I CANTARI

Antonio Pucci

 

BRITO DI BRETTAGNA

 

Edizione di riferimento

Poeti minori del Trecento, a cura di Natalino Sapegno, Letteratura Italiana - Storia e Testi vol. 10, direttori Raffaele Mattioli, Pietro Pancrazi, Alfredo Schiaffini, Riccardo Ricciardi editore, Milano-Napoli 1962

 

         Il Brito di Brettagna è opera di Antonio Pucci (anteriore, dunque, al 1388).La fonte diretta è un episodio del trattato De Amore di Andrea Cappellano. Nel testo latino Brito miles significa, genericamente, «cavaliere brettone»; l'autore del cantare ha inteso invece Brito come un nome proprio.

 

 

 

1.

I' priego Cristo padre onnipotente,

che per li peccator volle morire,

che mi conceda grazia nella mente

ch'i' possa chiara mia volontà dire.

E priego voi, signori e buona gente,

che con effetto mi deggiate udire,

ch'io vi dirò d'una canzon novella,

che forse mai non l'odiste sì bella.

 

2.

Leggendo un giorno del tempo passato

un libro che mi par degli altri il fiore,

trovai ch'un cavalier innamorato

fe' molte belle cose per amore;

ond'io, a ciò che sia ammaestrato

della prodezza sua ogni amadore,

dirò di quel baron sanza magagna

che fu chiamato Brito di Brettagna.

 

3.

Questo barone essendo d'amor preso

più ch'altro mai d'una donna valente,

ardeali il core come fuoco acceso,

perché celava a lei tal convenente;

e non possendo più soffrir tal peso,

richiesela d'amor celatamente, dicendo:

- I' son per far vostro disio

in ogni caso, se voi fate il mio. -

 

4.

Ed ella li rispose:- Po' ch'io sento

il tuo volere, or vo' che 'l mio tu saccia:

se tu vuoi del mio amore esser contento,

d'una cosa ch' i' ho voglia mi procaccia. -

Disse 'l donzel : - Dite 'l vostro talento,

ch'el non fia cosa ch'io per voi non faccia,

e sia ad acquistar quanto vuol forte,

ch' i' non mi metta per averl' a morte. -

 

5.

Disse la donna:- Or vedi, cavaliere:

là dove fa lo re Artù dimoro,

ha nella sala un nobile sparviere

che sta legato ad una stanga d'oro;

appresso a quell'uccel, ch'è sì maniere,

due bracchi stan che vaglion un tesoro;

la carta delle Regole d'Amore,

dove son scritte 'n dorato colore.

 

6.

E stu puoi far ch'i' abbia quel ch'i' ho detto,

pognam che te sia greve ad acquistare,

infino ad ora ti giuro e prometto

ch'altri che te giammai non voglio amare. -

Ed el rispose: - Questo m'è diletto:

addio, madonna, ch'i' 'l vo a procacciare. -

E tanto cavalcò, dopo 'l commiato,

che 'n la selva real si fu trovato.

 

7.

E cavalcando per la selva oscura

pervenne a luoghi molt'aspri e crudeli,

e poi, pensando sopra sua ventura,

e una damigella sanza veli

li apparve e disse: - Non aver paura,

ch' i' so dove tu vai, benché tu 'l celi;

ma tu seristi a troppo gran periglio,

se tu da me non avessi consiglio. -

 

8.

Ed egli udendo ciò guardava fiso

la biondissima e vaga damigella

dalli capelli ch'avea dietro al viso

portava d'or legata una cordella),

dicendo: - Dama, angel di paradiso

che luci più che la diana stella,

deh dimme perché io vo se tu lo sai,

e poi te crederò ciò che dirai. -

 

9.

Ed ella rispondendo al suo dimando

a motto a motto tutto gli contòne

come perché andava e come e quando

e' s'era mosso per cotal cagione.

E Brito disse: - I' mi ti raccomando

che m'aiuti fornir mia 'ntenzione:

or dimmi il modo che ti par ch'io pigli,

ch'io non mi partirò di tuo consigli. -

 

10.

Ed ella disse: - Ben t'aterò alquanto,

se per mio senno portar ti vorrai.

Sappi che quel che tu brami cotanto

in nulla guisa acquistar non potrai,

se primamente tu non ti dai vanto

d'avere amor di bella donna assai

più ch'alcun altro cavalier che truovi,

e per battaglia poi convien che 'l pruovi.

 

11.

Ma nel palazzo non potra' entrare

se 'l guanto dell'uccel non hai primieri,

e tu quel guanto non potra' 'cquistare

se non combatti con duo cavalieri,

i quali son posti 'l guanto guardare

e son gioganti molto arditi e fieri;

se tu gli vinci, non toccar da loro,

ma spicca tu dalla colonna d'oro. -

 

12.

E Brito disse: - Dama, i' non potrei

donna nomar di tanta appariscenza:

se non ti fosse grave, ben vorrei

che tu di te mi dessi la licenza. -

Ed ella disse:- Fa ciò che tu dei,

ch' i' son contenta per tal convenenza. -

E con fermezza d'amore il baciòe,

e un destriero fornito gli donòe.

 

13.

E disse:- E' ti convien sanza pavento

cavalcar e combatter con ardire:

tu ha' caval che corre come vento

e meneratti dove tu vogl'ire. -

Ed e' vi montò su con ardimento

e ringraziolla molto in suo partire,

e tanto degli sproni el destrier punse

che alla riva d'un gran fiume giunse.

 

14.

E non possendo quel fiume passare

perch'era cupo e d'ogni lato monte,

lungo la riva prese a cavalcare

tanto che d'oro ebbe trovato un ponte,

ch'era sì basso che, per l'ondeggiare,

l'acqua sopr'esso ispesso facia fonte.

Dal primo capo un cavalier avea,

armato e fier quantunque si potea.

 

15.

E Brito, poscia che l'ebbe veduto,

il salutò con molta cortesia,

e quello gli rispuose a suo saluto,

ma domandollo perché e' venia;

e Brito gli rispuose: - I' son venuto

per passar qui, se tolto non mi fia. -

- Per passar no, - rispuose quel guardiano -

ma per aver la morte di mia mano.

 

16.

Ma perché se' di giovanezza tale,

i' ti vo' perdonar,- gli disse accorto -

ché ma' non arrivò in queste contrade

picciol nè grande che non fosse morto;

ma perch'io veggio che sempricitade

t'ha fatto pervenire a questo porto,

or lassa l'arme e tutti arnesi tuoi

e vattene al più presto che tu puoi. -

 

17.

Rispuose Brito:- Ha' tu tanta mattezza

che credi per tuo dire i' lasci l'arme?

Intendo di provar mia giovinezza

contro chi 'l passo vorrà contrastarme. -

Ed e' si fo 'dirato e con fierezza

disse: - Se tu se' stolto, come parme,

da po' ch'io veggio che vo' pur morire,

e tu morrai. - E corselo a fedire.

 

18.

E dimolt'arme gli tagliava addosso

e in più parte la carne gli afferra;

e Brito allor, sentendosi percosso

e 'l sangue suo cadere sulla terra,

e la sua donna gli tornò nel cosso,

ond'egli isprona il buon destrier di guerra,

e ferì quel guardian sì aspramente

che per morto l'abbattea di presente.

 

19.

E quel giogante gli chiese mercede,

ed egli perdonò per cortesia;

e 'l suo cavallo degli sproni fiede

e per lo ponte subito s'invia.

Quando il guardian dall'altra parte vede

ch'al suo compagno pur morte giongìa,

di forte il ponte cominciò a crollare

che spesso sotto l'acqua il facia andare.

 

20.

E Brito, per bontà del buon cavallo,

pur passò oltre per lo ponte ratto

e giunse a quel fellone quale strale,

dove crollava il ponte al primo tratto,

che sulla testa 'l ferì sanza fallo

e, per vendetta di quel ch'avea fatto,

per forza il prese e nel fiume il gittòe,

onde il guardian di subito affogòe.

 

21.

E quando egli ebbe valicato il passo

ed ammendue le guardie abbattute,

ed e' si riposò perch'era lasso

delle percosse ch'ave' ricevute;

e 'l meglio che potè, seggendo a basso,

venne curando tutte suo ferute;

poi valorosamente come saggio

montò a cavallo e uscì di suo viaggio.

 

22.

E cavalcando il franco damigello

per un bel prato tutto pien di fiori,

vide un palazzo fortissimo e bello,

ma non parea ch'avesse abitatori,

però che porta finestra o sportello

non si vedea da lato nè di fuori.

Nel prato aveano mense d'ariento

piene di cibi e d'ogni guarnimento.

 

23.

E poi appresso vide sotto un pino

un gran vaso d'argento pien di biada,

ond'egli ismonta, di coraggio fino,

perché per suo destrier molto gli aggrada.

Trassegli il freno e puosegli all'orino,

perché rodesse e poi d'intorno vada.

Non veggendo persona, fra sè pensa:

« E' fia che puote »; e fussi posto a mensa.

 

24.

Mangiando francamente come quello

ch'avea grande bisogno di mangiare,

una porta s'aperse del castello,

che facea sì grandissimo sonare

che maravigliar fece quel donzello,

sicché ristette e volsisi a guardare;

ed e' vide venire un gran giogante

verso di sè con un baston pesante.

 

25.

E da seder non si mosse costui,

ma più che mai mangiava alla sicura.

Disse il giogante, quando giunse a lui:

- Che ne fa' tu costà sanza paura?

Queste mense son messe per altrui,

cioè per gente di miglior natura. -

E Brito mangia prima quanto volle,

poi gli rispuose: - Deh, quanto se' folle!

 

26.

Se queste mense son per gentil gente,

e io mi tengo ben d'esser gentile,

ché 'l padre mio fu molto soficiente

e suo paese molto signorile.

Alla corte del re, ch'è sì possente,

perch'io mangi, non manca su' stile.

E son venuto per portarne meco

uno isparviere che 'l re Artù ha seco. -

 

27.

Disse il giogante:- Oh t'inganna il pensiere,

ché gran sempricità nel cor t'abbonda;

ché sarebbe impossibile ad avere

al più prod'uom che è 'n Tavola Rotonda;

che per guardia del guanto puo' vedere

che quel palazzo intorno non cerconda,

e se compagni avessi un centinaio,

ti veterebbe il passo il portinaio.

 

28.

Però, deh, parti e torna in tuo paese

poi che ancor non t'è la vita tolta;

lassa l'arme e 'l caval, ch'alle tue spese

vo' ch'abbi manicato a questa volta. -

Rispuose allora quel donzel cortese

- Per cosa molto grande ora m'ascolta:

ch'io, prima che per te i' torni adrieto,

teco saprò se Tarme mia han divieto. -

 

29.

Disse il giogante : - Con questo bastone

io n'ho già morti più di cinquecento;

ma perché tu mi par troppo garzone,

sì perdonav' al tuo gran fallimento.

Ora ti dico ch' i' ho intenzione

di raddoppiarti la pena e 'l tormento.

Or va, monta a caval, ché 'l ti bisogna,

ch'io non ti voglio a piè, per più vergogna. -

 

30.

Rispuos'allora il valoroso Brito:

- Non piacci a Dio che io monti in arcione,

ched e' sarebbe troppo gran partito

combattere a caval con un pedone.

Or come cavalier prod' ed ardito

- disse al giogante - fa tua difensione. -

E colla spada fiede arditamente,

ma non che sangue gli uscisse niente.

 

31.

Disse il giogante di niquizia pregno

- Io te ne pagherò, se Dio mi vaglia! -

Col baston del metallo, e non di legno,

che lo menava come fil di paglia,

e' fedia Brito con un tal disdegno

che dimolt'arme addosso sì gli taglia,

e feciolo per forza inginocchiare,

sicché di morte e' cominciò a dottare.

 

32.

E poi gli disse: - Po' che tanta noia

t'ha fatto il primo, che farà il secondo?

Tu ci venisti per acquistar gioia,

i' ti farò portar di morte pondo,

ché veramente convien che tu muoia,

sicché mal ci venisti a questo mondo. -

E la mazza levò con gran tempesta

volendo dare a Brito sulla testa.

 

33.

E quando Brito vidde la colonna,

cioè 'l baston ch' e' levato ave' 'n alto,

ed e' si ricordò della sua donna

e ferì lui sopra 'l lucente smalto,

sì che, perché di ferro avesse gonna,

poco gli valse allo secondo assalto;

e' diedegli tal colpo in sulla spalla

che col bastone il braccio a terra 'vvalla.

 

34.

- Deh, non m'uccider, per lo tuo migliore, -

disse il giogante sentendo tal pena

- ch'io ti recherò il guanto del signore

e tu potrai intanto prender lena. -

- Tu mi vuogli ingannare, o traditore -

rispose Brito, e dettegli una mena.

Ed e' per tema della morte volse

e menol seco dov' il guanto tolse.

 

35.

E come Brito il guanto have spiccato,

e grande istrida dentro si levaro,

e non vi si vedeva 'n nessun lato

chi si facesse il pianto così amaro;

ed e' vettorioso torna al prato

e montò al destriero allegro e gaio,

e così cavalcò parecchi giorni

pur per pratelli di bei fiori adorni.

 

36.

E riguardando vede dalla lunge

il palazzo real dello re Artù,

e forte degli sproni il destrier punge

tanto ch'a quella porta giunto fu;

e siccome alla porta mastra giunge

mostrò il guanto e fu lasciato ir su

da dodici guardian che disson: -

Passa, ché la tua vita sarà molto bassa. -

 

37.

Signor, sappiate che secento braccia

aveva di lunghezza quel palazzo

e d'ariento avea 'l tetto e la faccia

e dentro d'oro le mura e lo spazzo;

iscala e panca v'ha, che ciascun saccia,

ch'eran d'avorio intagliate a sollazzo;

e sonvi d'oro alti sette iscaglioni:

sèdevi re Artù con suo baroni.

 

38.

E Brito arditamente per la scala

montò pensando di tal novitade,

e quando giunse in sulla mastra sala

e vide il re con tanta nobiltade,

con riverenza inginocchiando cala

e salutollo con binignitade;

e re Artù gli rendè suo saluto,

benché ma' più non l'avesse veduto.

 

39.

- Perché venisti a me, in questa corte? -

disse un di que' baroni in corte piano.

Rispuose Brito con parole accorte:

- Venuto son per lo sparvier sovrano. -

Disse 'l baron: - Per così fatta sorte

credo che tu sara' venuto invano.

Onde ti move ardir di chieder dono,

che più di mille già morti ne sono? -

 

40.

Brito, pensando di quella ch'egli ama,

rispuose lietamente a quel barone

dicendo: - Lo sparvier di sì gran fama

i' non dimando sanza gran cagione,

ch' i' ho l'amor della più bella dama

che niun altro di questa magione;

e se alcun c'è che voglia contastare,

per forza d'arme gliel tolgo a provare. -

 

41.

Rispose quel baron: - Siene alla pruova!

però ch'io vo' difender la mi' amanza,

ch'a petto a lei la tua non val tre uova,

però che di beltade ogni altra avanza.

E veramente, anzi che tu ti muova,

confessar ti farò con mia possanza. -

En un pratel furno amendue armati

dentro al palazzo e furonsi isfidati.

 

42.

E ferirse l'un l'altro colla lancia

sì forte che le rupper negli scudi,

e poi che dato s'ebbon cotal mancia,

miser mano alle spade i baron drudi;

e l'uno e l'altro non pareva ciancia

quando si riscontrar co' ferri ignudi;

e 'l baron per tal forza Brito offese

che dell'elmo tagliò quanto ne prese.

 

43.

E Brito si ricordò su quell'ora

di quella donna per cui amor fa questo,

di che el rinvigorisce e rinsan'ora,

e con la spada in mano ardito e presto

ferìe 'l baron sì che, sanza dimora,

in sulla terra cadde manifesto;

volendosi levare a questo tratto,

e Brito smonta e anciselo affatto.

 

44.

E poscia se n'andò ritto alla stanga

e tolse lo sparvier, la carta e i cani,

e partendosi disse: - A Dio rimanga

lo re Artù coi suoi baron sovrani! -

E tutta quella corte par che pianga

ch'un uom così gaiardo s'allontani.

Licenziato dal re che se ne vada,

vettorioso tornò a sua contrada.

 

45.

E giorno e notte tanto ha cavalcato

ched egli giunse alla donna selvaggia,

quella che prima gli aveva 'nsignato

come salir si voleva tal piaggia;

e poi che 'l suo saluto gli ha donato,

ed ella gli responde come saggia: -

Ben sia venuto per le mille volte

sì fatto amante, che non l'hanno molte! -

 

46.

E poi con baci e con abbracciamenti

gran pezza il tenne, sanz'altro fallace,

e poi li disse: - Mo' che t'argomenti

di ritornare a tua donna verace? -

Ed e' le disse:- Se tu te contenti,

i' farò volentier ciò che ti piace. -

E ringraziolla di coraggio fino,

poi si partì e tornò a suo cammino.

 

 

MADONNA ELENA

 

Edizione di riferimento

Fiore di leggende, cantari antichi, editi e ordinati da Ezio Levi, serie prima, cantari leggendari, Gius. Laterza & figli Tipografi—Editori—Librai, Bari 1914

 

I prego voi che ciaschedun m’intenda,

però che questo è il fior della leggenda.

Reina d’Oriente, c. iii, ott.

1

Cavalieri e donzelli e mercatanti,

per cortesia venitemi ascoltare:

ch’io credo ben che Dio con tutti i santi

m’ha dato grazia di saper trovare;

e voi, signor, traetevi davanti,

ed io vi canterò un bel cantare,

e sì dirò d’Elèna imperadrice

che fu più bella che ’l cantar non dice.

2

Elena fu di molto gran barnaggio

di Nerbona, la nobil cittade:

d’Amerigo fu lo suo legnaggio

che mantenea gran nobilitade;

Arnaldo di Gironda, prode e saggio,

figliuol fu d’Amerigo, in veritade,

e questo Arnaldoprese per mogliere

una figliuola d’un pro’ cavaliere.

3

Co’ questa donna Arnaldo mantenea

dentro in Gironda la nobil cittade:

e l’un de l’altro figliuol non avea,

e non potea la donna ingravidare.

Come a Dio piacque ed a santa Maria,

la donna un giorno si prende a parlare,

disse: — Arnaldo, son grossa per ragione;

avrem figliuoi, se piaccia al Creatore. —

4

Donne e donzelle ed ogni cavaliere,

tutta la corte di quel si ragiona:

Arnaldo di Gironda, il pro’ guerriere,

cogli altri cavalier ne fa gran gioia:

poi venne il tempo che la sua mogliere

li parturì, senza nessuna noia,

ed in nel parto fece una fantina,

che fu più bella che rosa di spina.

5

Le balie immantenenti le fûr pòrte

che la fantina dovesson servire:

Arnaldo di Gironda e la sua corte

cogli altri cavalier si prende a dire:

— Come avrà nome la fantina forte? —

e ciascun dice: — Fatela venire. —

La fantina davanti fuarecata,

e ciascun dice: — Eléna sia chiamata. —

6

Arnaldo di Gironda, il pro’ guerriere,

poi che la figlia fu da maritare,

la mandò a Carlomagno, lo ’mperiere,

che ne facesse la sua volontade:

Carlo la die’ a un prode cavaliere

che di Parigi era podestade:

da Mompolier fu il cavalier pregiato,

messer Ruggieriper nome chiamato.

7

La roba, ch’ebe in dote la fantina,

si fu Gironda la nobil cittade;

Arnaldo andò a star presso a la marina

ad una terra piena di bontade.

Rugier duo figli ha de la bella Eléna,

che riluceano molto in veritade;

l’uno ebe nome Arnaldo del cor fino,

e, per Gironda, l’altro, Girondino.

8

Elena fu sì bella creatura,

sigondo che racconta la leggenda,

di lei s’innamorava ogni persona,

quando vedean la sua figura bella.

Un cavalier, malvagio oltra misura,

si inamorò de la gentil pulzella:

ma non ne potea avere alcuno amore;

ond’e’ pensò una gran tradizione.

9

Alla stagione del mese di maggio,

che aparono le rose a ogni verziere,

e gli uccelletti cantan di coraggio

e fanno i dolci versi per amore,

donzelli e cavalier di gran barnaggio

stavan dinanzi a Carlo imperadore,

e a ciascun fu mestier che si vantasse,

 poi conveniva che ’l vanto provasse.

10

Chi si vantava di bella moglieri,

qual si vantava di bella sorella,

d’aver bell’armo e correnti destrieri,

e ricco di cittade e di castella,

d’astòr o bracchi o correnti levrieri,

o per amica aver bella donzella;

e chi si vanta d’oro e d’ariento,

e chi d’esser prod’uomo in torniamento.

11

Messer Ruggieri, ch’era prode e saggio,

dinanzi a Carlo si fu in piè levato:

— Santa Corona, intendi il mio coraggio,

sì ch’io mi vanti, ch’io non son vantato:

da poi che tutto lo tuo baronaggio

davanti al tuo conspetto ha favellato,

ed io mi vanto, avanti a voi, messere,

e sí diragio tutto il mio volere. —

12

Messer Ruggieri sí si fu voltato

avanti a tutta l’altra baronia:

— Da poi che ciascheduno si è vantato,

ed io mi vanto della donna mia;

e chi cercasse il mondo in ogni lato,

più bella donna non si troveria:

e questo dico, ch’io il posso provare,

se ci ha nessun che il voglia contrastare. —

13

Da poi che ciaschedun si fu vantato,

ed ognuno ebe detto il suo volere,

tostamente Carlo ebbe comandato

che ’nmantenente venisse da bere:

e ’l suo comandamento fu osservato.

Molti donzei si levan da sedere:

nappi d’argento e coppe d’oro fino:

se non mente il cantar, fu vernaccino.

14

Quivi avea gente di molti paesi,

di strane parte e da lunge cittade,

e degli avari e ancora de’ cortesi;

con una coppa di gran degnitade,

ha mercatanti, ha signori e ha borghesi.

