LETTERE

1526-1527

 

Edizione di riferimento

      Niccolò Machiavelli, Tutte le opere a cura di Mario Martelli, Sansoni Editore, Firenze 1971

Edizione di riferimento per le lettere aggiunte segnalate dalla dicitura bis accanto al numero:

      Niccolò Machiavelli, Opere, vol. II a cura di Corrado Vivanti, Biblioteca della Pléiade, Einaudi, Torino 1999.

 

 

 

294

Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini

 

Firenze, 3 gennaio 1526

A messer Francesco Guicciardini ecc.

Signor Presidente. Io credetti havere a cominciare questa mia lettera, in risposta all'ultima di Vostra Signoria, in allegrezza, et io la ho a cominciare in dolore, havendo voi havuto un nipote tanto da ciascuno desiderato, et essendosi poco appresso morta la madre; colpo veramente non aspettato né da lei, né da Girolamo meritato. Nondimeno, poiché Iddio ha voluto così, conviene che così sia, et non ci sendo rimedio, bisogna ricordarsene il manco che si può.

Quanto alla lettera di V. S., io mi comincerò dove voi, per vivere in tante turbulentie allegro. Io vi ho a dire questo: che io verrò in ogni modo; né mi può inpedire altro che una malattia, che Iddio ne guardi, et verrò passato questo mese, et a quel tempo che voi mi scriverrete. Quanto alla Barbera et a' cantori, quando altro rispetto non vi tenga, io credo poterla menare a quindici soldi per lira. Dico così perché l'ha certi innamorati, che potrebbono inpedire; pure, usando diligentia, potrebbono quietarsi. Et che lei et io habbiamo pensato a venire, vi se ne fa questa fede: che noi habbiamo fatto cinque canzone nuove a proposito della commedia, et si sono musicate per cantarle tra gli atti; delle quali io vi mando alligate con questa le parole, acciò che V. S. possa considerarle; la musica, o noi tutti o io solo ve la portereno. Bisognerà bene, quando lei havesse a venire, man-dare qui un garzone de' vostri con 2 o 3 bestie; et questo è quanto alla comedia.

Io sono stato sempre di oppinione, che se lo inperadore disegna diventare dominus rerum, che non sia mai per lasciare il re, perché, tenendolo, egli tiene infermi tutti gli avversarii suoi, che gli danno, per questa ragione, et daranno quanto tempo egli vorrà ad ordinarsi, perché e' tiene hora Francia et hora il papa in speranza d'accordo, né stacca le pratiche, né le conclude; et come egli vede che li Italiani sono per unirsi con Francia, e' ristrigne con Francia i ragionamenti, tanto che Francia non conclude, et egli guadagna, come si vede che egli ha con queste bagattelle già guadagnato Milano, et fu per guadagnare Ferrara, che gli riusciva se gli andava là; il che se seguiva, del tutto era spacciata la Italia. Et perdonimmi questi nostri fratelli spagnuoli: eglino hanno errato questo tratto, che quando il duca passò per la Lonbardia che egli andava in là, e' dovevano ritenerlo, et farlo andare in Spagna per mare; et non si fidare che vi andasse da sé, perché potevano credere che potessino nascere molti casi, come sono nati, per i quali egli non andrebbe.

Si intendeva da 4 dì indietro ristringimenti di Italia et di Francia, et credevonsi, perché, essendo morto il Pescara, stando male Antonio da Leva, essendo tornato il duca di Ferrara, tenendosi ancora i castelli di Milano et di Cremona, non sendo obligati i Viniziani, essendo ciascuno chiaro della anbitione dello inperadore, pareva che si havesse a desiderare per ciascuno di assicurarsene, et che la occasione fosse assai buona; ma in su questo sono venute nuove che lo inperadore et Francia hanno accordato, et che Francia dà la Borgogna, et piglia per moglie la sorella dello inperatore, et lasciali quattrocentomila ducati che l'ha di dote, et dotala lui in altanti, et che dà per statichi o i due figlioli minori o il Delfino, et che gli cede tutte le ragioni di Napoli, di Milano, etc. Questo accordo così fatto è da molti creduto, et da molti no, per le ragioni sopradette, anzi credo che lo habbia ristretto per inpedire quelli ristringimenti sopradetti, et dipoi lo cavillerà et romperallo. Stareno hora a vedere quello che seguirà.

Intendo quanto voi mi dite della faccenda vostra, et come vi pare havere tempo a pensare, per non essere i tempi atti; a che io replicherò due parole con quella sicurtà che mi comanda l'amore et reverenza che io vi porto. Sempre, mentre che io ho di ricordo, o e' si fece guerra, o e' se ne ragionò; hora se ne ragiona, di qui a un poco si farà, et quando la sarà finita, se ne ragionerà di nuovo, tanto che mai sarà tempo a pensare a nulla; et a me pare che questi tempi faccino più per la faccenda vostra, che i quieti, perché, se il papa disegna di travagliare, o e' teme di esser travagliato, egli ha a pensare di havere bisogno, et grande, di voi, et in consequenza ha da desiderare di contentarvi.

Addì 3 di Gennaio 1525.

Niccolò Machiavelli in Firenze

 

 

295

Giovanni Manetti a Niccolò Machiavelli

 

Venezia, 28 febbraio 1526

Allo eruditissimo et excelente M. Nicolò Machiavello.

In Firenze.

† Al nome di Dio, a' dì 28 Febraio 1525, in Venezia.

A questi proximi passati giorni, magnifico messer Nicolò padrone honorandissimo, ebi una vostra litera insieme con el desiderato Decemnale, ilche hebi molto caro et restovi, apresso molti altri oblighi, obligatissimo. Circha questo basti per hora.

Per adempire el desiderio di V. S. de l'intendere del recitare de la sua Comedia de Calimaco, fo intendere a V. S. quella eser stata recitata con tanto hordine et buon modo, che un'altra compagnia di gentilhomeni che ad concorrentia de la vostra in quella sera medesima etiam con spesa grande ferno recitar li Menecmi di Plauto vulgari, la qual, per comedia antica, è bella e fu recitata da asai boni recitanti, niente di meno fu tenuta una cosa morta rispetto alla vostra; di modo che, visto comendarsi tanto questa più che quella, da vergogna spronati, con istantia grandissima richiesero la compagnia di questa che di gratia gliela volesino recitar in casa loro dove era recitata la loro. Et così come persone gentilissime un'altra sera poi fu di nuovo con l'intermedi propri de la prima volta recitata et con grandissima satisfatione di tutti si finì; donde che abondantemente furon date le beneditioni primamente al compositore e sucesive al resto, che se n'erono impaciati, de le quali ne dovea participar anche io per chausa di aver tenuta la comedia in mano drieto a li casamenti del proscenio, perché la andasse più a ordine e per soccorere, se fusse acaduto, alcuno de' recitanti, il che non bisognò. Et questo sia a consolation de la S. V. È stata tanto acetta, che questi nostri mercanti de la natione se ànno dato la fede, posendo però aver qualcosa di vostro e non d'altri, recitare, se posibil fusse de averlo a tempo, questo primo magio avenire; sì che sete pregato per parte di tutti, posibil essendo che V. S. si degni o qual cosa fatta, o vero che ne la mente l'aveste fabricata, tal che la si possi avere: e non pensate che composition' d'altri avesino questa richiesta, perché in efetto elle ànno dolceza et sapore, de le quali se ne può cavare dilettevol construtto et onesto satisfamento.

Di poi ebi la vostra litera, non mi son trovato con la Serenità del Principo, ch'io li habi posuto dire quanto me imponete; ma penso ben quam primum io li parli, far quanto per V. S. comesso mi fia; et quello ne seguirà, vi si farà intender.

Per el presente coriere Mariano vi mando, rivolte in carte azurre e canavaccio, para tre di bottarghe, le qual son de le migliori che qui si siano viste questo anno: se meglio fusino state, più volentieri ve le arei mandate. Et questo a fine vi piaci goderle per amor mio, de le quali qui è stato satisfatto el corieri del porto, però non achade che paghiate nulla.

Se a V. S. venise alle mani qualche sonetto, stanza o capitulo in laude di dona, et che non vi sia molto di faticha, prego V. S. si degni farmene participe, come ancor d'altra materia, purché sia compositione di V. S., a la qual di nuovo mi raccomando.

Giovanni Manetti

 

 

296

Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini

 

Firenze, 15 marzo 1526

A messer Francesco Guicciardini.

Magnifico et honorando messer Francesco. Io ho tanto penato a scrivervi, che la S. V. è prevenuta. La cagione del penar mio è stata perché, parendomi che fosse fatta la pace, io credevo che voi fosse presto di ritorno in Romagna, et riserbavomi a parlarvi a bocca, benché io havessi pieno il capo di ghiribizzi, de' quali ne sfogai, cinque o sei dì sono, parte con Filippo Strozzi; perché, scrivendoli per altro, e' mi venne entrato nel ballo, et disputai tre conclusioni: l'una, che, non obstante l'accordo, il re non sarebbe libero; l'altra, che, se il re fosse libero, osserverebbe lo accordo; la terza, che non lo osserverebbe. Non dissi già quale di queste tre io mi credessi, ma bene conclusi che in qualunque di esse la Italia haveva d'havere guerra, et a questa guerra non detti rimedio alcuno. Hora, veduto per la vostra lettera il desiderio vostro, ragionerò con voi quello che io tacetti con lui, et tanto più volentieri, havendomene voi ricerco.

