava

ver Palemone, e 'n piè il fece drizzare,

e le parole sue fissa ascoltava,

né che risponder si sa consigliare,

anzi appena le lagrime servava

che nel cor le facea pietà destare;

ma dopo alquanto pure in sé dispose

di far risposta, e così li rispose:

 

66

 

– S'io fossi dall'iddii stata data

al mondo sol per tua sola speranza,

in guisa che dal tuo veder levata

fosse ogni altra lieta dimostranza,

mentr'io fui mia, io avrei reputata

essere stata soverchia fallanza

il non averti amato; ché t'amai,

mentre mi si convenne, pur assai.

 

67

 

Ma veggo che come io il santo amore

potea sperar di molti giustamente,

così molti sperar nel mio valore

potevan; ma un solo apertamente

considerar dovien ch'al mio onore

si riserbava della molta gente;

il qual, qual volle, m'ha mandato Iddio:

e tu tel vedi così ben com'io.

 

68

 

E però più a l'amorose pene

di te conforto non posso donare,

né dei voler, né a me si convene,

né ben faria, se i 'l volessi fare;

ma le greche città, che tutte piene

son di bellezze assai più da lodare

che e' non è la mia, dar ti potranno

giusto ristoro all'amoroso danno,

 

69

 

e te riporre in più lieto disio

che io non fui, allor ch'ancor dubbioso

istesti di dover divenir mio.

Dunque di te medesmo sie pietoso,

ch'io non intendo esserne crudele io;

ma poi che se' cavalier valoroso

sotto il giudicio di me incappato,

per me sarai in tal guisa dannato.

 

70

 

Per me ti sia donata libertate

e a tua posta lo stare e il gire;

e per l'amor che per la mia biltate

già di soverchio t'arse nel disire,

questo anel porterai, che spesse fiate

forse di me ti farà sovenire.

e priegoti, qualora ten sovene,

pensi d'amare un'altra donna bene. –

 

71

 

Non si dee creder che valesse poco

cotale anel, cui tutta fiammeggiante

era la pietra assai vie più che foco;

appresso una cintura, simigliante

a quella per la qual si seppe il loco

là dove Anfiorao era latitante,

lietali diè, dicendo: – Porterai

questa a qualunque festa tu sarai; –

 

72

 

quinci li diede una spada tagliente

e ricca e bella d'alto guarnimento,

e un turcasso, che nobilemente

lavorato era, di gran valimento,

pien di saette lizie veramente;

e uno scitico arco, non contento

di poca forza a volerlo operare.

Poscia li fé altro dono arrecare,

 

73

 

e ciò fu un destrier maraviglioso,

tutto guarnito qual si convenia

al nobil cavaliere e valoroso,

con armi nelle quai la maestria

di Vulcan s'operò mastro ingegnoso;

e uno scudo bel quanto potia,

con un gran pin delle sue frondi orbato,

d'un chiaro ferro e forte bene armato.

 

74

 

E a lui disse dopo alquanto spazio:

– O valoroso e nobil cavaliere,

del mio amore omai dei esser sazio,

e di qualunque con cotal mestiere

s acquista, di se stesso tristo strazio

faccendo, quale in questo puoi vedere

che s'è fatto per me, che trista sono

per tanto sangue e miserabil dono.

 

75

 

Ma perciò che tu dei vie più a Marte

che a Cupido dimorar suggetto,

ti dono queste, acciò che, se in parte

avvien che ti bisogni, con effetto

adoperar le puoi; esse con arte

son fabricate, che sanza sospetto

le puoi portar: forse l'adoperrai

dove vie più che me n'acquisterai. –

 

 

La risposta di Palemone ad Emilia

 

76

 

Prese il dono Palemone allora,

e disse: – Donna, io tengo la mia vita

tanto più cara ch'io non faceva, ora,

poi ch'io da voi la sento gradita,

che con migliore agurio ciascun'ora

la guarderò infino alla finita,

sperando che in ciel fermato sia

ciò che dite per vostra cortesia.

 

77

 

E voi ringrazio pietosa di quella,

quanto io più posso, e del libero stato

ch'io ho per voi, o matutina stella,

sì graziosamente racquistato;

e ciascheduna d'este gioie bella

m'è più che d'esser nel ciel coronato,

e guarderolla sempre per amore

del vostro alto ineffabile valore.

 

78

 

Che io aspetti più d'amor saetta

per altra donna, questo tolga Iddio:

da me amata sarete soletta,

né mai fortuna cangerà disio.

Se' fati v'hanno per altrui eletta,

in ciò non posso più contrastare io;

ma che io v'ami esser non mi pò tolto,

né fia mentre sarò in vita volto. –

 

79

 

Quinci sen gì pensoso a rivestire

e a lavarsi, ch'era rugginoso

tutto, per poscia quivi rivenire;

e ben che 'n sé non trovasse riposo,

pur s'ingegnò di sua noia coprire;

e con più lieto viso e grazioso

nell'aula tornò a rivedere

il suo diletto e 'l suo sommo piacere.

 

80

 

La donna fu assai quivi lodata

da' circunstanti re e da Arcita:

e ben li piacque ch'ella avea donata

a Palemon libertà espedita;

e Similmente ancora fu pregiata

di Palemone la risposta ardita,

il qual da tutti accolto lietamente

fu, ma più da Arcita veramente.

 

 

Come Arcita sposò Emilia

 

81

 

Ma poi ch'alquanto si fu riposato,

Arcita ver Teseo cominciò a dire:

– Signore, adempiuto è il tuo mandato

con non poco di me greve martire,

e per quel credo d'aver meritato

Emilia e perdono al mio fallire;

la qual dimando, se e' t'è in piacere,

se elli è tempo ch'io la deggia avere –.

 

82

 

A cui Teseo con voce graziosa

rispose: – Dolce amico, ciò m'è caro,

né disio tanto nessuna altra cosa;

e però in quel modo che lasciaro

a noi i nostri primi, quando sposa

essi ne l'età lor prima pigliaro,

vo' che solennemente ti sia data

e in presenza delli re sposata. –

 

83

 

Adunque lì li baron ragunati

e' sacrificii fatti degnamente

sì come egli erano in quel tempo usati,

Arcita Emilia graziosamente

quivi sposò, e furon prolungati

li dì delle lor nozze veramente,

infin ch'el fosse forte e ben guarito.

e così fu fermato e stabilito.

 

Qui finisce il libro nono del Teseida

 

 

 

LIBRO DECIMO

 

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro decimo

 

Nel decimo l'uficio funerale

fanno li greci re a' morti loro;

e Teseo chiama Itmon sanza dimoro,

il qual d'Arcita il mal dice mortale.                                           4

 

Poi Arcita a Teseo racconta quale,

dopo la morte sua, del suo tesoro

il testamento sia; e poi con ploro

quasi con Palemon fa altretale.                                                8

 

Poscia, presente Emilia, seco stesso

del suo morir si dole, e poi con lei;

e ella dopo lui, porgendo ad esso                                            11

 

gli estremi basci con dolenti omei.

Quindi a Mercurio lita e piange appresso,

poi l'alma rende all'immortali iddei.                                          14

 

 

Incomincia il libro decimo del Teseida. E prima come li re greci andarono di notte a dare sepoltura a' morti loro.

 

1

 

Il gran nido di Leda ogni bellezza

in molte luci di sé dimostrava

e già propinqua a sua maggior cortezza

tacitamente la notte n'andava,

forse due ore vicina all'altezza

dov'ella il suo mezzo cerchio toccava,

quando da corte i Greci si partiro

e alli proprii loro ostier reddiro.

 

2

 

E acciò che per lor non si impedisse

la lieta festa della nuova sposa,

anzi che più della notte sen gisse,

presa con loro ciascheduna cosa

degna da pirra far, ciaschedun disse

a' suoi: – Mentre la gente si riposa,

piani al teatro grande ve n'andate

e quivi con silenzio ci aspettate.

 

3

 

E' morti corpi delli nostri amici

tutti con diligenzia troverete,

e acciò che non sien forse mendici

d'onor di sepultura, laverete

lor tutti quanti, e' roghi fate lici,

ne' quai con degno onor li metterete,

poi venuti sarem; ma chetamente

si vuol far ciò, che nol senta la gente. –

 

4

 

Mossersi allor con l'urne i servidori

e 'nverso del gran teatro n'andaro;

e, come avean comandato i signori,

li morti corpi tutti ritrovaro,

e quei con odoriferi liquori

e con lagrime molte ancor lavaro;

poi fatte pire per sé a ciascuno,

sovra catune d'esse poserne uno.

 

5

 

Vennervi i regi, e la tuba dolente

con tristo suono fu apparecchiata,

e 'ntorniarle tutte con lor gente;

e poi ch'egli ebber ciascuna onorata

d'arme e di ghirlande e di lucente

porpora, fu la tromba comandata

a sonare; e dier voce i tristi guai

de' dolenti, che quivi erano assai.

 

6

 

Allora i re, addimorati un poco,

dentro alle pire fatte con dolore

ciascuno al morto suo accese foco,

e poi a Giove Stigio di core

fer sacrificio, acciò che 'n pio loco

ponesse que' che per lo lor valore

erano il giorno morti combattendo,

l'anime lor per altrui offerendo.

 

7

 

I grassi fuochi e grandi e bene ardenti

consumar tosto i corpi lor donati;

li qua' con vino dalle greche genti

pietosamente fur morticati;

e ricolte le ceneri candenti

ne' vasi furon messe, apparecchiati

con pia mano e con dolente verso,

durante ancora assai dei tempo perso.

 

8

 

E quanto Niobè in Sifilone,

allor che' figli di Latona fero

vendetta della sua alta orazione,

ne portò urne, e quivi in sasso vero

si trasmutò, cotante è oppinione

di quivi al tempio del gran Marte altiero

segnate gisser del nome di quelli

la cenere de' quai messa era in elli.

 

9

 

Poi ricercarono i lasciati ostieri

sì come bisognosi di riposo,

e a dormire i regi e' cavalieri

e qualunque altro, el tempo tenebroso,

tutti quanti ne giron volontieri,

infino al novo giorno luminoso;

quindi levati a corte ritornaro,

dove Teseo levato già trovaro.

 

 

Come tutti gli altri Greci fediti guarivano; Arcita solo peggiorava

 

10

 

Tutti li Greci i qual avean difetto

eran con somma cura medicati,

e lor donato sollazzo e diletto,

e ne' bisogni lor bene adagiati;

tal che di morte e d'ogni altro sospetto

forono in pochi giorni liberati,

e come prima si rifecer sani

così i cittadin come gli strani.

 

11

 

Ma solo Arcita non potea guarire,

tanto era dentro rotto pel cadere.

Fevvi Teseo il grande Itmon venire

d'Epidauria ad Arcita vedere;

il qual si mise segreto a sentire

del mal ch'Arcita in sé potesse avere,

e sanza fallo se n'avide tosto

come Arcita dentro era disposto.

 

12

 

Per che a Teseo rispose di presente

in cotal guisa: – Nobile signore,

il vostro Arcita è morto veramente,

né luogo ci ha di medico valore;

Giove potrebbe in vita solamente

servarlo, se volesse, ch'è maggiore

che la natura e puote adoperare

assai più che natura non può fare.

 

13

 

Ma lasciando i miracoli in lor loco,

dico che Esculapio non varrebbe

per sanità di lui molto né poco;

né 'l chiaro Appollo, ancora che tutta ebbe

l'arte con seco e seppe il ghiaccio e 'l foco

e l'umido e 'l calor e che potrebbe

ciascuna erba o radice; però ch'esso

per lungo e per traverso è dentro fesso.

 

14

 

Dunque fatica per sua guarigione

saria perduta, per quel ch'io ne senta.

Fateli festa e consolazione,

sì che ne vada l'anima contenta,

il più si può, all'etterna prigione

dove ogni luce Dite tiene spenta,

e dove noi di dietro a lui andremo,

quando di qua più viver non potremo. –

 

15

 

Molto cotal parlar dolfe a Teseo,

però ch'Arcita sommamente amava;

e a chi ciò udiva il simil feo,

però ch'ognuno alte cose sperava

della sua vita, se 'l superno Deo

vivo nelle parti attiche il lasciava;

né sapevan di ciò nulla che farsi,

se non ciascun di Giove lamentarsi.

 

 

Come Arcita, fatto chiamare Teseo, dispose delle cose sue

 

16

 

Adunque, ciascun giorno piggiorando,

il buono Arcita in sé si fu accorto

che 'l suo valor del tutto gia mancando,

e che sanza alcun fallo egli era morto;

né di ciò trarre il potea ragionando

alcun giammai o dandoli conforto;

per che volle di sé ciò che potesse

disporre, sol ch'al buon Teseo piacesse.

 

17

 

E fello a sé sanza indugio chiamare

e cominciò con lagrime ver lui

pietosamente così a parlare:

– O nobile signor caro e a cui,

mille volte morendo, meritare

l'onor del qual giammai degno non fui

non potre' mai, io mi veggo venire

al passo il qual nessuno uom può fuggire.

 

18

 

Al qual s'io vengo, che vi son, contento

ne vado mal, pensando che l'amore

il qual m'ha dato già tanto tormento

per la giovane donna, che nel core

ancora come mai per donna sento,

lascio infinito, e te, caro signore,

cui io appresso lei più disiava

servir che Giove, e più mi dilettava.

 

19

 

Ma più non posso, e far lo mi convene;

per ch'io ti priego per ultimo dono,

se lungamente Iddio ti guardi Attene,

che, poi del mondo dipartito sono

e sarò gito a riguardar le pene

de' miseri che priegan per perdono,

quel ch'io dirò tu facci sia fornito,

se tu da Marte sempre sii udito.

 

20

 

Signor, tu sai che, poi che di Creonte

il giusto Marte ti diede vittoria,

io, che con lui t'era uscito a fronte,

per prigion preso, fui della tua gloria

picciola parte, e certo non isponte,

e Palemone ancor, come in memoria

esser ti dee; li qua' festi guardare,

forse temendo del nostro operare.