E Carlo bebbe a la sua volontade,

e poi la diede a messer Ruggieri;

di mano in mano, a’ maggior cavalieri.

15

Messer Ruggier la prende volentieri,

e sì ne beve a tutto il suo piacere;

e Carlo disse: — Gentil cavalieri,

che di tua donna se’ aùto a vantare,

tu se’ si bello, che, se tua moglieri

è come te, tu ti puo’ contentare! —

Messer Ruggier disse: — Santa Corona,

egli è vostro l’avere e la persona. —

16

Un cavalier ch’avea nome Guernieri,

che d’oltralmare fu nato e creato,

come malvagio e falso cavalieri,

davanti a Carlo in piè si fu levato,

e sí parlò, e disse e’ suoi pensieri

del tradimento ch’egli ha ordinato:

— Santa Corona, un prego ti vo’ fare:

che mi deggiate mie’ dire ascoltare. —

17

Imantenente sí disse Guernieri :

— Messer, questo mi par gran fallimento;

la Tua Corona nol dovria sofrire

 di quel c’ha fatto Ruggier parlamento:

ché la sua donna io aggio a’ mio voleri,

e si n’ ho aùto tutto il mio talento:

omo, che da sua donna è scocozzato,

ha a ber con coppa di re incoronato? —

18

Ed a messer Ruggier non parve giuoco,

e disseli : — Guernier d’oltre lo mare,

dicilo tu per ira over per giuoco,

od è il vin che sí ti fa parlare?

ché non è cavalieri in questo Ioco,

che tai parole facessi stornare.

De la battaglia te ne darò il guanto:

perde la testa chi non prova il vanto. —

19

Messer Guarnier malvagio e sconoscente,

ched era usato sempre di mal dire,

disse a Ruggieri: — Io saccio certamente

più bella donna non si può vedere:

però mi vanto e dico infra la gente,

ch’io vi aggio aúto tutto il mio volere,

e sí la posso avere a mia richiesta:

se non è vero, io vo’ perder la testa. —

20

E Carlo disse allor sanza timore:

— Questa battaglia si vuole acconciare,

e chi non prova il vanto per ragione,

inmantenente io lo farò pigliare

e, senza metterlo in altra prigione,

subitamente il farò dicapare:

domenica sarete a la battaglia,

e chi la perda ará briga e travaglia. —

21

Guarnier li disse: — Corona di Franza,

sanza battaglia lo credo provare,

e senza colpo di spada o di lanza

a lui medesmo il farò confessare.

Donami tempo ch’io vada a mia ’manza:

con esso lei mi credo sollazzare;

e recherò sua gioia e lo veletto

 per mantener in piè ciò ch’io t’ho detto. —

22

E Carlo disse: — Dammi pagatore

di ritornar, da poi che se’ vantato.

— Messer Guernier non trova malvadore;

tre suoi figliuoli stadichi ha lassato.

E Carlo disse: — Va’ sanza timore:

di qui a un mese sia qui ritornato:

va’ e ritorna senza dimorare;

se no e’ fantini farò dicollare. —

23

Messer Guarnier cavalca per la via,

e ’n fra se stesso dice: — I’ ho mal fatto! —

Piangendo disse a la sua compagnia:

— Di questa guerra io rimaragio matto:

volesse Iddio con santa Maria

ch’io ne potessi avere triegua o patto! —

E, lagrimando, cavalcò in Gironda

con piú sospiri ch’el mar non ha onda.

24

Messer Guarnier disse a sua compagnia:

Gentil signori, che vi par di fare?

Ciascun sí s’armi, e venga a guisa mia

dentro a la terra, ch’io voglio armeggiare.

— E ciascun dice: — Sire, in fede mia,

tutti faremo la tua volontade. —

Tre giorni hanno armeggiato entro la terra

’ntorno al palazzo di Elena bella.

25

Tre giorni stanno intorno a quel palazzo

ove dimora Elena imperiale,

e sí vi fanno gran gioia e solazzo

de l’armeggiar, cli’e’ n’è condutto a tale,

che n’era divenuto quasi pazzo:

per nessun modo non le può parlare.

Si fece un giorno ad una fenestrella

una cameriera d’Elena bella.

26

La donna disse:— O bel cavaliere,

per cui amore andate voi armeggiando?

— Messer Guarnier ritenne il suo destriere;

piangendo le rispuose e lagrimando:

— Gentil madonna, tu mi fai mestiere

anzi ch’io mora o ch’io caggi nel bando

di Carlo magno, che m’ha diffidato,

per un gran vanto ch’io mi son vantato. —

27

La donna disse: — Dimmi, per tuo onore,

per che cagion, messer, ti se’ vantato?

— Madonna, io vel dirò senza temore,

dapoi che me ne avete adomandato:

davanti a Carlo, ch’è nostro signore,

or odite di che mi son vantato:

sí mi vantai d’avere Elena bella,

ch’è più lucente che non è la stella. —

28

Ed ella disse: — Cavalier, va’ via;

ben lo sa Dio ch’io non ti posso atare,

ché ben facesti mattezza e follia

quando d’Eléna t’avesti a vantare;

ché chi cercasse Francia e Lombardia,

più onesta donna non poríe trovare;

ben credo che la morte ti ci mena,

quando t’avesti a vantare d’Eléna. —

29

Guarnier le disse: — Non mi abandonare,

aggi pietá di questo cavaliere,

ch’ io t’ imprometto, se mi vòi atare,

ched io ti sposerò per mia mogliere;

e venga il Libro, ch’io tel vo’ giurare:

ciò ch’io prometto ti voglio atenere.

Se d’Elena mi dai alcuna gioia,

tu mi puoi dar la vita e tôr di noia. —

30

La donna disse: — Per le tue bellezze

di te m’incresce e piglia gran peccato:

però ti conteraggio le fattezze

d’esto palazzo, com’è ordinato;

e poi ti conteraggio le bellezze

di quella c’ hae il viso angelicato:

delle sue gio’ assai ti posso dare,

se tu per questo ti credi scampare.

31

A l’entrar de la porta ha du’ leoni,

che sempre vanno disciolti e slegati:

e in capo de la scala è du’ dragoni,

che son per arte quine edificati:

 madonna Elena ha du’ sí bei figliuoli,

che ’n paradiso par che fosser nati:

l’un nome ha Arnaldo, e l’altro Girondino,

ciascuno assembra un franco paladino.

32

E nella sala sta una catella,

la miglior guardia che sia mai trovata

(non la darebe per mille castella

messer Ruggieri, che l’ ha amaestrata),

che non si parte mai da Eléna bella

ch’ella non sia con lei ogni fiata.

Se la catena si desse a baiare,

tutta Gironda si corre ad armare.

33

La zambra dove sta Elena bella

dire ti voglio com’è ordinata:

di mezzanotte luce più che stella,

di pietre preziose ell’ è murata.

molte donne in compagnia d’ella,

da molti cavalieri ell’è guardata:

èvi una pietra c’ ha nome «carbone».

di mezzanotte luce e dá splendore.

34

E non si vide mai donna nessuna

che in sé avesse tante gentilezze:

e non si trovò mai bianca né bruna

che ’n testa porti cosí bionde trezze,

e non fu mai persona nessuna

che tante avesse in sé piacevolezze;

tant’adornezza porta nel suo viso,

ben par che fosse nata in paradiso.

35

Madonna Eléna è tanto bianca e netta,

ed ha il viso bianco e colorito:

tre vel d’argento ha ’n una cassetta,

de’ quai ciascuno si è molto pulito:

uno te ne darò co’ una verghetta,

la qual sempre ella suol portare in dito.

— Messer Guarnier si parte e non dimora:

la cameriera sí lo chiama ancora,

36

e disse: — Io t’ ho contato le fattezze.

O cavalier, se ti vuoi dipartire,

deh! usa lealtá e gentilezze,

cui te serve, nollo disservire;

ché lo vantare giá non è prodezze

non è lealtá, a non mentire.

Avísati scampare a questo tratto;

un’altra volta non esser sí matto.

37

Ed io ti donerò uno scaggiale

e un ricco anello ch’ella porta in dito:

guardalo ben, ché gran tesoro vale,

con altre gioie che ci han del marito.

— Guarnier gli disse: — Questo dono è tale,

che riccamente m’avete servito:

la mia persona è vostra, a lo ver dire;

adio, madama, ch’io me ne vo’ gire. —

38

Messer Guarnieri indietro si tornava,

e da’ compagni fu adomandato:

— E quella Eléna, che ti favellava?

— Messer Guarnier rispuose in ciascun lato:

— Signor — diss’elli, — il mio partir li grava,

e quest’ èn gioie ch’ella m’ ha donato.

Torniamo a Carlo tutti con gran festa:

messer Ruggieri perderá la testa. —

39

Messer Guarnieri a corte fu tornato:

dinanzi a Carlo andò messer Guarnieri,

e tutte queste gioie egli ha mostrato

a donne ed a donzelli e a cavaglieri.

Messer Ruggieri cadde istrangosciato

per la gran doglia e per li gran pensieri,

vedendo lo scaggial ch’e’ porta cinto,

e disse: — Cavalier, tu m’ hai ben vinto! —

40

E Carlo disse a messer Ruggieri:

— Ruggier, se Dio m’allegri e doni gioia,

de la tua morte mi do gran pensieri,

e sí mi grava e da’mi molta noia.

Acònciati con Dio a tuo mestieri,

e ti confessa inanzi che tu moia,

ché domattina a l’alba apariscente

tu perderai la testa veramente. —

41

Messer Ruggier li disse: — Imperadore,

fino a Gironda mi lassate andare,

ed io vi Iascerò buon pagatore,

se non son morto, tosto ritornare.

— Egli ebe la licenzia del signore,

veggendo ben che ’l non potea campare.

E Ruggier dice: — I’ ho perduto il capo,

da poi ch’Elena mi ha cosí ingannato. —

42

Messer Rugieri cavalcò in Gironda,

e, quando entrava dentro a la cittade,

de li sospiri e del dolor, ch’abonda,

or udirete gran crudelitade;

ché non trovava cavalier né donna,

che non mettesse al taglio de le spade:

andò al palazzo, e uccise i due lioni,

tagliò la testa a’ figliuoli e a’ dragoni.

43

Sí come cavalieri iniquitoso

ad Elena volea tagliare la testa:

poi si pentí qual cavalier furioso,

féla menar davanti in sua presenzia;

fuor del palazzo, ch’è fresco e gioioso,

la gittò tosto per una finestra

entro ’n un fiume ch’è forte e corrente,

credendo ch’annegasse veramente.

44

Ma Gesù Cristo, Padre onnipotente,

sí la sostenne e vòlsela aiutare,

perch’elli sapea bene certamente

ch’Elena non avea fatto quel male:

dentro in Gironda, avanti a la sua gente,

su nel palazzo la fece tornare.

Scampata Elena or è di quel partito:

messer Ruggierigiá si se n’era ito.

45

Elena, come savia e conoscente,

un suo messaggio tosto mandò al padre,

ch’eli s’armasse con tutta sua gente

e cavalcasse in Francia le contrade,

cheti e’ cavalchi molto prestamente

entro in Parigi la nobil cittade,

c’ ha morto i suoi figliuol contra ragione,

e di niente non sa la cagione.

46

Elena tosto a caval fu montata

e seco mena grande imbasciaria,

da conti e da baroni accompagnata

e molte donne per sua compagnia;

e giá il padre co’ la sua brigata

giva in Francia con gran cavalleria.

Ciascun cavalca sol co’ la sua gente

verso Parigi molto fortemente.

47

Messer Ruggieri a corte è ritornato;

non fa bisogno di farli richiesta:

davanti a Carlo si fu inginocchiato,

e a tutta quanta l’altra buona gesta.

— Ecco, Signore, che son ritornato,

e son ben degno di perder la testa! —

Le donne, le donzelle e i cavalieri

piangon la morte di messer Ruggieri.

48

Messer Ruggieri quando gia a la morte,

Elena bella nella terra è entrata:

giunse al palagio e sospignea le porte,

davanti a Carlo si fu inginocchiata:

— Santa Corona, non mi dar la morte,

ché d’esto fallo non sono incolpata:

messer Ruggieri è condannato a torto,

e proverollo innanzi che sia morto.

49

Messer, che Dio vi dia vita ed onore,

tenetemi ragion, Santa Corona:

fate venir davanti il traditore,

segundo che si dice e si ragiona,

che ditto ha mal di me e misso errore,

ch’io v’imprometto e giuro in fede buona

ch’io lo faraggio morir ricredente

davanti a voi e tutta vostra gente. —

50

E per messer Guarnieri e’ fu mandato,

ch’eli venisse a far sua difensione,

ché Elena bella si ha rapellato,

e prova e dice ch’ell’ha la ragione,

e tal si crede aver vinto quel piato,

che perderti la vita e la quistione:

chi si vanta di quel che non ha fatto,

il senno perde ed è tenuto matto.

51

Messer Guarnieri a corte fu venuto:

e da li savi ciò fu adomandato:

— Quella donna, cavalieri arguto,

vedestila tu mai in nessun lato?

— Io ho aúto di lei ciò ch’ i’ ho voluto:

ecco le gioie ch’ella in’ ha donato. —

E per messer Ruggieri e’ fu mandato,

e comandò non fusse dicapato.

52

Rispuose Elena: — Se Cristo mi vaglia,

tu menti per la gola, o traditore!

Tu sí m’hai data assai briga e travaglia,

e’ miei figliuol son morti a tua cagione;

ma io ti proveraggio per battaglia,

davanti a Carlo ed ogni suo barone,

che queste gioie, che tu m’hai mostrate,

veracemente tu me l’ hai furate. —

53

Messer Guarnier parlò con fellonia:

disse: — Madama, giá siete voltata,

e sí m’avete ditto villania,

ché di tal cosa n’eravate usata:

quelle gioie mi deste in druderia,

quando stavamo insieme a la celata:

or vi ricordi del tempo passato,

quando era insiem con voi abracciato. —

54

Elena disse: — Falso traditore!

come puoi dir cosí gran falimento?

Che non m’aiuti Iddio, nostro Signore,

sed io ti vidi mai per nessun tempo

se non a questo punto, o traditore,

che tu m’ha’ aposto sí gran tradimento:

però ti dico che non puo’ campare,

ch’io son pur ferma di teco giostrare. —

55

E Carlo comandò come signore,

e disse: — Guarnier, córriti ad armare,

e piglia l’arme e ’l destrier corridore:

va’ in su la piazza sanza dimorare.

E voi, madonna, per lo vostro onore

pigliate scambio e fatelo giostrare. —

Elena disse: — Io voglio esser campione,

ch’io credo vincer, ch’ i’ ho la ragione. —

56

Conti, baroni ed altri cavalieri,

molti donzelli si corsero a armare:

— Per vostro amore e di messer Ruggieri

questa battaglia ci lassate fare! —

Elena disse: — E’ v’ inganna il pensieri:

colle mie man mi credo vendicare,

ad onta di Ruggier, cor saracino,

che mi ha morto Arnaldo e Girondino.

57

Elena prende l’arme e ’l gonfalone,

in su la piazza ne va arditamente,

e ben cavalca a guisa di barone

su ’n un destrier fortissimo e corrente.

Trovò Guarnieri, e disseli: — Fellone!

Or ti difendi, ladro frodolente ! —

Guarnier li disse: — Eléna, se vi piace,

di questa guerra piglián triegua o pace. —

58

Elena li rispuose imantenente,

e disseli : — Malvagio traditore!

Non piaccia a Dio, Padre onipotente,

che faccia teco pace né amore,

ché sare’ male a Dio ed a le gente

ch’eli scampasse sí gran traditore:

or ti difende, ch’io ti vo’ ferire:

di questa guerra ti convien morire!

59

Messer Guarnier, in su la piazza armato,

schifava molto dello incominciare.

Madonna Elena sí l’ha disfidato,

e disse: — Traditor, non puoi scampare!

— Abassò l’asta, e tal colpo gli ha dato,

che tutto lo fe’ torcere e piegare,

e pel gran colpo, ch’egli ha ricevuto,

lui e ’l cavallo fu in terra abattuto.

60

Messer Guarnieri disse: — O malenato,

questo colpo non è da soferére.

— E misse mano al brando ch’avea a lato,

in sulla testa die’ al buon destriere.

Elena disse: — Falso rinegato

non è usanza di buon cavaliere:

gran codardia faceste e grande fallo

avermi morto sotto il mio cavallo. —

61

Elena fu da caval dismontata

e misse mano a la spada forbita:

lo scudo avanti, e adosso li fu andata;

opra Guarnieri diede tal ferita,

tagliò lo scudo e la maglia ferrata,

mandonne il braccio in su l’erba fiorita;

un altro colpo ch’ella avesse dato,

ben l’averebbe morto e consumato.

62

Madonna Elena il vòlse anco ferire:

la testa presto li volea tagliare.

Messer Guarnier disse: — Non mi finire,

ch’io vegio ben ch’io non posso scampare.

Venga il Libro, e si vi fate a udire

di ciò ch’io dir voglio e manifestare:

come quelle gioie ch’io ho mostrate

la vostra cameriera me l’ha date. —

63

E’ giudici e’ notai furon presente,

ed hanno scritto la sua confessione:

la testa gli fu mozza immantenente,

senza menare in corte od a prigione.

Contenta n’era tutta quella gente,

vedendo ch’era stata tradigione.

La cameriera fu presa e legata,

e ad un palo fu arsa e dibrugiata.

64

Messer Ruggieri, ch’era qui presente,

vedendo il tradimento ch’era stato,

di ciò che fatto avea fu ben dolente:

fuggí da corte e non chiese cumiato:

e’ va dicendo: — Omè lasso dolente!

in che mal punto ci fu’ io mai nato,

che ho morti amendu’ i miei figliuoli,

onde non vo’ ch’Elena qui mi trovi. —

65

Arnaldo di Gironda, il buon guerrieri,

vedendo acceso il fuoco e la calura,

piangendo disse co’ suoi cavalieri:

— De la mia figlia io aggio gran paura. —

Con mille cinquecento cavalieri

va cavalcando per una pianura,

dicendo: — Elena, se tu muori a torto,

oggi è quel giorno che Carlo sia morto.

66

Elena bella lo vide venire,

salí a cavallo e ’ncontro li fu andato;

e dice: — Padre, non ti fa mestiere

che tu venghi sí forte ed adirato,

ché io ti dico e faccioti asapere

che ’l traditore è morto e dico!lato:

se a corte vien’ di Carlo imperadore,

colla tua gente falli grande onore.

67

E ’l padre disse: — Eléna, il tuo marito,

c’ ha morti i miei nipoti a sí gran torto,

io t’ imprometto, se non s’ é partito,

oggi è quel giorno che sia preso e morto.

Elena disse: — E’ se n’è fugito,

per gran paura se n’è ito al porto,

e sollenato va per lo camino,

e va piangendo Arnaldo e Girondino.

68

Elena disse: — Padre e vita mia,

un gran dono ti voglio adimandare,

pregoti per la tua cortesia,

ciò ch’ io dimando non me lo negare.

Ruggieri è lasso più che mai ne sia;

quel ch’egli ha fatto non si può stornare;

s’egli lo fece, e’ si è ben pentito:

or li perdona, ch’egli è mio marito. —

69

E ’l padre disse: — Da poi che ti piace,

manda per lui e fallo ritornare,

ed io li renderò triegua e pace,

per tuo amor io li vo’ perdonare:

davanti a Carlo, ch’è signor verace,

conte da prima, ti farò sposare:

piú bella coppia non si vide mai,

ancor potrete aver figliuoli assai. —

70

E per messer Ruggieri e’ fu mandato,

ed a la corte fu fatto venire:

davanti a Carlo si fu inginocchiato,

disse: — Io son ben degno di morire. —

Elena e ’l padre sí gli ha perdonato,

ciaschedun di buon core, a lo ver dire:

come da prima, l’ ha fatta sposare:

grande furon le nozze e ’l desinare.

71

Fatta la pace di messer Ruggieri,

Elena e ’l padre sí gli ha perdonato:

tornò in Gironda col suo cavalieri,

da molta gente e’ fu acompagnato.

A mala guisa sí vi andò Guarnieri ;

di quel che disse, mal glien’è incontrato.

Cosí avvenga a ciascun traditore!

Questo cantare è detto al vostro onore.

 

MADONNA LIONESSA

 

Edizione di riferimento

Poeti minori del Trecento, a cura di Natalino Sapegno, Letteratura Italiana - Storia e Testi vol. 10, direttori Raffaele Mattioli, Pietro Pancrazi, Alfredo Schiaffini, Riccardo Ricciardi editore, Milano-Napoli 1962

  

 

Il cantare di Madonna Lionessa reca la firma di Antonio Pucci; è dunque della seconda metà del Trecento (ma anteriore al 1388). Il nocciolo della trama è costituito da un tema diffuso nella novellistica occidentale (compare, fra l'altro, in un racconto del Pecorone, e sarà ripreso da Shakespeare nel Mercante di Venezia); ma a quel nocciolo si sovrappone una curiosa fioritura di spunti satirici attinenti alla cronaca politica e al costume dell'Italia trecentesca.

 

 

1.

Io truovo d'una donna da Milano,

ch'ebbe nome madonna Lionessa,

che madre fue d'Azzolino Romano,

che fue tanto ardito in ogni pressa.

Il suo marito ha nome Capitano;

di Lombardia ell'era principessa;

tutta la Lombardia signoreggiava

e Toscana di lei forte tremava.

 

2.

Ell'era sopr'ogn'altra savia e bella,

e sempre avea semilia cavalieri,

con qua' prendeva città e castella

o per battaglia o per falsi mestieri;

e non montava cavaliere in sella

che non temesse de' suo colpi fieri;

e, se d'amor d'alcuno era richiesta,

di botto gli facea tagliar la testa.

 

3.