Se voi mi domandasse di quelle tre cose quella che io credo, io non mi posso spiccare da quella mia fissa oppinione che io ho sempre havuta, che il re non habbia a essere libero, perché ognuno conosce che, quando il re facesse quello che potrebbe fare, e' si taglierebbono tutte le vie allo inperadore di potere andare a quel grado che si ha disegnato. Né ci veggo né cagione né ragione che basti, che lo habbia mosso a lasciarlo; et, secondo me, e' conviene che lo lasci, o perché il suo consiglio sia stato corrotto, di che i Franzesi sono maestri, o perché vedesse questo ri-stringimento certo tra gli Italiani et il regno, né gli paresse havere tempo né modo a poterlo guastare senza la lasciata del re, et che credesse, lasciandolo, che egli havesse ad osservare i capitoli; et il re debbe essere in questa parte stato largo promettitore; et dimostro per ogni verso le cagioni delli odii che gli ha con gli Italiani, et altre ragioni che poteva allegare per assicurarlo della osservanza. Nondimeno tutte le ragioni che si potessino allegare, non guariscono lo imperadore dello sciocco, quando voglia essere savio il re; ma io non credo voglia essere savio. La prima ragione è che sino a qui io ho veduto che tutti i cattivi partiti che piglia lo inperadore non gli nuocono, et tutti i buoni che ha preso il re non gli giovano. Sarà, come è detto, cattivo partito quello dello inperadore lasciare il re, sarà buono quel del re a promettere ogni cosa per essere libero; nondimeno, perché il re l'osserverà, il partito del re diventerà cattivo et quello dello inperadore buono. Le cagioni che lo farà osservare, io lo ho scritto a Filippo; che sono: bisognarli lasciare li figlioli in prigione, quando non osservi; convenirli affaticare il regno, che è affaticato; convenirli affaticare i baroni a mandarli in Italia; bisognarli tornare subito ne' travagli, i quali, per li exempli passati, lo hanno a spaventare. Et perché ha egli a fare queste cose per aiutare la Chiesa et i Vinitiani, che lo hanno aiutato rovinare? Et io vi scrissi, et di nuovo scrivo, che grandi sono gli sdegni che il re debbe havere con gli Spagnuoli, ma che non hanno ad essere molto minori quelli che puote havere con gli Italiani. So bene che ci è dire questo, et direbbesi il vero, che, se per questo odio egli lascia rovinare l'Italia, potrebbe dipoi perdere il suo regno; ma il fatto sta che la intenda egli cosa, perché, libero che sia, e' sarà in mezzo di due difficultà: l'una, di torsi la Borgogna et perdere la Italia, et restare a discretione dello inperatore; et l'altra, per fuggir questo, diventare come parricida et fedifrago, nelle difficultà soprascritte per aiutare huomini infedeli et instabili, che per ogni leggier' cosa, vinto che gli havesse, lo farebbono riperdere. Sì che io mi accosto a questa oppinione, o che il re non sia libero, o che, se sarà libero, egli osserverà; perché lo spaventacchio di perdere il regno, perduta che sia l'Italia, havendo, come voi dite, il cervello franzese, non è per muoverlo in quel modo che muoverebbe un altro. L'altra, che egli non crederrà, che la ne vadia in fumo, et forse crederrà poterla aiutare poi che l'harà purgato qualche suo peccato, et egli non habbia rihauto i figlioli et rinsanguinatosi. Et se tra loro fossono patti di divisione di preda, tanto più il re osserverebbe i patti, ma tanto più lo inperadore sarebbe pazzo a rimettere in Italia chi ne havesse cavato, perché ne cacciassi poi lui. Io vi dico quello che io credo che sia, ma io non vi dico già che per il re e' fosse più savio partito, perché doverrebbe mettere di nuovo a pericolo sé, i figlioli et il regno per abbassare sì odiosa, paurosa et pericolosa potenzia. Et i rimedii che ci sono mi paiono questi: vedere che il re, subito che gli è uscito, habbi appresso uno, che con la autorità et persuasioni sue, et di chi lo manda, gli faccia sdimenticare le cose passate, et pensare alle nuove; mostrigli il concorso della Italia; mostrigli il partito vinto, quando voglia essere quel re libero, che doverrebbe desiderare di essere. Credo che le persuasioni et i prieghi potrieno giovare, ma io credo che molto più gioverebbono i fatti.

Io stimo, che in qualunque modo le cose procedino, che gli habbia ad essere guerra, et presto, in Italia; perciò e' bisogna alli Italiani vedere di havere Francia con loro, et quando non la possino havere, pensare come e' si voglino governare. A me pare che in questo caso ci sieno un de' duoi partiti: o lo starsi a discretione di chi viene, et farseli incontro con danari, et riconperarsi; o si veramente armarsi, et con le armi aiutarsi il meglio che si può. Io per me non credo che il riconperarsi, et ch'e danari bastino, perché se bastassino, io direi: fermiamoci qui, et non pensiamo ad altro; ma e' non basteranno, perché o io sono al tutto cieco, o vi torrà prima i danari et poi la vita, in modo che sarà una spezie di vendetta fare che ci truovi poveri et consumati, quando e' non riuscisse ad altri il difendersi. Pertanto io giudico che non sia da differire lo armarsi, né che sia da aspettare la resolutione di Francia, perché lo inperadore ha le sue teste delle sue genti, halle alle poste, può muovere la guerra a posta sua quando egli vuole; a noi conviene fare una testa, o colorata o aperta, altrimenti noi ci levereno una mattina tutti smarriti. Loderei fare una testa sotto colore. Io dico una cosa che vi parrà pazza; metterò un disegno innanzi che vi parrà o temerario o ridicolo; nondimeno questi tempi richieggono deliberationi audaci, inusitate et strane. Voi sapete et sallo ciascuno che sa ragionare di questo mondo, come i popoli sono varii et sciocchi; nondimeno, così fatti come sono, dicono molte volte che si fa quello che si doverrebbe fare. Pochi dì fa si diceva per Firenze che il signor Giovanni de' Medici rizzava una bandiera di ventura per far guerra dove gli venisse meglio. Questa voce mi destò l'animo a pensare che il popolo dicesse quello che si doverrebbe fare. Ciascuno credo che creda che fra gli Italiani non ci sia capo, a chi li soldati vadino più volentieri dietro, né di chi gli Spagnuoli più dubitino, et stimino più: ciascuno tiene ancora il signor Giovanni audace, inpetuoso, di gran concetti, pigliatore di gran' partiti; puossi adunque, ingrossandolo segretamente, fargli rizzare questa bandiera, mettendoli sotto quanti cavalli et quanti fanti si potesse più. Crederranno gli Spagnuoli questo essere fatto ad arte, et per adventura dubiteranno così del re, come del papa, sendo Giovanni soldato del re; et quando questo si facesse, ben presto farebbe aggirare il cervello agli Spagnuoli, et variare i disegni loro, che hanno pensato forse rovinare la Toscana et la Chiesa senza obstacolo. Potrebbe far mutare oppinione al re, et volgersi a lasciare lo accordo et pigliare la guerra, veggendo di havere a convenire con genti vive, et che, oltre alle persuasioni, gli mostrano i fatti. Et se questo rimedio non ci è, havendo a far guerra, non so qual ci sia; né a me occorre altro; et legatevi al dito questo: che il re se non è mosso con forze, con autorità, et con cose vive, osserverà lo accordo, et lasceravvi nelle péste, perché essendo venuto in Italia più volte, et voi havendoli o fatto contro, o stati a vedere, non vorrà che anco questa volta gli intervenga il medesimo.

La Barbera si truova costì: dove voi gli possiate far piacere, io ve la raccomando, perché la mi dà molto più da pensare che lo inperadore.

Addì 15 di Marzo 1525.

Niccolò Machiavelli

 

 

297

Filippo Strozzi a Niccolò Machiavelli

 

Roma, 31 marzo 1526

Al suo carissimo amico Niccolò di M. Bernardo Machiavelli.

In Firenze.

Niccolò mio, io non vorrei che per niente pensassi che, per rispondere io tardi, o non rispondere alle vostre, io tenessi poco conto di voi, perché, oltre allo essere debito a ciascuno stimare tutti quelli da chi tu conosci essere stimato, è ancora cosa naturale; et quelli ancora meritano sia tenuto più conto di loro, quali, oltre al portarti non mediocre amore et affectione, hanno in loro tali parte et virtù, che ciascuno debbe di amici cercare di farseli amicissimi, nel qual numero voi appresso di me tenete il principal luogo. Ma il parermi havere con voi tanta familiarità, che in tutto escluda simili rispetti, è causa sola che io piglio et lascio stare la penna per rispondervi, secondo la mia commodità; la quale scusa se vedrò da voi accettata in quel modo ch'è da me detta, seguirò in futuro, quando habbia simili lettere vostre, l'usanza mia; quando altrimenti credessi, mi accomoderei diventando più diligente, non mancando di dirvi et replicarvi che, quando habbia a fare opera alcuna a vostro benefizio, mi troverrete sollecito et diligente al pari di ogni altro. Nello scrivere per cerimonia sono licentioso, con quelle persone però le quali mi persuado lo piglino in buona parte, come mi sono persuaso di voi.

Ma perché non sia più il prohemio che tutto il restante, vengo alla narratione, et vi dico che io lessi l'ultima vostra de' 10 di questo a Nostro Signore, quale l'udì con molta attentione, commendò i luoghi, parendoli havessi tocco tutto quello che poteva cadere in consideratione di chi, senza avvisi o notizie particulari, discorresse simili materie, et n'hebbe piacere assai. Non mi parve già che e' fosse di oppinione che la prima parte dovesse haver luogo, cioè che il re non fusse per essere libero, ancora che e' fosse fatto l'accordo, che tiene sarà liberato; benché hoggi tal parte harebbe più fautori che allhora, visto non ci essere per ancora la nuova di tale liberatione, che si può giudicare non essere ancora seguito lo effetto; ma molte cose possono havere ritardato lo effetto, che non lo impediranno; et il benefizio accquista Cesare di prorogare un mese più per essere più preparato, et trovare noi più sprovvisti allo inpedire la sua passata, non pare che compensi la perdita fa nel conspetto del re, arrogendo alle altre ingiurie et bistrattamenti gli ha fatti, questa ultima stranezza; sì che si crede di qua sia più presto per altra causa, che per la da voi pensata. Essendo libero, quello egli dovesse fare subito, volendo giucare la ragione del giuoco, si intende benissimo; ma il non essere tenuto prudente fa dubitare assai che e' sia per verificarsi la seconda parte da voi disputata, cioè che sia per osservare l'accordo, maxime per qualche tempo; il che non potrebbe essere a più danno evidente della Italia et nostro si sia; et il pericolo a ciascuno appare et si mostra. De' rimedii non truovo ancora chi abbia cognitione, ché i Vinitiani con Nostro Signore, Ferrara et noi non sono giudicati per li più bastanti a obviare a Cesare la passata, stando il re neutrale.

Ho visto quello voi proponete in una lettera al Guicciardino, che la mia a lui, et la sua poi a me è stata commune, et in fine non satisfà, perché, da pigliarla per tal verso a scoprirsi Nostro Signore interamente, non si vede differentia, perché senza danari simil capitano di ventura non farebbe effetto, trovando riscontro in Lonbardia della sorte che troverrebbe; porgendoli N. S. da-nari, la inpresa diventa sua, et più si appruova ire con la insegna in su la gaggia per la riputatione, et per tirare nel medeximo ballo i Viniziani. Infine se il re non è savio, i partiti sono scarsi. Restaci poi che Cesare non conosca sì bella et grande occasione; et così il nostro è ne' dadi, ma habbiamo cattive volte.

Ma il giorno in che io scrivo non pare conporti simili ragionamenti; però passerò all'ultima parte, dove mi raccomandate la Barbera da cuore, inponendomi baci per amore vostro, di licentia però della donna, la quale non havendo mai potuta ottenere, non l'ho potuta ancora baciare; et mi sono poi persuaso, pensando meglio alla cosa, che voi in fatto non volevi venissi a tal passo, havendovi messo sì dura conditione; onde non vi ringratio molto di tale liberalità, havendovi conosciuto dentro una sottile avaritia. Hòvvi per scusato, ché io so horamai a mal mio grado che cosa è volere bene alle figliole di altri. Lessigli il vostro capitolo, et gli feci per nome vostro quelle più larghe offerte seppi, con animo di adempierle con gli effetti, pure che io potessi. Et intendendo per che causa ci era venuta, cominciai a parlare con Giovan Francesco de' Nobili, mio amicissimo et cognato di Camillo, della materia, et non ci trovai fondamento alcuno, et Camillo ancora se ne è venuto costì; onde per questa faccenda può partirsi a sua posta, come a Lorenzo Ridolfi, quale gli è similmente partigiano, più giorni fa dixi. Vedrà se ci è chi si diletti tanto di musica, che gli sia stabilita una provision' ferma, come da qualcuno gli è suto dato intentione, il che credo non habbia a riuscire; et così credo habbia a essere costì in brieve di ritorno. Altre nuove non ho.

Addì ultimo di Marzo 1526, in Roma.

Vostro Filippo Strozzi

 

 

298

Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini

 

Firenze, 4 aprile 1526

A messer Francesco Guicciardini.