 

21

 

Ma poi che quindi fummo liberati,

per tua bontà e per tua cortesia

li nostri ben, donde eravàn privati,

ci fur renduti, e ogni baronia,

come ti piacque, avemmo, e onorati

fummo quale eravam giammai in pria;

de' quali a Palemon tutta mia sorte

ti priego doni appresso la mia morte.

 

22

 

Similemente ancor t'è manifesto

quanto amor m'abbia per Emilia stretto,

il quale al tuo servigio sol per questo

ad esser venni, né ciò che sospetto

mi doveva esser mi fu mai molesto,

anzi con fe' serviva e con diletto;

né credo mai ti trovassi ingannato

di cosa che di me ti sii fidato.

 

23

 

El m'insegnò a divenire umile,

esso mi fé ancor sanza paura,

esso mi fé grazioso e gentile,

esso la fede mia fé santa e pura,

esso mostrò a me che mai a vile

io non avessi nulla creatura,

esso mi fé cortese e ubidente,

esso mi fé valoroso e servente.

 

24

 

Tanto mi diede ancor di pronto ardire,

che sotto nome stran nelle tue mani

mi misi, a rischio di dover morire;

e certo a ciò non mi furon villani

l'iddii, anzi facevan ben seguire

i miei pensieri interi e tutti sani;

né mi vergogno che in tuo onore

io ti sia stato lungo servidore.

 

25

 

Febo si fece servidor d'Ameto,

mosso da quella medesma cagione

che io mi mossi, e sì dolce e quieto

servì, ch'egli ebbe la tua intenzione;

e certo io il seguiva mansueto,

se el non fosse stato Palemone;

né dubito che ciò ch'io disiava

m'avessi dato, s'io mi palesava.

 

26

 

Or così va: e' non si può tornare

ciò che è stato; ond'io sono a tal punto

qual tu mi vedi, e sentomi scemare

ognor la vita, e già quasi consunto

del tutto son, né mi posso aiutare;

a tal partito m'ha ora Amor giunto,

a cui i' ho servito il tempo mio

con pura fede e con sommo disio.

 

27

 

Né 'l merito di ciò ch'io attendea

goder non posso, ben che mi sia dato:

veggio, di me, che ciascun fato avea

che così fosse in sé diliberato,

e che del mio servir voglion ch'io stea

contento che per merito onorato

istato sia della data vittoria,

che a' futuri fia sempre in memoria.

 

28

 

E io perciò che più non posso avante,

voglio aver questo per buon guiderdone;

e que' che fu così com'io amante

e la sua vita ha messa in condizione

di morte e di periglio simigliante

a me, io dico del buon Palemone,

per merito del suo amar riceva

la donna ch'io per mia aver doveva.

 

29

 

Io te ne priego per quella salute

che tu a lui e a me parimente

donasti già, e per la tua virtute

nota agl'iddii e all'umana gente,

e per l'opere tue che conosciute

sono e saranno al mondo etternalmente,

e per la fede che io ti portai

mentre nel tuo servigio dimorai.

 

30

 

Questa mi fia tra l'ombre gran letizia,

che Palemon, cui io molto amo, sia

tratto per me d'amorosa tristizia,

possedendo elli ciò che più disia;

pensando ancora ch'elli abbia divizia

di ciò ch'elli ama, per tua cortesia:

almeno Emilia, mentre fia in vita,

vedendo lui avrà a mente Arcita. –

 

31

 

E questo detto, forte sospirando,

tacque con gli occhi alla terra bassati,

tacito seco stesso lagrimando;

né quelli ardiva di tener levati:

onde Teseo un poco attese, e quando

vide che' suoi parlari eran posati,

quasi piangendo, assai di lui pietoso,

disse così con viso doloroso:

 

 

Come Teseo rispose ad Arcita

 

32

 

– Tolgan l'iddii, Arcita, amico caro,

che Lachesìs il fil poco tirato

ancora tronchi, e cessin questo amaro

dolor da me, se io l'ho meritato,

che non si dia a tua vita riparo;

e già in ciò Alimeto ha pensato

insieme con Itmon, e sì faranno

che vivo e sano a noi ti renderanno.

 

33

 

Ma pur se dell'iddii fosse piacere

di torti a me che più che luce t'amo,

a forza ciò ne converria volere,

però che isforzarli non possiamo.

Ciò che m'hai detto, puoi certo sapere

che, poi ti piace, sì come te il bramo,

e sanza fallo tutto fia fornito,

se tu venissi a sì fatto partito.

 

34

 

Ma tu, come sì forte ti sgomenti

pensando che così notabil cosa,

come è Emilia, che faria contenti

qualunque iddii di sé, tanto amorosa

si fa vedere, e' suoi occhi lucenti

pur te disian con vista lagrimosa,

e essa è tua? Deh! prendi conforto,

ch'ancor verrai a grazioso porto.

 

35

 

Ben ci ha da render alto guiderdone

delle fatiche da lui ricevute:

io dico al tuo amico Palemone,

del quale a me domandi la salute.

Sol che tu sani, i' ho oppinione

di porvi in parte, per vostra virtute,

dove di voi tra voi ancor sarete

contenti, sì che lieti viverete. –

 

 

Come Arcita si fé chiamar Palemone e ciò che li disse

 

36

 

Arcita nulla a questo rispondeva,

sì lo stringeva l'angoscia d'amore;

e il suo stato assai ben conosceva,

posto che i conforti del signore

divoto udisse quanto più poteva;

e già l'ambascia s'appressava al core

della misera morte, onde si volse

in altra parte e a Teseo si tolse.

 

37

 

E poi che fu alquanto dimorato

sanza mostrare o dire alcuna cosa,

come era prima si fu rivoltato,

e 'n voce rotta assai e angosciosa

priega che Palemon li sia chiamato

anzi che lasci esta vita noiosa;

il qual lì venne, sanza dimorare,

con altri molti per lui visitare.

 

38

 

Il qual poi vide innanzi a sé venuto,

e rimirato l'ebbe lungamente

con luci acute, quasi conosciuto

pria non l'avesse, con voce dolente

disse: – O Palemone, egli è voluto

nel ciel che più qui non istea niente;

però innanzi il mio tristo partire,

veder ti volli, toccare e udire.

 

39

 

Tanto n'ha sempre avversata Giunone,

che del seme di Cadmo solo Arcita

n'è conosciuto e tu, o Palemone:

or mi conviene angosciosa partita

da te, parente, amico e compagnone,

far, poi le piace, che alla mia vita

stata è invidiosa allor ch'ella poteva

più contentarla, se ella voleva.

 

40

 

In quella entrata ch'io doveva fare

ad esser delli suoi raccomandati,

fa ella il mondo lieto a me lasciare

per congiugnermi a' nostri primi andati.

Or m'avesse ella pur lasciato entrare

per tre giornate ne' suoi disiati

luoghi! E appresso in pace avria sofferto

ch'ella m'avesse morto o vuo' diserto.

 

41

 

Non l'è piaciuto, e io non posso avanti;

dunque tu sol, che a me se' rimaso

del sangue altiero degli avoli tanti,

quando verrà il doloroso caso

ch'io lascerò la vita e' tristi pianti,

gli occhi e la bocca e l'anelante naso

priegoti che mi chiuda, e facci ch'io

tosto trapassi d'Acheronte il rio.

 

42

 

E perché tu, sì come io, amato

hai lungamente Emilia graziosa,

io ho Teseo a mio poter pregato

che la ti doni per etterna sposa:

priegoti che da te non sia negato

perché tu sappi che di me pietosa

ella sia stata e a me porti amore,

ch'ell'ha suo dover fatto e suo onore.

 

43

 

E giuroti, per quel mondo dolente

al quale io vado sanza ritornata,

che, a dire il ver, giammai al mio vivente

di lei niuna cosa t'ho levata,

se non forse alcun bascio solamente,

al che tale è qual tu te l'hai amata;

ond'io ti priego, per tua cortesia,

che tu la prenda e che cara ti sia.

 

44

 

E lei con quello amor che tu solevi

portarle più che ad altra creatura,

s'egli era ver ciò che tu mi dicevi,

onora e guarda; e sì d'operar cura,

che 'l tuo valore usato si rilevi

a ricrear la nostra fama oscura

per lo dolente seme, ch'è ispento

s'a rilevarlo non dai argomento.

 

45

 

Certo quest'è manifesta cagione

che ciaschedun dell'operato affanno

ricever deggia degno guiderdone;

dunque sarà per merito del danno

c'hai già avuto e desolazione,

come io so e ancor molti sanno,

ricever lei, che credo più che 'l regno

di Giove l'avrai cara, e senne degno.

 

46

 

E s'ella forse per la morte mia

pietosa desse alcuna lagrimetta,

sì la raccheta che contenta sia,

perciò che la sua vista leggiadretta

fatta ha l'anima mia di lei sì pia,

che 'l riso suo più me che lei diletta,

e così il pianto suo più me attrista,

ond'io mi cambio come la sua vista.

 

47

 

In questa guisa, se l'anima sente

poi la morte del corpo alcuna cosa

di queste qua, tra la turba dolente

andrà con più ardire e men dogliosa. –

E questo detto, più oltre niente

allora disse; donde con pietosa

sembianza e voce appresso Palemone

incominciò così fatto sermone:

 

 

Come Palemone rispose ad Arcita

 

48

 

– O luce etterna, o reverendo onore

del nostro sangue, poderoso Arcita,

sed e' non è in te spento il valore

usato, aiuta la tua cara vita

con conforto sperando, ché 'l signore

del ciel soccorre a chi se stesso aita;

né far ragion che 'n giovinetta etate

Antropòs ora pigli podestate.

 

49

 

Cessin gl'iddii che io ultimo sia

di tanto sangue, se tu te ne vai,

né che Emilia mai diventi mia:

tu l'acquistasti e tu per tua l'avrai;

né l'uficio che chiedi fatto fia

con la mia man, per mia voglia, giammai;

ma la tua prole e tu gli chiuderete

a me, e sopra me vivi sarete.

 

50

 

Confortati: per que' celesti regni

che t'ha il tuo valore apparecchiati

allor che' membri tuoi saranno degni

per età lunga d'esser transmutati

in cenere, io ti priego ti sostegni,

sì che tu usi i ben già guadagnati;

e me tapino per lo mondo andare

lascia, che' fati me voglion provare. –

 

51

 

Arcita disse: – E' fia com'io t'ho detto;

il che s'avien, ti priego quant'io posso

che 'l mio disio in ciò mandi ad effetto,

e questo sia, ogn'altro affar rimosso.

Così disio, così mi fia diletto,

così d'ogni gravezza sarò scosso. –

E quinci tacquero amendun piangendo,

e chi vi stava ancor pianger faccendo.

 

 

Come Arcita, vedendo Emilia sopravenuta, parlò

 

52

 

A cotal pianto Ipolita piacente

vi sopravenne, e Emilia con lei;

e quando vider sì pietosamente

piangegli Achivi e li duci dircei,

d'Arcita dubitarono, e dolente

ciascuna domandò i re lernei

che era ciò, che' due Teban piangeno

e tutti loro ancor pianger faceno.

 

53

 

E' fu lor detto; onde ognuna di loro

più ad Arcita si fecero appresso,

e cominciaron sanz'alcun dimoro

a ragionar di più cose con esso

e a darli conforto con costoro

insieme ch'eran lì venuti ad esso

e elli alquanto prese d'allegrezza

poi che d'Emilia vide la bellezza.

 

54

 

Ma poi ch'Arcita l'ebbe rimirata

con occhio attento, sì come potea,

e ebbe bene in sé considerata

la gran bellezza che la donna avea,

cominciò con sembianza transmutata

a parlare in tal guisa qual potea,

premessi avanti dolenti sospiri,

caldo ciascun d'amorosi disiri:

 

55

 

– Piangemi Amor nel doloroso core,

là onde morte a forza il vuol cacciare;

né vi può star, né uscir ne pò fore,

sì ch'io il sento in me ramaricare

con pianti e con parole di dolore

accese più ch'i' non poria narrare,

in forma che di sé mi fa pietoso,

e di me, lasso!, oltre il dover doglioso.

 

56

 

Gli spiriti visivi assai sovente

mostrano a lui l'angelica figura

per la qual esso nel core è possente,

dicendo: "Deh! fie tal nostra sciagura,

che ci convenga teco insiememente

abandonar sì nobil creatura?".

Esso risponde loro e sì gli abraccia,

dicendo: "Sì, ché morte me ne caccia:

 

57

 

io me ne vo con l'anima smarrita,

la quale io presi col piacer di quella

che da voi è nel mondo più gradita".

Dunque nelle sue man ricevami ella,

quand'io farò la dogliosa partita

della presente vita tapinella. –

E questo detto, forte lagrimando,

gli occhi bassò, in terra riguardando.

 

 

Come Emilia parlò ad Arcita

 

58

 

Queste parole gli angelici aspetti

di quelle donne conturbavan molto

e con dolore offendevano i petti

dilicati in maniera che nel volto

si parea loro; e ben sentieno i detti

quali erano e che fosse in lor raccolto;

e ben l'occulta morte conosceno

nel viso a lui, che già veniva meno.

 

59

 

Per che Emilia disse: – O signor mio,

poscia che tu del viver ti disperi,

deh, dimmi, o lassa!, e come farò io?

Io ne verre' con teco volentieri,

e già ciò appetisce il mio disio,

perch'io non so che fuor di te mi speri.

Tu eri solo il mio bene e la gioia,

sanza di te non spero altro che noia. –

 

 

Come Arcita rispose ad Emilia

 

60

 

A cui Arcita disse: – Bella amica,

prendi conforto, e del mio trapassare

non prender nel tuo animo fatica;

ma per amor di me di confortare

ti piaccia, se giammai cosa ch'io dica

intendi nel futuro d'operare;

io ho trovato a tua consolazione

modo assai degno e con giusta ragione.