Così reggendo, venne che 'l marito,

ch'era d'Italia la più franca lancia,

vennegli in cuore e grande appitito

di voler visitare il re di Francia;

onde si mosse, molto ben fornito,

con semilia tedeschi, a non dir ciancia.

Tanto cavalca che giunge a Parigi,

laonde fe' di grandi e be' servigi.

 

4.

Il re di Francia era fuori ad oste;

mandò alla reina ch'ella 'l soccorresse.

Il Capitano, udendo le proposte,

le si proferse in quanto le piacesse

con semilia tedeschi alle sue coste.

La reina gli disse: - Dio 'l volesse! -

Onde dalla reina si partìe,

dov'era il re di Francia se ne gìe.

 

5.

E grande festa gli fe' il re di Franza,

ché amendue eran perfetti amici.

De' saracin v'era la gran possanza,

e tutte piene n'eran le pendici;

molti cristiani v'eran per certanza

e molti cavalier v'ha da Parigi:

dall'una parte e l'altra accampati

cristiani e saracin sono ischierati.

 

6.

Vedendo il Capitan tanta puntaglia

di cavalieri da ciascuna parte,

di grazia chiese la prima battaglia;

il re gliel concedette, onde si parte.

Disse a sua gente: - Se Cristo vi vaglia,

siate ben franchi, ché sapete l'arte! -

Onde percossono tosto a' nimici.

La prima ischiera mise alle pendici.

 

7.

Non era in Talia uom tanto possente

com'era questo gentil Capitano;

e con sua forza e con sua buona gente

diede isconfitta al populo pagano;

e il re di Francia ancor similemente,

colla sua gente del popul cristiano,

a' saracini dieron tal trafitta

che per forza mìsongli in isconfitta.

 

8.

Color fuggendo e costoro incalciando,

durò la caccia più di dieci miglia.

E lo re poi a Parigi ritornando

menò molti prigion con suo famiglia.

E la reina ch'aspettava, quando

rivide il Capitan, per mano il piglia:

e', vedendosi far tante carezze,

subito innamorò di sue bellezze.

 

9.

Cavalcando con lei a coscia a coscia,

non si iscopria né in fatto né in detto.

Giunti in Parigi, la reina poscia

il convitava con molto diletto,

ed e' sentiva l'amorosa angoscia;

e trovandosi un dì con lei soletto,

richiesela d'amore. A tal cagione

lei il fe' pigliare e mettere in prigione.

 

10.

E po' col re tutto il fatto ragiona,

laonde il re ne fue molto dolente;

ma, guardando l'onor della corona,

co' savi suoi si consigliò al presente.

Ciascun dice di perder la persona.

Rispuose il re: - Non ne farò niente;

ma io condanno quel membro, in due once,

che le parole disse tanto isconce. -

 

11.

Poi fece il Capitano a sé venire,

ed e' sì venne tutto isbigottito.

Il re gli disse: - Come avesti ardire

di farmi oltraggio, avendomi servito?

Ma tu se' degno in tutto di morire,

bench'io non aggi tuo fallo seguito:

a ciò che la tua vita non si stingua,

sieti tagliato due once di lingua. -

 

12.

El Capitano disse: - I' vi ringrazio,

ch'io veggio ben ch'io son degno di morte;

ma cento giorni i' v'adimando ispazio

prima ch'io venga a sì malvagia sorte. -

Il re lo fece di quel voler sazio;

fecel rimetter nella pregion forte;

e' poi iscrisse alla sua donna ardita

com'egli era a pericol della vita.

 

13.

Quando la donna intese le novelle

del Capitan, che più che sé l'amava,

delle mani si dié nelle mascelle;

subitamente in zambra se n'andava;

e, non potendo immaginar cavelle

dello suo iscampo, ella s'inginocchiava

divotamente dinanzi al Creatore

e piangendo dicea con gran dolore:

 

14.

- O Signor mio, ch'a Maria Madalena

tu perdonasti, non mi abbandonare,

ch'io veggio ben che la fortuna mena

il mio marito a mala morte fare;

ma, se mi doni grazia e tanta lena

ch'io di pericolo il possa iscampare,

i' ti prometto, ch' i' ho fatte assai

disconce cose, ch' i' non farò mai.-

 

15.

Così adorando si fue addormentata,

e dal cielo le venne in visione

un angiol che le dié questa ambasciata:

- Se vuoi cavar tuo sposo di prigione,

com'uom ti vesti, bene accompagnata;

va dimostrando d'esser Salamone

venuto al mondo a rinnovare leggi:

contrasto non [truoverai, s' ti] correggi. -

 

16.

Quando la donna si fue risentita,

volendo il sogno mettere in effetto,

di porpore real si fu vestita

e dice ch'era Salamon perfetto;

e la voce dintorno ne fu ita

per Lombardia e per tutto il distretto

sì come Salamone era venuto;

e per piacer di Dio era creduto.

 

17.

Appresso tolse di tutte le chiese

e raunò libri e some d'ariento,

e mille preti vecchi del paese

vestì a nero a suo comandamento,

e cento savi colle menti accese

pieni d'ogni iscienza e 'ntendimento,

e mille cavalier sergenti e fanti

che grammatica sapìen tutti quanti.

 

18.

A' preti comandò che per cammino

cantasson sempre l'ufficio de' morti

per rimembranza del regno divino

(al qual ufficio istanno molto accorti,

mostrando avere il mondo a suo dimino);

e perché in creder ciascun si conforti,

una gran palla d'or portava in mano,

in sur un bianco palafren sovrano.

 

19.

Le croci innanzi a sé mandava ritte

con istendardi di zendado nero,

con lettere e parole d'oro iscritte

sì com'egli era Salamon di vero,

figliuol del santo padre re Davitte,

da Dio mandato per cotal mestiero

per rinnovar la legge al mondo guasta.

E questo a credere alla gente basta.

 

20.

Come la gente si maravigliava

non è mestieri ch'io vel dichi quici;

ché tutto l'universo ne parlava

come tra loro iscriveano gli amici;

e tutto il chericato ne tremava

pensando perder tutti i benefici.

Giunto presso a Parigi una mattina,

gli si fa incontro il re e la reina.

 

21.

El vescovo con tutto il chericato

sì cavalcava col re sanza fallo.

Quando si furon a lui appresentato,

tutta la gente ismontò da cavallo;

piangendo di letizia, inginocchiato,

cominciano il re e gli altri a salutallo:

- Ben possiate venir, santa corona! -

Ed e' saluto non rende a persona.

 

22.

Cui Salamon mirava punto fiso,

accetto sel tenea più ch'uom vivente

e di letizia si segnava il viso

e sì diceva umile e riverente: -

Egli è venuto ben dal paradiso,

tanto ha aspetto angelico e piacente! -

Giunto in Parigi, come gli fue a grado,

col vescovo ismontò al vescovado.

 

23.

E 'n sulla mastra sala fece fare

una gran sedia con sette iscaglioni;

su vi sedea e a' pié fece istare

i gran maestri, i preti e i baroni;

e fece intorno a sé ingraticolare,

empier la sala di libri e' veroni.

Poi venne un prenze (com'egli ha ordinato),

venne dinanzi a lui inginocchiato.

 

24.

-Mercé, per Dio! Il re tiene in pregione

(ben che questo dovete voi sapello)

nostro signor ch'elli ha 'n condennagione:

a tal condennagion facciamo appello.-

Vedendo ciò, comandò Salamone

che comparisse il re di Francia ed ello:

temendo, il re comparì a mano a mano,

appresso menò seco il Capitano.

 

25.

Vedendo Salamone in suo presenza

il Capitan con la catena in gola,

dinanzi a sé fe legger la sentenza:

« Due once» dice «sia tagliata sola. »

Salamon parla, e disse: - In mia presenza

fagliel tagliare, parl' io tal parola,

due once, come tu condennato hai;

ma, se fie più o men, la romperai. -

 

26.

Ed e' rispuose: - Corona beata,

vo' conoscete più che non fo io:

o vaglia o no la sentenzia ch'é data,

vo' ch'ella si cancelli, o signor mio. -

Salamon la parola ha incorporata;

fegli trar carta e [assolver] ogni rio,

e poi appresso gli comandò e disse

che innanzi a lui ogni dì comparisse.

 

27.

E vo' che voi sappiate, o buona gente,

ched egli il fece suo procuratore;

ed egli e gli altri credean certamente

ched e' fusse mandato dal Signore

qua giù in terra, da Dio 'nnipotente,

per liberar del mondo alcun errore.

E, poi che alquanto e' si fue riposato,

Salamone dal re prese commiato,

 

28.

dicendo:- E' mi conviene andare a Roma

a correggere il papa e' cardinali,

ch' a' cherici porrò sì fatta soma

che in loro vita e' no l'ebber mai tali. -

(Sì ch'ogni chericato, sì si noma,

per me' fuggir vorrebbon mettere ali).

Onde si parte; il re l'accompagnava

quel che gli parve, e poi indreto tornava.

 

29.

Partito fue, i preti parigini,

all'uscir fuori, sì com'io intendo,

gli presentar trentamilia fiorini

e trenta palafren, s'io ben comprendo.

Gli ambasciador parlargli in ta' latini,

enginocchiati e così dicendo:

- Vi manda di Parigi il chericato,

perché voi non guardiate in lor peccato. -

 

30.

E Salamon sorridendo gli tolse,

e disse: - I' non avea mestier di questi. -

E 'nverso lor Salamone si volse

e disse: - Fate che viviate onesti - ;

e per quella fiata gli prosciolse:

e' tostamente se n'andaron presti

con allegrezza e festa a casa loro.

E Salamon ne va sanza dimoro.

 

31.

Quando arrivava a castello o a cittade,

i preti 'ncontro a lor non sono iscarsi;

de' preti erano pien tutte le strade

a presentarlo e a raccomandarsi.

El Capitan con molta umilitade

ogni dì andava a rappresentarsi,

e a sua donna iscriveva molto ispesso,

ma' non pensando come l'avìe presso.

 

32.

Giugnendo Salamone in un gran piano,

el Capitan correa un suo destriere,

e Salamon domandò a mano a mano,

benché e' conoscesse il cavaliere;

fu risposto che era il Capitano;

chiamollo a sé e disse:- Fa mestiere,

perché cavalchi tu, ch' i' non cavalco,

da oggi innanzi sie mio maliscalco. -

 

33.

E, cavalcando a lato a Salamone

il Capitan siniscalco novello,

egli il dimanda di sua condizione,

s'egli ha donna o sposa per anello.

- Monsignor sì, - risposegli il barone -

così potess'io diventare uccello!

che 'nnanzi ch'io mangiassi, i' la vedrei

con i tre bei figliuoli ch' i' ho di lei;

 

34.

però ch'io l'amo più che criatura,

ed ella così me, se Dio mi vaglia. -

Salamon disse: - Com'è tanto dura

ch'a te non viene, essendo in tal travaglia?

Ma questo è segno ch'ella non si cura

della tua morte o vita un fil di paglia.

- Ed e' rispuose : - Caro signor fino,

la testa metterei ch'ell'é in cammino. -

 

35.

Salamon disse: - Po' t'ha abbandonato

e te non cura di tue grave doglie,

tal matrimonio rompere ho pensato,

ché posso far di ciò tutte mie voglie;

e una ricca donna d'alto istato,

savia e gentile, i' ti darò per moglie. -

Ed e' rispuose: - I' non credo che sia

più sufficiente donna che la mia. -

 

36.

E così cavalcavan ragionando

che presso a Roma a tre miglia arrivaro;

el papa, e cardinali e gli altri, quando

l'ebbon sentito, incontro sì gli andaro;

e 'n sulla strada insieme riscontrando,

il papa e Salamon si salutaro.

Dicea il papa: - Ben venga il signor mio! -

Ed e': - Ben venga il vicario di Dio! -

 

37.

E poi ch'alquanto in Roma fue posato,

il papa fece con lor concestoro,

e fe' che 'l chericato ivi adunato

gli diede centomilia fiorin d'oro.

Onde allo lato il papa gli ha parlato:

- I' non so quanto farete dimoro;

ma io intendo che per ogni verso

legge mutiate in tutto l'universo;

 

38.

e tòrre al chericato e benefici

e darci poi asprissima sentenza.

Se riparare si può ta' giudici,

provveggia in ciò la vostra sapienza.

 - Salamon disse: - In Dio e veri uffici,

vivete casti e fate penitenza,

e lussuria lasciate e buon bocconi:

i' pregherò Iddio che vi perdoni. -

 

39.

Da Roma si partì colla secura,

e tanto cavalcò che giunse in Siena,

laonde il chericato per paura

partire il fece colla borsa piena.

El chericato fiorentin procura

di sua venuta, gran gioia ne mena;

incontro gli si fe' con grandi onori:

in Firenze smontò a' frati minori.

 

40.

E, riposati, alquanti giorni poi

i cherci fiorentini il dimandaro:

 - Dicci se lo giudicio tocca a noi

o se per nostro inciampo ci è riparo. -

Salamon disse allor: - Sì come voi

siete principio al dolore e all'amaro,

sarete i primi che il Signor superno

vi manderà nello prefondo eterno. -

 

41.

A' prior disse: - Questa vostra terra

chiamata Fior, farò che farà frutto;

ma, prima che sia, se 'l mio dir non erra,

 dovizia avrete di pianto e di lutto. -

E il consiglio co' prior si serra:

alcun dicea che volea ch'al postutto

e' fusse presentato riccamente;

chi n'era lieto e chi n'era dolente.

 

42.

In ringhiera levossi un calzolaio

e disse:- Io dico ch'al signor reale

non si die tanto che vagli un danaio,

poi ch'egli il manda il Re celestiale;

ma se ognun vuole istare allegro e gaio,

pigliamo il bene e lasciamo ogni male,

e 'l Signor ci darà stato perfetto. -

Ciascun rispuose e disse: - Egli ha ben detto. -

 

43.

Partissi Salamone e andò a Gagliano,

la sera se n'andò sanza menzogna;

e, riguardando intorno, il Capitano

conobbe ch'era il cammin di Bologna;

e parlò e disse: - Signor mio sovrano,

licenzia v'addimando con vergogna

ch'io possa ritornar in mio paese,

ché mio nimico è il popul bolognese.

 

44.

E Salamon allora prese a dire:

- Di questo fatto il miglior prenderemo:

quando tutta la gente fie a dormire,

verrai a me, e ciò consiglieremo. -

Quand'e' fu tempo, ed e' per ubbidire

andò a lui nella cambera; allo stremo

d'andare a letto, trovò Salamone

ignuda, e disse: - Ben vegna il barone. -

 

45.

E poi la man 'n sulla spalla gli ha messa,

e disse: - Come ha nome la tua sposa? -

Ed e' rispuose: - Ha nome Lionessa,

ch' i' bramo di veder sopr'ogni cosa. -

E disse: - Guarda s'io somiglio ad essa. -

Ed e' guardò con faccia vergognosa,

po' disse: - Signor mio, santa corona,

veder mi par la mia donna in persona. -

 

46.

Disse 'l barone: - A mente non mi reco

se non che siete della santa fede,

ché corpo uman non potrebb'aver seco

tanta biltà quanto Iddio vi concede. -

Diceva Salamon: - Or com'è cieco

chi non conosce il suo quand'egli 'l vede!

Ch'io son tua donna e tu se' mio marito. -

Ed e' per gioia cadde tramortito.

 

47.

Come fu risentito, di presente,

subitamente s'andaro nel letto

e abbracciar l'un l'altro istrettamente

e tutta notte stettero in diletto.

Al giorno Salamon tutta sua gente

accomiatò dicendo: - I' son costretto

d'andare al paradiso luziano,

dove non può venir niun corp' umano. -

 

48.

Contento di bon'are ciascun parte;

e Salamon, ch'avie mutata gonna,

secondamente che dicon le carte,

tornò a Melan vestito come donna.

Come fu giunto, scrisse in ogni parte,

insino al papa, del mondo colonna: -

Nel paradiso luzian mi ritruovo,

sì come piace a Dio per cui mi muovo. -

 

49.

Ad ogni chiesa suo libri rendette;

e conobbe da Dio grazia infinita;

enfin ch'al mondo col marito stette,

sì fero insieme santa e buona vita,

e chiese e monester fer diciassette,

ed ebbon paradiso alla partita,

alla qual ci conduca il Salvatore.

Antonio Pucci il feci, al vostro onore.

 

LA REGINA D’ORIENTE

 

Edizione di riferimento

Fiore di leggende, cantari antichi, editi e ordinati da Ezio Levi, serie prima, cantari leggendari, Gius. Laterza & figli Tipografi—Editori—Librai, Bari 1914

I prego voi che ciaschedun m’intenda,
però che questo è il fior della leggenda.

Reina d’Oriente, c. iii, ott. 1

 

La Regina d’Oriente si legge in un numero notevole di manoscritti.

K. — Codice Kirkup. Manca il primo fascicolo del codice, sicché il cantare si inizia al quinto verso della ix ott. del secondo cantare. La perdita di quelle 16 cc. deve essere assai antica, poiché due diverse mani del Quattrocento notarono in alto alla c. 17 A: « Chomincia i chantari della reina d’oriente ». Il resto segue fino a c. 24 a: sono omesse due ottave, la ix e la x del terzo cantare. Per la sua compiutezza, questo codice del Trecento che, unico, raccoglie insieme le sparse opere pucciane, e per altre ragioni, che sono state messe in evidenza dal Morpurgo, deve ritenersi assai prossimo all’autografo. Naturalmente l’ho tenuto a fondamento di questa edizione, senza per ciò obbligarmi ad una fedeltá pedissequa e cieca, perché in molti luoghi la sua lezione è meno limpida di quella di altri manoscritti, o si rivela addirittura errata.

E.— Cod. Moreniano-Bigazzi CCXIII, c. 91 B « Qui incomincia la reina d’oriente ». Le pagine 100-104, mutile, sono state restaurate dal moderno legatore e poi completate col testo dell’edizione Bonucci.

M. — Biblioteca Marucelliana di Firenze, cod. C. 265.Grosso volume cartaceo, di cc. 182, racchiuso in una dozzinale, ma an-tica legatura di cuoio e di assicelle di legno. Fu messo insieme o almeno acquistato nel Quattrocento da un amatore, nonché della letteratura leggendaria, anche del vino: da Baldese di Matteo « vinattiere alla Nave » in Firenze. La Regina d’Oriente comincia, senza titolo alcuno, a c. 49, e, a tre ottave per pagina, occupa le cc. 49-80 n; dopo di che è l’e_iplicit: « Finissi questo libro ». Pel tipo della composizione, questo volume si avvicina e si rassomiglia a quello Moreniano-Bigazzi, che pur contiene l’Apollonio e poi la Reina d’Oriente. E anche per la lezione gli si affratella; cfr., per esempio, IV, I ; V, 2 ; VI, 5-7 ; II, 3; IX, 2-3-6-7 ;X, I, 5-6-7, ecc. Sono omesse le ottave xxii e xxv del IV cantare e vi sono parecchi errori di scrittura e di interpretazione.

U. — Cod. 158 della Bibi. Univ. di Bologna. Bel vol. di pergamena del sec. xiv, scritto a due colonne, con rubriche, illustrato da F. Zambrini nella Prefazione al Libro della cucina del sec. XIV, Bologna, 1863, Scelta di curiosità letter., disp. XL), e più sommariamente dal Mazzatinti (Inv. dei mss. delle biblioteche d’Italia, xv, 156). Appartenne al pontefice Benedetto XIV. La Regina d’Oriente vi occupa 9 C. e una col. della 10a (c. 86-95 A) con circa cinque ottave per colonna: manca la fine del terzo cantare (xxxviii-l) e il principio del quarto (i-xxiii, v. 5), in tutto 35 ottave, le quali dovevano occupare per intero due carte, tra l’attuale c. 93 e la 94. Oltre questa grande lacuna, dovuta alla perdita delle due cc., il testo e mancante dell’ott. xix del terzo cantare. Questo ms. è indicato dal Bonucci col nome di « Veggettiano XV », nome che non gli appartenne mai, se non per questo che esso ebbe dal bibliotecario Liborio Veggetti la nuova segnatura 158 (e non 15) in luogo d’un’altra più antica.

Panc. — Cod. Panciatichiano XX, del sec. xv, c. 82. Contiene, anepigrafe, solo le prime 4 ottave.

T. — Cod. Tosi, del quale non conosco il destino. Questo ms., che conteneva la Sala di Malagigi e la Regina d’Oriente, dopo esser passato per le mani del bibliografo Tosi « attraverso le Alpi e la Manica, andò a cascare Dio sa dove », scrive il Rajna.

L. — Ms. posseduto dal cav. Fortunato Lanci di Roma e da lui trasmesso al Bonucci, il quale se ne servi specialmente nelle 35 ottave mancanti in U. Non so se questo testo fosse copia di un codice antico o un codice antico esso stesso, e di quale secolo, nulla dicendo il Bonucci.

Le stampe popolari della Regina d’Oriente sono così nume-rose che non spero che l’enumerazione, che ora segue, possa essere compiuta:

I (1483). — LA REYNA D’ORIENTE. — In fine: « Finita la reyna doriente adj 2 guiugno (sic) Mcccclxxxiii, In Firenze » . — In 40, 3 quad. (reg. a-b-c) caratt. tondo, 4 ottave per pagina: cfr. MOLINI, Operette bibliografiche, p.114.

II (1485). — Ediz. s. a. n. 1., in 4°, « carattere rotondo, che ha del nostro corsivo », mancante di virgole, numeri e richiami. Un esemplare fu rinvenuto alla metà del Settecento, a Napoli, da S. M. di Blasi (Continuazione della lettera del padre d. Salvatore Maria di Blasi intorno ad alcuni libri di prima stampa, negli Opuscoli di autori siciliani, t. xx, Palermo, 1778) in un ricco volume miscellaneo di stampe popolari del Quattrocento.