Magnifico et maggior mio honorando. Io ho ricevuto questo dì, circa a hore 22, la vostra del primo del presente, et per non ci essere Ruberto Acciaioli, che ne è ito a Monte Gufoni, io mi transferii sùbito dal Cardinale, et gli dissi quale era la intentione di Nostro Signore circa le cose trattate da Pietro Navarra, et come sua Santità voleva che si trahesse da lui tale et sì gagliardo disegno, che desse cuore ad un popolo fatto a questo modo, et tanto che potesse sperare di difendersi da ogni grave et furioso assalto. Sua S.ria rev.ma disse che di nuovo lo harebbe a sé questa sera, et che lo pregherrebbe et graverrebbe con quelli modi più efficaci potesse a fare tale effetto. Nondimeno, ragionando noi insieme de' disegni dati, ci pare, che volendo stare in sul circuito vecchio, che non si possa migliorare, né si possa anco non stare in su tal circuito; perché, a non vi volere stare, conviene o crescere Firenze nel modo che sa la Santità di Nostro Signore, o levare via il quartiere di Sancto Spirito et ridurre la città tutta in piano. Il primo modo lo fa debole la gran guardia che vi bisognerebbe, dove il popolo del Cairo sarebbe poco; il secondo modo è parte debole et parte impio. Debole sarebbe, quando voi lasciassi le case di quel quartiere in piè, perché lasceresti una città al nimico più potente di voi, et che si varrebbe del contado più di voi, tanto che gli straccherebbe prima voi, che voi straccassi lui: l'altro modo di rovinarlo, quanto sia difficile et strano, ciascuno lo intende. Pertanto bisogna affortificarlo come egli è, in qual modo io non vi voglio ancora scrivere, sì perché egli non è bene fermo, sì ancora per non entrare innanzi a' miei maggiori. Bastivi questo: che delle mura di detto quartiere del di là d'Arno, parte se ne taglia, parte se ne spigne in fuori, parte se ne tira in dentro; et parmi, et così pare al signor Vitello venuto a questo effetto, che questo luogo resti fortissimo, et più forte che il piano; et così dice et afferma il conte Pietro, affermando con giuramento che questa città, acconcia in tal modo, diventa la più forte terra di Italia. Noi habbiamo a essere insieme domattina per rivedere tutto et maxime il disegno maggiore; dipoi si ristrigneranno questi deputati, et esamineranno ciò che si è ordinato, et tutto si metterà in scritto et in disegno, et manderassi costì alla S.tà di Nostro Signore, et sono di oppinione gli satisfarà, et maxime quello del poggio, dove sono fatti i provedimenti strasordinarii. Quel del piano non si parte dall'ordinario, ma perché simili siti ognuno gli sa fare forti, inporta meno. Il conte Pietro starà qui domani et l'altro, et ci sforzereno di trarli del capo se altro vi sarà; et io ho atteso ad udire, perché non mi intervenisse come a quel Greco con Annibale. Ringraziovi, etc.

Addì 4 di Aprile 1526.

Niccolò Machiavelli

 

 

299

Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini

 

Firenze, 17 maggio 1526

A messer Francesco Guicciardini.

Io non vi ho scritto poi che partii di costì, perché ho il capo sì pieno di baluardi, che non vi è potuto entrare altra cosa. Èssi condotta la legge per l'ordinario in quel modo et con quello ordine che costì per nostro Signore si divisò. Aspettasi a pubblicare il magistrato, et a gire più innanzi con la inpresa, che di costì venga lo scambio a Chimenti Sciarpelloni, il quale dicono che, per essere indisposto, non può attendere a simil' cose. Converrà ancora fare lo scambio di Antonio da Filicaia, al quale avanti hieri cadde la gocciola, et sta male. Maravigliasi il Cardinale non havere hauto risposta di Chimenti, et si comincia a dubitare di qualche ingambatura: pure non si crede, sendo la cosa tanto innanzi.

Io ho inteso i romori di Lonbardia, et conoscesi da ogni parte la facilità che sarebbe trarre quelli ribaldi di quel paese. Questa occasione per l'amor di Iddio non si perda, et ricordatevi che la fortuna, i cattivi nostri consigli, et peggiori ministri harieno condotto non il re, ma il papa in prigione: hannonelo tratto i cattivi consigli di altri et la medesima fortuna. Provvedete, per l'amor di Iddio, hora in modo che S. S.tà ne' medesimi pericoli non ritorni, di che voi non sarete mai sicuri, sino a tanto che gli Spagnuoli non siano in modo tratti di Lonbardia, che non vi possino tornare. Mi pare vedere lo imperadore, veggendosi mancare sotto il re, fare gran proferte al papa, le quali doverrieno trovare gli orecchi vostri turati, quando vi ricordiate de' mali sopportati, et delle minacce che per lo addietro vi sono state fatte, et ricordatevi che il duca di Sessa andava dicendo, quod pontifex sero Caesarem ceperat timere. Hora Iddio ha ricondotto le cose in termine, che il papa è a tempo a tenerlo, quando questo tempo non si lasci perdere. Voi sapete quante occasioni si sono perdute: non perdete questa né confidate più nello starvi, rimettendovi alla Fortuna et al tempo, perché con il tempo non vengono sempre quelle medesime cose, né la Fortuna è sempre quella medesima. Io direi più oltre, se io parlassi con huomo che non intendesse i segreti o non conoscesse il mondo. Liberate diuturna cura Italiam, extirpate has immanes belluas, quae hominis, preter faciem et vocem, nichil habent.

Qui si è pensato, andando la fortificazione innanzi, che io facci l'offizio del proveditore et del cancelliere, et mi faccia aiutare da un mio figliolo, et Daniello de' Ricci tenga i danari et tutte le scritture.

Addì 17 di Maggio 1526.

Niccolò Machiavelli

 

 

300

Francesco Guicciardini a Niccolò Machiavelli

 

Roma, 22 maggio 1526

Spectabili viro Niccolao de Machiavellis.

Niccolò carissimo. Harete visto per la pubblicatione del magistrato che a questa hora debbe essere fatta, che il dubio che voi havevi costì, di che mi scrivete per la vostra de' 17, era vano perché N. S. è del medesimo pensiero né per raffreddarsene a giuditio mio; et lo scambio che gli ha ordinato per Antonio da Filicaia ne può essere optimo testimonio. Però sollecitate la materia acciò che una volta se gli dia principio.

De rebus universalibus dico quel medeximo che dite voi; et del discorso vostro, oltre allo essere verissimo, è qui ben conosciuto quanto ci è di male, et che le cose a che hanno a concorrere più potenti hanno sempre di necessità più lungheza che sarebbe il bisogno; pure spero non si habbia a mancare del debito per ognuno, se non sì presto quanto bisognerebbe, almanco non tanto tardi che habbia a essere al tutto fuori di tempo.

Rome 22 Maii 1526.

Vester Francesco Guicciardini

 

 

301

Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini

 

Firenze, 2 giugno 1526

A messer Francesco Guicciardini.

Magnifico signor Presidente. Io non vi ho scritto più giorni sono della muraglia: hora ve ne dirò quanto occorre. Qui si vede come il papa è tornato in su la oppinione de' monti, mosso dalla oppinione di Giuliano del Bene, il quale nella sua lettera dice che nello abbracciare tutti quelli poggi è più fortezza et meno spesa. Quanto alla fortezza, niuna città assai grande è mai forte, per-ché la grandezza sbigottisce chi la guarda, et puovvi nascere molti disordini, che nelle commode non fa così. Della minore spesa, questa è una chiacchera, perché egli fa molti presupposti che non sono veri. Prima egli dice che tutti quelli monti si possano sgrottare da quella parte che è dalla casa del Bonciano a quella di Matteo Barton in fuora, che sono, secondo lui, mille braccia, ma le sono 1600, dove solo bisogna murare tutte le altre. Dice si possono ridurre le grotte ad uso di mura, et sopra esse fare un riparo alto 4 et grosso 8 braccia. Questo non è vero, perché vi sono infiniti luoghi che, per havere il piano, non si possono sgrottare; l'altro, tutto quello che si sgrottasse, non starebbe per sé medesimo et franerebbe, di modo che bisognerebbe sostenerlo con un muro; dipoi li ripari intorno costerebbono un mondo, et sarebbono a questa città vituperosi, et in brevissimi anni si harebbono a rifare; sì che la spesa sarebbe grande et continova, et poco honorevole. Dice che il Comune si varrebbe di ottantamila ducati di miglioramenti di possessione, il che è una favola, né egli sa quello che si dice, né donde questi miglioramenti si havessino a trarre; tanto che a ciascuno pare di non ci pensare. Nondimeno si farà fare il modello che il papa ha chiesto, et se li manderà. Insino a che non si dà assegnamento particulare a questa impresa, è necessario spendere de' danari che ci sono, et però nella legge fatta si dispone che il depositario de' Signori paghi de' danari si truova in mano del Commune per qualunque conto, tutti quelli che da i Signori insieme con gli offiziali gli saranno stanziati. Nondimeno Francesco del Nero farà difficultà in pagarli, se da N. Sig. non gli è fatto scrivere che gli paghi. L'officio ne ha scritto allo imbasciatore: priegovi aiutiate la cosa, che il papa glie ne scriva.

Addì 2 di Giugno 1526.

Niccolò Machiavelli

 

 

302

Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini

 

Firenze, 2 giugno 1526

A Messer Francesco Guicciardini.

Io non ho hauto commodità di parlare prima che sabato passato a L. S., ma essendo con lui, et ragionando seco di più cose, mi entrò sul suo figliolo, tanto che io hebbi occasione di dolermi seco dello havere egli tenuto poco conto della pratica che già gli havevo mossa, et che io ero certo, come già gli fuggì un parentado ricco, che hora glie ne fuggirebbe uno honorevolissimo et non po-vero, né sapevo, se desiderava dargli una fiorentina, dove si potesse altrove capitare. Egli liberamente mi confessò che io dicevo il vero, et che voi lo havevi fatto tentare, et che a lui non potrebbe più piacere, et che gli piaceva tanto, che se bene la cosa non si faccesse hora, che havendone voi quattro, credeva potere essere a tempo ad una. La ragione del differire era, che la donna stava meglio che la non soleva, che il garzone haveva preso migliori indirizzi, usando con huomini litterati et studiando assiduamente; le quali dua cose per man-carne altra volta, lo faceva pensare ad acconpagnarlo. La terza era una sua figiola, quale desiderava maritare prima; ma che la cosa nondimeno gli piaceva tanto, che haveva già più volte ragionato con il garzone di voi, et presa la occasione dallo essere stato in Romagna duoi giorni con Jacopo vostro, quando tornò dall'Oreto, et che gli mostrava la grandezza di quel grado, et con quanta dignità voi l'havevi tenuto, et il nome che voi havevi, et che haveva posto in cielo le qualità vostre; et che questo haveva fatto per facilitare la cosa, quando se ne havesse a ragionare, perché dubitava che non havesse il capo a gran dote; et parlò, circa a queste cose, in modo che io non harei desiderato più. Io non mancai di mostrarli che quelli rispetti erano vani, perché la fanciulla era di età che la si poteva tenere così quattro o cinque anni, et che questo gli aiuterebbe maritare la figliola, perché chi vuole dote strasordinarie le ha a dare, et conbatte'lo un pezzo, tanto che, se egli non fosse uno huomo un poco legato, io ci harei dentro una grande speranza.