 

61

 

Palemon, caro e stretto mio parente,

non men di me t'ha lungamente amata,

e per lo suo valor veracemente

è più degno di me che isposata

li sii, e questo vede tutta gente;

ché, posto che vittoria a me donata

foste l'altrier, non fu già dirittura,

ma sola fu la sua disaventura.

 

62

 

Di che l'iddii errarono, e per certo

credetter lui atare e me ataro;

ma poi che il loro error fu discoperto,

ciò ch'avean fatto indietro ritornaro

e me recaron a sì fatto merto

quale ora piango con dolore amaro,

acciò che tu ti rimanessi ad esso,

com'essi avean diliberato espresso.

 

63

 

E io che tu sii sua me ne contento

più che d'altrui, poi esser non puoi mia.

Ferma in lui il tuo intendimento

e quel pensa di far che el disia;

e io son certo ch'ogni piacimento

di te per lui sempre operato fia:

egli è gentile e bello e grazioso;

con lui avrai e diletto e riposo.

 

64

 

Io muoio, e già mi sento intorno al core

quella freddezza che suole arrecare

con seco morte, e ogni mio valore

sanza alcun dubbio in me sento mancare;

però quel ch'io ti dico, per amore

farai, poi più non posso teco stare;

i fati t'hanno riserbata a lui,

me' sarai sua non saresti d'altrui.

 

65

 

Ma non pertanto l'anima dolente,

che se ne va pel tuo amor piangendo,

ti raccomando, e priegoti ch'a mente

ti sia tuttora, mentre che vivendo

qui starai sotto del bel ciel lucente,

a te contenta l'aure traendo;

ch'i' me ne vo, né so se tu verrai

là dov'io sia, ch'i' ti rivegga mai.

 

66

 

Gli ultimi basci solamente aspetto

da te, o cara sposa, i quai mi dei

ti priego molto; questo sol diletto

in vita omai attendo, ond'io girei

isconsolato con sommo dispetto

s'i' non gli avessi, e mai non oserei

gli occhi levar tra' morti innamorati,

ma sempre li terrei tra lor bassati. –

 

 

Come Emilia rispose ad Arcita e dielli gli ultimi basci

 

67

 

Fatti erano i begli occhi rilucenti

d'Emilia due fontane, lagrimando

e fuor gittando sospiri cocenti,

del suo Arcita il parlar ascoltando;

e ben vedeva per chiari argomenti

che, come esso dicea, venia mancando;

per ch'ella in voce rotta e angosciosa

così rispose tutta lagrimosa:

 

68

 

– O caro sposo a me più che la vita,

non verso te son crucciati l'iddii;

io sola son cagion di tua partita,

io nocevole sono a' tuoi disii;

questa è vecchia ira incontro a me nutrita

ne' petti lor, sì com'io già sentii,

i qua' del tutto lo mio matrimonio

negano, e io ne veggo testimonio.

 

69

 

Il gran Teseo m'avea serbato Acate,

col quale io giovinetta mi crescea:

bello era e fresco nella nova etate,

e nelli primi amori assai piacea

a me; ma la innata crudeltate

c'ha contro al nostro sangue Citerea,

mel tolse, già al maritar vicina,

ben che io fossi ancora assai fantina.

 

70

 

Questa, non sazia del primo operare

contra di me, già te veggendo mio,

similemente te mi vuol levare.

Dunque non altri t'uccide che io;

io, lassa!, colpa son del tuo passare;

il mio agurio tristo e 'l mio disio

ti noccion, lassa!, e io rimango in pene

e in tormento, non qual si convene.

 

71

 

Omè, sovra di me andasse l'ira

che altrui nuoce per la mia bellezza!

Che colpa ci ha colui che mi disira,

se la spietata Vener mi disprezza?

Perché or contra te diventa dira?

Perché in te discovre sua fierezza?

Maladetta sia l'ora ch'io fui nata,

e a te prima giammai palesata!

 

72

 

O bello Arcita mio, sanza ragione

or foss'io morta il dì che 'n questo mondo

venni, poi ti doveva esser cagione

di morte e torti di stato giocondo!

Donde giammai sentir consolazione

non credo in me, ma sempre di profondo

cor mi dorrò dopo la tua partita,

se dietro a te rimango, caro Arcita.

 

73

 

Ora conosco i dolorosi ardori

che oscuri mi mostrò l'altrier Diana;

or so quai fosser l'aure che di fori

n'uscian con vista e con voce profana,

e quel che della fiamma li furori

a me mostravan con mente non sana;

ché se allor conosciuti gli avessi,

non credo come stai che tu istessi.

 

74

 

Io mi sarei dolorosa parata

a te allor ch'al teatro ne gisti,

e di pietà e d'amor colorata

avrei voltati li tuoi passi tristi,

e la dolente battaglia sturbata

per la qual morte e per me ora acquisti;

ma io non li conobbi, anzi sperai

tutto il contrario di ciò che tu hai.

 

75

 

Or più non posso; ond'io morrò dogliosa

né so veder chi di morir mi tene,

vedendo, sposo, tua vista angosciosa

istar per me e in cotante pene.

O me isventurata dolorosa!

Quanto mal vidi, e tu ancora, Attene!

E quanto mal per te mi riguardasti,

il giorno che di me t'innamorasti!

 

76

 

Omè, che' fior ch'io allora cogliea,

e 'l canto, anzi fu pianto, ch'io cantava.

Erinis, lassa!, tutto ciò movea;

e i' 'l senti', che talora tremava

pavida, e la cagion non conoscea,

né le future cose imaginava:

or le conosco che non nel periglio,

né posso ad ente porre alcun consiglio.

 

77

 

E ora, caro sposo, mi comandi

che, tu mancato, io prenda Palemone.

Certo le tue parole mi son grandi,

e debbo quelle per ogni ragione

servar più che gli eccelsi e venerandi

iddii che or m'offendon, né cagione

non hanno; e io così le serveraggio,

in quella guisa che io ti diraggio.

 

78

 

Io so che Palemon m'ha tanto amata

quanto uom gentil nessuna donna amasse;

di che io non gli voglio essere ingrata,

eziandio se Giove il comandasse.

Chiaro conosco ch'a chiunque data

fossi, se esso di grazia abondasse

d'ogni vivente, ch'io nel priverei,

tanto gli agurii miei conosco rei.

 

79

 

E s'io a te sono or cagion di morte,

e ad Acate fui, aver nociuto

al mondo tanto assai gravosa sorte

m'è a pensar; né quinci spero aiuto

che possa sostener mia vita forte,

che poi lo spirto tuo sarà partuto,

che dietro a te per soverchio dolore

io non ne venga, seguendo 'l tuo amore.

 

80

 

E se pur fia la mia disaventura

di vivere oltre a te, non vo' donare

a Palemon della mia sciagura,

laddove esso per fedele amare

ha meritato; ma sola mia cura

ne' boschi fia Diana seguitare,

e ne' suoi templi, vergine vestita,

serverò sempre mai celebe vita.

 

81

 

E se Teseo vorrà pur che io sia

d'alcuno sposa, alli nemici sui

mi mandi, acciò che la sciagura mia

ad essi noccia e sia utile a lui;

e Palemone è tal, che se el disia

d'avere sposa, e' troverà altrui,

che li sarà, più non sarei, felice;

e ciò il cuor manifesto mi dice.

 

82

 

Li stremi basci, omè!, li quai dolente

mi cerchi, ti darò volonterosa,

e prenderolli ancora parimente

a mio poter; dopo li quai mai cosa

non fia ch'io basci più certanamente;

ma la mia bocca sempre come sposa

di te co' basci che le donerai

guarderò mentre in vita sarò mai. –

 

83

 

E quinci quasi furiosa fatta,

piangendo con altissimo romore,

sopra lui corse in guisa d'una matta,

dicendo: – Caro e dolce mio signore,

ecco colei che per te fia disfatta,

ecco colei che per te trista more;

prendi li basci estremi, dopo i quali

credo finire i miei etterni mali. –

 

84

 

E pose il viso suo su quel d'Arcita,

palido già per la morte vicina;

né 'l toccò prima, ch'ella tramortita

in su la faccia cadde risupina;

ma, poi appresso si fu risentita,

piangendo cominciò: – O me tapina!

son questi i basci che io aspettava

d'Arcita, il qual vie più di me amava?

 

85

 

A le nemiche mie cotal basciare,

o dispietati iddii, sia riserbato. –

Arcita, che nel cielo esser li pare,

il bianco collo teneva abbracciato,

dicendo: – Omai non credo male andare,

tal viso al mio sentito ho accostato;

qualora piace omai a l'alto Giove,

di questa vita mi tramuti altrove. –

 

 

Il dolor di coloro che vedevano Arcita

 

86

 

Quivi era sì gran pianto e sì doglioso

di donne e di signori e d'altra gente

che vedean questo, onde ciascun pietoso

era assai più che distretto parente,

che non si crede sì fosse noioso

allor che Febo si mostrò dolente

tornando adietro, nel tempo che Atreo

mangiare i figli al suo Tieste feo.

 

87

 

Essa allora, sì com'esso volle

e come volle Ipolita, drizzossi;

e sé e lui aveva tutto molle

di lagrimari, da' belli occhi mossi,

né più né men come 'l Menalo colle,

quando da Ariete riscaldossi,

che, consumata sua veste nevosa,

mostra la faccia sua tutta guazzosa.

 

88

 

E quel dì tutto quanto si posaro

sanza più rinovare altro dolore,

ben che nel cor l'avesser sì amaro

quanto potesser più a tutte l'ore;

e con le parole assai riconfortaro

Emilia e Arcita, e il furore

lor temperaron con soavi detti,

lena rendendo a' desolati petti.

 

 

Come Arcita, sentendosi vicino alla morte, domandò di volere sacrificare a Mercurio.

 

89

 

Nove fiate s'era dimostrato

il sole e altrettante sotto l'onde

d'Esperia s'era co' carri tuffato,

poi si mutaron le cose gioconde

per lo cader d'Arcita in tristo stato,

quando nel tempo che tutto nasconde,

d'Emilia avendo il dì li basci avuti,

parlò Arcita a' suoi più conosciuti:

 

90

 

– Amici cari, i' me ne vo di certo;

per ch'io vorrei a Mercurio litare,

acciò che esso, per sì fatto merto,

in luogo amen li piaccia di portare

lo spirito mio, poi che li fia offerto;

e ciò vorre' i' domattina fare:

però vittime degne e olocausti

m'aparecchiate, a lui decenti e fausti. –

 

91

 

Palemon, ch'era a questo dir presente,

come quel che da lui mai non partia,

fece apprestar tutto ciò immantanente

che a cotal mestier si convenia:

e sangue e latte nuovo e di bidente

gregge e d'armenti, quali a l'ara pia

sì richiedea di così fatto iddio,

ad adempiere d'Arcita il disio.

 

 

Come Arcita sacrificò a Mercurio

 

92

 

Il giorno venne oscuro e nebuloso,

e questi Febo s'avea messi avanti

al viso, acciò che 'l morire angoscioso

d'Arcita non vedesse e' tristi pianti

d'Emilia bella, a' quali assai pietoso

si mostrò il giorno, li suoi luminanti

raggi celando infra le nebbie oscure,

vedendo chiaro le cose future.

 

93

 

Allora l'ara fu apparecchiata,

e' fuochi accesi, e l'incensi donati,

e ciascuna altra offerta a ciò parata,

e' sacerdoti i versi ebber cantati

con voce assai da l'altre transmutata,

e' fummi furo tutti al cielo andati;

Arcita piano incominciò a dire,

in guisa tal che si poté sentire:

 

 

L'orazione d'Arcita a Mercurio

 

94

 

– O caro iddio, di Proserpina figlio,

a cui sta via l'anime portare

de' corpi, e quelle secondo 'l consiglio

che da te prendi le puoi allogare,

piacciati trarmi di questo periglio

soavemente, per le tue sante are

le quali ancora calde per me sono

che a te in su quelle offersi eletto dono.

 

95

 

E quinci me intra l'anime pie,

le quai sono in Eliso, mi trasporta;

ché, se tu miri ben, l'opere mie

non m'hanno fatto dell'aura morta

degno, sì come fur l'anime rie

de' miei maggiori, a' quai crudele scorta

fece Giunon, adirata con loro

con ragion giusta, a lor donando ploro.

 

96

 

Io non uccisi il sacrato serpente

all'alto Marte ne' campi dircei,

come fé Cadmo, della nostra gente

avol primaio; né nelli baccei

sacrificii tolsi fieramente

la vita al mio figliuol, come colei

che dopo il danno riconobbe il fallo

né poté poi con lagrime emendallo;

 

97

 

né, come Semelè, contra Giunone

mai operai; né, sì come Atamante,

contra la prole divenni fellone;

né il mio padre uccisi, né amante

della mia madre fui, la nazione

ne' sen materni indietro ritornante,

sì come Edippo; né mio frate uccisi;

né mai regno occupai, né mal commisi;

 

98

 

né di Creonte l'aspra crudeltate

mi piacque mai, né in altrui l'usai.

Se arme furon già per me pigliate

incontro a Palemon, male operai,

e io ben n'ho le pene meritate;

e certo i' non l'avrei prese giammai,

se esso non m'avesse a ciò recato,

perch'era, sì com'io, innamorato.

 

99

 

Dunque tra' neri spiriti non deggio,

o pio iddio, ciò credo, dimorare,

e del ciel non son degno, e i' nol cheggio.

E' m'è sol caro in Eliso di stare:

di ciò ti priego e di ciò ti richeggio,

se esser può che tu mel deggi fare;

so che 'l farai, se così se' pio

come suogli esser, venerando iddio. –

 

 

Come Arcita, dette queste parole, si cominciò a dolere della morte

 

100

 

Detto ch'ebbe così, con più dogliosa

voce parole mosse dove stava

Ipolita e Emilia valorosa,

e' greci re, e ciascun l'ascoltava,

e Palemon con anima angosciosa,

tanto del tristo caso li pesava;

e esso con parola vinta e trista

dicea così con dolorosa vista:

 

101

 

– Or mancherà la vita, ora il valore

d'Arcita finirà, ora avrà fine

l'acerbo e inespugnabil suo amore;

or vederà d'Acheronte vicine

le triste ripe, ora saprà 'l furore

delle nere ombre, misere, tapine;

or se ne va Arcita innamorato,

del mondo a forza sbandito e cacciato.