III (sec. xvi). — LA REGINA D’ORIENTE (gotico). — Segue un intaglio in legno, che rappresenta una regina in orazione; indi le tre prime strofe. Inc.: « Superna maestá da cui procede » Fin. alla c. lo n, seconda col., 1. 44 : « la historia è finita al vostro onore ». IL FINE. — s. I. n. a. n. t., in-40, car. romani con seg. e cust., senza num. di pagine. Le ottave sono 194, le figure 10. È posseduta dalla Bibl. di Wolfenbüttel, Miscell. n. XIV.

IV (sec. xvi). — Edizione identica alla precedente, ma posteriore; è posseduta dalla Bibl. Magliabechiana.

V (1587). — LA REGINA D’ORIENTE — In fine: In Firenze, appresso Francesco Tosi, alle Scale di Badia, 1587. In 40 di 12 cc. non numerate (Reg.: A, Aij, Aiij, B 2, A 5, A 6) a due coll., car. tondi. — Reca cinque stampe: la prima, nel frontespizio, rappresenta la regina che prega; la seconda (c. B 2 recto) la celebrazione del matrimonio; la terza (c. 6 recto) un giardino, dove il Re e la principessa si tengono per mano; la quarta (c. 9 r) e la quinta (c. io r rappresentano una battaglia di cavalleria. Le ottave sono 194: fin.: « Al vostro honor Anton Pulci I’ ha fatto ». — È nella Bibl. Palatina di Firenze.

VI (1628). — LA REGINA D’ORIENTE — In fine: In Firenze, Rincontro a Sant’Aftolinari, 1628. Con Licenza di Superiori. In-4o, di 10 carte non num. (Reg.: A-A5), a due colonne, caratt. tondo. Dopo il titolo, la medesima stampa che è nell’ediz. V, ma con diverso contorno. Un esemplare è nella Palatina.

VII (sec. xvit ex.). — Historia della Regina d’oriente, dove si tratta di molti apparecchi, trionfi e feste tra valorosi cavalieri, Bologna, Pisani, s. a., in-120. Questa edizione fu riprodotta piú volte, nel sec. xvii e xviti, s. a.: cfr. G. LIBRI, Catalogo del 1847, n. I 106; BRUNET, Manuel, IV, 957.

Moltissime sono le edizioni popolari del sec. XVIII e XIX. « Di questo poemetto cavalleresco popolare — scrive lo Zambrini, Opere volgari, col. 848 — si sono fatte in ogni tempo, e quasi direi, in ogni cittá d’Italia edizioni per uso del popolo, ma grandemente sfigurate e ridotte in tutto alla moderna dicitura ».

Oltre le numerose edizioni popolari, ne abbiamo due, che vorrebbero essere critiche e filologiche:

VIII (1862). — Historia della Reina d’Oriente di Anton (sic) Pucci | Fiorentino Poema cavalleresco del xiii° secolo pubblicato e restituito | alla sua buona primitiva lezione su testi a penna | dal dottore Anicio Bonucci. Bologna, 1862 (disp. XLI della Scelta di curiosità letterarie). — Il titolo è lungo e contiene moltissime promesse, delle quali, con mirabile sfrontatezza, nessuna è mantenuta nel libro. Il testo non è per nulla rivisto sui « testi a penna », ma è condotto sul cod. U fino al cant. III. ott. 17. Per le 35 ottave mancanti in U e per il cant. IV, ott. 23-24, l’edizione è dedotta dal testo del cav. Fortunato Lanci. Con questo pasticcio, il Bonucci si illudeva di aver scoperte le «auguste virginali bellezze » della poesia antica ; ma gli spropositi, che gli piovvero tra le carte da ogni canto, sono così numerosi e piramidali, che quella edizione resterá per un pezzo un monumento di cieca ridicolaggine. Del resto, tutti riconobbero subito di qual pregio fosse il libro del Bonucci e non gli risparmiarono rimproveri; ma egli soleva giustificarsi, dicendo che si era fatto correggere le bozze dalla serva. E qualche anno più tardi mise fuori una nuova Regina d’Oriente.

IX (1867). — Historia della Bella (sic) Reina d’Oriente, poema romanzesco di Antonio Pulci fiorentino, poeta del secolo di Dante, novellamente ristampato ed a miglior lezione ridotto sopra un testo a penna Marucelliano, in Bologna, 1867, in-8 0 , di pp. xvi-64. In fine: « In Bologna, fatta stampare dal bibliofilo Anido Bonucci, nelle case di Costantino Cacciamani D. — Ma questa edizione « riveduta » non riuscì meglio della prima e, se quella fu corretta dalla serva, « v’è da dubitare diceva argutamente lo Zambrini — non le bozze stavolta fossero rivedute dal guattero »!

Preparando questa mia edizione, le due bonucciane non potevano in alcuna maniera servirmi, se non per rappresentare, chi sa come trasfigurate, le varianti del testo Lanci, del quale ignoro la sorte ; e perciò mi sono valso senz’altro dei quattro manoscritti: K, M, E, U.

Subito la concordia nelle lezioni e negli errori tra U ed E mi avvertì che essi formano una famiglia distinta. Dove gli altri mss. hanno « ed ella fa’ » (I, 30, 7), U ed E recano insieme « appresso fa» ; — dove: « non ne pensate d’aver» (II, 33, 3) E « non v’è mestier », ed U « non vi fará mestier »; — KM « paresse » EU « tornasse » (II, 36, 7) ; — KM che fïgliuol era » _ EU « chi ’l signor era » (II, 37, 7) ; •— KM « l’ha fatto » = EU « lo fece » (II, 4o, 6) ; — K ~I « prima che ’l v’ entrasse » = EU « parea che tremasse » (III, 2. 7). — E l’ enumerazione potrebbe continuare all’ infinito.

M aderisce per alcuni tratti ad E e per altri si mostra tributario di K. Nel cant. IV 16, 7, E reca « e poi col re si mosse »; K sopprime I’« 1 », come sempre, per un vezzo di pronuncia, a e poi core si mosse »; M, malamente interpretando l’ inesatta grafia di K, storpia cosí il v.: « e poi a correre si mosse ».

K naturalmente ha un testo buono, ma non impeccabile. Molte volte la lezione si rivela una corruzione di quella data da E e M, che il senso e la rima accertano esatta: E « crescendo » = K « che sendo » (II, 29, 5); — E « s’ ella » = K « sole » (II, 43, 3); — EM « la possa » = K « la poscia » (III, r, 5); — EM « nolle » = K « nulla» (III, 28, 8); — ENI « avere isposo » = K « vero sposo» (III, 28, 7); — EM «ove il cor pogno = K «ove il compagno» (IV, 1, 6), ecc.

 

Abbiamo dunque tre tradizioni, quella di K, quella della famiglia EU e quella di M, il quale è nei passi prima arrecati tributario di K e in questi ultimi è invece da lui indipendente

PRIMO CANTARE

1

Superna Maiestá, da cui procede

ciò che nel mondo dá ogni sustanza,

e sei cortese a chiunque ti chiede

divotamente con fede e speranza;

umilemente ti chieggio mercede

che doni grazia a me, pien d’ignoranza,

ch’io rimi sí la presente leggenda,

che tutta gente diletto ne prenda.

2

Avendomi io, signor, posto nel core

di non perder piú tempo a far cantare,

un libro, che mi par degli altri il fiore,

cosí leggendo mi fe’ innamorare.

Poi che rimato l’ho per vostro onore,

pregovi che vi piaccia d’ascoltare,

però ch’io credo che a la vostra vita

sí bella istoria non avete udita.

3

Trovo che la reina d’Oriente

fu senza pari al mondo di sapere,

e non fu mai da Levante al Ponente

donna che fusse di sí gran podere.

El suo marito era vecchio e da niente,

ond’ella si facea molto temere:

era giovane e bella oltra misura,

più ch’a quel tempo fosse creatura.

4

Questa reina di grande eccellenzia

era devota ed amica di Dio,

vivea casta e facea penitenzia

secretamente e senza nessun rio,

e digiunava con gran riverenzia,

perché del paradiso avíe disio.

Ma, se al mondo avea alcun diletto,

costei li volea tutti al suo cospetto,

5

siccome s’eran canti di vantaggio

ed istormenti d’ogni condizione,

con cento damigelle d’un paraggio,

cantavan e suonavan per ragione.

Ell’eran tanto belle nel visaggio,

che agnoli parean piú chepersone.

Questo facevan quand’ella mangiava,

quando dormía e quando si levava.

6

Per guardia avea l’altissima reina

mille buon cavalier pien d’ardimento,

e mille turchi, gente palladina,

ch’eran più neri che carbone spento.

Con questa forza e con la sua dottrina,

facea sí grande e giusto reggimento,

che simil nol fe’ mai signor né dama,

si che per tutto ’l mondo avea gran fama.

7

Quando lo ’mperador di Roma intese

le sue bellezze e ’l senno, ch’avea tanto,

subitamente del suo amor s’accese,

e pensò d’accusarla al Padre santo,

acciò che a Roma andasse a far difese

per ubbidienza del papale ammanto,

dicendo: — S’ella viene in mia balia,

quel ch’io vorrò pur converrá che sia.

8

E disse al papa: — In cotal parte regna

una che fa del mondo paradiso;

e, fòr di questa, ogni altra vita sdegna,

mondan diletti vuol per non diviso.

Se questo è vero, ella è di morte degna,

e tutto ’l suo reame esser conquiso:

però richieder la fate in persona

che vegna finanzi a voi, Santa Corona. —

9

E ’l papa fu con tutti i cardinali,

e comandò che ella fusse richesta:

che comparisse in cento dì, fra’ quali

fatta avesse sua scusa manifesta,

gravandola con scritte e con segnali,

acciò che del venir fusse più presta:

che, a pena del fuoco, si movesse,

come ’l suggel papal veduto avesse.

10

E ’l messo cavalcò tanto che puose

a la reina in man quella ambasciata.

Ella la lesse, e poi sí gli rispuose:

— La tua richesta fia ben osservata,

però che sopra tutte l’altre cose

ho disiato di far questa andata,

per veder Roma e le reliquie sante,

e baciar dove il papa pon le piante.

11

Quando si partí ’l messo, un palafreno

donar gli fece con cento once d’oro;

ed ei, contento più ch’altr’uom terreno,

al papa ritornò senza dimoro,

raccontò dello stato sereno

de la reina e del suo gran tesoro,

la risposta ched ella avea fatta.

E ’l papa disse: — Questa non è matta. —

12

Lo ’mperadore, ch’avea gran vaghezza

d’udir parlar di lei, mandò pel messo,

e domandolli della sua bellezza.

Rispuose il saggio messaggiere ad esso:

— Non domandate della sua adornezza,

ché non è lingua che ’l dicesse a presso:

di nobil baronaggio e dell’avere

non ha nel mondo pari, al mio parere. ‑

13

Quando egli udiva sua biltá contare,

gli crescea voglia di vederla al core,

e spesso andava al papa a ricordare

che li facesse il termine minore.

— E s’ella vien, faretela scusare;

se non ha colpa, faccialesi onore;

ché molti giá son stati accagionati,

che sanza colpa si son poi trovati. —

14

Il papa, udendo li suoi prieghi adorni,

félli un comandamento via piú forte

che comparisse: infra cinquanta giorni,

a pena della vita, fosse a corte;

e, se piú tempo vien ch’ella soggiorni,

fará bandir lo stuol per darli morte.

Ond’ella, udendo ciò, per ubbidire,

molta sua gente a sé fece venire,

15

fra’ quali aveva principi e marchesi,

duchi, conti, baroni e castellani,

cavalieri, mercatanti e borghesi,

ed altri gentiluomini cattani;

donne e donzelle, che di lor paesi

il signoraggio avean tralle lor mani,

vedove donne, rimase contesse,

ed altre marchisiane e principesse.

16

E, ragunato ch’ebbe il parlamento,

l’alta reina in piè fússi levata,

e lesse, dopo il bel proponimento,

la lettera che ’l papa avea mandata.

Poi lesse l’altro gran comandamento

che in breve tempo fosse apparecchiata

dicendo: — Consigliate che vi pare. —

E dopo lei un conte andò a parlare,

17

e disse: — Alta reina, perch’io sono

un de’ minor del vostro baronaggio,

duomila cavalier profero e dono

per la difesa di cotanto oltraggio.

Ma, s’ io fallasse, chieggiovi perdono:

lasciate fare a noi questo viaggio.

e voi vi state con diletto e gioia.

Chi contro a ciò vuol dir, dico che muoia. —

18

Disse un marchese, che si levò poi:

— Per Dio non si sostenga tal vergogna!

Io vi vo’ dar, per difesa di voi,

tremila cavalier senza menzogna.

Dama, lasciate far la scusa a noi:

le spade acconceran ciò che bisogna.

Quand’ebbe detto, scese il parlatore.

E montò suso un grande barbasore,

19

il quale stava al fine d’Oriente,

campion de’ ner gioganti , s’ io non erro:

e disse: — Io vi darò della mia gente

duomila turchi con baston di ferro,

e vo’ morir con tutti lor presente,

se dieci tanti di lor non disserro. —

E dopo costui molti altri baroni

li proferían cavalieri e pedoni.

20

Ed ella ringraziò in lor presenza,

baroni e donne col viso giocondo,

dicendo: — Poi ch’io so la vostra intenza

lo ’ntendimento mio non vi nascondo.

Io son pur ferma di far l’ubbidienza

del papa, che è vicario di Dio al mondo:

però mi date quella compagnia,

che a voi par ch’onorevole mi sia. —

21

La gente sua, vedendola sí magna,

l’un più che l’altro andava volentieri.

ma della sua partenza ognun si lagna.

Piangon le donne, baroni e scudieri.

E ordinaron che avesse in sua compagna

ad elmo diecimilia cavalieri,

che la metá di lor fosson gioganti

dell’Oriente, neri tutti quanti.

22

L’alta reina si levò e disse:

— Grazia ne rendo alla vostra bontade:

poi comandò che, infin ch’ella redisse,

stessono in pace ed in tranquillitade.

Appresso comandò che si partisse

ciascuno e ritornasse in sue contrade;

sí che si dipartiron lagrimando,

e la reina si venne acconciando.

23

Io vo’, signor, che voi siate avvisati

che quella donna di sua terra mosse

con diecemila cavalieri armati,

che per tre tanti non temean percosse,

di pedon sanza numero pregiati

menò con seco molte schiere grosse,

mille dottor con batoli di vaio,

vestiti d’un color allegro e gaio.

24

Appresso si menò mille donzelle,

di seta d’un color tutte vestite,

di musica maestre e tanto belle,

ch’allor parean del paradiso uscite;

e mille donne per guardia di quelle,

da cui la notte e ’l di eran servite;

e mille carra coverte a scarlatto,

ch’andavano, a lor modo, piano e ratto.

25

Li carri, ch’io vi dico, eran tirati

ciascun da due destrieri ambianti e forti;

per due maestri turchi eran guidati,

attenti a’ loro uffici e bene accorti;

presso alla donna andavano ordinati

con canti e suon perch’ella si conforti;

sopra ogni carro aveva la bandiera,

lá dove l’arme di quella donna era.

26

Appresso un carro v’era d’oro fino,

tratto da dieci grossi palafreni,

lattati e bianchi quanto l’ermelino,

e d’oro aveano tutti quanti i freni;

sopra ciascuno avea un saracino,

perché soavemente il carro meni,

il qual di perle e gemme avea cortina,

e dentro si posava la reina.

27

Or chi potrebbe raccontar le some

de’ muli a campanelle d’ariento,

che ben valeano più di sette Rome?

Del trionfante e magno fornimento

se avete voglia di sapere il come,

io vel dirò, per far ognun contento,

com’ella potea far più ch’ io non dico,

se vero è ciò che conta il libro antico.

28

Per lo reame suo correva un fiume

ch’uscia del paradiso deliziano,

e pietre preziose per costume

menava, ed oro ed ariento sovrano.

Non era fiumicel, ma di vilume,

per la larghezza un miglio intero e sano,

e per lunghezza tenea trenta miglia:

se questo è ver, quel non è maraviglia.

29

E, quando a Roma giunse quella donna,

che mille turchi menava d’intorno,

e sopra al capo, in sur una colonna,

aveva uno istendardo molto adorno,

veracemente ben parea madonna

di ciò che ’n questa vita fa soggiorno;

e tutta Roma correva a furore

dicendo: — Chi sará questo signore? —

30

Quando la gente la donna vedia

piú rilucente che non è il cristallo,

e riguardò la sua gran baronia,

ch’eran con lei a piede ed a cavallo,

e le donzelle, che venían per via,

agnoli le credeano sanza fallo;

diceva l’uno a l’altro de’ romani:

— Di vero quelli non son corpi umani! —

31

E, dismontata al palagio papale,

l’alta reina, siccome saputa,

mille turchi menò su per le scale,

ché a torto non volía esser tenuta:

e, quando vide il papa naturale,

con riverenzia lo inchina e saluta;

poi disse in ginocchion con umiltade:

— Che mi comanda Vostra Santitade? —

32

Il papa disse: — Tu mi se’ accusata

di questo mondo paradiso fai,

e l’altra vita in tutto hai disprezzata

e ne’ mondan diletti sempre stai.

— Ed ella disse: — Io sono accagionata,

Padre, di cosa che ma’ non pensai,

ch’io credo in Dio e vita eterna spero:

chi altro dice non vi porge il vero.

33

Diletto prendo per considerare

eternal vita che mai non ha fine,

e penso, udendo mie dame cantare,

che debbian esser le voci divine!

E, disiando udirle, star mi pare

in questo mondo tra pungenti spine.

Di questa vita non curo una fronda;

ma, sperando aver l’altra, sto gioconda. —

34

Appresso disse: — Acciò ch’io non v’inganni,

fate cessar tutta la gente vostra. —

Quando con lui fu sola, alza li panni,

una camicia di setole mostra,

e dice: — Padre santo, quindici anni

fatto ho con questa col Nimico giostra. —

Poi mostrò un ferro in sulle carni cinto;

laonde il papa disse: — Tu m’ hai vinto. —

35

Levossi ritto e presela per mano,

dicendo: — Donna santa, grazia chiedi; —

ed ella, lagrimando umile e piano,

disse: — Per quello Iddio a cui mi diedi,

vi priego, Padre mio, Pastor sovrano,

che m’assolviate innanzi a’ vostri piedi. —

E poi che l’ebbe di tal voglia sazia,

ed ella disse: — Io voglio un’altra grazia.

36

Voglio, Santa Corona, che vi piaccia

di pregare il Signor che mi conceda,

ch’un figliuolo col mio marito faccia,

che del tesoro mio rimagna reda. —

Il Padre santo disse: — Va’, procaccia,

ché ’l ventre tuo avrà di corto preda. —

Ed ella se ne andò con gran letizia

ad albergo, al Castel della milizia.

37

Quando l’ imperadore ebbe spiato

ch’ell’era sciolta sanza suo pregare,

subitamente a caval fu montato

ed all’albergo l’andò a visitare.

E la reina l’ebbe ringraziato,

ed e’ si parte sanza dimorare,

e manda alle milizie pel maestro

de’ cavalier, sempre alla guardia presto.

38

E disseli: — Tu hai molto fallito,

che la reina ha’ messa in tal fortezza;

ma guarda pur che tu non sie tradito,

ch’ella vuol prender la romana altezza;

ché seco ha gente per cotal partito

la piú fiorita che sia di prodezza,

e Roma vuol, per aver lo papato

e per signoreggiare lo ’mperiato. —

39

Disse il maestro: — Tal cosa m’è nuova.

Ma non temete per cotal cagione;

ché, se di ciò si metterà alla prova,

farò sonare ad arme lo squillone.

Quando suona al bisogno, si ritrova

trenta milizie d’uomini in arcione,

cento legion di popol franco,

che a sua difesa non si vede stanco.

40

Le milizie sapete sono tante,

centosessanta con mille ducento,

e le legion di populi altrettanto,

sí che saria si grande assembramento,

che, se costei n’avesse sei cotanto,

di sua venuta arebbe pentimento.

Ma priego voi che, a sí fatto periglio,

mi diate il vostro discreto consiglio. —

41

Ed e’ rispose: — Fa’ che a’ suoi cavagli

sien tolti tutti e’ freni e’ loro arnesi.

Appresso, lo squillon fa’ che battagli,

e’ traditori saran morti e presi. —

Disse il maestro: — Io temo non v’abbagli

altro pensier che sopra a ciò vi pesi:

che vogli alquanto procurar sua vista,

ché mal per voi, se tal briga s’acquista! —

42

Mentre che ’l maestro tai parole dice.

a quello ’mperador venne un presente,

un altro alla sua madre imperadrice

da parte della donna d’Oriente.

Quel de lo ’mperador fu sí felice,

ch’una cittá valeva certamente;

onde e’ disse: — Piú son che ’n prima preso. —

Quel maestro di botto l’ebbe inteso,

43

e disse: — Se di donna sí gentile

amor v’ha preso, non so ch’io mi dica,

ch’ io non ne vidi mai una simile,

con tanti buon costumi si nutrica.

Se di lei volete esser signorile,

]a ’mperadrice vi fia buona amica:

manifestate a lei vostro talento,

ed ella vi fará di lei contento. —

44

Lo ’mperador, per seguitar sua voglia,

a la sua madre il fatto ebbe contato,

dicendo: — Madre, io mi moro di doglia

per la reina, che m’ha inamorato.

Se le potessi far passar la soglia

d’esto palagio, ben saria sanato. —

Ed ella, udendo allora il suo volere,

disse: — Io anderò per lei, e non temere. —

45

E l’altro dí in persona andò per lei:

e settanta reine menò seco,

e ringraziolla. Poi disse: — Io vorrei

nel mio palagio alquanto esser con teco:

non mel disdir, ch’ io non mi partirei

se ’n prima mossa non fussi con meco. —

E la reina sospettò nel core;

ma pur disse: — Io verrò per vostro amore. —

46

Poi ordinò che mille turchi armati

la seguissen vestiti come donne;

alli altri disse: — State apparecchiati

a seguitarmi, se bisogno avronne; —

e molto ammaestròe turchi velati,

e poi con quella ’mperadrice andonne,

e portò sotto una spada forbita,

che a qualunque feria, toglie la vita.