Addì 2 di Giugno 1526.

Niccolò Machiavelli

 

 

303

Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini

 

Firenze, 2 giugno 1526

A messer Francesco Guicciardini.

Ancor che io sappia che da Luigi vostro vi sia stato scritto la oppinion sua circa il mettere dentro il colle di Samminiato, perché mi par caso inportantissimo, io non voglio mancare di scrivervene un motto. La più nociva impresa che faccia una republica è farsi in corpo una cosa forte, o che sùbito si possa fare forte. Se voi vi arrecate innanzi il modello che si lasciò costì, voi vedrete che, abbracciato Samminiato et fatto lassù quel baluardo, che una fortezza è fatta, perché dalla porta a San Miniato a quella di San Niccolò è sì poco spatio, che cento huomini in un giorno, sgrottando, lo possano mettere in fortezza, di qualità che, se mai per alcuno disordine un potente venisse a Firenze, come il re di Francia nel 1494, voi diventate servi senza rimedio alcuno, perché, trovando il luogo aperto, voi non potete tenere che non vi entri; et potendosi serrare facilmente, voi non potete tenere che non lo serri. Consideratela bene et, con quella destrezza potete, obviatela, et consigliate quella tagliata, la quale è forte et non pericolosa, perché, se quella di Samminiato si comincia, io dubito non dispiaccia troppo.

Vi ho scritto queste 3 lettere appartate, perché le possiate usare tutte come vi vien bene.

Addì 2 di Giugno 1526.

Niccolò Machiavelli

 

 

304

Niccolò Machiavelli a Bartolomeo Cavalcanti

 

Marignano, 13 luglio 1526

[...]anchora avanti all'uscio del proveditore i suoi carriaggi carichi; entrarno al Duca su da lui, detto in brievi parole come ad non volere essere rotti era necessario levarsi, et veggiendo questa ro-vina certa, non era necessario consigliarla altrimenti. Non si potette fare altro in quel caso che dolersi del disordine et acordarsi ad ubidire ad quella necessità. Levossi il campo la mattina avanti giorno, più presto con segni di paura che altrimenti, perché il Duca comandò ad chi guidava le artiglierie che andassi verso Lodi et non si fermassi se da lui non haveva nuova commisione; mandò il proveditore il suo carretieri a Lodi con gli arienti et suoi miglioramenti; rimase uno padiglione del loro campo a' nimici; un loro connestabile, non sentendo ch'el campo dilogiava, rimase solo, in modo che fu ad un bel presso di non rimanere preda. Tucto lo antiguardo, cosa di fanti come di cavagli, si filò per più che per metà et più che di trotto n'andò a Marignano; donde, veggiendo il luoghotenente questo disordine, domandò alcun furieri dove si ordinava lo alloggiamento, i quali risposono: A Marignano. Di che lui si maravigliò, essendosi rimasi la sera di alloggiare a San Martino. Et tennonsi sopra la strada, et col Duca et col proveditore fece ogni opera perché si seguisse l'ordine dato, né possé fare alcun fructo. Et così ci conducemmo qui a Marignano, dove siamo ancora. Et veramente, se e nimici havessino conosciuto il disordine della sera et quello della mattina, sanza alcun dubio ci facevono dispiacere et si portava pericolo che non diventassino in un punto signori di Italia.

Sono stati dipoi in consulta, questi signori; dove il Duca aferma con queste fanterie non si rincorare fare opera buona, et se bene questa prima banda di Svizeri, che debbe essere circa 5 mila, venisse, non farebbe alcuna impresa dove si potesse venir a giornata. Stiamoci dunque così aspectando che le genti, che hanno a venir di Francia et di Svezerìa, venghino; et havendo considerato alla variatione della opinione del Duca, si iudica come naturalmente, secondo i suo primi discorsi, e' non confidava nelle suo genti et non si voleva mettere ad alcun ristio; ma la importunità di chi lo spignieva innanzi, che erano tutti e sua maggiori, lo feciono pigliare quel partito, sperando ancora, forse rispetto al castello nimico et a quello male contento perché nascere' fra i nimici disordine a beneffitio nostro. Et questa fu forse la cagione che la mattina e' corse sì presto, et piantò le artiglierie, et appiccò quella scaramuccia, giudicando che, quanto più animo si monstrava, più e nimici havessino a spaventare et o a ppartirsi o a non ci asalire. Ma, condocti alla sera et non havendo facto alcun fructo, tornò nella natura sua et nella sua prima diffidentia. Di qui nacque la sùbita et inconsulta levata et la gran ritirata di Marignano, non volendo più che l'animo troppo d'altri nocessi a' rispecti suoi. Siamo pertanto qui dove voi vedete; et io giudico e' si ha a fare tanto che e' non segua disordine infra che gli adiuti che hanno ad venire venghino et le genti che si hanno a muovere et nel Regno et fuora di Italia si muovino: ché non è possibile che questa guerra non si vincha, perché, se gli adiuti venghono a noi prima di Francia che non venghino a' nimici d'Austria, questa guerra sarà finita in duo giorni; ma quando e' venghino in un tracto et i nostri et i loro, et noi con uno alloggiamento forte gli tenghiamo ristretti, in poco tempo, quando non manchino i danari a noi, conviene che manchino alloro, et patendo carestia d'ogni cosa, come patiranno havendo il paese inimico, è necessario che in poco tempo e Thedeschi si risolvino et la victoria ci caggia in mano. Ma bisogna non voler vincier troppo presto, acciò non ci intervenghi come a quelli mercatanti animosi che, per volere arricchire in uno anno, impoveriscono in 6 mesi.

Altro non ho che dire, se già io non volessi contristarvi narrando le miserie di questo paese, il che non voglio fare per non turbare il lieto animo vostro, et de' nostri amici; et però farò fine, pregandovi che a Giovanni Serristori et ad gli altri mi raccomandiate, leggiendo loro questa lettera senza darne copia o altrimenti publicarla. Et questa sia per risposta ad una havuta da voi in grammatica, la quale fu lecta dal luoghotenente et assai commendata, et è diventato tucto vostro, perché gli pare che così le vostre qualità meritino. Vale iterum, et me, ut facis, ama.

Die xiii Julii 1526.

Niccolò Machiavegli. In campo

 

 

305

Agostino del Nero a Niccolò Machiavelli

 

Bologna, 21 luglio 1526

Spectabili viro, domino messer Nicholò Machiavelli, suo honorando. Al Maringniano.

Ihesus. Al nome de Dio, addì xxi di luglio 1526.

Honorando in luogho di padre. Doppo la partita vostra di Bolongnia, non vi s'è scritto per non essere ocorso e anchora per non vi dare fastidio. Questa solo sarà per dirvi come dal mio honorando Francesco m'è dato comissione che facesse intendere come fra due giorni costì saranno conparsi una certa somma di denari, fra' quali è ducati 7000 d'oro incircha fiorentini, per la quale coxa vorrei fusse contento d'essere da messer Alexandro del Chaccia, quando si richontano, per poterne fare fede al signor locotenente, il quale vedesse che di simile coxe non farei merchantie, che so quelli mandai un mese fa mi furno mandati coxì, ché-mme verghognieria come un manigholdo a non mandare i medesimi ducati che mi sono mandati. E, potendo, desiderrei menasse la signoria del locotenente, acciò vedessi colli sua hochi che sorta d'oro è quello ho mandato a messer Alessandro.

Di Firemze non ho da dirvi niente, ché il vostro Bernardo non m'à mai scritto; parei scritto qualche volta a·llui, ma mi trovo tanto hocupato dalle facende, che non l'ò potuto fare.

Penso, a questa hora, abbiate venduto il cavallo, e bono prezzo. Non altro. A voi senpre mi rachomando. Rachomandatemi al signore locotenente e hoferitemeli per suo bon servitore.

Vostro Aghostino del Nero, in Bolongnia

 

 

306

Jacopo di Filippo Falconetti a Niccolò Machiavelli

 

Firenze, 5 agosto 1526

Spectabili viro Nicholò Maciavegli, in champo de la Lega.

Carissimo Nicholò, a voi de chonttinovo mi rachomando etc. Questa per dare risposta a una vostra, per la quale inttendo chome avette vendutto el chavalo, e dove ò avere e danari; e sòmi istati pagatti, che ttutto istà bene. Anchora per detta intendo chome la Barbera no' v'à mai ischritto e ch'aresti disiderio inttendere chome istà. Di che, subitto ebi la vostra, andai a·ttrovare detta Barbera; e di già v'aveva ischritto, e chredo l'abiate autta: e no' pottei fare che io no li dicesi una chartta di vilania; i' modo me rispose che si maraviglava di me, e che non aveva uomo che la istimase più e che più le pottesi chomandare; ma bene che la vi faceva qualche bischencha, per vedere se voi le volete bene. E arebe disiderio voi fusi più presto a Firenze, perché gli pare, quando voi ci siete, dormir cho' gi occi vostri. Ora voi la chonocete megio di me: non so se s'è da chredegli ongni cosa. E a me si ischusò cho' dire non e' s'è istata a Firenze; ché di questo so che la dice el vero, perché io mandai più volte per lei, e subito fu tornata, vene a l'orto, perché v'avevo una ro-mana. E ami detto vi schriverà ongni settimana, po' che la vede che voi le vedete volentieri. E pregòmi istrettamente che io ve la rachomandasi, e pregasi non avesi istizza con eso lei. Io salutai Rafaelo Chorbinegli per vostra parte; e lui mi dise che se io vi iscrivevo che si rachomandava a voi, e ch'è tutto vostro. Se io poso qua chosa alchuna, chomandatemi, ché voi nomi potresti fare e magior piaccere. Idio vi guardi.

Addì 5 Agosto 1526.

Vostro Jacopo di Filipo fornaciaio, in Firenze

 

 

307

Francesco Vettori a Niccolò Machiavelli

 

Firenze, 5 agosto 1526

Compare mio caro. In dua giorni ho dua vostre. Lungha l'ultima delli 31 del passato, e vi resto ubrigato che mi habbiate scripta tanto distintamente in che termine vi trovate; e perché in detta lettera sono molte chose che importano, né si possendo rimediare o prevedere di qui, le ho mandate a Roma a Filippo, con farli intendere le usi secondo la prudentia sua, e son certo lo farà, purché ritrovare la si faccia. Subito che hebbi la vostra, mi feci condurre da Donato a casa la Barbera; e, benché ella mi mostrasse l'ordine, li anni, i pensieri, l'infermità mi hanno in modo indebolito ed il corpo e la fantasia, che non la ritrovavo bene. Però fui forzato usare la spera di Francesco del Nero, ma con mille protesti di non parlare; e credo me l'observerà, perché il poveretto ha di presente altri pensieri che motteggiare, e mettere la cosa in chantafavola. Et vi prometto che non ha una ora di riposo, sempre è fantastico, rimbrottoso, non se li può parlare. E pensate che in Firenze sono molti che, quando vengono nuove avverse, sono trafitti nel mezzo quore. Ma nessuno tanto, quanto lui; e non so come il cervello se li regge fra tante faccende, quante ha. Basta che trahemo la cifera, né voglio parlare di quello è seguito o sia per seguire costà, ma solo vi voglio dire che l'Imperatore ha troppo gran fortuna; e lasciando da parte la cosa de li altri anni, questa ha fatto che s'indugiò tanto a pigliare l'impresa, che il popolo di Milano fu battuto; questa, che vi conducesti tardi e con poco ordine alle mura di Milano, vi ritraessi senza veder chi vi cacciassi; questa, che deliberassi in molti dì di soccorrere il Castello; e dopo, la deliberatione seguissi con tanta tardanza che fu necessitato accordare prima; questa, che i Genovesi, che dovrebbero essere maggiori inimici che Cesare havessi in Italia, stanno sotto a Antoniotto Adorno ed aiutano e con denari e con ogni altro modo qualunque impresa di Cesare; questa fa che Inghilterra, poi che Cesare ha tolto altra donna che la figlia, non vi pensa e non tiene conto di non essere stimato, et il Cardinale, che suole essere il più superbo huomo del mondo, è il più umile.