 

102

 

Ahi, lasso me! che l'étà giovinetta

lascio sì tosto, en la quale sperava

ancor mostrar di me virtù perfetta:

tale speranza l'ardir mi prestava.

Omè, che troppo la morte s'affretta,

e più che 'n alcuno altro in me è prava;

in me si sforza, in ver me la sua ira

mostra quant'ella puote, e mi martira.

 

103

 

Dove è, Arcita, tua forza fuggita?

Dove son l'armi già cotanto amate?

Come non l'hai, per la dolente vita

dalla morte campare, ora pigliate?

Oimè, ch'ella s'è tutta smarrita,

né più porian da me esser guidate;

per ch'io per vinto omai mi rendo, lasso!,

e per più non potere oltre trapasso.

 

104

 

O bella Emilia, del mio cor disio,

o bella Emilia, da me sola amata,

o dolce Emilia, cuor del corpo mio,

ora sarai da me abandonata!

Ohimè lasso! I' non so quale iddio

in ciò mi noccia con voglia turbata;

per te sola m'è noia il mio morire,

per te non sarò mai sanza languire.

 

105

 

Deh, che farò allora che vedere

più non potrotti, donna valorosa?

Seconda morte io non potrò avere,

ben ch'io la cheggia per men dolorosa;

né so ancor che luogo me tenere

debba di là nella vita dubbiosa;

ma se con Giove sanza te istessi,

non credo che giammai gioia sentissi.

 

106

 

Dunque angoscioso ovunque io n'anderaggio

sempre sarò, sanza te, luce chiara;

né mi sarà il secondo viaggio

a qui tornar concesso, donna cara,

come Pelleo, che fu mio signor maggio,

già mel concesse, allora che amara

vita traeva in Egina, lontano

dal tuo valor, bella donna, sovrano.

 

107

 

Lagrime sempre e amari sospiri

omai attende l'anima dolente

per giunta, lasso!, alli nuovi martiri

ch'io avrò forse intra la morta gente;

li quai tanti non fien, che' miei disiri

di te veder faccian cessar niente;

ma sempre te nell'etterna fornace

per donna chiamerò della mia pace.

 

108

 

Omè, dove lascio io i cari amici?

Dove le feste e il sommo diletto?

Ove i cavalli, omai fatti mendici

del lor signore? Ove quel ben perfetto

ch'amor mi dava, qualora i pudici

occhi d'Emilia vedeva e l'aspetto?

Dove lascio io Palemon grazioso,

meco d'amor parimente focoso?

 

109

 

E Peritoo ancor, cui similmente

più che la vita, con ragione, amava?

Ove li regi e l'altra buona gente,

che loro a' miei servigi seguitava?

Ove Teseo, nobil signor possente,

che più che caro frate m'onorava?

Ove lascio io il reverendo Egeo?

Dove il mio caro e buon signor Pelleo?

 

110

 

Certo io gli lascio dove rimanere,

s'esser potesse, vorria volentieri,

e in gioco e in festa e in piacere

con prencipi e con donne e cavalieri,

sì che, del rimaner di lor, mestiere

non m'è dolermi; ma sol mi son fieri

gli aspri pensier ch'a me ne mostran tanti

perder dovere, e e' me tutti quanti. –

 

 

Come Arcita trapassò di questa vita

 

111

 

Poscia ch'egli ebbe queste cose dette,

di cuor gittò un profondo sospiro

amaramente e di parlar ristette,

e 'nverso Emilia i suoi occhi s'apriro

mirando lei, e mirandola stette

un poco e poscia li rivolse in giro;

e ciascun vide che piangeva forte,

però ch'a lui s'appressava la morte.

 

112

 

La quale in ciascun membro era venuta

da' piedi in su venendo verso il petto,

e ancor nelle braccia era perduta

la vital forza; sol nello 'ntelletto

e nel cuore era ancora sostenuta

la poca vita; ma già sì ristretto

gli era il tristo cuor dal mortal gielo,

ch'agli occhi fé subitamente velo.

 

113

 

Ma poi ch'egli ebbe perduto il vedere

con seco cominciò a mormorare,

ognor mancando più del suo potere;

né troppo fece in ciò lungo durare,

ma 'l mormorio transmutato in vere

parole, con assai basso parlare,

– A Dio, Emilia! – e più oltre non disse,

ché l'anima convenne si partisse.

 

Qui finisce il libro decimo del Teseida

 

 

 

LIBRO UNDECIMO

 

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro undecimo

 

Nell'undecimo Emilia primamente

l'uficio imposto fa con Palemone;

poi mostra il pianto della greca gente,

dintorno al corpo ornato per ragione.                                      4

 

Quinci tagliata una selva eminente,

un ricco rogo fanno più persone,

sovra 'l qual posto Arcita eccelsamente,

vi mette Emilia l'acceso tizzone.                                               8

 

Le ceneri del rogo consumato

racoglie Egeo, e merita coloro

che 'n varii giuochi onore hanno acquistato.                              11

 

Quindi fa far con subito lavoro

un tempio Palemone istoriato,

là dove Arcita loca in urna d'oro.                                             14

 

Incomincia il libro undecimo del Teseida. E prima come l'anima d'Arcita, uscita del corpo, loda le cose superne, e queste qua gioe biasima

 

1

 

Finito Arcita colei nominando

la qual nel mondo più che altro amava,

l'anima leve se ne gì volando

ver la concavità del cielo ottava,

degli elementi i convessi lasciando;

quivi le stelle ratiche ammirava,

l'ordine loro e la somma bellezza,

suoni ascoltando pien d'ogni dolcezza.

 

2

 

Quindi si volse in giù a rimirare

le cose abandonate, e vide il poco

globo terreno, a cui intorno il mare

girava e l'aere e di sopra il foco,

e ogni cosa da nulla stimare

a rispetto del ciel; ma poi al loco

là dove aveva il suo corpo lasciato

gli occhi fermò alquanto rivoltato;

 

3

 

e seco rise de' pianti dolenti

della turba lernea, la vanitate

forte dannando dell'umane genti,

li quai, da tenebrosa cechitate

mattamente oscurati nelle menti,

seguon del mondo la falsa biltate,

lasciando il cielo; e quindi se ne gio

nel loco che Mercurio li sortio.

 

 

Come Emilia e Palemone chiusero gli occhi ad Arcita morto

 

4

 

A la voce d'Arcita dolorosa

quanti v'eran gli orecchi alti levaro,

aspettando che più alcuna cosa

dovesse dir; ma poi che rimiraro

l'alma partita, con voce angosciosa

pianse ciascuno e con dolore amaro;

ma sopra tutti Emilia e Palemone,

la qual così rispose a tal sermone:

 

5

 

– O signor dolce, dove m'abandoni?

Dove ne vai? Perché non vengh'io teco?

Dimmi quai sieno quelle regioni

che ora cerchi; poi non se' con meco,

io vi verrò, e con giuste cagioni! –,

dicendo: – Poi non volle in vita seco

Giove ch'io sia, e i' 'l seguirò morto,

colui che è il mio bene e 'l mio conforto. –

 

6

 

Ma poi che vide lui tacente e muto

e l'alma sua aver mutato ospizio

da lui non stato mai più conosciuto,

con Palemon piangendo il tristo ofizio

fecero, e gli occhi travolti al transuto

chiusero, per suppremo benefizio,

e il naso e la bocca; poi ciascuno

si tirò indietro con aspetto bruno.

 

 

Come Arcita fu pianto da tutti

 

7

 

Non fer tal pianto di Priam le nuore,

la moglie e le figliuole, allor che morto

fu lor recato il comperato Ettore,

lor ben, lor duca e lor sommo diporto,

quale Ipolita fé per lo dolore

ch'ella sentì, e certo non a torto;

e Emilia con lei, e altre molte

attiche donne lì con loro accolte.

 

352                                                                                        8

 

Piangeno i re offesi da pietate

e da dolore, e piangea Palemone;

piangevan gli altri d'ogni qualitate,

o d'età vecchio o giovane garzone;

e come Attene davanti occupate

erano in feste, ora in desolazione

tututte si vedevan lagrimose

e d'alti guai oscure e tenebrose.

 

9

 

Niun potea racconsolar Teseo,

sì avea posto in lui perfetto amore,

il simile avveniva di Pelleo

e del buon Peritoo e di Nestore

e d'altri assai, e ancora d'Egeo;

il qual la bianca barba per dolore

tutta bagnata aveva per Arcita,

allor passato della trista vita.

 

10

 

Ma come savio e uom che conoscea

i mondan casi e le cose avvenute,

sì come quei ch'assai veduto avea,

il dolor dentro strinse con virtute,

per dare esemplo a chiunque il vedea

di confortarsi delle cose sute;

e poi s'asise Palemone allato,

il qual faceva pianto ismisurato;

 

11

 

e ingegnossi con parole alquanto,

con quel silenzio ch'el poté avere,

di voler temperare il tristo pianto,

ricordando le cose antiche e vere:

le morti e' mutamenti e 'l duolo e 'l canto

l'un dopo l'altro spesso ogn'uom vedere;

ma mentre che parlava, ognun piangeva,

poco intendendo a ciò che el diceva.

 

12

 

Anzi così l'udivan, come 'l mare

Tiren turbato ascolta i navicanti,

o come folgor, che scenda dall'are,

pe' nuvoletti teneri ovvianti

da l'impeto suo cura di ristare,

ma gli apre e scinde e lor lascia fumanti

e quel dì e la notte in duolo amaro,

sanza punto ristar, continuaro.

 

 

Come Teseo, ordinato che un rogo si facesse nel boschetto, fece vestire il corpo d'Arcita e recarlo nella corte

 

13

 

Quinci Teseo con sollecita cura

con seco cerca per solenne onore

fare ad Arcita nella sepoltura;

né da ciò il trasse angoscia né dolore,

ma pensò che nel bosco, ov'e' rancura

aver sovente soleva d'amore,

faria comporre il rogo dentro al quale

l'uficio si compiesse funerale.

 

14

 

E comandò ch'una selva che stava

a quel bosco vicina, vecchia molto,

fosse tagliata, e ciò che bisognava

per lo solenne rogo fosse accolto

dentro al boschetto, nel qual comandava

una area si facesse da tal colto:

mossersi allora li ministri tosto,

per far ciò che Teseo loro avea 'mposto.

 

15

 

El fece poi un feretro venire

reale a sé davanti, e tosto fello

d'un drappo ad or bellissimo fornire;

e similmente ancor fece di quello

il morto Arcita tutto rivestire;

e poi il fece a giacer porre in ello,

incoronato di frondi d'alloro,

con ricco nastro rilegate d'oro.

 

16

 

E poi che fu d'ogni parte lucente

il nuovo giorno, elli il fece portare

nella gran corte, ove tutta la gente

come voleva il potea riguardare;

né crede alcun che sì fosse dolente

di Tebe allora il popolo a mirare,

quando li sette e sette d'Anfione

figli fur morti en la trista stagione,

 

17

 

come d'Attene si vide quel giorno,

nel quale altro che pianger non si udia:

nessuno andava per a terra attorno,

o el della sua casa non uscia,

in quella stando sì come musorno;

o, se ne uscisse, a la corte sen gia

per rimirar l'esequie dolorose,

nate dell'aspre battaglie amorose.

 

 

Come fu tagliata la selva e fatto il rogo

 

18

 

Alta fatica e grande s'aparecchia,

ciò è voler l'antico suol mostrare

a l'alto Febo della selva vecchia;

la qual Teseo comandò a tagliare

s'andasse, acciò ch'una pirra parecchia

alla stata d'Ofelte possan fare,

o se si puote, ancor la vuol maggiore,

in quanto fu più d'Arcita il valore.

 

19

 

Essa toccava con le cime il cielo,

e' bracci sparti e le sue come liete

aveva molto, e di quelle alto velo

alla terra facea; né più quiete

ombre aveva Acaia; né giammai telo

l'aveva ofesa, o altro ferro sete

n'aveva avuta; ma la lunga etate

d'essa tenean per degna deitate.

 

20

 

La qual non si credea che solamente

gli uomini avesse per età passati,

ma si credea che le ninfe sovente

e' fauni e le lor greggi permutati

fosser da lei, che continuamente

di sterpi nuovamente procreati

si ristorava, in etterno durando,

e degli antichi suoi pochi mancando.

 

21

 

Al miserabil loco soprastava

tagliamento continuo, del quale

ogni covil si vide che vi stava;

e fuggì quindi ciascuno animale,

e ogni uccello i suoi nidi lasciava,

temendo il mai più non sentito male;

e alla luce, in quel giammai non stata,

in poca d'ora si diè larga entrata.

 

22

 

Quivi tagliati cadder gli alti faggi

e i morbidi tigli, i qua' ferrati

sogliono spaventare i fier coraggi

nelle battaglie, molto adoperati;

né si difeser dalli nuovi oltraggi

gli esculi e i caonii, ma tagliati

furono ancora, e 'l durante cipresso

ad ogni bruma e il cerro con esso,

 

23

 

e gli orni pien di pece, nutrimento

d'ogni gran fiamma, e gli ilici soprani,

e 'l tasso, li cui sughi nocimento

soglion donare, e' frassini che' vani

sangui ber soglion del combattimento,

col cedro, che per anni mai lontani

non sentì tarlo né isgombrò sito

per sua vecchiezza dove fosse unito.

 

24

 

Tagliato fuvvi l'audace abete,

e 'l pin similemente, che odore

dà dalle tagliature, com sapete;

il fragil corilo e il bicolore

mirto, e con questi l'alno senza sete,

del mare amico; e, d'ogni vincitore

premio, la palma fu tagliata ancora,

e l'olmo che di viti s'innamora.