47

E, giungendo al palagio imperiale,

lo ’mperador incontro se li fece,

e per man prese la donna reale,

che di color nel viso si disfece.

La ’mperadrice, ch’era accorta al male,

menolla dentro, dove più le lece;

e poi disse al figliol: — Fa’ ciò che déi; —

e volle serrar dentro lui e lei.

48

E quelle donne turchie non lasciaro

serrar la porta, ch’érno ammaestrate:

apresso loro stavano a riparo,

e preso avean prima tutte l’entrate.

I baron del signor allora andáro,

e ispinsono le donne piú fiate,

ma no’ che le smagliassin d’ in sull’uscio,

ch’a petto loro non valeano un guscio.

49

Disse lo imperador: — Tre donne quinci

non potrete cacciar, tristi baroni!

Non fia nessun di voi che incominci

a dar lor delle pugna e de’ bastoni? —

Allor vi trasser gli scudieri e i princi,

dando e togliendo su per li gropponi:

correndo la reina a tale offesa,

e quella ’mperadrice l’ebba presa.

50

E la reina in su quella fu presta,

e mise mano a la spada attoscata,

e die’ alla ’mperadrice in sulla testa

tal colpo, ch’ella cadde stramazzata.

Nel secondo cantar si manifesta

come vi fu battaglia ismisurata,

e chi ne scampò allora in su quel tratto.

Antonio Pucci al vostro onor l’ ha fatto.

 

SECONDO CANTARE

1

Celestiale, eterna Maiestade,

che senza la tua luce mai non veggio,

s’ io sperdo il tempo in queste vanitade,

perdona a me, ch’io ’l fo per non far peggio.

Ma perch’i’ ho da me poca bontade,

della tua fonte tanta grazia chieggio

ch’io possa seguitar il convenente

di quella alta reina d’Oriente.

2

Io vi contai come lo ’mperadore

in camera era con quella reina;

e come a la sua gente con dolore

le donne turchie davan disciplina;

e come quella donna di valore

la ’mperadrice uccise la mattina:

or seguirá che diece cameriere

uccise poi per sí fatto mestiere.

3

Quando lo ’mperadore i suoi soccorse,

di sei baruni l’ un non trova sano:

e la reina fuor la zambra corse,

dicendo alla sua gente: — Ora partiáno!

E, quando la brigata sua s’accorse

ch’avea la spada sanguinosa in mano,

mison mano alle lor, ché colle pugna

infino allor battuta avean la sugna.

4

E quella donna co’ turchi velati

tornò al suo albergo sanza dimorare;

e trovò tutti gli altri apparecchiati

di ogni arnesi acconci a camminare;

e disse: — Poi che siete tutti armati,

partianci quindi, se voglián campare;

ché, se ci suona adosso lo squillone,

a rischio tutti sián de le persone. —

5

E come fu partita dal Castello,

l’alta reina al papa mandò a dire

che li piacesse rimediare a quello

che non potesserla impedimentire.

Allor suonò lo squillone a martello,

e ’l papa disse: — Ah! le convien morire,

però che questa gente son sì cani,

che duro fia campar dalle lor mani. ‑

6

E poi le scrisse: « Reina, di saldo a rischio

se’ con quanta gente hai teco,

perché lo ’mperador si è molto caldo,

e gente senza numero ha con seco.

Ma prendi vestimento di ribaldo

e torna indietro, e saraiti con meco,

tanto che sfoghi alquanto l’ira sua:

poi ti potrai tornare a casa tua ».

7

E la reina discreta ed accorta

immantanente disse: — A Dio non piaccia

che questa gente, che m’ha fatto scorta,

abbandonata sia dalle mie braccia:

’nanzi voglio esser io la prima morta,

poi che di loro ho guidato la traccia. —

E la sua gente gridava: — Campate —

alla reina, — e di noi non curate ! —

8

Disse un de’ savi suoi: — Di questa offesa,

de’ due partiti l’un convien pigliare:

o noi ci apparecchiam per la difesa

in ogni modo e ’l me’ che possián fare;

o disarmati, senza far contesa,

incominciamo mercé a domandare;

ché io son certo ch’e’ roman saranno

pietosi sí che ci perdoneranno. —

9

E la reina disse: — Al mio parere,

meglio è a fare una morte che cento;

ché, se noi ci arrendiamo al lor volere,

ne le prigioni ci faran far stento. —

E confortò la gente e fe’ le schiere,

dicendo: — Cavalier pien d’ardimento,

vogliate innanzi morire ad onore

che viver con vergogna e disinore. —

10

Lo ’mperador correndo uscí di Roma,

dicendo a la sua gente: — Siate accorti

di prender la reina per la chioma,

la strascinate insin dentro le porti;

e ciaschedun che sua gente si noma,

pedoni e cavalier sien tutti morti;

le dame ignude tutte le ispogliate,

e incontanente a Roma le menate. —

11

Quando la donna piena di bontade

vide venir lo ’mperador possente,

guardando intorno, da tutte contrade

premer si vide addosso molta gente;

ond’ella, sospirando con pietade,

iscese da caval subitamente,

e cogli occhi levati, inginocchiata,

si fu di cuore a Dio raccomandata,

12

dicendo: — O Dio, pietá di me ti prenda,

ché ciò m’avvien per voler viver casta;

ond’ io ti priego che tu mi diffenda

da quello ’mperador, che mi contrasta,

sì che di mille dame non si offenda,

la lor virginitade e non sia guasta.

Soccorrimi, Signor celestiale,

che per ben fare io non riceva male. —

13

E l’agnol, poi che l’orazione ha detta,

li apparve e disse: — Non ti sgomentare:

perché istata se’ da Dio diletta,

mandato m’ ha per non ti abbandonare. —

E poi li disse: — To’ questa bacchetta;

fra tuoi nemici sì la va a gittare,

dicendo: — Gite come fumo al vento; —

e lo tuo cor di lor sará contento. —

14

E dipartita quella santa boce,

 l’alta reina a caval fu montata,

fecesi il segno de la santa croce.

e contra e’ suoi nemici ne fu andata

Quando fu presso a !or, molto feroce

la bacchetta tra loro ebbe gittata,

dicendo come l’agnol detto avia,

e tutta quella gente si fuggia.

15

E in isconfitta a Roma se n’andâro,

non aspettando lo padre il figliuolo,

e settemilia e piú ne trafeláro

a piede ed a caval di quello istuolo,

e de’ maggior baron pochi campáro.

Di che lo ’mperador n’ have gran duolo;

e que’ de la reina molto arnese

de li roman portarno in lor paese.

16

Sentendo la sconfitta, il Padre santo

andò al palazzo dello ’mperadore,

e in camera il trovò far sì gran pianto,

che somigliante mai nol fe’ signore.

E disse: — Dimmi il fatto tutto quanto. —

Ed e’ rispuose con molto dolore:

— Il fatto è gito come voi voleste,

quando la falsa reina assolveste.

17

I’ vo’ che voi sappiate, santo Padre,

ch’ella è maestra di diabolica arte,

e le ricchezze sue tanto leggiadre

tutte le vengon da sì fatta parte;

e per tal modo uccise la mia madre

con dieci cameriere po’ in disparte;

e ora senza combatter mi sconfisse

con parole e mal cose ch’ella disse. —

18

E ’l papa, che la cosa tutta quanta

sapeva, disse: — Non mi ti scusare.

Tu m’accusasti quella donna santa,

poi la volesti qui vituperare;

perch’ella si difese, tu sai quanta

crudeltá inverso lei volesti fare.

Dio ne fe’ uno miracol manifesto,

e la reina non ha colpa in questo.

19

E poi che l’ebbe molto predicato,

lo ’mperadore tornò a coscienza,

ed a’ suoi piè, di lagrime bagnato,

s’inginocchiò con molta riverenza,

dicendo: — Padre, i’ ho molto fallato,

ond’io mi pento e cheggio penitenza.

E ’l papa l’assolvette d’ogni rio,

e benedisselo e poi si partio.

20

Appresso scrisse alla donna reale

in Oriente come il fatto istava.

Quando ella lesse la scritta papale,

fu molto lieta di ciò che contava,

perché aspettava l’oste imperiale,

de la qual cosa molto dubitava.

Quando sua gente la novella intese,

facean gran festa per tutto il paese.

21

La sera la reina di biltade

suo debito richiese al suo marito.

Rispuose il re: — Perché tal novitate?

Non mostri sanza quel tale appetito;

ché sián tant’anni stati in castitade

e or mi richiedi a sí fatto partito. —

Ed ella disse: — Io ’l fo, perché di noi

nasca un figliuol che signoreggi poi. —

22

Udendo il re cosí buona ragione, rispuose:

— Tu di’ bene, al parer mio.

Giacque collei, si ch’ella ingravidòne

in quella notte, come piacque a Dio.

E la reina poi il fatto contòne

a’ suoi baron, che n’aveano disio:

— D’un figliuol maschio io sono ingravidata;

onde di ciò si fe’ grande armeggiata. —

23

E poco istante il re si fu ammalato

e in brieve si partí di questa vita.

Di ciò si fe’ lamento smisurato,

e gran gente di brun si fu vestita;

e non si vide mai corpo onorato

come fu quel d’adornezza infinita.

Po’ che fu soppellito, di presente,

l’alta reina amaestrò sua gente,

24

dicendo: — Ciascun sia come fratello,

e niuno faccia ad alcun altro torto;

ché a doppio punirò qual sará quello

che faccia peggio perché ’l re sia morto.

Non dubitate, ché signor novello

so veramente ch’avrete di corto,

il qual sará bilancia di giustizia.—

E tutta gente n’andò con letizia.

25

Ed una ch’avea nome donna Berta,

sua segretiera istata sempre mai,

disse: — Reina, come se’ tu certa

di figliuol maschio aver, che ancor no’ l’ hai?

Iscandal nascerá di tal proferta

fra la tua gente, se femina fai! —

E la reina disse: — Tu di’ vero: ripara tu,

che ha ’l senno tutto intero. —

26

Appresso di dolore fu gravata

l’alta reina sopra a partorire;

e donna Berta savia ed insegnata

celato un fanciul maschio fe’ venire,

e in camera con quel si fu serrata,

ch’altra persona non vi pote’ gire.

Ed ella partorí quando gli lece:

or vi dirò che donna Berta fece.

27

La donna partorí una fanciulla,

che di bellezza fu maravigliosa;

e donna Berta no’ ne disse nulla,

ma fuor l’ebbe mandata alla nascosa,

e con quel maschio in collo si trastulla.

Gridando, aprí la camera gioiosa:

— Venite dentro, ché ’l signore è nato,

piú bel figliuol che mai fosse portato. —

25

E delle donne fu la calca grande

a visitar la donna lor maggiore.

Quando la boce tra’ baron si spande

che gli era nato il lor novel signore,

tutti armeggiâr con sopraveste e bande,

piú volte il giorno mutando colore:

e ciaschedun crede che maschio sia

 quel che regger dovea la signoria.

29

Levandosi del parto la reina,

fece lattar quel maschio nel palagio.

E donna Berta facie la fantina

celatamente star senza disagio;

e po’, crescendo, a foggia mascolina

la faceva vestire e stare ad agio;

sí che maschio pareva veramente

piú bel ch’altro bellissimo e piacente.

30

E quando di sett’anni fu in etade,

e la reina a donna Berta disse

che rimandasse il maschio in sue contrade,

siccome ella ordinò che vi venisse.

E poi che fatta fu suo volontade,

sí che non fu persona che ’l sentisse,

ed ella fe’ tornare la figliuola

siccome maschio, per mandarlo a scuola.

31

E disse a donna Berta: — E’ ti conviene

andar con questa fanciulla a Bologna,

però ch’io temo ch’essa sanza tene

non ricevesse biasimo o vergogna:

teco non potre’ stare se non bene.

Prendi tesoro quanto ti bisogna,

e la non dir chi sia: fálla studiare:

s’ io non mando per te, giá non tornare. —

32

Ed ella si parti con molto avere

valsene a Bologna quando puote.

Quando fu giunta, ella volle sapere

chi di scienza sape’ me’ le note.

Fu col maestro, e disseli: — Messere,

con voi vo’ porre questo mio nipote,

ché l’amo piú che mio figliuolo assai,

e qui da lui non mi partirò mai.

33

E se farete si ched egli appari

tanto che basti come voi sapete,

non ne pensate d’avere denari,

ch’io ve ne darò quanti vorrete;

si che, se non aveste più scolari,

co’ sol costui ad agio ne starete. —

Disse il maestro, udendo tal sermone:

Io ’l faro savio piú che Salamone. —

34

E poi che la fanciulla fu avviata,

ella imprende’ ciò che vedea d’inchiostro.

Se la reina n’era domandata

da’ suoi baroni: — Ch’è del signor nostro?—

ella dicea: — Ene bene — ogni fiata, 

— però che studia nel servigio vostro;

e spero in Dio che tornerá sí saggio,

che di scienza non ará paraggio. —

35

quando la fanciulla fu cresciuta

tanto, era in etá di quindici anni,

e in quel tempo suo par non fu veduta

maestra di scienza sanza inganni:

da tutta gente maschio era tenuta

per atti, per sembianti e per li panni;

e di bellezze tante in sé avea,

che molte donne innamorar facea.

36

Ed in quel tempo la reina scrisse

a donna Berta che s’apparecchiasse,

che di Bologna in breve si partisse

e come re la figliuola menasse;

e d’ un color cento donzei vestisse,

e gente a piè ed a caval soldasse,

sí che paresse bene accompagnato

il re novello d’oro incoronato.

37

E donna Berta fece incontanente

ciò che da quella lettera comprese:

vestí donzelli e soldò molta gente,

e some fe’ di molto bello arnese;

e da’ signor de la cittá presente

prese comiato, e fece allor palese

che figliuol era: donde i cittadini

l’accompagnâro più che a lor confini.

38

E, cavalcando poi, ogni cittade

gli fece onor quanto li convenia.

La madre, che sapea per veritade

la sua tornata, fece ambasceria

a tutti i suoi baron di nobiltade

ch’ognuno andasse a farle compagnia;

onde marchesi, barvasori e conti

con altra gente a caval furon pronti.

39

Poi la reina fe’ per suo contado

tutta la strada, dove dé’ passare,

quaranta miglia coprir di zendado,

e poi la piazza, ove dovia smontare,

di drappo d’oro coprir, che di rado

sí bel si vede mai adoperare.

Giunto ch’è il re, la festa e l’allegrezza

fu tal, che a dire mi sare’ gravezza.

40

Ma, poi che ’l fu ne la sedia reale,

parlamentò sí ben, che ognun da canto

diceva: — Il nostro signor naturale

parla per bocca di Spirito santo.

E certi sián che ’l Re celestiale

colla sua man l’ha fatto tutto quanto,

però ch’uscito par del paradiso. —

E ciascun si partí con giuoco e riso.

41

E lo re poi, per più chiaro mostrare

che ’l fosse maschio com’era tenuto,

apparò di schermire e di giostrare,

ed in ciascuno fu ardito e saputo.

Cantar sapeva e stormenti suonare,

di gran vantaggio l’arpa ed il liuto:

sí che di sua virtù per ogni verso

fama n’andò per tutto l’universo.

42

Ed in quel tempo avia lo ’mperadore

una figliuola grande da marito;

e disse al papa un dì: — Santo pastore,

mia figliuola vorrebbe anello in dito;

ond’ io ne sto in pensiero a tutte l’ore,

poi che non so chi sia di tal partito:

se ne sapete alcun, che a lei si faccia,

di maritarla priego che ’l vi piaccia. —

43

Sapendo il papa la magnificenza

de lo re d’Oriente e sua vertute,

disse a lo ’mperador la convenenza.

— Questi sará di tua figlia salute:

però che, s’ella ha bella appariscenza,

odo ch’egli ha tutte virtù compiute:

da lui ’n fuor, non sa in cristianitade

chi degno sia di tanta nobiltade. —

44

Lo ’mperador ne fu molto contento.

e lettere fûr fatte e suggellate,

e per ambasciador di valimento

a lo re d’Oriente fûr mandate.

E lo re l’accettò di fin talento;

poi disse a que’ messaggi: — Or m’aspettate;

e poi le lesse in zambra saviamente,

con donna Berta e la madre presente.

45

Quando leggendo intende la scrittura,

come lo ’mperador gli vuol dar moglie.

non sentendosi maschio di natura,

egli e la madre parean pien di doglie.

E donna Berta s’ impromette e giura

di riparare a ciò, sed e’ la toglie;

dicendo: — Scusa parrebbe disdegno,

onde distrutto saria questo regno. —

46

E lo re fe’ chiamar l’ambasceria,

e disse lor: — Signori, in veritade,

che tutto ’l tempo della vita mia

promesso aveva a Dio verginitade;

sí che per tal cagion grave mi fia

offender la divina Maestade:

ma, per aver con lui perfetta pace,

son per far ciò ch’allo ’mperador piace.

47

E fece ragunar sua gente apresso,

e in parlemento fe’ dir l’ambasciata,

e tutta la sua gente gridò ad esso:

— Facciasi ciò che dice la mandata. —

E, fatto nel Consiglio il compromesso,

per cavalcar si fe’ l’apparecchiata.

Quando il re fu per mover la mattina.

s’inginocchiòe e disse alla reina:

48

— Forse che più non mi rivedi mai;

ond’io ti cheggio la tua benezione. —

E la reina allor mise gran guai,

e cadde in terra per quella cagione.

E donna Berta le disse: — Dove hai,

reina, il senno e il core di lione? —

E la reina disse: — Omè! non dire,

ch’io veggio andar la mia figlia a morire.

49

Perch’io uccisi, donde son corrucciosa,

la madre di colui che ’l mondo regge.

Se il nostro re si spoglia con la sposa,

e’ non fia quel che ’l matrimonio legge,

se torna in palese questa cosa,

ad aspra morte il condanna la legge! —

Rispose donna Berta: — Non dottare,

ché il re con lei qui san credo menare. —

50

E la reina allor l’ha benedetto,

ed el con donna Berta fu partito,

e cogli ambasciator di tale effetto,

e con altri baron, che l’ han seguito.

Nel terzo vi dirò come nel letto

la moglie molto lusingò il marito,

pognam che poco valse il lusingare.

Al vostro onore Antonio fe’ ’l cantare.

 

TERZO CANTARE

1

Io prego Iddio, che ’nfino a qui m’ ha dato

lo ’ngegno di rimar sí bella storia,

che non guardi secondo il mio peccato,

e doni grazia nella mia memoria,

sí ch’io possala, come ho incominciato,

a tutta buona gente far notoria;

e priego voi che ciaschedun m’intenda,

però che questo è ’l fior de la leggenda.

2

Signori, i’ dissi nel cantar secondo

come lo re si mosse d’Oriente:

or mi convien seguir come giocondo

a Roma giunse con tutta sua gente,

ché ’l non fu mai signore in questo mondo,

che comparisse tanto adornamente:

ché tutta Roma, prima che ’l vi entrasse,

dalli stormenti parea che ’ntronasse.

3

Il papa, e’ cardinali, e’ gran prelati

e tutta baronia imperiale

incontr’ a quel signor ne fûro andati

con allegrezze e festa generale.

E, quando insieme furon iscontrati,

ismontar vuole quel signor reale

a piè del padre santo; ond’egli disse:

— Sta’ su, figliuolo! — e poscia il benedisse.

4

Entrato in Roma, tutte le persone

si maraviglian della sua bellezza,

dicendo: — Questi è piú bel che Assalone,

ed angiol par de la divina Altezza. —

E ’l santo papa seco nel menòne

al suo palagio, ché ne avea vaghezza;

e, dismontato, sempre donna Berta

vuol presso a lui, perché di senno sperta.

5

E, poi che il re si fu posato alquanto

ragionato col sommo pastore,

quando fu tempo, disse al padre santo:

— Andiamo a corte dello ’mperadore. -

E fûrsi mossi e cavalcaron tanto,

che giunti fûro al palazzo maggiore;

isceson da caval, salîr la scala,

lo ’mperador trovâro in su la sala.

6

E lo re corse e gitòlisi a’ piede,

e salutollo da parte di Dio.

Lo ’mperadore, che sí bello il vede, disse:

— Ben sia venuto ’l figliuol mio!

Poi ch’è piaciuto al papa, sua mercede,

se se’ contento tu, son content’ io. —

Rispose il re: — Santissima Corona,

io sono vostro in avere e in persona. —

7

Lo ’mperadore allor chiamò la figlia,

e dimandolla se per sposo il vuole.

Ella, che inver’ di lui alzò le ciglia,

e rilucente il vide piú che ’l sole,

rispose, tutta di color vermiglia:

— O padre mio, perché tante parole?

poiché a voi piace, ed io ne son contenta.

Ma lo ’ndugiare è quel che mi tormenta. —

8

Il padre tenne il dito a la donzella,

presente molti re, conti e marchesi ;

e lo re la sposò con cinque anella

più rilucenti che carboni accesi,

e valean più di quindici castella,

de le miglior di tutti que’ paesi ;

e se ne fece festa in tutta Roma,

tal che per tutto il mondo ancor si noma.

9

El papa fu partito di presente,

da poi che vide la donna sposata.

Il nuovo sposo poi celatamente

madonna Berta a sé ebbe chiamata;

e’ ragionò della sera vegnente, dicendo:

— Poi che qui sono arrivata,

come farò con quella, che nel letto

stasera aspetta aver di me diletto? —

10

Ed ella disse: — Quando se’ alle prese,

lussuria spregia, loda virginitade;

il matrimonio, di’, fatt’ hai palese

per non aver col padre nimistade;

forma di maschio mostri in tuo paese,

per me’ signoreggiar le tue contrade.