Havevo scripto iersera insino qui in botega di Donato, in su testo foglio, con mala penna e peggiore inchiostro, e la volevo finire, ma quel cazo di Donato volle serrare, e bisognò con Donato havessi pazienza. E per tornare alla fortuna di Cesare, questa fa che il Cristianissimo seque e ne' suoi disordini et straccuraggine, donde il Papa et i Venetiani sono chominciati a insospectire che quello che procede dalla natura del Re et dal non potere, proceda dal non volere. La fortuna decta è causa che tutti gli Spagnuoli indovinino per exaltarlo, et lui dall'alto canto in Hispagna si governi in tutto e per tutto chome vogliono e Fiamminghi et togga agli Spagnuoli ciò che può per dare a decti Fiamminghi. Questa è causa che Ferrara non s'achordi chol Papa; et questa in ultimo ha facto che le genti, non voglio dire exercito, del Papa, et Fiorentini sieno state ropte da 400 comandati sanesi et non più; sendo cinque mila fanti pagati et almeno trecento chavalli da guerra, tra buoni et chattivi.

Voi sapete che io male volentier m'achordo a credere choxa alcuna sopranaturale, ma questa volta mi pare stata tanto extraordinaria, non voglio dire miracholosa, quanto choxa che sia seguito in guerra dal '94 in qua. Et mi pare simile a certe historie ho lecte nella bibia, quando entrava una paura nelli huomini, che fuggivono et non sapevono da chi. Di Siena non uscirno più che 400 fanti, che ve n'era il quarto del dominio nostro, banditi et confinati, et 50 chavalli leggieri, et feciono fuggire insino alla Chastellina cinquemila fanti et trecento chavalli che, se pure si mettevono insieme, dopo la prima fuga, mille fanti et cento chavalli, ripigliavono l'artigieria in capo d'un'hora, ma senza essere seguìti più che un miglio, fuggirono dieci. Io ho udito più volte dirvi che il timore è il maggiore signore che si truovi, e in questo mi pare haverne visto la experientia certissima; o pure questa fortuna dura qualche volta un tempo et poi varia, et noi non sappiamo quando ha a cominciare e variare. Il Papa fece la impresa con ragione, et se si perderà, nessuno potrà dire che lui sia stato mosso da passione. Io non voglio iudicare quello habbi a seguire, perché sono troppo sospectoso. Non vi voglio già celare l'errore mio, ch'io stimerei una delle buone nuove che si potessi havere, quando s'intendessi che il Turco havessi preso Ungheria et si voltassi verso Vienna; et che lutherani fussino al disopra nella Magna; e i Mori, che Cesare vuole chacciare d'Arragonia et di Valentia, facessino testa grossa, et non solamente fussino atti a defendersi, ma a offendere. E sono venuti qua certi et da Milano et da Cremona, che hanno facto tale relatione delli imperiali, choxì Spagnuoli chome Tedeschi, che non c'è nessuno che non volessi più presto il diavolo che loro. Intendete le vostre cifere: [...] quanto a danari, possino bastare et sollecitare a Roma et non qui, dove sono molte difficultà, et però bisogna non restare di sollecitare.

Compare, io non appruovo quello andare con lo exercito verso il regno, perché havendo la Lega facta tanta impresa per sochorrere il chastello et non l'havendo facta, ma lasciatolo achordare sulli ochi, havendo il Re e il Papa armata in mare per tenere che Borbone non venissi, et sendo lui venuto, havendo parte della lega facta l'impresa contra Siena et mandato la gente per vincere et essere suta vinta, io non crederrei che in su questa disdecta et cum tanta pocha reputatione si potessi sforzare uno forno. Approverei bene, per sollecitare il Re, che fussi bene offerirli et Milano et dell'altre cose [...] io non mi voglio stillare il cervello in su questi ghiribizi che m'affliggono, et maxime che ho il piato ordinario con la cognata, che benché sia in nome di questa, bisogna, sendomi fratello, l'aiuti; et havendo a fare con una sorella di Matteo Strozi, con tanta qualità, con tanti parenti et richeza, mi bixogna procedere con riguardo; in modo, dubito non ci havere a mettere della roba et de l'honore. Noi qua habbiamo molto triste ricolte, et intendiamo che altrove sonovi peggiori; in modo stimiamo che l'anno habbi a essere pessimo, et per guerra et per peste et per fame, et perché nelle tribulatione si ricorre a Dio, intendendo anchora che li Sancti per fare orationi et processioni hanno vinto, habbiamo cercho di obtenere uno jubileo da Nostro Signore per mezo agosto, el quale si piglierà senza danari, et basterà ad piglarlo digiuni, confessioni et oratione, non m'achade dirvi altro per questa, se non pregarvi mi rachomandiate a Messer Francesco et a Voi medesimo.

In Firenze a dì 5 d'Agosto 1526.

Francesco Vettori

 

 

308

Francesco Vettori a Niccolò Machiavelli

 

Firenze, 7 agosto 1526

Al mio caro compare Niccolò Machiavelli nell'esercito della Lega.

Conpare mio caro. Hieri risposi a due vostre [...] de' 31 del passato. Hiersera poi [...] me ne fu portata una altra delli 2, dove molto particularmente date notitia della qualità dell'exercito della Lega et delli Cesarei. Mostra'la al cardinale Hippolito, et Hippolito la lodò assai; et veramente, se' danari reggono, mi persuado che questa guerra habbia havere buon fine. Ma qui consiste il caso, et io so bene insino dove qui si può ire, ma a Roma non so già quello si possa fare. Voi mi dite che desiderreste intendere come è successo appunto il caso di Siena, il che, quamquam animus meminisse horret, m'ingegnerò scrivervi.

I Sanesi havevono mandato 500 fanti et 50 cavalli leggieri con artiglieria per pigliare Monte Rifre, fortezza di Giovanni Martinozzi. Il papa, inteso questo, gli parve, se si lasciava pigliare que-sto luogo, che e libertini havessono a pigliare troppo animo, et havessono a cercare poi infestare i confini nostri, et che noi fossimo necessitati spendere per difenderli; et essendo voi levati da Milano, giudicando che la guerra havesse a ire in lunga, volle tentare se poteva assicurarsi di Siena con poca spesa, con il rimettere gli usciti, i quali affermavono sicuramente che, come entravano in quello di Siena, [...] che tutto il contado sarebbe [...] accostassino a Siena, che essa volterebbe [...]. Disegnò mandare il conte dell'Anguillara con 100 cavalli tra buoni et cattivi, et con 800 fanti che havessero mezza paga, et il conte di Pitigliano con altanti, et Gentile Baglioni con la medesima quantità; et ordinò qui che solo facessino un poco di dimostratione di comandare fanti, et trarre fuori due pezzi di artiglierie, et si mandasse un commessario a Montepulciano. Qui essendo venuto questo ordine resoluto, non si possette replicare; ma in un poco di pratica che si fece, Luigi Guicciardini, come più experto et forse più prudente, disse che si andava a perdere, perché non era più il tempo che le guerre si potessono fare co' comandati, i quali farebbono disordine di vettovaglie con il rubare, et poi sarebbono i primi a fuggire. Seguisse l'ordine, et si haveva a cercare di ronpere i fanti sanesi che erano a Monte Rifre, dove andarono i fanti di messer Gentile con buoni capi, secondo l'uso di quelle factioni là. Ma come furono presso alli inimici cominciarono a chiedere la paga intera; et non vi essendo chi la potesse loro dare, si ribellorono in modo che dierono facilità a quelli che erano in Monte Rifre di ritirarsi con le artiglierie [...] quelli altri che venivono [...], romore, cominciarono a rubare tutto il paese; in modo che pativano grandemente di vettovaglie; et però determinarono provare se potevano havere Monte Alcino, et vi s'accostarono senza artiglierie et senza scale, et ne furono ributtati con danno et vergogna.

Inteso questo il papa, et, davvantaggio, che tra gli usciti era grande dissensione, pensò, per mezzo del sig. Vespasiano Colonna, fermare uno accordo, parendoli in questo modo havere manco vergogna; il quale quando questi usciti intesono, cominciarono a exclamare; et digià il papa haveva fatto intendere che non si procedesse più oltre. Mandarono qui Domenico Placidi, et a Roma Aldello a significare che non si contentavano di questo accordo, et con esso non vi potevano tornare sicuri, et che, se si seguiva di condurre il campo alle mura, la inpresa era vinta. Il papa cominciò a prestare loro orecchi, per le persuasioni maxime del datario, inclinato assai a rimettere i fuorusciti, et ordinò che di qui vi fossero mandate artiglierie et fanti; et perché i Sanesi, così gli usciti come quelli di dentro, temessino manco et si fidassino più, quando e' si havesse a trattare accordo, si mandò là Ruberto Pucci, chome huomo più presto da trattare pace, che da ordinare la guerra, perché per ordinarla vi era un commessario parmigiano, [...] il quale qui si credeva essere huomo [...]. Piantaronsi l'artiglierie et [...] cinque mila fanti pagati oltre a molti comandati. [...] nostri conestabili vi era Jacopo Corso et il signore Francesco dal Monte, che pure hanno havuto qualche nome nella guerra. Piantaronsi 13 pezzi d'artiglieria tra grandi et piccoli dalla banda che viene in qua, in luogo che poco offendevano le mura di Siena. Il campo era alloggiato per tutto quel borgo, molto commodo per quelli che vi erano; et benché vi andasse molti Fiorentini per vedere, et riferissino che il campo stava quivi con pericolo, Ruberto, quando gli era scritto di qui, diceva, che intendeva il medeximo da molti, ma quando chiamava quelli capi in consulta, loro tutti d'accordo, ma maxime Jacopo Corso diceva che il canpo era sicurissimo, et che non vi era un dubbio. Pure venendo questa voce qui da molti, si era risoluto ritirare le artiglierie, et per questo vi si era mandato Gherardo Bartolini; ma egli non era ancora a Poggibonzi, che cominciò a trovare gli huomini che fuggivono, et riferivono la rotta, la quale seguì in questo modo.