 

25

 

Donde la Terra sconsolato pianto

ne diede; e quindi ciascuno altro iddio

de' luoghi amati si partì intanto,

dolente certo e contra suo disio,

e l'albitro dell'ombre Pan che tanto

quel luogo amava, e ciascun semidio;

e lor partenti ancor piangea la selva,

che forte lì mai più non si rinselva.

 

26

 

Adunque fu degli alberi tagliati

un rogo fatto mirabilemente;

poco più furo i monti accumulati

sopra Tesaglia dalla folle gente,

inverso il ciel mattamente elevati,

che fosse quivi quel rogo eminente;

il qual dalli ministri fu tessuto

velocemente e con ordin dovuto.

 

27

 

El fu di sotto di strame salvaggio

agrestamente fatto e di tronconi

d'alberi grossi, e fu il suo spazio maggio;

poi fu di frondi di molte ragioni

tessuto, e fatto con troppo più saggio

avvedimento, e di più condizioni

di ghirlande e di fior fu pitturato:

e questo suolo assai fu elevato.

 

28

 

Sopra di questi l'arabe ricchezze

e quelle d'oriente con odori

mirabil fero delle lor bellezze

il terzo suol composto sopra i fiori;

quivi lo 'ncenso, il qual giammai vecchiezze

non conobbe, vi fu dato agli ardori,

e il cennamo più ch'altro durante,

e il legno aloè di sopra stante.

 

29

 

Poi fu la sommità di quella pira

d'un drappo in ostro tirio con oro

tinto coperto, a veder cosa mira

sì per valore e sì per lo lavoro;

e, questo fatto, indietro ognun si tira

e con tacito aspetto fa dimoro,

quelli attendendo che dovean venire

col morto corpo a tal cosa finire.

 

 

Come li greci re vennero per portare Arcita al rogo, e il pianto che vi fu, e come el fu ornato da Teseo.

 

30

 

Già ogni parte era piena di pianto,

e già l'aula regia mugghiava,

tale che di lontan bene altrettanto

nelle valli Eco trista risonava;

e Palemone, di lugubre manto

coperto, nella corte si mostrava

con rabbuffata barba e tristo crine

e polveroso e aspro sanza fine.

 

31

 

E sopra 'l corpo misero d'Arcita,

non men dolente Emilia piangea,

tutta nel viso palido smarrita,

e' circunstanti più pianger facea,

né dal corpo poteva esser partita,

con tutto che Teseo gliele dicea;

anzi parea che sommo suo diporto

fosse mirare il suo Arcita morto.

 

32

 

Quando gli Achivi in abito doglioso

entraron dentro a l'aula piangente,

allora il pianto assai più doloroso

incominciò e d'una e d'altra gente,

più forte che non fu quando il dubbioso

mondo lasciò quell'anima dolente;

e rintegrossi più volte e ristette

dentro le menti da dolor costrette.

 

33

 

Né dal tumulto tacque alcuna volta

la stupefatta casa, che Egeo

a Palemone con parola molta

non desse alcun conforto, se 'l poteo,

a lui mostrando in quanto male involta

fosse la vita d'esto mondo reo

e le cose durissime occorrenti

miseramente ogni giorno a' viventi.

 

34

 

E ben che Palemon forse tacesse,

e' non l'udia, se non come Atteone

si crede che la sua turba intendesse:

anzi piangeva in sé, né orazione

esser potea che da ciò il traesse,

tanta nel core avea compassione

al trapassato suo più caro amico,

a cui ingiustamente fu nemico.

 

35

 

Quivi cavalli altissimi, guardati

per lui, furon coverti nobilmente,

e su vi fur, delle sue armi armati,

sopra ciascuno un giovane sergente;

quivi l'esuvie de' suoi primi nati

furono apparecchiate parimente,

quivi faretre e archi con saette,

e più sue veste nobili e elette.

 

36

 

E acciò che Teseo intero segno

di nobil sangue desse di costui,

tutti vi fé gli ornamenti da regno

venir presenti, e adornarne lui;

lì le veste purpuree, con ingegno

fatte, sì videro addosso a colui;

lo scettro e 'l pomo e l'eccelsa corona

per lui al fuoco del suo rogo dona.

 

 

Come Arcita fu portato al rogo

 

37

 

Li più nobili Achivi i vasi cari,

di mel, di sangue e di latte novello

pieni, portaron con lamenti amari

sopra le braccia, precedendo quello;

né si studiavano i lor passi guari,

anzi soavi, con l'aspetto bello

cambiato, andavan l'uno a l'altro appresso,

come l'ordine dato avea concesso.

 

38

 

Sopra le spalle, de' Greci i maggiori

il feretro levarsi lagrimando,

e con esso d'Attene usciron fori,

con alto pianto la gente gridando,

l'iniqui iddii e li loro errori

con alte voci spesso bestemiando;

e 'nfino al loco per la pira eletto

portaro i duci il miserabil letto.

 

39

 

La qual già fatta in quel loco trovata

e d'ogni legno ricca, sopra d'essa

ebbero la lettiera riposata,

la qual fu tosto dalla gente spessa

che li seguiva tutta intorniata,

per ciò veder, con disoluta presa;

e poi li duci indietro si tiraro

e gli altri che venivano aspettaro.

 

40

 

Là venne Palemone, al quale Egeo

dolente andava dal suo destro lato.

e dal sinistro li venia Teseo,

poi d'altri Greci tututto fasciato;

Emilia poi appresso si vedeo,

cui più debole sesso sconsolato

accompagnava, e essa in mano il foco

feral recava al doloroso loco.

 

 

Come Emilia mise il foco nel rogo d'Arcita, e quel ch'ella disse

 

41

 

Nel qual poi ched e' furon pervenuti,

Emilia lassa cominciò piangendo:

– O dolce Arcita, e' non furon creduti

da me tai casi, che a te venendo

fosser li visi da dolor premuti,

con piagnevoli voci quali intendo;

né 'n questa guisa mi credetti entrare

ne le camere tue ad abitare.

 

42

 

Assai è, lassa!, duro a sostenere

ciò che io veggo, che le prime tede

al rogo tuo mi convenga tenere.

O dispietati iddii, sanza merzede,

or che è questo che v'è in piacere?

Dove è l'amore antico, ov'è la fede

che solavate portare a' mondani?

Ella n'è gita con lì venti vani.

 

43

 

O caro Arcita, più non posso avanti:

prendi le fiamme da me concedute

al rogo tuo, e' dolorosi pianti

per la tua alma in loco di salute. –

E mentre ch'essa ne' dolenti canti

stava così, da lei fur conosciute

le voci funeral che in usanza

erano allor per pelopea mostranza.

 

44

 

Per che ella, al rogo fatta più vicina,

con debil braccio le fiamme vi mise,

e per dolore indietro risupina

tra le sue donne cadde, in quelle guise

che fan talor, poi tagliata è la spina,

le bianche rose per lo sol succise;

e semiviva fece dubitare

di morte a chi la potea rimirare.

 

45

 

Ma, sanza lungo indugio risentita,

si levò in piè e l'anella si tolse,

le quai donate già l'aveva Arcita,

e con suoi altri ornamenti gli accolse,

e 'n su la pira, subita e smarrita,

le gittò presta, sì come altri volse,

dicendo: – Te': non si convene omai

che io m'adorni, poi lasciata m'hai. –

 

46

 

E quinci, rotti li tristi lamenti,

muta ricadde, e il chiaro colore

fuggì del viso, e' belli occhi lucenti

perdér la luce, sì ne giro al core

subitamente tutti i sentimenti

per lui soccorrer, che già dal dolore

soverchio con fierezza era assalito,

laonde ogni valor l'era fuggito.

 

 

Come Palemone, tondutasi la barba, la gittò sopra 'l rogo, e quel che disse.

 

47

 

Da l'altra parte, Palemon s'avea

la barba e' crin tutti quanti tagliati

e posti sopra Arcita, e sì dicea

con sommo pianto: – O iddii spietati,

con altro patto certo mi credea

che questi crini vi fosser litati;

ma poi nell'are, iddii, non li volete,

nelle dolenti esequie li prendete. –

 

48

 

E poi ch'egli ebbe la barba e' capelli

così donati, a sé fece venire

militari armi con altri gioielli,

e tutti su li vi fece salire;

e altre cose assai ancor con quelli

care li fur, piangendo, d'offerire

e di far ricca la pira dolente,

dove giacea il suo caro parente.

 

 

Quale ordine fosse servato per li circunstanti, ardendo la pira

 

49

 

Già istrepivan per lo messo foco

le prime frondi, e la fiamma pigliava

con le sue lingue parte in ogni loco,

e ognora più ricca diventava;

e certo in lungo tempo né in poco

più ricca pira non si ricordava,

che quella fu quivi fatta ad Arcita

per lo suppremo onor della sua vita.

 

50

 

Le gemme crepitavano, e l'argento,

che ne' gran vasi e negli ornamenti era,

si fondea tutto, e ogni vestimento

sudava d'oro nella anima fiera;

e ciascun legno d'assirio unguento

si facea grasso e con maggior lumiera;

e' meli ardenti stridivano in esse,

con l'altre cose in quelle allora messe.

 

51

 

E le cratere de' vini spumanti

e dello scuro sangue, e 'l grazioso

candido latte, tututti fumanti

sentieno ancora il fuoco poderoso;

e' maggior Greci intorno tutti quanti

stavano a Palemon per lo noioso

rogo dagli occhi torli, e 'l simigliante

stavan le donne ad Emilia davante.

 

52

 

Allora Egeo fé far di cavalieri

ischiere sette, di diece per una,

armati tutti sopra gran destrieri;

e ciascheduno indosso aveva alcuna

sua sopravesta, quale era mestieri

di vestirlasi a quella festa bruna;

delle quai sette de' Greci maggiori

furono allora li conducitori.

 

53

 

E a sinistra man, con tondo giro,

tre volte il rogo tutto intorniaro;

e la polvere alzata il salir diro

delle fiamme piegava, e risonaro

le lance che alle lance si feriro

per lo sovente intorniarsi amaro,

che quivi si facea intorno intorno,

sopra 'l piè presti e sanza alcun sogiorno.

 

54

 

Dieder quelle arme orribile fragore

quattro fiate, e altrettante pianto

le donne dier con misero dolore

e con le palme ripercosse alquanto;

poi, dietro ciascheduno al suo rettore,

come l'ordine usato dava intanto,

sul destro braccio si voltaron tutti,

con nuovo giro e con dolore e lutti.

 

55

 

E ciò che essi sopra l'arme aveno

forse portato lì per covertura,

tututti quanti insieme si traeno,

quelle gittando nella calda arsura;

e i cavalli ancora discoprieno

di lor coverte e di lor armadura;

e così il quarto giro fu fornito

per quella gente, come avete udito.

 

56

 

E oltre a questo, chi vi gittò freno,

chi lancia, chi iscudo e qual balteo;

chi elmo e qual barbuta, e altri pieno

di saette turcasso; e chi vi dieo

archi e chi spade, come me' poteno;

e qual toraca ancor metter vi feo,

chi carri da triunfi e chi cavalli,

tanto lor piacque a tutti onor di falli.

 

 

Come, consumato il rogo d'Arcita, le ceneri sue furono ricolte da Egeo.

 

57

 

Il giorno inverso della notte andava,

e Vulcan lasso in ceneri recate

le cose avea che ciascun li donava;

per che con acque per ciò ordinate

da' Greci il rogo già si soporava,

e fine era alle cose, che lasciate

appena fur, l'ombre sopravenute:

tanto le fecer d'ogni onor compiute!

 

58

 

Egeo vi ritornò il dì seguente,

e con pietosa man tutte raccolse

le ceneri, da capo prima spente

con molto vino, e di terra le tolse,

e in una urna d'oro umilemente

le mise, e quella in cari drappi involse

e nel tempio di Marte fé guardare,

fin ch'altro luogo le potesse dare.

 

 

Come de' giuochi fatti furono i vincitori guiderdonati

 

59

 

E acciò che l'onor fosse maggiore,

molti giuochi vi furono ordinati,

ne' quali i re mostrar molto valore;

ma intra gli altri nel corso onorati

i primi furono e Ida e Castore,

sì come molto in ciò esercitati;

costoro adunque di vertute equali,

di lor vittoria pari ebber segnali,

 

60

 

perciò che fu a ciaschedun donato

per premio del valore un dono caro:

ciò fu per uno un caval covertato

di nobili coverte, u' si mostraro

da uom, d'ingegno altissimo dotato,

di Pallade gli onor, quando pigliaro

nome novello i Cicropi, e ancora

v'era il palude ove pria fé dimora.

 

61

 

Vedeasi ancor le fistule sonare,

le quali ella trovò primieramente;

poi con Aragne folle disputare,

e di Vulcan vi si vedea vincente;

e altre istorie assai, le quai contare

non è ben convenevol al presente.

Adunque l'Oebalio e 'l Pisano

furo onorati di don sì sovrano.

 

62

 

Ma poi nell'unta palestra Teseo

per virtù propria meritò l'onore,

però ch'al tempo suo me' ch'altro il feo,

e ben lo seppe Elena; e per maggiore

gloria li fece lì recare Egeo

un bello scudo e di molto valore,

nel qual vedeasi Marsia sonando,

sé con Appollo nel sonar provando.

 

63

 

Vedeasi appresso superar Fitone,

e quindi sotto l'ombre graziose,

sopra Parnaso, presso a l'Elicone

fonte seder con le nove amorose

Muse e cantar maestrevol canzone;

e oltre a queste v'eran molte cose,

tutte in onor di Febo, con molto oro,

belle a vedere e care per lavoro.

 

64

 

Poi al cesto giucando assai più degno

Polluce si mostrò, che avanzato

aveva Ameto, pien d'alto disdegno,

da Febo male in ogni cosa atato;

onde per la gran forza e per lo 'ngegno

il quale aveva ne' giuochi operato,

li fé venire Egeo due nappi grandi,

per oro cari e per arte ammirandi.