E sappi tanto dir, che la converta

teco a tener virginitá coperta. —

11

La sera, poi che ’l re ebbe cenato,

le donne si ’l pigliâro senza posa;

l’ebber di peso in camera portato,

dove aspettava con desio la sposa.

E poi che dentro fu con lei serrato,

ed ella disse alquanto vergognosa:

— Spogliatevi, messer, ché vi posiate

prima che a noi le donne sian tornate. —

12

E lo re disse: — Va’ inanzi a dormire,

però ch’ a Dio vo’ fare orazione. —

E poi s’inginocchiò e prese a dire:

— O Signor mio, — con gran divozione, —

poi che per questo mi convien morire,

alla mia gente campa le persone:

poi ch’io virginitade t’ ho servata,

l’anima mia ti sia raccomandata. —

13

E poi, tremando tutto di paura,

da l’altra parte si fu coricato.

E quand’ella fu assai stata alla dura,

disse: — Messer, molto avete fallato.

Per tener questi modi non si giura

il matrimonio, da Dio comandato

anzi per generare e far figliuoli. —

E ’l re piangendo disse con gran duoli:

14

— Tu se’ figliuola peggio maritata

che niun’altra che nel mondo sia;

ed io sono colei che t’ ho ingannata,

come udirai contra la voglia mia. —

E tutta la novella ebbe contata,

piangendo fortemente tuttavia,

e disse: — Come tu, femina sono;

di morte degna son, cheggio perdono. —

15

Appresso disse come donna Berta

gli avea insegnato con la mente greve;

e la fanciulla, per esserne certa

(ché non credeva al suo detto di leve),

tutta dal capo al piè l’ebbe scoperta,

che parea pure una massa di neve;

poi li disse, quando ben l’addocchia:

— Non pianger piú, ch’io ti sarò sirocchia.

16

E insieme si promison d’osservare

virginitá, mostrandosi contente,

e cotal cosa non manifestare

in tutta la lor vita ad uom vivente:

poi s’abbracciâro in poco dimorare.

E ne la zambra ritornò la gente,

la qual danzando era gita intorno;

sí che levârsi, ch’era presso ’l giorno.

17

Lo ’mperador la figlia ebbe chiamata,

perché la vide cosí lieta in viso,

e disse: — Figlia, come se’ tu stata? —

Ed ella disse: — Me’ che ’n paradiso. —

E similmente a chi l’ ha domandata,

a tutti dicea: — Bene, per mio avviso. —

E cosí dicíe ’l re, c’ ha senno assai :

— I’ son contento più ch’i’ fossi mai. —

18

E, poi che donna Berta ebbe sentito

la mattina dal re la veritade,

disse: — Poinam che l’abbi convertita,

in femina non è stabilitade;

si che facián di qui tosto partita. —

Ed e’ rispose: — Apparrebbe viltade! —

Ed ella disse: — Io farò la bisogna

per modo tal, che non ci sia vergogna.

19

E fe’ fare una lettera, mostrando

che la mandassi la vecchia reina,

ne la qual contenea, breve parlando:

« Sappi, figliuol, che la mia vita fina.

Da poi che mi lassasti sospirando,

non posai mai né sera né mattina:

però, se metti di mia vita cura,

fa’ che ti mova, letta la scrittura ».

20

E, quando il re fu posto a desinare,

la lettera gli fu appresentata.

Leggendo, incominciò a lagrimare;

onde tutta la corte fu turbata,

e presto fu levato da mangiare.

Ed allo ’mperador l’ebbe portata,

dicendo: — E’ mi convien partir da voi.

— Egli la lesse, e risposeli poi:

21

— Tu hai cagion, ch’io non sarei colui

che ti volessi tenere qui a bada;

va’ tosto, muovi, e la cagione altrui

non dir perché, né dove tu ti vada. —

Disse la sposa: — Io voglio ire collui. —

Ed el rispose: — Fa’ ciò che t’aggrada. —

E féllo accompagnar da molta gente.

E ’l re la ne menò in Oriente.

22

E, trovando la madre fresca e sana,

fe’ dimostrar corne fosse guerita.

Per lo tornar del re, l’alta sovrana

un anno tenne o più corte bandita.

Quando n’andò la baronia romana

fe’ lor ta’ doni, si ch’alla reddíta

a lo ’mperador disser: — Signor nostro,

signor del mondo pare il gener vostro.

23

E, quando donna Berta ebbe ridetto

a la reina come ’l fatto era ito,

molto si contentò, poiché ’l difetto

del re non era per altrui sentito.

La sposa avea col re maggior diletto

ch’al mondo avesse mai moglie e marito;

e ’l padre suo n’avea lettere assai,

ch’ella si contentava più che mai.

24

Poi che due anni inseme fiero state,

amandosi l’un l’altro d’amor fino,

per lo gran caldo avvenne un dí di state,

ch’ell’erano spogliate in un giardino.

E donna Berta le trovò abbracciate,

e riprendéle per aspro latino;

ed elle disser: — Vanne, vecchiarella,

ché non cape tra noi più tua novella. —

25

E donna Berta allor, molto adirata,

fra suo cor disse: — Io ne farò vendetta. —

Subitamente a caval fu montata,

ed a Roma n’andò con molta fretta,

ed allo ’mperador fu appresentata,

e tutta la novella gli ebbe detta,

dicendo: — La tua figlia è ancor pulcella,

e femina è lo sposo sí com’ella. —

26

Ed el rispose: — Io mi maraviglio

ch’ella abbia avuta in sé tanta malizia! —

Di ciò prese co’ savi suoi consiglio,

i quali, accesi tutti di nequizia,

dissero ognuno: — Gli si dia di piglio,

poi se ne faccia un’aspra giustizia.

— Disse il signor: — Se questo fia palese,

condanno al fuoco lui e ’l suo paese. —

27

Appresso scrisse, come savio e dotto,

a la figliuola ed allo re d’Oriente,

che, veduta la lettera, di botto

il visitasser, ché sta gravemente.

A la figliuola e al re non parve motto,

e montâro a caval subitamente

con molta gente, e tanto cavalcâro,

ch’a la cittá di Roma si trovâro.

28

Lo ’mperadore fe’ di lor venuta

festa e gioia, mostrandosi guarito:

poi domandò la figliuola saputa

s’egli era maschio o femina il marito.

Ed ella si fu allor molt’aveduta,

e disse: — Padre mio, egli è fornito

di ciò che a vero sposo si richiede. —

Ed el per tutto questo nolle crede.

29

Ed ordinò d’andar fuori a cacciare

e di menar la figlia e ’l suo compagno,

e disse a’ servi: — Fate ch’al tornare

per loro in sala fatto truovi un bagno. —

E questo fe’ per vederlo ispogliare,

mostrando a lui di farli onore magno.

Poi cavalcò, e il re siguí la traccia,

non sapendo perché facea la caccia.

30

Disse un, ch’andando li si accostò allato:

— Lo ’mperador vuol far la cotal prova,

ed havvi ad aspra morte condannato,

se natura di femina vi trova.

— S’ io fussi a piè, il t’averei mostrato ! —

rispose il re, — ma di questo mi giova. —

E con letizia aspettò il convenente:

poi si partí da lui cortesemente.

31

Cacciando poi per una selva scura,

el re andava pur acqua cercando

per affogarsi, per la gran paura

ch’avea d’essere giunto in cotal bando.

Non trovand’acqua in quella valle dura,

iscese, non potendo ir cavalcando;

e, poi da sé ’l cavallo ebbe cacciato,

fussi nascoso in quel chiuso burrato.

32

Piangendo poi ficcò in terra la spada,

e diceva, adorando a quella croce:

- Poi che di tôrmi la vita t’aggrada,

pregoti Cristo con pietosa voce

che la mi togli qui, si ch’io non vada

a morte sofferir tanto feroce. —

In quella venne un cerbio per la valle,

bussando colle corna e colle spalle.

33

Giugnendo il cerbio inanzi a lui, soggiorna.

Il re teme che fosser cavalieri;

ed apparigli un angiol fra le corna,

dicendo: — O re, non ti dar piú pensieri:

arditamente alla cittá ritorna,

e colla sposa fa’ ciò ch’è mestieri,

ché tu se’ maschio per grazia di Dio,

ed hai ciò che bisogna; — e poi sparìo.

34

E ’l re pose la mano a sua natura,

com’ebbe inteso l’angiol prestamente,

e ritrovossi sí fatta misura,

che comparir poteva arditamente.

Di che molto nel cor si rassicura,

e cominciò a cantar divotamente:

- Te Deum laudamus; — e, poi si fu armato,

partissi da quel luogo ov’ era stato.

35

Lo ’mperador, che nol trova la sera,

a Roma fe’ bandir senza dimoro

che ’l si cercasse con gran luminera

per quella selva, la notte, ogni foro;

e chi ’l trovasse in alcuna maniera,

da corte arebbe poi mille once d’oro;

sí che gran gente la selva cercava,

e la sua sposa, che piangendo andava.

36

E quando venne sú l’alba del giorno,

cercando per la selva, ebber udito

cantar quel salmo, ch’è cotanto adorno,

in quel vallon, ché ancor non era uscito.

Per quella voce andâr tanto dintorno,

che ritrovâro il re, ch’era smarrito.

Se la moglie fu lieta in su quel tratto,

ben sarà pia com’ella saprá il fatto.

37

E come il re fu montato a cavallo,

la novella a Roma inanzi gia,

com’ el tornava piú chiar che cristallo

con la sua sposa e con la baronia,

lo ’mperadore spera senza fallo

farlo morir, se quel che crede sia,

come giunse quel signor sovrano,

lo ’mperador li disse a mano a mano:

38

— Perché ti déi sentir alcuna doglia,

non ti vo’ dimandar, se non ti posi;

ma di presente in quel bagno ti spoglia,

che v’ é unguenti molto preziosi. —

Spogliossi il re, ché n’aveva gran voglia,

per far le donne e quei baron gioiosi,

mostrò lor si bella masserizia,

che tutta gente si ne fe’ letizia.

30

Lo imperador, di voluntate acceso,

la gente caccia e poi al re dicia:

— Dove andastú? — Ed ei disse:

— I’ fu preso nella foresta d’ Enoc ed Elia,

che con certi altri mi portâr di peso

dove si sta con gioia tuttavia:

ciò fu nel paradiso luziano,

dov’era Salamone allegro e sano,

40

el qual mi disse ch’a voi era detto

ch’io femina era, e non disse da cui.

Sí ch’io lassai quel loco benedetto,

per trar d’errore voi ed anche altrui;

e quei, che mi portáro, con effetto

mi puoser lá dov’ i’ trovato fui. —

Disse lo ’mperador: — Lasciamo andare:

tu m’ hai contento; vatti a riposare. —

41

E la mogliere soffreria gran pena

del gran disio di trovarlosi in braccio,

perché di prima sapeva la mena,

e non sapeva poi il suo procaccio,

presel per mano e in camera sí ’l mena,

dicendo: — Amore, andiamci a letto avaccio!

Poi fér nel letto l’amorosa danza,

come tra moglie e marito è l’usanza.

42

Poi ch’ell’ebbe assaggiato quell’uccello,

disse: — Amor mio, onde avestú questo? —

Ed e’ rispuose: — L’angiol Gabriello,

come Dio volle, me ’l fe’ manifesto.

Non maraviglia s’egli è buono e bello —

dissele, — se dal ciel venne sí presto.

E lo re disse: — Vorrei ch’al presente

tornassimo a mia madre in Oriente. —

43

Ed ella fu contenta, e ’l giorno poi

disse allo ’mperadore il suo disio:

— Concedi, padre, in quanto non ti nòi,

ch’i mi diparta col marito mio. —

Ed ei rispose: — Quando piaccia a voi,

andate con la benezion di Dio. —

Ond’ei s’apparecchiâro di vantaggio

e dipartirsi con gran baronaggio.

44

Ed una, ch’era la maggior reina

che in que’ paesi allor fussi trovata,

chiamata era la Donna della Spina,

s’era al bagnar del re innamorata,

e pensò di pigliarlo se ’l camina;

ond’ella molta gente ha ragunata

alla sua ròcca donde dovea gire.

Quando fu giunto ed ella gli fe’ dire:

45

— Il signor d’esta ròcca m’ha mandato,

che parlar vi vorrebbe, se ’l vi lece. —

Ed e’ rispuose: — Sono apparecchiato. —

Uscì di schiera e contro le si fece.

Ed ella, come cavalieri armato,

andò ver’ lui ben con piú di diece:

ché n’avea seco ben dieci migliaia;

il re se’ mila e cinque centinaia.

46

Com’ella giunse ed ella a lui, il prese

per man, dicendo: — Venite a posare.

— Perdonami, messer, ché in mio paese —

rispose il re — ho fretta di tornare. —

Ed ella, ragionando alla cortese,

ad arte il fe’ alla ròcca appressare.

Quando si vidde da sua gente forte,

si ’l mise dentro e poi serrò le porte.

47

Poi disarmata, disse: — Quando ignudo

bagnar vi vidi, fu’ presa d’amore;

onde vo’ che vi piaccia, caro drudo,

ch’io sia la donna e voi siate il signore.

Ed e’ rispose con aspetto crudo:

— Ogni pensier te ne leva del core;

ch’i’ sofferrei innanzi d’esser morto

che fare alla mia donna sí gran torto.

48

E la falsa reina gli die’ bere

un beveraggio, ond’el fu addormentato.

Poi comandò alle sue camerere

che ignudo fusse subito spogliato.

E messo in letto e fatto il suo volere,

ed ella allor vi si coricò a lato:

poi l’abbracciò e con suo argomento

el fe’ destar d’amoroso talento.

49

E lo re, desto, le baciò la bocca

e fe’ piú volte la danza amorosa,

conciosiacosaché ognor che la tocca,

esser si crede con la vera sposa.

Poi che in prigion si vede nella ròcca,

forte piangendo, non trova mai posa,

né parole el confortan né vivande,

e fuor della ròcca era il pianto grande.

50

La ròcca era si forte, che battaglia

da niuna parte vi si potea dare.

Signor, pensate se briga e travaglia

quella donn’ebbe al marito ad acquistare.

Intendo dirvi nell’altro cantare

come vi pose l’oste di gran vaglia

e come vendicò sí fatto scherzo.

Antonio al vostro onor finito ha il terzo.

 

QUARTO CANTARE

1

Benché pe’ templi i’ t’abbia, Signor mio,

tanto pregato, ch’io me ne vergogno,

ancor ti prego, onnipotente Dio,

che mi soccorra, ch’i’ n’ ho gran bisogno;

sí ch’io possa fornire el mio disio

della presente storia, ove ’l cor pogno,

e dammi grazia ch’io dica sí bene,

che piaccia a chi per ascoltarmi vene.

2

Io vi contai, signori e buona gente,

siccome nella ròcca della Spina

menato preso fu ’l re d’Oriente

da quella potentissima reina.

Or vi dirò siccome fu valente

la moglie, che di fuor campò tapina,

ch’a la madre del re scrisse il tenore,

e per gente mandò allo ’mperadore.

3

Quando Io ’mperador vide l’oltraggio

che la figliuola aveva ricevuto,

tre legioni di franco baronaggio

mandò subitamente in suo aiuto,

diecimilia pedoni di vantaggio

con un buon capitan molto saputo,

il qual cerchiò la ròcca atorno atorno

e non se ne partía notte né giorno.

4

Quando la donna d’Oriente intese

che a quella ròcca preso era ’l figliuolo,

a tutta gente debb’esser palese

se la sentí nel cor letizia o duolo.

Poi che fornita fu di quello arnese

che bisognava, menò grande stuolo

di gente seco, e tanto cavalcòne,

che giunse ove el figliuolo era in prigione.

5

E domandò come gli era fornita

la ròcca, ch’esser forte dimostrava.

Fulle risposto: — Ell’è sí ben guernita,

che tutto ’l mondo non cura una fava. —

E la reina saputa ed ardita

da più parte d’intorno ordinò cava;

e fu la prima che mai si facesse a terra,

che per cave s’arrendesse.

6

Tre mesi e piú fatt’era giá l’assedio,

quando le cave giunsono alle mura;

poi che tagliato fu ’l forte risedio,

fe’ dare una battaglia forte dura;

per la cava intrâr, sicché rimedio

non ebbon contro alla gente sicura:

sí che la ròcca co’ lo re acquistorno,

molti prigionieri ne menorno.

7

Tornossi a Roma la gente romana,

di che a lo ’mperador fu gran dolcezza:

la figlia, il re con sua madre sovrana,

in Oriente andâr con allegrezza.

E quella donna, che fu sí villana,

si féro incarcerar con molta asprezza,

e incatenar con molti suo’ baroni,

che della ròcca menarno prigioni.

8

Poi la reina vecchia ebbe chiamato

il suo figliuolo, e poi si fe’ mostrare

s’egli era vero quel gli era contato

che avessi quell’uccel da pizzicare.

E, poi che l’ebbe il suo cuore appagato,

una gran festa si fe’ apparecchiare

di giostra e d’armeggiare e di schermire,

e molti gran signor vi fe’ venire.

9

Perché tal festa era cotanta magna,

de’ carcerati non era menzione.

La donna un dí col suo guardian si lagna,

e d’un servigio umilmente il pregòne.

— Ciò che vi piace ed a vostra compagna —

rispose, — fuor che trarvi di prigione. —

Diss’ella: — Un guanto in piazza alto m’appicca,

e poi mi sappi dir chi lo ne spicca. —

10

La guardia poi la mattina per mancia

fe’ suo volere, e poi guardò da canto.

Giungendo in piazza, disse il re di Francia:

— Battaglia dimandar si de’ quel guanto. —

Appresso corse e spiccòl dalla lancia,

poselsi in capo dicendo: — Io mi vanto

di questo guanto osservar la proposta. —

La guardia tornò e disse la risposta.

11

Ed ella tosto scrisse a quel signore,

dicendo: « La reina Galatea

è ’ncarcerata per colpa d’amore,

come se fossi pessima giudea.

Onde ti priego col tuo gran valore

di trarmi di prigion cotanto rea;

ché tu ’l de’ far, però che ’l promettesti,

quando di piazza il mio guanto prendesti ».

12

E, ricevuta la lettera e letta,

la pose in mano a lo re d’Oriente.

Ed el si scusa e po’ co’ molta fretta

liberò lei con tutta la sua gente:

perché, sappiate, s’ella era soletta,

secento cavalieri avea presente,

e’ quali ebbon ogni loro arnese,

gli altri suoi moriro alle difese.

13

E, quando ella si vide liberata,

rendéne grazie a cui si convenía,

e di presente sí si fu avviata

al torniamento de la baronia.

Poi corse ad uno albergo e lussi armata

con arme travisate, ch’ell’avía,

ed a ferir nel torniamento andava,

iscavalcando quanti ne trovava.

14

Dando e togliendo, quel dí fu mestieri

che rimanesse a lei quel campo adorno;

ciascun dicia: — Chi è quel cavalieri

c’ ha fatto sí ben d’arme in questo giorno?

E molti, per uscirne di pensieri,

quando si disarmò, furonle intorno,

e quattro re di lei innamorâro,

i quai per astio a morte si sfidâro.

15

E, quando questo pervenne a l’orecchia

de lo re d’Oriente, la mattina

disse alla madre: — D’arme s’apparecchia

tutta la gente per questa reina. —

Rispose allora la reina vecchia:

— Che s’accomiati questa paterina;

e questi signor poi si partiranno:

s’ella qui sta, ci potrebb’esser danno.

16

Poi li mandò a dir ch’ella venisse

al palagio del re sanza fallire.

Andò ’l messaggio, ritornò e disse:

- La donna dice che non vuol venire. —

E la reina allora maladisse

chi l’avea fatta di prigione uscire;

e poi co’ re si mosse in su la sera.

ed andò fino a lei, dove la era.

17

E disse: — Donna, per lo tuo migliore,

pártiti quinci e vanne alla tua via:

io non potre’ raffrenar il furore

che ti vien contro della gente mia. —

Rispose quella donna traditore:

- Di grazia v’addimando in cortesia

che mi scorgiate fin fuor della porta,

sí ch’io non sia da vostra gente morta. —

18

E lo re disse: — Molto volentieri,

quanto bisogna, ne verrem con teco. —

Disse la madre: — Io vo’ piú cavalieri,

ché ’l re n’ ha qui forse dugento seco. —

Rispose quella: — Non mi fa mestieri,

ché n’ho secento ben armati meco. —

E la reina e ’l re sanza paura

l’accompagnaron fuori delle mura.

19

quando dilungati fûr due miglia,

e la reina allor prese comiato;

e quella donna in persona la piglia,

com’ella avea con sua gente ordinato.

E ’l re con la reina e lor famiglia

fûr presi e tolto lor l’arme da lato.

E tanto va, che nel suo paese entra,

in una terra chiamata Valentra.

20

E tutta quella gente incatenata

subitamente sí fa incarcerare,

e disse al re: — Quando fu’ innamorata,

ti presi per tenerti a solazzare,

e nella ròcca mia fui assediata,

e poi sa’ quel che mi facesti fare.

Si ch’io farò di te aspra vendetta,

or ch’io non son dell’amor tuo costretta.

21

E la sposa del re, non ritrovando

il re né la reina per le strade,

a’ forestier mandò di botto il bando

che subito sgombrassin la cittade.

Onde, per ubbidir il suo comando,

ciascun si ritornò in sue contrade:

sentendo poi che il re non si sapea,

per tutto l’Oriente si piangeva.

22

E lo re, ch’è in pregion sanza conforto,

volendo scrivere allo ’mperadore,

disse la guardia: — Messere, egli è morto,

e tutta Roma è ad arme in grand’errore. —

E lo re, come savio e molt’accorto,

scrisse alla donna sua tutto il tenore,

sí come e dov’egli era imprigionato,

ed un corrier segreto ebbe mandato.