Li nostri erano alloggiati, come vi ho detto, nel borgo che viene verso Firenze, il quale è lungo, et la strada è larga circa venti braccia. E commessari, come poco accorti, havevono lasciato fare a quelli che vendevano i bisogni del campo, da ogni parte del borgo, frascati, in modo che la strada non veniva a restar libera 8 braccia. Fu assaltato la guardia delle artiglierie alli 25 a hore 19; et uscirono i Sanesi per la porta di Fontebranda circa 200, et 200 per lo sportello della medexima porta, dove era il campo. Le scolte, o guardie per dire meglio, gli viddono uscire, ma non prima furono alle mani, che la compagnia di Jacopo Corso, et di altri Corsi venuti con il conte dell'Anguillara, cominciò a fuggire. Come la fuga cominciò, quelli che vendevono empierono la strada, per ordinarsi a scampare, di muli et asini, di barili et cestoni, in modo che non vi fu alcuno che mai potesse fare testa. I cavalli del conte di Pitigliano et dell'Anguillara, che non erono usi né gli huomini né essi, a vedere che bufoli, si missono a correre; et se nessuno fante si voleva fermare, correndo a tutta briglia, gli disordinavano. Solo Braccio Baglioni con forse 50 cavalli leggieri corse inverso l'artiglieria, et messe in fuga i Sanesi che vi erono, et prese un nipote del sig.r Giulio Colonna, il quale condusse prigione alla Castellina; ma non essendo seguito da nessuno, bisognò che cedesse alla fortuna. Il sig.r Francesco dal Monte fu causa di un disordine grande, perché, havendo seco un suo figliuolo giovanetto, in sul primo assalto dubitando, lo diede in custodia a due de' suoi primi che lo scappassino: loro cominciarono a fuggire con esso; donde ne seguì che la più parte della sua conpagnia dette a gambe; et vedendo gli altri fuggire, e fanti del sig.r Francesco, che erano tenuti armigeri et d'i migliori di quel campo, fuggirono ancora loro. Così detto signore restò a fare un poco di testa con cinque o sei de' suoi, ma non fece effetto alcuno.

In effetto quei cavalli et fanti fuggendo, né essendo seguitati da alcuno de' nimici, non restarono mai di correre insino non furono alla Castellina, et quivi non parve loro essere sicuri, se non furono serrate le porte. Perdessi l'artiglierie, et qualche roba che era per quelle case, non però molta, ché ciascuno si sforzò salvare più che poteva; et come per altra vi dissi, credo che altre volte assai sia accaduto, che uno exercito fugga alle grida, ma che fugga 10 miglia, non essendo alcuno che lo seguiti, questo non credo che si sia mai letto né veduto; et questo procedette dalla facilità che havevono i nostri fanti del salvarsi; ché, se havessero havuto a fuggire per il paese nimico, mai si sarieno messi in fuga. Però concludo che il discorso che voi fate è verissimo, che gli imperiali di Milano sono fatti audaci dalle vittorie passate et dalla necessità; pure ho fede, et maxime per il buono ordine de' capi che sono costì, che le cose habbiano a procedere bene.

Questi Franzesi penono tanto a mandare i loro aiuti, che qui si comincia forte a dubitare della volontà di quel re; et benché Ruberto scriva lettere di fuoco, non vedendo li effecti, non se li crede; et si crederrà bene a voi quando scriverrete che costì comincino a conparire Svizzeri o lance per conto di quella Maiestà.

Sonci questa mattina lettere di Spagna, ma molto vecchie, che credo siano de' 9 di giugno. Cesare era in Granata con pochissimi danari; et si vedeva freddezza et irresolutione circa tutte le cose.

Le altre vostre mandai a Roma; questa non ho mandata. Ho bene ricordato qui quella parte che è in cifera, ma poi che l'amico fa tanto, quanto voi mi dite, [...] et segua poi che vuole. A Siena per hora non si fa altro. Guardonsi bene questi nostri confini, et con spesa. Loro mandarono subito bandi, che nessuno loro suddito ardissi rubare cosa alcuna a' Fiorentini. Messer Andrea Doria ha tolto loro Port'Hercole et Talamone et le fortezze et qualche altro castelluccio in quella maremma. Pregovi mi raccomandiate a messer Francesco, et sono tutto vostro. Iddio vi guardi.

In Firenze, addì 7 d'Agosto 1526.

Francesco Vettori

 

 

309

Bartolomeo Cavalcanti a Niccolò Machiavelli

 

Firenze, 11 agosto 1526

Al mio come padre honorando Niccolò Machiavelli.

In campo.

Niccolò mio honorando. La cagione che io non vi ho scritto così spesso, come voi forse haresti desiderato et co-me io certamente harei voluto, è stata, che non havendo prima inteso più mie lettere esser comparse, parte a voi parte al Guidotto scritte, non volevo di nuovo invano scrivervi. Ma subito che io ho inteso quelle benché tardi essere arrivate, non mi sono potuto tenere, quantunque materia mi manchi, che io non parli per lettere alquanto con voi, la presenza et i ragionamenti del quale, come suavissimi et prudentissimi, ogni giorno più desidero, né posso fare che d'esserne privato non mi doglia. Voi mi aguzzasti l'appetito nel principio, di poi non mi havete pur di due parole pasciuto né meritava però questo il silenzio mio, se silenzio si può chiamare il non vi torre ogn'hora il capo con cicalare et con ragionamenti di veruno momento; perché da me sapete bene che non havete aspettare lettere che contenghino cose grandi, non se ne trattando qua in parte alcuna, né che discorrino le cose presenti, le quali prima io non intendo, et in ogni modo non sarei sì prosuntuoso et inetto ch'io ardissi di quelle discorrere. Ma questo sapete voi certissimo et non ne potete dubitare, che io desidero sommamente le vostre lettere et che appresso di me sono in luogo di oracoli, tal che per l'una et per l'altra cagione voi ne potevi essere meco alquanto più liberale. Et se vi paresse che quella vostra fosse ancora atta a pascermi, perché in verità iam tum prospiciebas, nondimeno molte cose sono accadute di poi quae concilia vestra bellique rationem immutarunt; per il che io non posso più stare digiuno, et aspetto con grandissimo desiderio le vostre lettere, le quali per impetrare più facilmente non ci aggiunierò preghiera parendomi cosa indegna dell'amicizia nostra, alla quale voi havete sempre liberalmente ogni cosa conceduto, et questa, spero, che volentieri concederete. Duolmi non haver materia da ragionare a lungo con voi, per la qual cosa mi riserverò alla risposta che alle vostre quali io aspetto farò, perché da quelle harò materia grande, et in questo tempo forse ancora accadrà qualche cosa da scrivervi; il che se fia, io non mancherò di diligenza né d'ufizio alcuno verso di voi.

Li amici vostri stanno tutti bene et desiderano grandemente vostre lettere. Noi se non fusse l'accatto, siamo qui nella pace di Cesare Ottaviano et in una quiete grandissima. Siena non ci dà più noia. Voi siete lontani, et che ci manca? Restami pregarvi che mi raccomandiate strettissimamente al sig. Luogotenente, di poi salutiate per mia parte Giovanni Bandini, il Fieravante et gli altri amici, offerendomi loro. Voi state sano, et comandatemi se per voi far posso cosa alcuna.

Di Firenze, alli xi d'agosto MDXXVI.

Vostro Bartolommeo Cavalcanti

 

 

310

Francesco Vettori a Niccolò Machiavelli

 

Firenze, 24 agosto 1526

Spectabili viro Niccolò Machiavelli ecc.

Compare mio caro. L'ultima che io vi scripsi dava ragguaglio chome era subcesso il caso a Siena, come mi havevi ricercho: ho dipoi havute dua vostre, l'ultima de' 17, né vi posso rispondere apunto, perché, subito che ho le vostre, le mando a Roma a Filippo, pensando che possino giovare all'impresa, quando siano lecte là da Nostro Signore. Et Filippo mi scrive che non solo le legge, ma le rilegge, et considera.

Per la vostra ultima voi mi discorrete tre modi del seguitare la guerra, e quali sono stati pratichati o per meglio dire ragionati chostì. Lasciare Milano et ire verso Alexandria, io non lo appruovo, perché la medesima dificultà che havete in Milano et Cremona et che pensate havere in Pavia, harete in Alexandria et maggiore, perché vi andrete con mancho riputatione. Approverei bene che queste armate venissino verso Genova, chome mi pare disegnino, et che il marchese di Saluzo con li suoi fanti et gente d'arme andassi per terra a quella volta, et penserei che se la fortuna non volessi aiutare Cesare fuori dell'ordinario in questa impresa, chome ha facto quasi in tutte l'altre insino qui, che dovessi riuscire il voltarli, et che nella revoluzione di Genova consistessi assai la victoria. Il guardare le frontiere de' Venetiani et della Chiesa, et chol resto dell'exercito assaltare el regno di Napoli et lasciare in Lombardia le forze de Cesare intere, non credo che li huomini experti nella militia approvassino molto; perché voi vi havete lasciato perdere la forteza di Milano in su li ochi, che fu causa di farvi anticipare la guerra; siete stati in sulle porte di Milano et ritirativi a Marignano più ratti che correndo; tentato Cremona et battuta et datoli battaglia, et non vi è riuscito; il papa ha tentato l'impresa di Siena, et le sue gente vi sono restate rotte. Et crederresti con tanta disdetta che vi riuscissi choxa alcuna nel regno? Confesso che li popoli del regno sono malissimo contenti, ma peggio sono quelli di Lombardia et stanno fermi. Le terre che voi potresti assaltare nel regno, le buone maxime, sono in piano: potrebbonsi fortificare; non mancherebbe modo alli Cesarei mettervi dua o 3 mila fanti buoni, in modo che haresti le medesime dificultà in expugnare terre là che havete chostì.. Sì che bixogna risolversi che il modo della guerra sia persistere in ex-pugnare Cremona: il che riuscendo, si potrà, con lo exercito che è quivi, op-porsi a' Lanzchinechi che venissino de la Magna; assaltare Genova con queste armate per mare, et per terra con li fanti et gente d'arme che guida Saluzo; e se Genova si volta, che l'armate girino intorno al regno et lo tenghino in sospecto, et Saluzo torni verso Milano et facciate dua campi che lo stringhino. Et se è vero che in Milano patischino tanto di viveri che pensino abbandonarlo, di presente tanto più vi penseranno, quando saranno più strecti; et se per questa dificultà si riducessino in Pavia et lasciassino Milano, il vostro exercito harebbe molto più commodità d'obsediarli in Pavia che non ha in Milano, né loro harieno facultà di potersi ritirare altrove; et se havessino perduto Genova, non potrebbono havere né danari né imbasciate né lettere; et benché siano huomini audaci et valenti, non credo siano composti d'altra pasta che li altri huomini, e quali tutti desiderono vivere, et essi penserebbono a il medesimo. Egl'è vero che questo modo di guerra sarà lungo et di spesa insopportabile, ma ne doverebbe seguire la victoria; ma dalli altri modi non vi si vede ne possa seguire altro che danno o vergogna. Et se voi mi dicessi che bixogna pensare donde habbino a uscire e danari, io direi che questa impresa doverebbe expedirsi intra tre mesi, et che, sanza la gente d'arme, co' Svizeri et ogn'altra choxa chostì debba essere una spesa di ducati 160 mila il mese, de' quali ne dà il re quaranta, in modo che al papa et a' Venitiani ne resterebbono a provvedere 120 il mese. E Venitiani penso possino provvedere la parte loro che sono 60 mila il mese: al papa ne resterebbono altri sexanta che in tre mesi sono ducati 180 mila, la quale non è somma che non si potessi provvedere, et crederei anchora sapere dire di quali luoghi et chome li havessi a trarre. Et se mi fussi opposto che queste imprese non riusciranno et maxime in sì pocho tempo, vi direi che se per tutto novembre la guerra non è se non vinta in tutto, almanco in declinatione, che il papa è necessitato pigliare quelle conditione che Cesare gli vuol dare, le quali si può stimare habbino a essere durissime. Conosco, compare, che posso essere riputato presuntuoso a voler dare iudicio di choxe tanto importanti et delle quali non ho pratica né experientia, pure, quando scrivo a voi, mi pare parlare meco medesimo; ché se havessi a scrivere o parlare con altri, lo farei con più rispecto. Pregovi mi rachomandiate al governatore et a voi medesimo.