 

65

 

In essi con non poca sottigliezza

era scolpito Alcide nella cuna

ancor giacente prender con fierezza

le serpi a lui mandate e ad ognuna

la morte dare; e quindi la fortezza

ch'egli usò nella nemea selva bruna

contra 'l fiero leone, e quindi appresso

l'altre fatiche sue v'eran con esso.

 

66

 

Ebbevi ancora Evandro molto onore

con Sarpedone al desco allor giucando,

a cui per merto del suo gran valore

uno elmo venne, d'Egeo al comando,

e forte e bello e 'n forma di pastore

su vi sedeva Pan iddio sonando,

in quella vera forma che gli danno

gli Arcadi allor che figurar lo fanno.

 

67

 

Molti altri ancor che con costor giucaro,

li quai sarebbe lungo il raccontare,

ne' fatti giuochi assai ben si portaro,

alli quai tutti fece Egeo donare

solenni doni, onde si contentaro

lieti non poco di tale operare,

di lor vertù sovente contendendo,

l'un dell'altro i difetti riprendendo.

 

68

 

Né ne' giuochi olimpiaci giammai

d'ulivo fu ghirlanda conceduta,

over ne' fizii delli pennei mai,

o d'appio ne' nemei ricevuta,

o di pin negli stimii, ch'ad assai

fosse al ricevitor così dovuta,

come 'n quel giuoco detto cereale

di quercia l'ebbe Agamenon aguale.

 

 

Come Palemone fece fare un tempio, nel quale elli fece istoriare tutti i casi d'Arcita, e mettervi le ceneri sue

 

69

 

Poi fé subitamente Palemone,

là dove il rogo d'Arcita era stato,

edificar con mira operazione

un tempio grande, bello e elevato,

il qual sacrò alla santa Giunone;

e in quel volle che 'l cener guardato

fosse d'Arcita, in etterna memoria

del suo valore e della sua vittoria.

 

70

 

Era il tempio grande, come è detto,

e per più cose molto da lodare,

ne quale el fece per propio diletto

tutti i casi d'Arcita istoriare

e adornar di lavorio perfetto

da tal che ottimamente il seppe fare:

il quale i Greci rimirando spesso,

con giusto cuor pietà avevan d'esso.

 

71

 

El si vedeva lì, nel primo canto,

Teseo di Scizia tornar vincitore,

e delle donne achive il tristo pianto

e le lor voci e lor greve dolore

quasi sentia chi le mirava alquanto,

sì fu sovrano e buon l'operatore;

e ciascheduna v'era conosciuta

da chi l'avesse altra volta veduta.

 

72

 

Vedeasi appresso il sanguinoso Ismeno,

e il superbo Asopo, e ciascun lito

di corpi morti quasi tutto pieno;

e similmente si vedeva il sito

di Tebe qual el fu né più né meno,

e' monti ancor donde era circuito,

nel quale ancora con superba fronte

vi si vedea regnare il gran Creonte.

 

73

 

Né molto poi, li gran duci armati,

Teseo con Creonte e la lor gente

in gran battaglia insieme mescolati

vi si vedeano, e quale era valente

e qual codardo assai bene avvisati

eran da chi mirava fisamente;

e 'l campo v'era vinto da Teseo,

con quanto lì per lui poscia si feo.

 

74

 

E per li monti si vedean fuggire

le dolorose madri co' figliuoli;

pareanvisi le voci ancor sentire

de' lor dolenti e dispietati duoli;

e vedeansi le donne achive gire

nell'alte torri, con diversi stuoli,

e ardere ogni cosa, poscia ch'esse

ebber le corpor nelle fiamme messe,

 

75

 

e quella tutta nel fuoco avampare;

poi v'era il campo tutto ricercato

da chi dovea cotale uficio fare,

nel qual tra gli abbattuti era trovato

Arcita tutto sanguinoso stare,

e Palemone ancor presso pigliato,

e a Teseo menati per prigioni,

perché parevan nobili baroni.

 

76

 

Poi ciascheduno tristo e doloroso

al carro avanti a Teseo triunfante

vi si vedeva e in atto pensoso;

e rimirando un poco più avante,

in prigion si vedeano, e l'amoroso

giardino ancora allato a loro stante,

tutto vestito pel tempo novello

di nuove frondi, grazioso e bello.

 

77

 

Nel qual la lieta e bella giovinetta

gir si vedeva in su li nuovi albori,

e lietamente cantando soletta

frondi cogliendo e bellissimi fiori,

e a sé far leggiadra ghirlandetta;

e quivi a finestrella gli amadori

erano in guisa che chi li mirava

diceva che ciascun di loro amava.

 

78

 

Vedeansi poi i lor grevi sospiri

e' rotti sonni e l'amorosa vita,

e quali e chenti fosser lor martiri;

e quivi appresso ancora come Arcita,

da Peritoo con sommi disiri

disprigionato, faceva partita;

e vedevasi in Corinto arrivare,

quindi in Mecena e poi in Egina andare.

 

79

 

Poscia d'Egina ad Attene tornato,

e dipartito dallo re Pelleo,

e il gran tempio d'Appollo lasciato,

vi si vedeva servire a Teseo;

e mentre stette in così fatto stato,

ciò ch'el fé v'era, e sì come Penteo

dir si faceva, e sì come soletto

se n'andava tal volta nel boschetto,

 

80

 

là dove il chiaro rivo il dilettava

e 'l venticel che le frondi battea

e ciascheduno uccel che lì cantava:

e lui dormente tutto si vedea;

e Panfil v'era ancor come ascoltava

infra le frasche ciò che el dicea,

e riportava ciò a Palemone,

signor di lui, ch'ancora era 'n prigione.

 

81

 

Di Panfil poscia v'era la malizia

che elli usò, quando fece Alimeto

quivi venire, e simil la letizia

di Palemon, quando si vedea lieto

fuor di prigion, dov'elli avea dovizia

vie più che d'allegrezza, d'amar fleto;

e lui armato vedevasi andare

nel tempo oscuro ad Arcita trovare.

 

82

 

Poscia vedeasi nel boschetto sceso,

che attendeva Arcita ancor dormente;

poi come, desto, era fra lor conteso

dell'amor della donna pianamente;

poscia cascuno, di furore acceso,

nell'arme si vedeva parimente

combatter fieri con aspra battaglia,

e come ognun di vincer si travaglia;

 

83

 

là dove Emilia si vedea venuta,

che per lo bosco con Teseo cacciando

s'andava, né alcuno avea sentuta

questa battaglia; e vedeavisi quando

quivi Teseo con parole partuta

l'avea, e come con lor ragionando

li riconobbe, e il dato partito

preso da loro, e poi bene ubidito.

 

84

 

Vedeanvisi le feste de' Dircei,

che e' facevan costretti d'amore;

e quivi ancora li duci lernei,

venir ciascun con sommissimo onore,

vi si vedevano, acciò che colei

sola ristesse dell'uno amadore;

e poi le 'nsegne a' suoi da ciascun date,

e come armati in esse fur mostrate.

 

85

 

Eranvi i templi d'incensi fumanti,

e il pigliar di lor prima milizia:

poi nel teatro insieme tutti quanti,

e di diversi strumenti letizia

vi si vedea, e tutti i lor sembianti,

e come la battaglia lor' s'inizia;

e ciò che poi vi si fé quel giorno

tututto v'era di lavoro adorno.

 

86

 

E la gran festa ancor vi si parea,

e sacrifici e 'l chiamato Imeneo

ch'allor si fé, quando Arcita prendea

pria per isposa davanti a Teseo

Emilia bella; e poi vi si vedea

il duol dolente ch'ogni Greco feo

nella partita della trista vita,

che fé il valoroso e buono Arcita.

 

87

 

E il feretro suo di sopra a' regi

con alti pianti si vedea portato,

e similmente da tutti gli egregi

baron che v'eran da ciaschedun lato;

e 'l lamento de' popoli e collegi

che 'nfino in ciel parea fosse ascoltato;

poi sopra il rogo si vedeva ardente

il corpo ornato molto riccamente.

 

88

 

Sola la sua caduta da cavallo

gli uscì di mente né vi fu segnata:

credo che' fati voller senza fallo,

acciò che mai non fosse ricordata;

ma non potè la gente amenticallo,

sì nel cor era di ciascuno entrata

con greve doglia, sì era in amore

di ciascheduno il giovane amadore.

 

89

 

Era 'n tal guisa tututto dipinto

il nobil tempio, dentro al quale el pose

di sacerdoti numero distinto,

li uaì le trierterie dolorose,

il dì che Arcita fu da' fati estinto,

dovesser celebrar maravigliose;

e riccamente il tempio fé dotare

e d'ornamenti nobili adornare.

 

90

 

E 'n mezzo d'esso fece prestamente

una colonna di marmo pulita

drizzar, sopra la qual d'oro lucente

una urna fu discretamente sita,

dentro la qual la cenere tepente

fece servar del suo amico Arcita;

e adornolla di sequenti versi,

in guisa tal che ben legger potersi:

 

 

L'epitafio d'Arcita

 

91

 

«Io servo dentro a me le reverende

del buono Arcita ceneri, per cui

debito sacrificio qui si rende;

e chiunque ama, per esemplo lui

pigli, s'amor di soverchio l'accende;

perciò che dicer può: "Qual se', io fui;

e per Emilia usando il mio valore

mori': dunque ti guarda da amore."».

 

Qui finisce il libro undecimo del Teseida

 

 

 

LIBRO DUODECIMO

 

 

Sonetto nel quale si contiene l'argomento particulare del libro duodecimo

 

In questo duodecimo libello

disegna primamente l'autore

come e perché si lasciasse il dolore

da tutti avuto del morto donzello;                                             4

 

quindi l'aspetto grazioso e bello

d'Emilia disegna, e con onore

la fa sposare al tebano amadore,

chiamato prima Imineo nel sacello.                                          8

 

Poi le sue nozze magnifiche pone,

e, il partir de' regi dimostrato,

debito fine fa al suo sermone,                                                  11

 

avendo prima al suo libro parlato

quasi per modo di conclusione,

dicendo sé nel porto disiato                                                     14

 

esser con venti diversi arrivato.

 

 

Incomincia il libro duodecimo e ultimo del Teseida. E prima qual fosse la vita d'Emilia, mentre le predette cose si facevano

 

1

 

Quanto fosse crudele e aspra vita

quella d'Emilia, mentre queste cose

lì si facevano in onor d'Arcita,

coloro il pensin che sì dolorose

cose sentiron mai; essa, vestita

di nero, con le guancie lagrimose,

sanza prender volere alcun conforto,

solo piangeva il suo Arcita morto.

2

 

E del bel viso il vermiglio colore

s'era fuggito, e era divenuta

palida e magra, e il chiaro splendore

delle sue luci non avea paruta;

e sì poteva in lei il fier dolore,

che stata appena saria conosciuta,

per sol conforto notte e dì chiamando

Arcita suo, piangendo e lagrimando.

 

 

Come Teseo, fatta una lunga diceria, comandò che Palemone sposasse Emilia e che i neri vestimenti si lasciassero

 

3

 

Ma poi che furon più giorni passati

dopo lo sventurato avvenimento,

con lui essendo li Greci adunati,

parve di general consentimento

che' tristi pianti omai fosser lasciati,

e il voler d'Arcita a compimento

fosse mandato: cioè che l'amata

Emilia fosse a Palemon sposata.

 

4

 

Per che Teseo, chiamato Palemone,

con molti di quei re accompagnato

non sappiendo esso però la cagione,

di ner vestito e così tribolato

com'era, lui seguì in quella stagione;

e esso con quanti era se n'è entrato

dove con molte donne si sedea

Emilia, la quale ancor piangea.

 

5

 

E quivi, poi ch'ogni uom tacitamente

si fu posto a seder, Teseo stette

per lungo spazio sanza dir niente;

ma già vedendo di tututti erette

l'orecchie pure a lui umilemente,

dentro tenendo le lagrime strette

ch'agli occhi per pietà volean venire,

così parlando incominciò a dire:

 

6

 

– Così come alcun che mai non visse

non morì mai, così si pò vedere

ch'alcun non visse mai che non morisse;

e noi che ora viviam, quando piacere

sarà di quel che 'l mondo circunscrisse,

perciò morremo: adunque sostenere

il piacer dell'iddii lieti dobbiamo,

poi ch'ad esso resister non possiamo.

 

7

 

Le quercie, ch'han sì lungo nutrimento

e tanta vita quanta noi vedemo,

hanno pure alcun tempo finimento;

le dure pietre ancor, che noi calchemo,

per accidenti varii mancamento

ancora avere, aperto le sapemo;

e i fiumi perenni esser seccati

veggiamo e altri nuovi esserne nati.

 

8

 

Degli uomini non cal di dir, ch'assai

è manifesto a quel che la natura

li tira e ha tirati sempre mai

de' due termini a l'uno: o ad oscura

vecchiezza piena d'infiniti guai,

e questa poi da morte più sicura

è terminata; overo a morte, essendo

giovani ancora e più lieti vivendo.

 

9

 

E certo io credo ch'allora migliore

la morte sia quando di viver giova;

il modo e dove l'uom che ha valore

nol de' curar, ché dovunque el si trova,

fama li serba il suo debito onore;

e 'l corpo che riman, nulla altra prova

fa in un loco che in altro morto,

né l'alma n'ha più pena e men diporto.

 

10

 

Del modo ancora dico il simigliante,

ché, come che alcuno anneghi in mare,

alcun si muoia in sul suo letto stante,

alcun per lo suo sangue riversare

nelle battaglie, o in qual vuoi di quante

maniere om pò morir, pur arrivare

ad Acheronte a ciaschedun convene,

muoia come si vuole o male o bene.

 

11

 

E però far della necessitate

virtù, quando bisogna, è sapienza,

e il contraro è chiara vanitate,

e più in quel che n'ha esperienza

che 'n quel che mai non l'ha ancor provate;

e certo questa mia vera sentenza

può luogo aver tra noi, i qua' dolenti

viviam di cose sempre contingenti;

 

12

 

anzi più tosto necessarie in tutto:

cioè d'alcun la morte il cui valore

fu tanto e tal, che grazioso frutto

di fama s'ha lasciato dietro al fiore;

il che se ben pensassomo, al postutto

lasciar dovremmo il misero dolore,

e intender a vita valorosa

che ci acquistasse fama gloriosa.