23

Come la donna sua sentí l’effetto,

non potre’ dir com’ella fu dolente,

e fe’ venir di tutto il suo distretto

a piè ed a caval di molta gente,

e con molti baron sanza difetto,

mastri di guerra, mosse incontanente;

e tanto cavalcò per tal partito,

che giunse ov’era ’n prigione il marito.

24

E la cittá con la sua gente serra,

sí che non vi può né entrare né uscire;

e sei mesi vi fece sí gran guerra,

che i cittadin, che non potêr soffrire,

aprir le porte e diedero la terra;

e la sposa del re, piena d’ardire,

liberò la sua gente, e poi ne mena

presa colei che gli ha tenuti in pena.

25

E, passando una selva molt’alpestra,

e quella donna falsa e frodolente,

sí come d’arte magica maestra,

un fuoco fe’ venir subitamente,

ch’ardea la selva a sinistra ed a destra;

onde color temeano fortemente,

e disser: — Poi che non possiam passare,

torniamo a dietro e passerén per mare. —

26

E, quando giunti furono alla riva,

e quella donna, che campar s’ingegna,

fe’ che per mar l’esercito veniva,

ed ogni legno avea di Roma insegna.

Un messaggier, che dinanzi appariva,

a lo re d’Oriente si rassegna,

dicendo: — I roman vegnon per difesa

di questa donna che menate presa. —

27

E lo re sopra a ciò prese consiglio,

e la reina cominciò a parlare:

— Da poi che Dio n’ ha tratti di periglio,

a me parrebbe di lasciarla andare. —

Mandárla via, e poi non giro un miglio,

che quel navilio tutto quanto spare:

allor s’avvidde il re del convenente,

tornòne co’ suoi in Oriente.

28

E, giunto a casa, il re fece bandire

per tutto ’l suo con gran comandamento,

che ciascun gisse alla corte ad udire

il re, che far voleva parlamento.

E, quando fûr venuti, prese a dire,

tutto dal fine allo ’ncominciamento,

gl’inganni e ’l tradimento che gli avea

fatti quella regina Galatea.

29

Quando la gente suo detto riguarda,

gridaron tutti ad una voce, forte:

— Mandisi l’oste di gente gagliarda,

che con vittoria tornino alla corte !

Tutta sua terra si disfaccia ed arda,

e diasi a lei co’ suo’ seguaci morte! —

Il re gli ringraziò delle proposte,

e di presente fégli bandir l’oste.

30

E quando fue tale novella nota

a quella, come l’oste era bandita,

perché di Macometto era divota,

subitamente a Roma ne fu ita,

e inginocchiossi a piè della sua ròta,

dicendo: — Se tua forza non m’aita,

dallo re d’Oriente, che mi sprona,

ch’ i’ son per perdere avere e persona,

31

dappoi che ’l m’ ha bandita l’oste

addosso: ond’io ti priego che in mia difensione,

poi ch’io da lui difender non mi posso,

mandi un de’ tuo’ baron per mio campione. —

Rispose Macometto: — Gli è già mosso

quel de la sinagoga, Ronciglione,

di cui temerá tanto il re co’ suoi,

che ’l non s’ impaccerá de’ fatti tuoi.

32

Ed ella si partio lietamente,

poi ebbe Macometto ringraziato;

e quel dimonio giunse in Oriente,

ch’agevol cosa gli era esserv’andato.

Perché sappiate di suo convenente,

i’ vi dirò com’egli era adobbato:

forma avea di giogante, sua grandezza

quindici braccia e quattro di grossezza,

33

ed era tutto ner come carbone,

gli occhi avea rossi come foco ardenti.

E cavalcava un orribil roncione,

sei braccia grosso e lungo più di venti.

Quattro leon legati avíe a l’arcione,

e un’anca, di dolor, mordea co’ denti

semila porci all’intorno, con zanne

fuor della bocca più di quattro spanne.

34

E come fu nella città reale,

e que’ porci si sparser per la terra,

la gente fuggia su per le scale,

e per paura in zambra ognun si serra;

e’ porci divoravan per le sale

ciò che trovavan, se ’l libro non erra.

Uomini e donne erano sbigottiti,

e molti per temenza son fuggiti.

35

Giugnendo in piazza l’orribil giogante,

lá dove molta gente armata avea,

perché egli avea sí feroce sembiante,

sbigottiva chiunque lo vedea.

Giudicandosi morto, il re davante

gli venne e dimandòl quel che volea;

ed e’ rispose: — Io sono un de’ Balbani

di Macometto, iddio degli romani,

36

el qual dalla sua parte ti comando,

e del popol di Roma che m’aspetta,

che d’una, contro a cui mandato hai bando,

più non t’impacci, ch’è nostra diletta;

conciosiacosach’ io ne fare’, quando

facessi contra a ciò, aspra vendetta;

e s’ tu andassi ad oste a sua cittade,

non torneresti mai in tuo’ contrade. —

37

El re, che vede sua gente smarrita,

perché si parta subito, rispuose,

dicendo: — Va’, ché ’n tempo di mia vita

non m’impaccerò piú di queste cose.

Ma fa’ che tosto sia la tua partita,

ché molte gente fai star paurose. —

Egli rispose: — Innanzi ch’io mi parta,

io ne vorrò miglior pegno che carta.

38

Veggendo la reina dal balcone

quel dimonio parlar sí aspramente,

di botto fu gittata in orazione,

dicendo: — Iddio, come veracemente

liberasti da man di Faraone

quel Moisé col popol tuo servente,

ben ch’io no’ ne sia degna come lui,

libera noi dalle man di costui. —

39

E, detta l’orazion, l’agnol di Dio

gli apparve e disse: — Non aver temenza,

ché ’l venir di costui, ch’é tanto rio,

permesso fue per molta altrui fallenza.

Ma, se tu vuoi vedere il tuo disio,

va’ francamente nella sua presenza,

dicendo: « Verbum caro factum este »,

e vederai sue forze manifeste. —

40

Poiché partito fu l’agnol veloce,

e la reina, come gli area detto,

si fece in fronte il segno della croce,

ed andonne al vicar di Macometto.

E, come giunse a lui, ad alta boce:

— Verbum caro — gridò; e ’l maladetto

con sua gente sparí immantenente,

lasciando un corpo molto puzzolente.

41

Come fu dileguato Ronciglione

co’ porci, che l’andavan seguitando,

cominciâro a uscir fuora le persone,

ch’eran fuggite prima spaventando.

E’ sacerdoti con gran divozione

andavan per la terra predicando,

dicendo: — Immaginate che governo

den’ far costor dell’anime d’inferno.

42

E immaginate che mille cotanti

son piú feroci gli altri che vi stanno!

E sempre stride e dolorosi pianti

fanno color che a quelle pene vanno.

Desiderate udire e’ dolci canti

che ’n paradiso e’ santi angioli fanno:

ma chi qui de’ peccati non si pente,

non puote andar fra sí beata gente. —

43

E lo re d’ogni ingiuria rendé pace,

e per pietá la volle aver sofferta,

e ribandí colei che fu fallace

contro lui molto, ciò fu donna Berta,

ch’era gran tempo stata contumace,

dovendo della vita esser diserta;

la qual, pentuta de li suo’ peccata,

fe’ poi tal vita ch’ella fue beata.

44

Tutta la gente s’era convertita,

battendosi con molta reverenza;

e la reina e ’l re tutta lor vita

al mondo fèr sí aspra penitenza,

che poi, al tempo della lor finita,

in vita eterna andár con pazienza.

Alla qual ci conduca il Salvatore.

Antonio Pucci il fece al vostro onore

 

GISMIRANTE

 

Edizione di riferimento

Fiore di leggende, cantari antichi, editi e ordinati da Ezio Levi, serie prima, cantari leggendari, Gius. Laterza & figli Tipografi—Editori—Librai, Bari 1914

 

PRIMO CANTARE

1

I’ prego Cristo, Padre onnipotente,

che per gli peccator volle morire,

che mi conceda grazia nella mente,

ch’ i’ possa chiara mia voluntá dire;

e prego voi, signori e buona gente,

che con affetto mi dobiate udire.

I’ vi dirò d’una storia novella,

forse che mai noll’udiste sí bella.

2

Ben voglio che saciate, buona gente,

ch’un, ch’ebe nome il cavalier Cortese,

si dipartí per alcuno accidente

dal re Artúe e di tutto il paese,

e tanto cavalcò continuamente,

che giunse a Roma nel nobil paese,

e quie ebe un figliuol, che nutricare

lo fece e di vantaggio amaestrare.

3

Quando di quindici anni e’ fue in etade,

più ch’altro in trenta era gagliardo e forte.

Venendo il padre in grande infermitade,

disse: — Figliuolo, i’ dubito di morte:

però, s’ io muoio in questa contrada,

none istar quie, e vattene alla corte,

e racomándati a messer Tristano,

a Lancelotto ed a messer Calliano. —

4

E poco istante che morí, avante

al suo figliuol nulla non può più dire.

El damigel, c’ ha nome Gismirante,

a grande onore il fece sopellire,

e po’ si dipartí a poco istante:

andonne in corte sanza ritenire,

e come il padre gli aveva contato,

a que’ baron si fue raccomandato.

5

E per amor del suo padre ordinâro

 tanto che stette in corte per donzello;

e serviva sí ben, che L’avie caro

il re Artúe sopr’ogni damigello,

e tutti i cavalieri inamorâro,

tanto egli era apariscente e bello;

ed insegnargli giostrare e schermire,

sí che fu sopra ogn’altro pien d’ardire.

6

Cosí sett’anni fece dimoranza

e fe’ in tal tempo molte cose belle,

avendo in quella corte per usanza

che non vi si mangiava mai cavelle,

né sera né mattina per certanza,

se di fuor non venia fresche novelle;

avvenne un dí che per cotal cagione

non mangiò il re, né niuno suo barone.

7

E, quando fu venuto l’altro giorno,

novelle fresche ancora non venia;

e Gismirante, il damigello adorno,

andonne a re Artúe, e si dicia:

— Fatemi cavalier sanza soggiorno. —

E, po’ che fatto fue ciò che volia,

disse partendo: — Non ci torno mai

che caverò la corte di ta’ guai. —

8

E cavalcando gia pregando Iddio

che gli mandasse ventura alle mani,

per la qual cosa che di tanto rio

possa cavare i cavalier sovrani.

Tutto quel giorno cavalcò con disio,

e po’ la notte non trovò ch’il sani.

Po’ la mattina si ebe trovata,

come Iddio volle, una saputa fata.

9

La qual lui salutava, e poi gli disse:

— Di stran paese qua venuta sono,

però ch’io non voleva che perisse

cotanta buona gente in abandono:

in prima che di lá mi dipartisse,

i’ procacciai di recarti un bel dono,

che, se tu ’l porti in corte al re davanti,

mangiar potrai co’ cavalieri erranti.

10

Sapi che del reame, dond’i’ vegno,

è la più bella pulzella del mondo,

figliuola di uno re, che tiene a sdegno

ogni prod’uomo, e sie qual vuol giocondo,

e non si può veder che per ingegno

se none un dí dell’anno sanza pondo,

cioè la vilia di Santo Martino.

Allor va il bando per questo latino:

11

che a quellavilia, ch’io t’ ho manifesta,

 non si lasci veder persona, quando

la figliuola del re ne va alla festa

 per suo diletto un poco solazzando.

Chi sarà fuor, gli fie mozza la testa

a chi cadesse in cosí fatto bando,

si che in casa per tema ognun si serra,

o se ne fuggon di fuor della terra.

12

Per questo San Martino, ch’è ora andato,

la vidi, e ’l viso mio non fue veduto.

Come il sogliar del Santo ebbe passato,

del capo un suo capello fu caduto,

ed io il ricolsi, ed hotelo recato:

in questo bossoletto l’ ho tenuto:

portal davanti al re dalla mie parte. —

Ed ella il ringraziò, e po’ si parte.

13

E cavalcando sanza prender lena,

que’ che portava novella si buona

si giunse in corte, dove sanza cena

andato s’era a letto ogni persona.

E, come que’ ched allegrezza mena,

gridò: — Suso a mangiar, santa corona!

E que’, che avean tre giorni digiunato,

con allegrezza ognun si fue levato.

14

Po’ ch’ebono mangiato in questo tratto,

e Gismirante il bossol fe’ presente,

il re lo prese, ed il capel n’ ha tratto

per contentarne sé e la suo gente;

e Gismirante contò tutto il fatto,

come avie detto la fata presente;

e, riguardando il capello indovino,

ch’era duo braccia e parea d’oro fino,

15

e’ si dicieva alla gente l’ han vista:

— Questa dé’ esser sopr’ogn’altra bella:

e veramente qual uomo l’acquista,

l’amor di cosí fatta damigella

deb’avere di pregio al mondo lista,

più che altro cavalier che monti in sella;

però che, imaginando suo bellezze,

deb’avanzar tutte le gentilezze. —

16

E Gismirante, po’che fue passato

alquanti giorni di cota’ parole,

in grazia al re Artúe chiese comiato,

de la qual cosa il re forte si duole.

Infine molti arnesi gli ha donato,

quando pur vede che partir si vuole,

e po’ gli disse: — Or va’, e quie ritorna,

ed e’ va per veder la dama adorna.

17

Ben otto mesi e piue ha cavalcato,

sanza trovar ventura questa volta;

ma pure una mattina fue arrivato

in una selva ch’era molto folta;

cosí guardando vide da l’un lato

un drago ed un grifon con forza molta

che s’azzufâro; ed e’ si fe’ campione,

e liberollo, e uccise il dragone.

18

Po’ cavalcava il damigel selvaggio,

fuglisi innanzi un’aguiglia parata,

incominciògli a fare grande oltraggio,

però che fortemente era affamata.

El damigel, come discreto e saggio,

di groppa al suo cavallo ebbe levata

un gran pezzo di carne, e si gliel diede.

Ella si parte, e mai nolla rivede.

19

Po’, cavalcando il damigel pregiato

per quella selva dove dovea andare,

trovò uno isparvier, ch’era allacciato

ad una siepe, e non potie volare.

Ed e’, come gentile, fu smontato,

e sviluppollo, e po’ il lasciò andare.

E l’aguiglia, e ’l grifone, e lo sparviere

eran per arte posti in tal maniere.

20

Nel capo della strada per uscire

fuor della selva, dove cavalcava,

ed eccoti una fata a lui venire,

e domandollo quel perch’egli andava.

Egli le disse: — Dama, a non fallire

i’ vo’ colá dove l’amor mi grava. —

E raccontolle dal piede alla cima

ciò ch’avie detto la fata di prima.

21

Ed ella disse: — Quel per che tu vai

ti fia molto impossibile acquistare,

ma, se mi crederai, tu non andrai,

ed istara’ti meco a sollazzare:

i’ ti prometto, se tue non vi vai,

ch’i ti farò contento sanza pare. —

Ed e’ rispuose: — E’ convien pur ch’i’veggia

quella che fa murir chi la vagheggia.

22

Ma s’ io nolla acquisto al mio volere,

i’ non ti lascerò per alta dama,

e priegoti che col tuo gran sapere

consigliami di quel che ’l mio cor brama. —

Ed ella gli donò un gran destriere,

dicendo: — Questo è di sí fatta fama,

porteratti in tre giorni sanza inganni

lá dove il tuo non andrebbe in dieci anni.

23

I’ vo’ che mi prometti di tornare,

e le parole tue sien piú che carte.

— Subito le rispose d’osservare

i suo’ comandamenti, e po’ si parte:

e tanto forte prese a cavalcare

con quel caval ch’era fatto per arte,

che in capo di tre giorni fue arrivato

alla cittá del viso angelicato.

24

E tanto ad uno albergo prese stare,

ch’alquanti giorni a San Martin fu presso;

e, come i cittadin vide armeggiare,

montò a cavallo, e fue con loro adesso,

e tutta gente fa meravigliare,

sí ben port’asta e tanto rompe ispesso.

La damigella da’ baron procura,

ma veder lei non puote criatura.

25

Quando il dí della vilia fue venuto,

e lo re fe’ da sua parte bandire

che qual dalla donzella fie veduto

subitamente lo farà morire,

e chi si stia in casa come muto,

e chi di fuori si deba fugire.

L’albergatore all’albergo n’andoe,

e Gismirante con lui si posoe.

26

E, come damigello ardito e saggio,

quando per la cittá non è cristiano,

subitamente armato di vantaggio,

uscì di casa con la spada in mano.

Signor, pensate nel vostro coraggio

che si dicea del cavalier sovrano,

con armato in sul destrier corrente!

E’ nella chiesa entrò subitamente.

27

E, non trovando criatura in Santo,

di testa s’ebe tratta la barbuta,

perché di quella cui amava tanto

la faccia sua potesse aver veduta,

ed e’ poi si nascose da l’un canto

dietro a l’altare, e punto non si muta,

dicendo: — Di mie morte fie memoria,

o io acquisterò quie gran vittoria! —

28

Or eccoti venir quella donzella

in compagnia ad un leone e un drago,

ed adorando al crocifisso; ed ella

vide colui ch’era cotanto vago,

il qual parlò con ardita favella,

che di suo morte non curava un dado.

— Dama, merzé, bench’io serva la Morte,

che per vederti vengo infin da corte! —

29

Ed ella, riguardando Gismirante,

ch’era si bel che contar nol potrei,

e imaginando poi in sé davante

le cose ch’egli avie fatte per lei,

ridendo disse: — I’ ti vo’ per amante,

ma fuor di questa terra uscir vorrei:

però, se mi vorrai al tuo dimíno,

verrai per me istanotte a matutino. —

30

Quand’ella gli ebe ben tutto insegnato

ciò ch’egli avesse a far nel suo venire,

la donna del baron prese comiato

dicendo: — Addio, addio! — nel suo partire.

Quando fue tempo, il cavalier pregiato

all’albergo tornò sanza fallire.

L’albergator domandò onde venia.

— Taci — diss’egli, e non gli rispondia.

31

Po’ cavalcò a piè d’una finestra,

ch’ella avie detto che dovesse andare,

e la donzella, sí come maestra,

tutte le guardie fe’ adormentare.

Com’ella il vide, disse ardita e presta:

— O cavalier, come voglián portare

certe mie gioie? — Ed e’ parlò giocondo:

— Vienne pur tu, ch’i’ non curo altro al mondo. —

32

Ed ella gli gittò di molte cose

di gran valuta, e di piccol vilume,

come far gemme e pietre preziose,

che le teneva per cotal costume;

ed una verga sotto si ripuose

che faceva seccare ogni gran fiume:

toccato da l’un lato, il fa seccare;

po’, ritoccando, lo fa ritornare.

33

E po’ s’armava a guisa d’un scudiere,

e per le scale iscende nella stalla,

e si montava sopra un buon destriere

sí di legier, che pare una farfalla,

e giunse fuor dov’era il cavaliere.

Veggendola, egli d’allegrezza galla;

pugnendo degli isproni il destrier forte,

giunsono ad una delle mastre porte.

34

Quando le guardie si fûr risentite,

cominciâro a gridar con gran romore:

— Che gente siete voi, ch’atorno gite

la notte, prima che venga l’albore? —

Rispose il cavalier: — Se non ci aprite,

per Dio superno, fia il vostro pigiore:

novelle noi abiam che i saracini

hanno istanotte passato i confini.

35

— Veracemente che per questa istrada

disser le guardie — vo’ non passerete. —

Mise mano Gismirante alla spada,

dicendo: — O vo’ci aprite, o vo’ morrete’ —

Disson le guardie: — Messer, ciò che v’agrada

fornito sia, s’un poco attenderete. —

Trovâr le chiavi, e apersono la porta,

ed oltre passâr via sanz’altra iscorta.

36

E ’nanzi giorno più che dieci miglia

fu dilungato la dama e ’l donzello;

e, quando il re non ritrovò la figlia,

fece suonar la campana a martello,

e fece armar tutta la suo’ famiglia,

e molta gente sotto il suo penello:

sí che con più di mille cavalieri

gli seguitò, spronando i buon destrieri.

37

E cavalcando sanza prender soste,

di lungi ben tre miglia ebon veduti

duo cavalier che salieno le coste,

benché da lor non furon conosciuti,

e lo re sopra ciò fecie proposte,

sien seguitati quegli a spron battuti.

Allor la giente sua non aspettava

l’un altro, e forte ciascun cavalcava.

38

E volgendosi indietro la piacente,

vide e conobbe que’che gli seguiéno,

e disse a Gismirante: — Omè dolente,

se siano giunti quie, come fareno?

Ma qua nel piano ha un’acqua corente,

con questa bacchetta la pasereno:

se giugneranno, non potran passare:

per altro modo non possián scampare. —

39

E, quando fûro a quel fiume ch’io dico,

toccò colla bacchetta, e disse: — Passa. —

Quand’ella fue passato, al modo antico

fece alzar l’acqua, dov’era più bassa.

Ella, piangendo, si diceva: — Amico,

non gli aspettar, ché son troppo gran massa.

Ed e’ rispose: — Amor, non te ne caglia,

ché io non lascerò questa battaglia. —

40

e la donzella istava inginocchiata,

pregava quel baron, forte piangendo;

e que’ percosse alla prima brigata,

ch’eran dinanzi, che venian correndo,

e, col destrier che gli donò la fata,

quanti ne giugne tutti va abattendo.

ond’ e’ in volta si gli mise tutti

e dopo questi vennon di piú dotti.

41

E Gismirante, vedendo lor mossa,

arditamente tra lor si mettea,

e ’l suo cavallo era di sí gran possa,

che pur col petto tutti gli abattea;

po’ giunse il re colla sua gente grossa,

e Gismirante, isgridandol, dicea:

- Renditi per pregione, o cavaliere! —

ed e’ rispuose: — E’ ti falla il pensiere. —

42

E ’nverso il re col buon destrier si serra,

e diègli un colpo, che cade istordito:

e la sua gente, vedendolo in terra,

misonsi in fuga per miglior partito.