In Firenze, a dì 24 d'Agosto 1526.

Vostro Francesco Vettori

 

 

311

Donato del Corno a Niccolò Machiavelli

 

Firenze, 28 agosto 1526

Domino Nicolò Machiavegli.

In champo, a Milano.

Ihesus, a dì 28 d'agosto 1526.

Maior mio onorando, etc. Io dètti espedizzione alla chomessione di ser Mariotto, e·sse non apunto chome mi mandasti el disegno, tutto fu fatto chon grazzia, e in persona andai per sadisfare meglio; e non pensate a Titone, ché gli è amutolato, e massime che cholui che inchanta e diavoli, non essendo voi qui, à tolto me per berzaglio, e vammi agirando, e diciemi una confuxione di novelle, di sorte che, s'io non fussi valent'uomo e stessi in ciervello, io arei qualche volta schapuciato; ma i' penso tanto bene e dischretamente mi ghoverno, che io chredo raquistare el chredito di non eser tenuto una cichala; e·sse bene e' vi fussi da lui o d'altri schritto qualche chosa per darmi charico, non entrate in tentazzione, perché e' lo fanno per maladetta invidia, perché mi vegono vostro chomettente e rispondente, e io so tenere la chosa in riputazzione e ghovernomi tanto bene, che io priegho Idio della vostra tornata, e sia feliciemente, che voi no·mmi richognoscierete ne' modi e ne' chostumi, e ò diliberato che no·mmi chavino più le scharpette a ogni passo. Ma tornando a ser Mariotto, ch'è la chauxa che di prexente vi schrivo per la incluxa lettera, che mille volte a voi si rachomanda, e insieme rivedendo qualche libello apartenente a voi, mi pareva tanto sechondo l'ordine di mia fantaxia, che, vedendo per l'asenzzia vostra ferme le vostre chauxe, dubito no·mi muova a qualche inpresa dell'arte sua. Idio vi guardi. Vostro

Donato del Corno, in Firenze

 

 

312

Bartolomeo Cavalcanti a Niccolò Machiavelli

 

Firenze, 18 settembre 1526

Al mio come padre honorando Niccolò Machiavelli.

In campo.

Nicolò mio honorando. Io vi scrissi alli 6, et vi mandai la lettera sotto altre mie, scritte al Guidetto, della ricevuta delle quali per ancora non ho avviso alcuno. Et benché al presente io non habbia materia da scrivervi, et che non mi paia da tòrvi il capo con lettere vane, nondimeno non ho potuto fare che io non scriva; et ho voluto piutosto di questa inportunità da voi essere notato, che di prigritia allo scrivere essere ripreso. Se voi, come io credo, harete hauto la mia de' 6, harete veduto quanto io desidero le vostre lettere, et di che qualità; né dubito che per l'humanità vostra et per la nostra amicitia, voi, come sempre havete fatto, quando ha-rete commodità, satisfarete a questo mio desiderio, il quale tanto più cresce, quanto io considero più il progresso di questa inpresa.

Voi siate tornato da Cremona, et io desidererei che voi tanto fussi lieto dello essere stato in cotesto luogo, quanto io mi sono rallegrato dello esserne voi sano et salvo tornato. Ma in ogni modo mi è piaciuto assai che voi vi siate andato, giudicando o che voi harete confermato cotesto exercito costì et noi qua in qualche buona speranza di quella inpresa, o che i difetti di essa harete cognosciuto et dimostro in maniera che più facilmente si saranno potuti ricorreggere, et al male che ne potesse avvenire provvedere et rimediare. Noi qua veggiamo per adventura quanto possa essere utile la espugnatione, ma il contrario successo non sappiamo già giudicare quello si possa partorire, tanto ci pare dannoso in ogni parte. Et certo comune danno arrecherà quello; ma io non so già se la espugnatione arrecherà comune utilità; pure i danari non si saranno invano spesi, et maxime quelli de' Viniziani. Li Franzesi si doverranno essere ritrovati, se già non fosse smarrito il capo, il che non si crede però, et hoggi intendiamo quelle genti essere a Tortona. Iddio le conduca un tratto in campo, et di tante speranze ne faccia qualcuna vera.

Giovanni Serristori vi manda mille saluti, et Averardo ancora; Lelio de' Massimi, il quale domattina parte per a Roma, a voi molto si raccomanda, et è tutto vostro.

Io aspetto con gran desiderio le vostre lettere, et se le saranno quali io spero, a vi prometto di mettermi un tratto una bella giornea, et empiervi un foglio. Né altro per hora vi dirò, se non che vi prego mi amiate et comandiate. Dio vi conservi sano.

Di Firenze, il dì 18 di Settembre 1526.

Vostro Bartolommeo Cavalcanti

 

 

313

Niccolò Machiavelli a Bartolomeo Cavalcanti

 

Dal campo, circa il 6 ottobre 1526

Charissimo Bartolomeo. La cagione perché il Papa mosse questa guerra prima che il Re di Francia havesse mandate le sua genti in Italia, et mosso in Hispagna secondo l'obligho, o prima che tucti e Svizeri fussino arrivati, fu la speranza che si prese sopra il popolo di Milano, et il credere che 6 milia Svizeri, e quali erano stati mossi da i Vinitiani et da·llui ne' primi tumulti di Milano, fussino sì presti che si congnungessino ad un tempo, quando si congiussono i Vinitiani collo exercito suo; et apresso, credendo che le genti del Re, se le non erano così preste, fussino almeno in tempo da potere aiutare vincere la impresa. Ad queste speranze si adgiunse la necessità, che il Castello monstrava haver di essere soccorso. Queste cose tucte adunque feciono accelerare il Papa, et con tale speranza che si credeva questa guerra dovere finire in xv giorni; la quale speranza fu accresciuta da la presa di Lodi. Congiunsonsi dunque questi exerciti de' Vinitiani et del Papa; et de' presuposti di sopra, duoi importantissimi mancorno, perché i Svizeri non vennano, et il popolo di Milano non fu di momento alcuno. Tale che, presentatoci a Milano, il popolo non si mosse, et non havendo i Svizeri non havemmo animo a starvi, et ci riducemmo a Marignano. Né prima si tornò a Milano che funno venuti 5 mila Svizeri: la venuta de' quali come prima la serebbe stata utile, fu dannosa; perché ci dettono animo a tornare a Milano per soccorrere il Castello, et non si soccorse; et c'impegnamo a stare qui, perché essendo stata la prima ritirata vergognosa, niuno consigliava la seconda. Il che fece che la impresa di Cremona si fece con parte delle fanterie et non con tucte, come si sarebbe facta se noi alla perdita del Castello ci fussimo trovati a Marignano. Fecesi adunque per queste ragioni, et anche per sperarla facile, la impresa di Cremona debilmente; il che fu contro ad una mia regola che dice, che non è partito savio aristiare tucta la fortuna et non tucte le forze. Credettono costoro, mediante la forteza, che 4 mila persone bastassero a vincerla. Il quale assalto, per essere debole, fece Cremona più difficile, perché costoro non combatterno, ma insegnorno i luoghi deboli; di che quelli di drento non gli perderono ma gli affortificorno. Fermorno, oltre a di questo, gli animi alla difesa; talmente che, anchora che vi andassi poi il Duca d'Urbino et che vi fussi 14 mila persone intorno, non bastavano; ché, se vi fussi ito prima con tucto lo exercito, havendo potuto fare in un tempo più batterie, di necessità si pigliava in 6 giorni, et era forse vinta questa impresa, perché ci saremo trovati in sulla reputatione dello acquisto, con uno exercito grossissimo. Perché vennono 13 mila Svizeri, tale che o Milano o Genova, o forse tucti a dua si arrapavano, né havevono i nimici rimedio, né i disordini di Roma venivono; né gli aiuti, che non sono ancora venuti, erano a tempo. Et noi habbiamo atteso 50 dì a vagheggiare Milano; et lo acquisto di Cremona si è condotto tardo, quando ogni cosa ci è rovinato adosso. Habbiamo noi dunque di qua perduta questa guerra due volte: l'una, quando andammo a Milano et non vi stemmo; l'altra quando mandammo, et non andammo, a Cremona. Del primo fu cagione la timidità del Duca; del secondo la boria di tucti noi, perché, parendoci havere havuto vergogna della prima ritirata, niuno si ardiva a consigliare la seconda; et il Duca seppe fare male contro alla voglia di tucti, et contro alla voglia di tucti non seppe fare bene. Questi sono stati gli errori, che ci hanno tolta la vittoria; tolta, dico, per non havere vinto prima; perché noi haremmo differita, et non perduto la impresa, se i disordini nostri non sopragiugnevono; i quali sono stati anche duoi: il primo è il Papa non havere facti danari ne' tempi che potea con riputatione fargli, et in quegli modi che hanno facti gli altri Papi. L'altro, stare in modo in Roma che ne sia potuto ire preso come un binbo, la quale cosa ha fatto in modo aviluppare questa matassa che non la riducerebbe Christo. Perché il Papa ha ritirato di campo le genti, et messer Francesco è in campo ancora, et hoggi vi debbe essere arrivato il Duca d'Urbino. Sono rimasi più condottieri, di più opinioni, ma tucti ambitiosi et insopportabili; et manchandovi chi sappia temperare i loro humori et tenergli uniti, la fia una zolfa di cani. Di che ne nascie una straccurataggine di faccende grandissima, et già il signore Giovanni non vi vuole stare; et credo che hoggi si partirà. I quali disordini tucti erono corretti dalla sollecitudine et diligentia di messer Francesco. Oltr'a di questo, se danari prima et da Roma venivono, hora mancheranno in tucto; in modo che io veggo poco ordine a' casi nostri, et se Dio non ci adiuta di verso mezodì, come gli ha facto di verso tramontana, ci sono pochi rimedii; perché, come gli ha impedito a costoro gli adiuti della Magna con la ruina d'Ungheria, così bi-sognerebbe impedissi quegli di Hispagna con la ruina della armata; onde noi haremmo bisogno che Junone andasse a preghare Eolo per noi, et promettessigli la Contessa et quante dame ha Firenze, perché dessi la scapula a' venti in favor nostro. Et sanza dubio, se il Turcho non fussi, io credo che gli Hispagnuoli sarebbono venuti a fare l'Ognissanti con epso noi.