 

13

 

Vero è che il voler dentro serrare

in cota' punti la tristizia e 'l pianto,

appena par che si possa ben fare,

onde conceder pur si dee alquanto;

ma dopo quel, si dee poscia ristare,

ché il voler soprabondare in tanto

può nuocere a chi 'l fa, e è follia,

né si rià quel ch'uom però disia.

 

14

 

E certo s'el fu giammai lagrimato

in Grecia nessuno uom valoroso,

sì è debitamente Arcita stato

da molti re e popol copioso;

e con onor magnifico onorato

è stato ancora al suo rogo pomposo,

e ben solvuto gli è ogni dovere

che morto corpo dee potere avere.

 

15

 

E è ancor, sì come noi veggiamo,

durato il pianto più giorni in Attene;

e ciascheduno ancora abito gramo

portato n'ha quale a ciò si convene,

e noi massimamente che qui siamo,

da cui agli altri prender s'apartiene

essemplo in ciascuno atto e seguitare

massimamente nel bene operare.

 

16

 

Dunque da poi parimente ci more

ciò che ci nasce, e sia pur che si voglia,

e è fatto per noi il debito onore

a colui per lo quale ora avem doglia,

estimo con ragion che sia il migliore

se questo abito oscur da noi si spoglia,

e lascisi il doler, ch'è feminile

atto più tosto che non è virile.

 

17

 

Se io credessi che raver per pianti

Arcita si potesse, io dicerei

che dovessomo pianger tutti quanti,

e caramente ve ne pregherei;

ma non varria: però da mo' in avanti

ciascun festeggi, e 'l piangere e l'omei

si lasci star, se piacer mi volete,

ché 'n questo tanto pur far lo dovete.

 

18

 

E oltre a ciò, quel ch'esso ultimamente

pregò, si pensi mettere ad effetto;

però che Foroneo, che primamente

ne donò leggi, disse che il detto

estremo di ciascun solennemente

doveva con ragione esser perfetto;

e el pregò ch'Emilia fosse data

a Palemon, che l'avea tanto amata.

 

19

 

Però diposte queste nere veste

e il pianto lasciato e il dolore

comincerén le liete e chiare feste;

e prima che si parta alcun signore,

de' due già detti nozze manifeste

celebrerem con debito splendore.

Disponetevi adunque, io ve ne priego,

a quel ch'io vo' facciate sanza niego. –

 

 

Come Palemone rispose alle parole di Teseo

 

20

 

Poscia che Teseo tacque, confermate

fur le parole sue per molti allora

e con più detti ancor fortificate;

ma Palemon pur tacito dimora,

e fortemente gli sarebber grate

se publica vergogna, che l'acora,

non contra stesse; e dopo molto stare

disse così, veggendosi aspettare:

 

21

 

– Caro signor, da me più degnamente

che la mia vita amato, manifesto

conosco vero il vostro dir presente,

e possibile ancor con tutto questo

(ben che sia assai rado contingente)

poter dal cor cacciar caso molesto

con allegrezza; e però questo fia

quando a Dio piacerà, che n'ha balia.

 

22

 

Ma in quanto voi dite che ad effetto

volete vada quel che fu lasciato

da Arcita nel suo ultimo detto,

così vi dico: che se postergato

fosse il dover da me e il diletto

preposto, già ve n'averei pregato,

però ch'al mondo non fu cosa mai

che io amassi cotanto ad assai.

 

23

 

Ma questo cessi Iddio, che, se m'è tolta

felicità, che in me almen ragione

più che 'l voler non possa alcuna volta;

e ben che in me tra lor sia gran quistione,

che 'l dover vinca ho isperanza molta;

il che s'avien, per lieta possessione

il guarderò, mentre l'iddii vorranno,

e sosterrò leggiere ogn'altro danno.

 

24

 

Io son di tante infamie solo erede

de' miei primi rimaso, che s'io posso,

questa, che assai grande si vede,

io non mi vo' con l'altre porre adosso;

la donna è bella, e credo ch'el si crede

che di qui infin nel reame molosso

simile a lei non sia; ben troverete

a cui, vie me' che a me, dar la potrete.

 

25

 

E sì come l'iddii testimonianza,

che sol degli uomin conoscono i cuori,

render porien sanza alcuna fallanza,

e' non fur mai tra due ferventi amori,

o per istretto sangue o per usanza,

ched e' non fosser per certo minori

che quel che io ho portato ad Arcita,

poscia ch'io nacqui in questa trista vita.

 

26

 

E se alcun forse opporre volesse

a questa verità, ver me dicendo

se fosse ver ch'io amato l'avesse

non l'avrei incitato combattendo,

risponderei che quella mi movesse

a tal follia, ch'è sempre ita accendendo

de' nostri primi i cuori, ond'io saraggio

sempre mai tristo ch'io ci viveraggio.

 

27

 

Per che se io Emilia pigliassi,

altro non fora che questo negare;

né per segno maggior, ch'io disiassi

la morte sua potrei altrui mostrare;

la qual quanto mi doglia, credo sassi

per tutti voi. Non voglio adunque fare

cosa che il contrario se ne vegga,

né di ciò priego ch'alcun mi richegga.

 

28

 

Se Arcita morendo questo disse,

volle ver me usar sua cortesia;

né perciò legge a me in ciò prescrisse

che, s'io non la volessi, fosse mia;

ben mi cred'io che s'io vi consentisse,

per cortesia renderei villania,

e però intendo che mentre ad altrui

che a me non si dà, sia pur di lui. –

 

 

Come Teseo replicando disse a Palemone

 

29

 

E questo detto, gli occhi lagrimosi

bassò in terra; al qual disse Teseo:

– I tristi pianti e' sospiri angosciosi

già molto sconfortati da Egeo,

tutti ci fanno certi de' pietosi

affetti li qua' tu verso Penteo

portasti; né potresti, per dolerti

mentre vivessi, noi farne più certi.

 

30

 

Né fia, faccendo ciò che dicevamo,

infamia alcuna, né lieto mostrarsi

de l'altrui morte, poi che noi vogliamo;

né sarà da ragion questo allungarsi,

però che 'l simil tutto dì veggiamo

dell'un fratel la sposa a l'altro darsi,

se morte quel previen; né ch'el contento

del morto sia, è però argomento.

 

31

 

Qui si può dir che tutta Grecia sia

nelli suoi regi, davanti alli quali

tal matrimonio per mia voglia fia

mandato a compimento; essi son tali,

che se ciò si dicesse villania

di te in alcun luogo o altri mali,

sì come consapevoli, saranno

per te per tutto, e sì ti scuseranno.

 

32

 

Pon dunque giù lo stolto imaginare

e segui il mio voler, che so ti piace;

e vogli innanzi, mentre vivi, stare

in lieta vita e in contenta pace,

che te con tristo pianto consumare,

il quale innanzi tempo l'uom disface;

così mi piace e voglio che a te piaccia,

né parola di ciò incontro si faccia. –

 

 

Quel che Palemone, da molti a ciò confortato, consentendo dicesse

 

33

 

A questo fu da molti Palemone,

il qual taceva, molto confortato,

ora uno ora altro usando suo sermone

chente usar suolsi a così fatto piato,

assegnando una e ora altra ragione

che da lui non doveva esser negato;

laonde Palemone, il viso alzando

al ciel, s'udì in tal guisa parlando:

 

34

 

– O Giove pio, che con ragion governi

la terra e 'l cielo e doni parimente

a ciascheduna cosa ordini etterni,

volgi gli occhi ver me e sii presente

e con giustizia il mio voler discerni,

il quale ora si fa consenziente

a quel del mio signor: nel che s'io sono

peccator, priego che mi dei perdono.

 

35

 

E tu, sacra Diana e Citerea,

delli cui cori il numero minore

far mi convien, ben che io non volea,

e quindi appresso dell'altra maggiore,

siate presenti, e ciascun'altra dea

che ha ne' matrimonii valore;

e testimonio etterno renderete

di ciò ch'io ho nel cuor, ché 'l conoscete.

 

36

 

E tu, o ombra pietosa d'Arcita,

dovunque se', perdona s'io offendo,

né odio por per ciò alla mia vita,

se la cosa la qual tu già morendo

dicesti che volevi, fia compita

per me, del gran Teseo ancor seguendo

più il piacer che 'l mio contentamento:

che or foss'io in una ora teco spento!

 

37

 

E voi, o alti regi, i qua' presenti

sete colà ov'io debbo seguire

ora del mio signore i mandamenti,

testimon siate: più per ubidire

che per seguire i miei disii ferventi,

fo quel ch'io fo, e disposto a servire

te, o Teseo: comanda, ch'io son presto

a ogni cosa fare e anche questo. –

 

 

Come Teseo parlò verso Emilia

 

38

 

Allor Teseo ad Emilia voltato,

la quale intra le donne sospirava

dolente molto, col capo chinato,

e le parole tututte ascoltava

con animo da nulla ancor piegato,

tanto più duol che altro l'ansiava,

a cui el disse: – Emilia, hai tu udito?

Quel che io vo' farai che sia fornito. –

 

 

Quello che Emilia dicesse a Teseo

 

39

 

A questa voce tutta lagrimosa

levò Emilia la testa, dicendo:

– Caro signore, el non è nulla cosa

che io non faccia, te voler sentendo;

ma per l'amor che tu alla pietosa

ombra d'Arcita porti, ancor sedendo

m ascolta un poco, e poi, se tu vorrai,

io farò ciò che comandato m'hai.

 

40

 

Sì come tu hai potuto udir dire,

tutte le donne scitiche botate

furo a Diana, allor che in disire

ebber primieramente libertate;

e tu sai ben quel ch'è contravenire

o non servare alla sua deitate

le cose a lei promesse, che vendetta

subita fa, qual sa quei che l'aspetta.

 

41

 

E io di quelle fui; contra la quale,

perciò che 'l boto non volea servare,

ha ella usato il già veduto male,

prima contra d'Acate a cui donare

tu mi dovevi, e l'altro, a quello equale,

contra d'Arcita, come ancora pare

a l'abito di noi, che or ne siamo

di ner vestiti e ancor ne piagniamo.

 

42

 

Se tuo nemico fosse Palemone

come fu già, volentier lo farei;

ma, non vedendo agual nulla cagione

per che odiar lo debbi, crederei

che fosse il me', sanza più provazione

fare oramai del poter dell'iddei,

che mi lasciassi a Diana servire

e ne' suoi templi vivere e morire. –

 

 

Come Teseo rispose ad Emilia

 

43

 

A cui Teseo: – Questo dire è niente;

ché se Diana ne fosse turbata,

sopra di te verria l'ira dolente,

non sopra quelli alli quai se' donata;

e perciò fa che lieta immantanente

di cuor ti vegga e d'abito tornata;

la forma tua non è atta a Diana

servir ne' templi né 'n selva montana. –

 

 

Come Teseo e ciascuno altro cambiò abito, e comandossi che per tutta Attene si facesse festa

 

44

 

Detto così, con gli altri gran baroni

della camera usciro e ritornaro,

come li piacque, alle proprie magioni,

e 'l dì vegnente tututti cangiaro

abito, vestimento e condizioni,

e quel che ciascuno era dimostraro;

e Palemone il simigliante feo:

e così ritornarono a Teseo.

 

45

 

Teseo similemente avea cambiato

con tutti i suoi i vestir dolorosi,

e in sembiante lieto era tornato,

festa faccendo; e già suoni amorosi

e canti e allegrezza in ogni lato

d'Attene si sentia, tutti gioiosi

del lor signor ch'avea mutata vesta

per la futura magnifica festa.

 

46

 

E Ipolita il simil fatto avea

e l'altre donne e anche Emilia bella

a cui a forza ancora ciò piacea,

ma non poteva più, e però ella

faceva quel ch'allor Teseo volea;

ma dopo pochi dì la damigella

nello stato primaio fu ritornata,

tanto fu dalle donne confortata.

 

 

Come, stabilito il dì che Emilia si sposasse e venuto, i re con Teseo e con Palemone andarono al tempio di Venere, dove era ordinato di fare le sposalizie

 

47

 

Diliberò Teseo con li suoi quando

le sposalizie si dovesson fare,

e per Attene mandò comandando

che ciascun s'apprestasse a festeggiare.

Indi venendo il giorno appressimando,

ciascun si cominciò ad apprestare,

secondo il suo stato, a fare onore

alla giovane Emilia di buon core.

 

48

 

E già Arcita era uscito di mente

a ciaschedun, né più si ricordava;

ognuno a festa intendea solamente

e delle nozze lo giorno aspettava.

Il qual venuto bello e rilucente

ad allegrezza ciascun confortava;

per che Teseo fece il tempio aprire

di Venere per quivi voler gire.

 

49

 

E in quel simigliantemente feo

li sacerdoti andar, li qua' portaro

la imagine bella d'Imeneo;

e el con un vestir nobile e caro,

di dietro seguitando il vecchio Egeo

con tutti gli altri re a quel n'andaro;

e Palemon con loro, allegro tanto

che mai non si potrebbe mostrar quanto.

 

50

 

Chi poria mai con soluto parlare

l'oro e le pietre e li cari ornamenti,

che' greci re aveano, dimostrare?

Egli eran tanti e sì belli e lucenti,

che il volerlo al presente narrare

nol crederebbono il più delle genti;

i quali al tempio giunti di gioia pieno,

aspettaron le donne che venieno.

 

 

Come Ipolita con altre donne e con Emilia andarono al tempio

 

51

 

Ipolita da molte accompagnata

quella mattina con solenne cura

aveano Emilia nobilmente ornata,

avvegnadio che sì di sua natura

d'ogni bellezza fosse effigiata,

che poco agiugner vi potea cultura;

e 'n cotal guisa del palagio usciro,

e lente inver lo tempio se ne giro.