El franco cavalier, vinto la guerra,

e’ disse al re, po’che fu risentito:

— Per me convien che sia la tua finita. —

Ed e’ rispuose: — La morte m’è vita. —

43

E Gismirante disse: — Per amore

della tuo figlia, i’ ti vo’ perdonare,

e per suo amor i’ ti farò onore;

in corte del re Artúe la vo’ menare. —

Cosí rimase il re con gran dolore.

E quel baron, volendo ritornare

a quella giovinetta che l’aspetta,

il fiume fe’ seccar colla bacchetta.

 

SECONDO CANTARE

1

Divina Maestá, superna Altezza,

da cui le grazie vengon tutte quante,

prestami grazia con tanta fortezza,

cli’ i’ possa seguitar di Gismirante

e della dama adorna di bellezza,

che gli fue tolta per dormire avante

da l’uom selvagio, che la porta via,

com’io vi dissi nel cantar di pria.

2

Vo’ sapete, signori e buona gente,

che molte cose si facien per arte,

ed io v’intendo nel cantar presente

di raccontare quie alcuna parte,

che per darvi diletto chiaramente

di novitá, cercando vo le carte,

e quel, che piace a me, vi manifesto;

e torno a Gismirante, che s’ è desto.

3

E, non trovandosi al capo colei

per cui e’ s’era afaticato molto,

con gran sospiri piange e dice omei,

dandosi spesso delle man nel volto;

e dicea: — Iddio, ben saper vorrei,

almen saper chi tanto ben m’ha tolto. —

Afogato si saria veramente

se non che la fata gli tornò a mente.

4

E, cavalcando verso quella fata.

dove promesso avie di ritornare;

ed e’ trovò un’acqua ismisurata,

che niuno uomo nolla può passare;

ed e’, come persona disperata,

si voleva in quel fiume afogare.

Ed eccoti venuto a lui il grifone,

ch’egli avie liberato dal dragone.

5

E come que’ che per arte parlava,

diceva: — Cavalier, montami adosso; —

ed egli, udendo ched e’ favellava,

meravigliossi, e tutto fu riscosso;

per disperato adosso gli montava,

pensando ch’egli il gittasse nel fosso;

e ’l grifone il passò dall’altro lato,

e puosel giù, e fussi dilungato.

6

Ed egli andò tanto cosí a piede,

ch’a quella fata fu giunto presente;

e quella fata volentier lo vede;

po’ lo domanda di quel convenente;

ed e’ rispuose: — Dama, in buona fede,

che fo di ciò ch’io acquistai presente? —

Ed ella, che sapea, disse: — Tu l’ hai

perduta sí che mai non la riavrai.

7

Ma, stu vuoi istar meco, amico mio,

più ch’altro al mondo ti farò contento. —

Ed e’ le disse: — Per l’amor di Dio,

a racquistar la donna i’ ho lo ’ntelletto.

Ella, vedendo il suo fermo disio,

puose da lato ogni suo intendimento,

e disse: — Sapi ch’ell’ è in cotal parte

con un selvagio, ch’è fatto per arte,

8

e ’n un castello di metal dimora,

Ch’è sanza porta, entrata molto ha presta,

con quarantatré dame, che di fuora

ha conquistate per arte sí destra;

or te ne andrai in su la cotal ora,

e’ sará fuori, ed ella alla finestra,

e di’ che facci tanto per ingegni

che l’uom selvagio dov’ ha ’l cor le ’nsegni.

9

E Gismirante con un buon cavallo

entrò in cammino, e prese a cavalcare,

tanto che giunse al castel del metallo.

E l’uom selvagio er’ito a procacciare.

A poco istante vide sanza fallo

la damigella alla finestra istare,

la qual parlava con parole iscorte:

— Fuggiti tosto, se non vuo’ la morte. —

10

E Gismirante con molto valore,

come insegnato gli aveva la fata:

— Fa’ che tue sapi dove tiene il cuore

questo malvagio, che mi t’ha furata. —

Ed ella gli rispuose: — Tanto amore

mi mostra più ch’a l’altre ogni fiata,

saperò bene il vero manifesto. —

Ed imboscato esso si fue presto.

11

Tornando l’uom selvagio, e la donzella

gli cominciò a mostrar grand’allegrezza,

ed e’, che la vedea cotanto bella,

si dilettava della suo bellezza.

E, cosí istando insieme in braccio d’ella,

disse: — Amor mio, venuto m’è vaghezza

di saper dove il tuo cuore si posa,

per adorarlo sopr’ogn’altra cosa. —

12

Rispuose l’uom selvagio: — I’ t’amo tanto,

e lo mio amore a te ho dato intero,

al tuo piacer son dato tutto quanto;

e del mio cuor ti conterò lo vero. —

Sí come un uom che di malizia ha vanto.

le fe’ vedere il bianco per lo nero,

dicendo, e mostrando una colonna:

— Qui dentro è il cuor di chi t’ ha fatto donna.

13

E la donzella savia ed insegnata

alla risposta sua niente crede;

ma tutta notte istette inginocchiata,

mostrando d’adorarlo in buona fede,

e l’uom selvagio ridendo la guata,

e che l’adori veramente crede.

Ma, quando assai durato ebe, dicía:

— Deh! tue adori invano, anima mia. —

14

Ma, poi ch’io vegio il tuo animo puro.

dov’e’ il mio cuor saprai a questo tratto:

Sapi ch’egli è in luogo sí sicuro,

ch’offender non si può in niuno atto,

che ’l guarda un animale fiero e duro,

per arte e per incantamenti è fatto,

e quel si chiama il porco troncascino,

ch’a Roma signoreggia ogni camino.

15

E, benché morto fusse l’animale,

chi l’uccidesse arebbe fatto invano,

perch’una lepre sopranaturale

gli uscirebbe di corpo a mano a mano;

e, benché morta fusse, ancor non vale,

ch’un paserotto ha ’n corpo vivo e sano,

il qual tiene il mio cuore alla sicura:

or vedi ben s’ i’ debo aver paura. —

16

E, cosí ragionando, apparve il giorno,

e l’uom selvaggio uscí fuori a cacciare,

e Gismirante al castel fe’ ritorno,

in su quell’ora ch’egli il vide andare.

La damigella col bel viso adorno

dalla finestra prese a parlare:

— I’ ho saputo ciò che vuo’ sapere,

ma tutto il mondo no! potrebbe avere. —

17

Ed ebegli contato a motto a motto

de l’uom selvaggio come detto avea,

e poi gli disse: — Partiti di botto,

e non ti dar di me malinconia. —

E Gismirante face gran corrotto,

non sapiendo pigliare alcuna via,

sí ch’ella tornò dentro isconsolata

e Gismirante ne tornò alla fata.

18

E disse, sí com’egli avie sentito,

del porco troncascin, dalla donzella.

Disse la fata, quando l’ebe udito:

— Non ragionar mai più di tal novella,

ché non potre’ con lui, tant’è ardito,

se’ milia cavalieri armati in sella,

che de’ roman gran tempo s’ è pasciuto,

perché a forza gli danno tal trebuto. ‑

19

Ed egli, udendo quel ch’ella dicea,

più volte sospirando disse: — Omei! —

ma pel gran ben ch’a la donna volea, disse:

— Io intendo di morir per lei. —

E con sospiri molti le dicea:

— Sievi raccomandato i fatti miei,

perch’io credo ben provar co’ l’armi:

s’ e’ mi bisogna, piaciavi d’atarmi. —

20

Quella, vedendo suo perfetto amare,

gli disse allora: — Va’ sicuramente. —

Ed e’ si mosse sanza dimorare,

sí come pellegrin subitamente,

e tanto forte prese a caminare,

che giunse a Roma il cavalier possente,

e giunse in corte dello imperadore,

per le iscale va verso il senatore.

21

Trovò a mezza iscala un cavaliere,

e ’n carità, per Dio, gli fe’ domando;

ed e’ gli disse: — Sozzo poltroniere!

come va’ tu in tal modo gaglioffando?

Ma vuo’ tu meco istar per iscudiere? —

Ed e’ gli disse: — Sie al tuo comando.

Ed e’ gli disse: — I’ ti farò insegnare

a servire innanzi e a cavalcare.

22

E Gismirante disse: — In veritade,

ch’i’ so ben cavalcare e ben servire. —

Ed e’, vedendo ch’egli avie bontade,

fégli trar la schiavina e fél vestire.

Ed e’ pareva pien di nobiltade

e appariscente sopr’ogn’altro sire;

e, po’ che in ben far fu conosciuto,

piú ch’altro in corte era caro tenuto.

23

E cosí istette dimorando alquanto.

Un giorno ch’ e’ si stava per la corte,

ed e’ sentí levare uno gran pianto;

onde dimanda di sí fatte sorte.

Ed un gli disse: — Egli si piagne tanto,

perché lo ’mperador manda alla morte

al porco troncascino un suo figliuolo,

di che tutta la corte n’ ha gran duolo. —

24

Parlava Gismirante immantanente

a quel barone, sí parlava iscorto:

— Or ben vi dico che la piú vil gente

che sia nel mondo pano averlo morto. —

Disse il baron: — Tu erri fortemente,

e dico io che tu ragioni il torto,

ch’egli è per arte fatto in tal maniera,

che come il diavol percuote la sera. —

25

Rispuose Gismirante: — S’ i’ avessi

buon’arme e buon cavallo in mie podésta,

vómi obrigare, s’ io no l’ucidessi

sanz’altro aiuto, di perder la testa. —

Mostra che quel baron sí lo intendessi;

andò all’imperadore, e non fe’ resta,

e disse come si era vantato.

Lo ’mperadore ebe per lui mandato,

26

e sí gli disse: — Vedi che m’ è detto

che tue ti vanti della cotal cosa,

se ’l vanto tuo vuo’ mettere in effetto,

i’ ti darò mie figlia per isposa. —

Allor rispuose il nobil giovinetto:

— I’ non vogli’ altro ch’arme poderosa. —

Disse lo ’mperador: — Arme e destriere

ara’ miglior che avesse cavaliere. —

27

E fe’ venir quant’arme in corte avea,

dicendo: — Prendi la qual piú ti piace; —

ed e’, provando, tutte le rompea

dicendo: — I’ vogli’arme piú verace. —

Lo ’mperador vede quel che facea:

disse: — In costui ha forza molto aldace. —

E fe’ venire un’arma molto antica,

che quattro la portavan con fatica.

28

E Gismirante, dell’arme contento,

disse: — Dov’è il caval ch’io debo avere? —

In suo presenza venner più di cento;

ei li provava col suo gran potere,

che montandovi su con valimento,

pur colle cosce gli facie cadere;

e disse: — Imperador, fate che venga,

se ci ha miglior caval che mi sostenga. —

29

Disse lo ’ mperadore: — I’ n’ho ben uno,

che mangia per condotto e sta in catene,

che sopra gli altri è forte e di pel bruno.

Fusse chi lo sellasse, arestil bene;

ma ne la istalla none andrebbe niuno,

perché gli ucidech’ inanzi gli viene. —

E Gismirante vi si fe’ menare,

e giunse a lui, e cominciò a gridare.

30

Il cavallo diede una tale iscossa,

perché non era usato a quelle istrida,

che tutta ruppe la catena grossa;

e Gismirante verso lui si fida,

e diedegli col pugno tal percossa,

che ’nginochione in terra si rannida,

e lasciossi imbrigliare e por la sella,

e menar fuor com’una pecorella.

31

Quando lo ’mperador l’ebe veduto

in su quel fiercavallo, e tutto armato,

disse: — Costui debe esser pro’ e saputo,

e ’l più prod’uomo ch’al mondo sie nato. —

Mandò per lui e disse: — I’ son pentuto:

i’ non vo’ che tue vali a tal mercato;

il mio figliuol vo’mandare a morire,

anzi che perder te, c’ ha’ tanto ardire.

21

E Gismirante gli disse: — Messere,

questa battaglia non si può stornare. —

Ed e’, vedendo pure il suo volere,

subito fe’ tutta suo gente armare.

Ed e’ parlò: — Egli è contra ’l volere; —

disse: — Signor, per Dio, lasciami fare:

ché, se bisogna, fa’ che sien con teco,

socoreranti; manon vo’ sien meco. —

33

Lo ’mperador col populo romano

con Gismirante uscîr fuor della terra,

e tanto caminâr che, di lontano

vidon la fiera che facíe tal guerra,

e Gismirante rimase nel piano

tutto soletto, se ’l libro non erra,

e gli altri tutti andar su le montagne,

e molta gente Gismirante piagne.

34

Mostra che ’l giorno era nivicato

il cavallo e ’l baron coperto a bianco,

ed il porco a guatare era abagliato,

e giace in terra come fusse istanco;

e Gismirante, il damigel pregiato,

e come cavaliere ardito e franco,

accomandossi a Dio, e colla lancia

percosse il porco; e feri ’l nella pancia.

35

E, quando il porco si sentí fedito,

ruppe la lancia, e rizossi destro:

inverso Gismirante ne fu ito,

come demonio feroce ed alpestre;

e Gismirante col brando forbito

si difendea da lui, come maestro,

e in sulla schena un tal colpo gli dava

colla sua spada, ma nollo accarnava.

36

Onde pensò fargli fare una corsa,

per sangue che gli uscía della fedita,

dicendo: — In prima che da lui sie morso,

il porco, credo, lascerá la vita. —

Ma, come un cane ch’assalisce l’orso,

correva il porco colla testa ardita;

e quella gente, vedendol venire,

per tema incominciâr tutti a fuggire.

37

Il porco giunse, e subito gli tolse

a pezzi a pezzi tutta l’armadura:

levando, quel cavallo i calci porse,

tale che cade in su la terra dura.

E Gismirante col caval si volse;

il porco al petto del caval si tura

e quantunque e’ ne prese colla branca,

menollo a terra della spalla manca.

38

E Gismirante incominciò a chiamare

l’aiuto della fata a mano a mano,

ed e’ sentí una boce gridare:

— Saltagli adosso col coltello in mano,

conciosiacosaché non può scampare,

dagli nel fianco lâ dov’è più sano. —

Ed e’ si rincorò, e molto isnello

gli saltò adosso, e diègli del coltello.

39

E, come piacque alla fata gentile,

che gli avie tolto la forza e la lena,

il porco cominciò a diventar vile,

perché del sangue avie vòto la vena,

e Gismirante giá non gli era umile,

dandogli per lo fianco e per la schena,

tanto che ’l porco cade in terra morto,

onde a sparallo fue presto ed accorto .

40

E’ non poté isparar si pianamente,

che non uscisse la lepre gioiosa,

e none istette di correre niente

insin ch’andò nella selva nascosa.

Dicea Gismirante: — Omè dolente,

or ho io fatto nulla d’ogni cosa!

O gentil donna, che mi suo’ atare,

a questo punto non mi abandonare. —

41

E l’aguiglia ch’egli avie pasciuta,

com’io vi dissi nell’altro cantare,

subitamente a lui fu venuta

onde la lepre non poté campare;

e, come negli artigli i’ ha prenduta,

a Gismirante l’ebe a presentare.

Disse: — Il servigio non si perde mai

tu mi pascesti, e or merito n’arai. —

42

Po’ si partí, e Gismirante spara

la lepre come savio, pro’ , e dotto,

dicendo: — Tu mi gosti tanto cara,

ch’i’ non vo’ che mi sughi il passerotto,

e parte che face la ragion chiara,

 per la bocca gli usci l’uccel di botto.

— Oimè lasso! — disse Gismirante

— ché ’I mio sapere non vale un bisante. —

43

La lepre gittò via il cavaliere,

vedendo il passerotto volar via,

e sí dicea: — Omè no’ m’ è mestiere

pensar di riaverlo in vita mia. —

Ed eccoti venir quello sparviere,

che quel baron da’ pruni isciolto avea,

e prese il passerotto vivo e sano,

a Gismirante sí lo mise in mano,

44

dicendo: — Cavalier, ben t’ho renduto

buon guidardon di quel che mi facesti,

quando tra’ prun mi trovasti caduto,

che come gentiluom tu mi sciogliesti:

però il servigio e’ non è perduto,

che a me, cavalier, far mi volesti;

e magiormente sarai meritato

da più possenti; — e fussi dileguato.

45

E Gismirante, i piè legato e l’ale

al passerotto, e’ miseselo allato,

e tornò al suo caval, bench’avie male,

e destramente su vi fu montato:

e lo signor di Roma imperiale

colla suo gente a Roma è ritornato,

e ’l porco troncascin lasciò isparato,

onde il barone a Roma fu tornato.

46

Lo imperadore e la suo gente, quando

sentiron la cittâ lor liberata,

e po’ tornando que’ ch’avie col brando

la libertá di Roma racquistata,

incontro gli si fér tutti armeggiando.

facendo festa della suo tornata,

e racettârlo co’ magiore onore,

che si facesse mai a niun signore.

47

E Gismirante avia tanta allegrezza,

perch’egli avea quel cher’ ito caendo,

e solo di partirsi avie vaghezza,

onde allo imperador parlò, dicendo:

— Santa corona, non vi sia gravezza

che al presente di partir m’ intendo. —

Della qual cosa assai si maraviglia,

perché intendeva di dargli la figlia.

48

Ma pur, vedendo la suo volontade,

di molte ricche gioie gli fe’ dono,

dicendo: — Quanti n’ ha in queste contrade

con esso meco al tuo servigio sono. —

E sí gli vuole dar gran quantitade

di cavalieri, ma e’ chiese perdono.

e po’ si dipartí, che mai non resta,

e giunse a quella fata ardita e presta.

49

Come la vide, disse: — Il passerotto

i’ l’agio vivo, ed hollo quie al lato. —

Ella rispuose: — Se’ tu istato dotto,

e’ ti fie pro che l’uomo è infermato:

se tu lo avessi morto, baron dotto,

non potresti a tuo donna essere andato;

perché conviene che alla suo vita

del castel mostri l’entrata e l’uscita.

50

Ma, se a colei, cui hai dato il coraggio,

potrai parlar da sera o da mattina,

dirai che dica ch’un medico saggio

gli vuol portar perfetta medicina,

e fie nicissitâ che l’uom selvaggio

gli mostri dell’entrare la dotrina:

come se’ dentro, istrigni il passerotto,

e l’uom selvagio si morrá di botto. —

51

E Gismirante andò né più né meno,

sí come detto gli avea la fata:

trovò la donna col viso sereno

alla finestra, e fégli l’ambasciata,

ed ella andò, e disse tutto a pieno

ch’egli l’ensegni l’uscita e l’entrata:

— Perch’un medico, ch’è di grande affare.

egli vi vuol venire a medicare. —

52

Ed e’ le disse: — Dolce amor mio bello,

te’ questo anello ch’io porto in dito,

che per virtù di questo ricco anello

vedrai l’entrata del castel gradito. —

La damigella subito prendéllo,

gittollo a Gismirante pro’ e ardito:

e Gismirante l’anello prendea:

allor l’entrata del castel vedea.

53

E, come dentro e’ fue Gismirante,

uccise il passerotto; e quel fellone

mise uno strido, e po’ morí davante.

E quelle dame, ch’egli avie prigione,

ch’eran quarantatré, e tutte quante

eran di gran legnaggio lor persone,

come lo vider, tutte inginocchiâro;

Iddio e lui molto ringraziâro.

54

E Gismirante molto bestiame

caricò d’oro e di ciò c’ ha voluto.

Po’ fér partenza, e gir con quelle dame

a quella fata che gli ha dato aiuto.

Ed ella disse: — Tutte le tuo’ brame

potuto ha’ sodisfar, se t’è piaciuto. —

Ed e’ si volse a lei: — La veritad’è

ciò che dite; ma non per mie bontade,

55

ma per vostra virtù, non colla spada,

ho acquistata la persona e l’avere.

E pognamo ched io a corte vada, dama,

per voi ho ciò ch’i’ ho a tenere.

Deh! datemi comiato, se v’agrada,

conciosiacosach’ i’ ho gran volere

di conducer davanti a re Artue,

questa mie donna con quarantadue. —

56

Ed ella disse: — Po’ che in tuo paese

vo’ ritornare, una cosa t’impongo,

che contro a ogni gente sie cortese,

e spezialmente a que’ c’ hanno bisogno.

Ch’io sono istato a tutte tuo’ difese,

benché di dirlo alquanto mi vergogno,

per quel che tue facesti a’ tre uccelli,

conciosiecosaché son mie’ fratelli. —

57

Ed e’ con allegrezza fe’ partita,

considerando a cui l’avie fatto,

dicendo: — Mentre ch’ io avrò vita,

la ragione aterù ad ogni patto. —

Quando si sente in corte la redita,

il re Artue con tutti i baron ratto

incontro gli si fêr piú di se’ miglia,

facendosi di lui gran maraviglia.

58

Po’ che le donne si furon posate

alquanti giorni dopo un gran mangiare,

e Gismirante l’ebe dimandate

s’elle volieno a casa lor tornare;

ed elle che n’avien gran voluntate,

dicieno: — Messer sí, in quanto a voi pare.

Ed e’ con gente assai in quantitade

tutte mandolle nelle lor contrade.

59

E que’ signor, di cui le dame sono,

sentendo questo fatto com’è suto,

tanto contenti e tanto allegri sono,

ongnun fan festa, quando l’han saputo,

e ciascheduno gli mandò gran dono

per merito di quello gran trebuto.

Il re Artù, c’ ha Gismirante in casa,

domandò della dama ch’è rimasa.

60

E Gismirante disse: — Quest’è quella,

di cui vidi il capello tanto biondo,

signore mio — contando la novella

rispuose il cavalier tanto giocondo.

Ed e’ rispuose: — Mai non montò in sella.

contento cavaliere in questo mondo,

come deb’esser tu di cotal dama. —

E la reina e tutte genti chiama.

61

E fecela isposare in suo presenza,

e puose lui in ricca e magna altura,

facendo festa con magnificenza,

come conviene a sí fatta misura.

E si regnaron con benevoglienza,

quanto piacque a Dio di somma altura,

moglie e marito sanza aver ma’ crucci.

Al vostro onor questo fe’ Antonio Pucci.