 

 

Disegna l'autore la forma e la bellezza di Emilia, e prima invoca l'aiuto delle Muse

 

52

 

O sante donne, le quali Anfione

ataste a chiuder Tebe, or fa mestiere

che da voi sia atato il mio sermone,

acciò ch'io possa dimostrar le vere

bellezze che mostrò 'n quella stagione

Emilia a cui le piacque di vedere:

voi le vedeste, e so che le sapete;

adunque qui la mia penna reggete.

 

53

 

Era la giovinetta di persona

grande e ischietta convenevolmente,

e, se il ver l'antichità ragiona,

ella era candidissima e piacente;

e i suoi crin sotto ad una corona

lunghi e assai, e d'oro veramente

si sarian detti, e 'l suo aspetto umile,

e il suo moto onesto e signorile.

 

54

 

Dico che i suoi crini parean d'oro,

non con treccia ristretti, ma soluti,

e pettinati sì, che infra loro

non n'era un torto, e cadean sostenuti

sopra li candidi omeri, né foro

prima né poi sì be' giammai veduti;

né altro sopra quelli ella portava

ch'una corona ch'assai si stimava.

 

55

 

La fronte sua era ampia e spaziosa,

e bianca e piana e molto dilicata,

sotto la quale in volta tortuosa,

quasi di mezzo cerchio terminata,

eran due ciglia, più che altra cosa

nerissime e sottil, tra le qua' lata

bianchezza si vedea, lor dividendo,

né 'l debito passavan, sé stendendo.

 

56

 

Di sotto a queste eran gli occhi lucenti

e più che stella scintillanti assai;

egli eran gravi e lunghi e ben sedenti,

e brun quant'altri che ne fosser mai;

e oltre a questo egli eran sì potenti

d'ascosa forza, che alcun giammai

non gli mirò né fu da lor mirato,

ch'amore in sé non sentisse svegliato.

 

57

 

Io ritraggo di lor poveramente,

dico a rispetto della lor bellezza,

e lasciogli a chiunque d'amor sente

che immaginando vegga lor chiarezza;

ma sotto ad essi non troppo eminente

né poco ancora e di bella lunghezza

il naso si vedea affilatetto

qual si voleva a l'angelico aspetto.

 

58

 

Le guance sue non eran tumorose

né magre fuor di debita misura,

anzi eran dilicate e graziose,

bianche e vermiglie, non d'altra mistura

che intra' gigli le vermiglie rose;

e questa non dipinta, ma natura

gliel'avea data, il cui color mostrava

perciò che 'n ciò più non le bisognava.

 

59

 

Ella aveva la bocca piccioletta,

tutta ridente e bella da basciare,

e era più che grana vermiglietta

con le labbra sottili, e nel parlare

a chi l'udia parea una angioletta;

e' denti suoi si potean somigliare

a bianche perle, spessi e ordinati

e piccolini, ben proporzionati.

 

60

 

E oltre a questo, il mento piccolino

e tondo quale al viso si chiedea;

nel mezzo ad esso aveva un forellino

che più vezzosa assai ne la facea;

e era vermiglietto un pocolino,

di che assai più bella ne parea;

quinci la gola candida e cerchiata

non di soperchio e bella e dilicata.

 

61

 

Pieno era il colto e lungo e ben sedente

sovra gli omeri candidi e ritondi,

non sottil troppo e piano e ben possente

a sostenere gli abbracciar giocondi;

e 'l petto poi un pochetto eminente

de' pomi vaghi per mostranza tondi,

che per durezza avean combattimento,

sempre pontando in fuor, col vestimento.

 

62

 

Eran le braccia sue grosse e distese,

lunghe le mani, e le dita sottili,

articulate bene a tutte prese,

ancor d'anella vote, signorili;

e, brievemente, in tutto quel paese

altra non fu che cotanto gentili

l'avesse come lei, ch'era in cintura

sotile e schietta con degna misura.

 

63

 

Nell'anche grossa e tutta ben formata,

e il piè piccolin; qual poi si fosse

la parte agli occhi del corpo celata,

colui sel seppe poi cui ella cosse

avanti con amor lunga fiata;

imagino io ch'a dirlo le mie posse

non basterieno avendol'io veduta:

tal d'ogni ben doveva esser compiuta!

 

64

 

Né era ancor, dopo 'l suo nascimento,

tre volte cinque Appollo ritornato

nel loco donde allor fé partimento,

ben che da molti forse giudicato

ne saria altro, prendendo argomento

dalla sua forma che oltre l'usato

in piccol tempo era cresciuta assa

forse più ch'altra ne crescesse mai.

 

65

 

Quando costei apparve primamente

ornata, come noi creder dovemo

che ella fosse allora, riccamente,

d'un drappo verde di valor suppremo

vestita, ciaschedun generalmente

ch'allor la vide, dal primo al postremo,

Venere la credette, né saziare

si potea nullo di lei rimirare.

 

66

 

I teatri, le vie, piazze e balconi,

per li quali essa andando gir dovea

al tempio là dov'erano i baroni,

tutt'eran piene; e ogn'uom vi correa,

femine e maschi e vecchi con garzoni

per veder questa mirabile dea;

la qual ciascuno oltre ogn'altra lodava,

e per lo ben di lei Giove pregava.

 

 

Come Emilia, pervenuta al tempio, invocato prima l'aiuto di Giunone e d'Imeneo, fu sposata da Palemone

 

67

 

Ma dopo certo spazio pervenuta

al gran tempio di Vener, con onore

magnifico da' re fu ricevuta,

i quai la sua bellezza e il valore

lodaron più che d'altra mai veduta;

e Menelao, veggendola in quelle ore,

la reputò sì di bellezza piena,

che la prepose con seco ad Elena.

 

68

 

Quivi non fu alcuno indugio dato;

ma fatto cerchio intorno dell'altare

ch'era di fiori e di frondi adornato,

fecero a' preti lì sacrificare;

e con voci pietose fu chiamato

l'aiuto d'Imeneo, sì come fare

era usato in Attene a la stagione,

e dopo quel l'altissima Giunone.

 

69

 

E poi in presenza di quella santa ara

il teban Palemon gioiosamente

prese e giurò per sua sposa cara

Emilia bella, a tutti i re presente;

e essa, come donna non già gnara,

simil promessa fece immantanente;

poi la basciò sì come si convenne

e ella vergognosa sel sostenne.

 

 

Come, tornati al palagio, si celebrarono le nozze

 

70

 

Questo fornito, al palagio tornaro

con somma festa dinanzi e dintorno;

li greci re Emilia intorniaro,

non sanz'ordine debito e adorno

come si convenia, con passo raro;

e l'ora quinta già venia del giorno,

quando, venuti nel palagio, messe

trovar le mense, e assisersi ad esse.

 

71

 

E quai fossero a quelle i servidori

e quanti ancora, saria lungo a dire,

che furon pur de' giovani maggiori,

né si porian per numero finire;

e' ricchi arnesi non furon minori

che l'altre cose, magnifiche e mire;

delle vivande mi taccio infinite,

che vi fur, dilicate e ben compite.

 

72

 

Quivi fur sonatori e istrumenti

di varie condizioni, e tai ch'Orfeo,

per lo giudicio di molti esistenti,

con lor perduto avrebbe, e 'l gran Museo

con tutti i suoi non usati argomenti,

e Lino ancora, e Anfion tebeo;

e canti tai che sarebbero stati

belli a Caliopè, e ben notati.

 

73

 

Di mille modi e di piedi e di mani

vi si poté il dì veder ballare

gli Atteniesi e ancora li strani,

giovani e donne, chi me' sapea fare;

e mescolati gentili e villani,

ciaschedun si vedeva festeggiare;

e 'n cotal guisa spendevano il giorno,

per la città, in qua e 'n là, attorno.

 

74

 

Li greci re con li lor cavalieri

fer nuovi giuochi assai, e cavalcando

sopra coverti e adorni destrieri,

e con ischiere varie armeggiando,

per le gran piazze e ancor pe' sentieri,

la lor letizia a tutti dimostrando,

poi ritornando al palagio gioioso

quando eran disiosi di riposo.

 

 

Come Palemone dormì con Emilia

 

75

 

Il giorno, troppo lungo giudicato

da Palemon, sen giva inver la sera;

e essendo già il ciel tutto stellato,

in una ricca camera, quale era

quella dove fu il letto apparecchiato

qual possiam creder a così altiera

isponsalizia, invocata Iunone,

Emilia se n'entrò con Palemone.

 

76

 

Qual quella notte fosse all'amadore

qui non si dice; quelli il può sapere,

che già trafitto da soverchio amore

alcuna volta fu, se mai piacere

ne ricevette dopo lungo ardore.

Credom'io ben che estimando vedere

il possa quei che nol provò giammai,

che lieta fu più ch'altra lieta assai.

 

77

 

Vero è che per l'offerte che andaro

poi la mattina a' templi, s'argomenta

che Venere, anzi che 'l dì fosse chiaro,

sette volte raccesa e tante spenta

fosse nel fonte amoroso, ove raro

buon pescator con util si diventa:

el si levò, venuta la mattina,

più bello e fresco che rosa di spina.

 

78

 

E poi si fece Panfilo chiamare,

e, sì com'esso già promesso avea,

così li fé eccelsi don portare

al tempio della bella Citerea,

e con gran lode la fece onorare,

lei ringraziando per cui el tenea

la bella Emilia, da lui molto amata

e così lungo tempo disiata.

 

79

 

Quindi sen venne con allegro aspetto

nella gran sala riccamente ornata,

dove con gioia somma e con diletto

era la festa già ricominciata;

e li re greci li vennero impetto,

con lieti motti della trapassata

notte qual fosse suta domandando,

molto di ciò insieme sollazzando.

 

80

 

Durò la festa degli alti baroni

più giorni poi continuatamente;

dove si dieder grandissimi doni

a ciascheduna maniera di gente;

ricchi vi fur ministrieri e buffoni,

e qualunque altro prese parimente;

ma dopo il dì quindecimo si pose

fine alle feste liete e graziose.

 

 

Come li greci re, preso commiato, tornarono nelle loro contrade

 

81

 

Già due fiate era stata cornuta

la sorella di Febo, e tante piena

similemente era suta veduta,

poi che la nobil baronia in Attena

delle contrade sue era venuta;

onde parve a ciascun, poi che la amena

festa era fatta, di tornare omai

ne' suoi paesi, quivi stati assai.

 

82

 

Onde ciaschedun re prese commiato

dal vecchio Egeo e ancor da Teseo,

e dalle donne ancor l'hanno pigliato,

e poi da Palemone; il qual rendeo

a tutti grazie, e sé disse obligato

a ciaschedun, per sé e per Penteo,

in tutto ciò ch'egli operar potesse,

mentre che esso nel mondo vivesse.

 

83

 

Partirsi adunque i re, e ciascun prese

quanto poté il cammin suo più corto,

per tosto ritornare in suo paese;

e Palemone in gioia e in diporto

con la sua donna nobile e cortese

lì si rimase e con sommo conforto,

quel possedendo che più li piacea

e a cui el tutto 'l suo ben volea.

 

 

Parole dell'autore al libro suo

 

84

 

Poi che le Muse nude cominciaro

nel cospetto degli uomini ad andare,

già fur di quelli i quai l'esercitaro

con bello stilo in onesto parlare,

e altri in amoroso l'operaro;

ma tu, o libro, primo a lor cantare

di Marte fai gli affanni sostenuti,

nel volgar lazio più mai non veduti.

 

85

 

E perciò che tu primo col tuo legno

seghi queste onde, non solcate mai

davanti a te da nessuno altro ingegno,

ben che infimo sii, pure starai

forse tra gli altri d'alcuno onor degno;

intra li qual se vieni, onorerai

come maggior ciaschedun tuo passato,

materia dando a cui dietro hai lasciato.

 

86

 

E però che i porti disiati

in sì lungo peleggio già tegnamo,

da varii venti in essi trasportati,

le vaghe nostre vele qui caliamo,

e le ghirlande e i don meritati,

con l' ancore fermati, qui spettiamo,

lodando l'Orsa che con la sua luce

qui n'ha condotti, a noi essendo duce.

 

 

Qui finisce il duodecimo e ultimo libro del Teseida delle nozze d'Emilia. Deo gratias. Amen

 

 

SONETTO

 

Nel quale l'autore priega le Muse che il presente libro presentino a la donna a cui istanzia è fatto, acciò che ella secondo il suo piacere lo 'ntitoli

 

O sacre Muse, le quali io adoro

e con digiuni onoro e vigilando,

di voi la grazia in tal guisa cercando

qual l'acquistaron palidi coloro                                                4

 

a' quai poi deste il grazioso alloro

in sul fonte castalio poetando,

i versi lor sovente esaminando

col vostro canto sottile e sonoro,                                             8

 

io ho ricolte della vostra mensa

alcune miche da quella cadute,

e come seppi qui l'ho compilate;

le quai vi priego che voi le portiate                                           12

 

liete alla donna in cui la mia salute

vive, ma ella forse nol si pensa,

e con lei insieme il nome date e 'l canto

e 'l corso ad esse, se ne le cal tanto.                                        16

 

 

RISPOSTA DELLE MUSE

 

Al soprascritto sonetto, nel quale esse li significano il titolo dato al libro suo

 

Portati abbiam tuoi versi e bel lavoro,

o caro alunno, di Teseo cantando,

e i due Teban, l'un preso e l'altro in bando,

combatter per Emilia donna loro.                                             4

 

La più tua donna ch'essa di costoro,

gli altrui riletti amori a sé recando,

fra sé soletta disse sospirando:

"Ahi, quante d'amor forze in costor foro!".                               8

 

Poi di fiamma d'amor tututta accensa,

ci porse priego che non fosser mute

le ben scritte prodezze e la biltate;                                           11

 

"Teseida di nozze d'Emilia", o vate,

nomar li piacque; e noi con note argute

darenli in ogni etate fama immensa.                                          14

 

Così gli abbiam, rorati al fonte santo,

licenziati a gire in ogni canto.                                                   16