Io, veduto perduto il Castello, et considerato come quelli Hispagnuoli si erano acculati in tre o in quattro di queste ciptà et assicuratisi de' popoli, giudichai questa guerra dovere essere lungha et, per la lungheza sua, pericolosa. Perché io so con che dificultà si pigliono le terre, quando vi è dentro chi le voglia difendere; et come una provincia si piglia in un dì, et una terra difesa vuol di mesi et anni a pigliarla, come ci monstrono molte historie antiche, et delle moderne Rodi et Ungheria. Donde che io scripsi a Francesco Vettori, che io credevo che questa impresa non si po-tesse tollerare, se non a fare che il Re di Francia la pigliassi per sua dandogli questo stato; o per diversione, cioè la-sciare in questi stati guardate queste frontiere, che questi Hispagnuoli non potessero fare progressi, et con tucte le forze asalire il Regno, il quale credevo si potessi prima pigliare, che una di queste terre qua. Perché quivi non erano né difensori obstinati, né populi battuti da [...] quale l'huomo voleva. Oltre a di questo, la guerra nutriva contesa; perché gli adiuti che si harebbono havuti dalle terre, harebbono havuti gli stipendii; et la grasseza del paese non stracco gli harebbe facti più lunghi. Et il papa sanza nuova spesa viveva sicuro in Roma, et si sarebbe veduto quale lo Imperadore havessi stimato o la Lombardia o il Regno. Et se questo non si faceva, vedevo perduto la guerra; per-ché la lungheza era certa, et nella lungheza e pericoli si potevono dire certi, o per mancamenti di danari, o per altri accidenti come quelli che sono nati. Et parevami un partito strano consumarsi in campagna, et che il nimico godessi nella terra, et che, venuti poi gli aiuti, trovatici strachi, ci rovinassi come l'Anmiraglio et il Re.

 

 

314

Francesco Guicciardini a Niccolò Machiavelli

 

Piacenza, 30 ottobre 1526

Spectabili domino Niccolao Machiavelli come fratello honorando.

In Firenze o dove fosse.

Messer Niccolò carissimo. Hebbi le vostre di Modana con lo avviso lungo del caso intervenuto il dì che vi partisti di qui; et perché, come voi sapete, la natura mia è non volere risolvere da me medesimo le cose inportanti, feci chiamare il consiglio, del quale furono principali il Vescovo di Casale et il Thesauriere, et per sua grazia volle intervenire ancora il Vicelegato che conosce l'huomo; vi fu l'ambasciatore del duca di Milano, et luogotenente del marchese di Mantova, et tanta altra baronia, che non entra tanta in consiglio nel campo de' Vinitiani. Lessi la lettera vostra, et fu considerato tutto, et discorso tanto bene, quanto si facesse il dì che noi consigliamo di non soccorrere il castello. Non voglio entrare nelli particolari, perché non ho il capo a cantafavole, et anco sono sforzato ad intrattenere messer Filicciafo, che per sua grazia è stato tutto hoggi meco; ma la disputa tutta fu sopra due punti: il primo, se quella di Giannozzo haveva a essere chiamata vendetta o tradimento; l'altra, se pure si haveva a chiamare vendetta, se era stata honorevole o no a un suo pari.

Ma lasciando andare le chiacchiere, l'amico venne qua hiersera, et si lamentò di buon senno che, mentre voi eri là, non vi degnasti mai di chiamarlo commessario, ma sempre gli desti del podestà, il che lui ha ripreso che voi facessi per uccellarlo et per tòrgli riputatione; et in verità ne è di malissima voglia. Ma non erano ancora ben finite le sue querele, che io hebbi una lettera dal maestro della posta là, che mi avvisava che questo venerabile huomo assegnava havere speso per vostro conto ben cinque ducati tra la roba che voi havevi mangiata et quella che la sera dinanzi si era gittata via per vostro conto, et dimanda che la Comunità gli paghi questa spesa, allegando che non haveva che fare con voi, ma che vi haveva alloggiati per commission' mia, che vi mando a procissione per servitio di N. Sig.; in modo che, vedendomi nominato in questa novella, et che queste mercatantie non sono senza carico mio, mi cominciai a risentirmene seco; et perché lui ne-gava presuntuosamente, mi bisognò lavarli un bucato, dove andò poco manco sapone, che quello con che fu lavato il capo al fratello. Vedete che bella novella è stata questa; voi la cominciasti in comedia, et io l'ho quasi finita in tragedia, et così ho perso tutto il piacere che havevo havere de' fatti suoi. Et bene valete.

Placentie, xxx Octobris 1526.

Vester Franciscus de Guicciardinis

 

 

315

Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini

 

Firenze, 5 novembre 1526

A messer Francesco Guicciardini.

Sig. Luogotenente. Di Modana si scrisse a V. S. una lettera più atta a trattenere Filciaffo, che a fare qualsivoglia altra cosa; per questa si ha a scrivere il seguìto dipoi. Et cominciandomi da Modana, come io giunsi, Filippo mi si fe' incontro et mi disse: — È egli però possibile che io non habbi fatto mai cosa che bene stia? — Io gli risposi così ridendo: — Signor governatore, non ve ne maravigliate, ché non è difetto vostro, ma di questo anno, che non ci è persona che habbia fatto ben veruno, né cosa per il verso. Lo inperadore non si può essere portato peggio, non havendo mandato in tanto tempo aiuto alcuno a questi suoi, et lo poteva fare facilmente; gli Spagnuoli hanno potuto qualche volta farci di gran natte, et non lo hanno saputo fare; noi habbiamo potuto vincere, et non habbiamo saputo; il papa ha creduto più ad una inpennata di inchiostro che a mille fanti che gli bastavano a guardarlo; solo i Sanesi si sono portati bene, et non è maraviglia se in un tempo pazzo i pazzi pruovon bene; di modo, signor governatore mio, che sarebbe più cattivo segno l'haver fatto qualche buona pruova, che havendola fatta cattiva. — Hor poiché così è — disse Filippo — io me ne voglio tòrre di affanno, et ne resto molto contento. — Et così si finì il primo atto della commedia. Venne poco dipoi il conte Guido, et come mi vidde, disse: — È più adirato il Luogotenente? — risposi di no, perché non haveva più presso chi era cagione che si adirasse; et per non dire tutti li particulari, si ragionò un poco di questa vostra benedetta stizza; et egli disse, che andrebbe prima in exilio in Egitto, che condursi in esercito dove voi fussi. Qui io dissi quello che si conveniva, et particularmente si disputò de' mali et de' beni che haveva fatto la presenza vostra, tale che facilmente ognuno cedette, che l'haveva fatto più bene che male. Stetti in Modena duoi giorni, et praticai con un profeta che disse con testimonii haver predetto la fuga del papa et la vanità della inpresa, et di nuovo dice non essere passati tutti li cattivi tempi, ne' quali il papa et noi patireno assai. Venimo alla fine in Firenze, et de i maggior' carichi che io vi habbia sentito dare, è lo havere con lettere, scritte qui al cardinale, mostra la facilità della impresa et la vittoria certa; dove io detto ho che questo non è possibile, perché io credo havere veduto tutte le lettere inportanti, che V. S. ha scritto dove erano oppinioni tutte contrarie ad una certa victoria.

Addì 5 di Novembre 1526.

Niccolò Machiavelli

 

 

316

Jacopo Salviati a Niccolò Machiavelli

 

Roma, 5 novembre 1526

Spectabili viro Nicolao de Machiavellis amico charissimo.

Spectabilis vir amice charissime etc, Scripsivi subito che io hebbi la vostra da Piacenza, et per risposta d'epsa vi dixi che ne venissi qua a vostro piacere, ché nostro Signore era contentissimo del venir vostro; ma voi siate stato tanto a comparire in Firenze, che gl'è suto necessario provedere di uno altro nel loco che si disegnava per voi, né è per hora per remuoverlo in conto alcuno perché saria troppo gram carico suo. Nondimeno se verrà alcuna altra occasione, vi ricorderò a N. S. et non mancherò di tutti quelli offitii et opere che per uno optimo amico si richiedono, non obstante che io conoscha ciò non essere di bisogno per l'affectione che vi porta Sua Beatitudine. Nec plura. Bene vale.

Rome, v Novembris mdxxvi.

Jacobus Salviatus

 

 

317

Francesco Guicciardini a Niccolò Machiavelli

 

Piacenza, 12 novembre 1526

Spectabili viro Niccolao de Machiavellis uti fratri honorando.

Florentie.

Machiavello carissimo. Ho la vostra de' 5. La novella del Borgo a S. Donnino fu commedia schietta, quella di Modana tenne della tragedia, la vostra di Roma ha tenuto di cantafavola; non so dirvene altro se non che messer Cesare scrive, che subito che hebbe detto al papa quanto io gli scrissi de' [...] sua Santità rispose: — Scrivili che venga, che ne ho piacere. Dipoi mi scrisse che gli era stato scritto che soprassedesse, et la causa perché in su la furia del partire i fanti col sig. Vitello di Roma havevano havuto a servirsi in questa cura di altri. Io gli ho riscritto di nuovo, che non sono senza oppinione muteranno sententia: lo desideravo più per rispetto mio che per vostro, perché, a dirvi il vero, credo che saresti stato con poco satisfactione in quelle bicocche de' Colonnesi, dove haresti havuto a stare: intendendone altro, vi avviserò, et mi sforzerò intenderne più oltre.

Vi priego mi scriviate, et io farò il medeximo; et non vi dico niente di nuovo, perché hora non ci è altro, et messer Filiciaffo è assiduo commensale. Rivedendo hora questi conti delle spese fatte in campo, non ne truovo alcuna di che il papa si possi dolere di me, eccetto di quelli danari che si dettono al Guidotto, et intendo che alla partita sua di qui si dolfe con tutta la casa che io gli havevo dato poco, et harà fatto il medesimo di costà. Non mi mancava altro che questo a conoscere totalmente la natura sua et sua qualità. Et sono vostro.

In Piacenza, addì 12 di Novembre 1526.

Vostro Francesco Guicciardini

 

 

318

Niccolò Machiavelli a Guido Machiavelli

 

Imola, 2 aprile 1527

Al mio caro figliuolo Guido di Niccolò Machiavegli.

In Firenze.

Ghuido figluolo mio carissimo. Io ho havuto una tua lettera, la quale mi è stata gratissima, maxime perché tu mi scrivi che sei guarito bene, che non potrei havere havuto maggiore nuova; che se Iddio ti presta vita, et a me, io credo farti uno huomo da bene, quando tu vuogli fare parte del debito tuo; perché, oltre alle grandi amicitie che io ho, io ho fatto nuova amicitia con il cardinale Cibo et tanta grande, che io stesso me ne maraviglo, la quale ti tornerà a proposito; ma bisogna che tu impari, et poiché tu non hai più scusa del male, dura fatica in imparare le lettere et la musica, ché vedi quanto honore fa a me un poco di virtù che io ho; sì che, figluolo mio, se tu vuoi dare contento a me, et fare bene et honore a te, studia, fa bene, impara, ché se tu ti aiuterai, ciascuno ti aiuterà.

El mulettino, poiché gli è impazato, si vuole trattarlo al contrario degli altri pazi: perché gl'altri pazi si legano, et io voglio che tu lo sciolga. Dara'lo ad Vangelo, et dirai che lo meni in Montepuglano, et dipoi gli cavi la brigla et il capestro, et lascilo andare dove e' vuole ad guadagnarsi il vivere et ad cavarsi la pazia. Il paese è largo, la bestia è piccola, non può fare male veruno; et così sanza haverne briga, si vedrà quello che vuol fare, et sarai a·ttempo ogni volta che rinsavisca a ripiglallo. Degl'altri cavalli fatene quello che vi ha ordinato Lodovico, il quale ringratio Iddio che sia guarito, et che gli habbi venduto, et so che gli harà fatto bene, havendo rimessi danari, ma mi maraviglo et dolgo che non habbia scritto.

Saluta mona Marietta, et dille che io sono stato qui per partirmi di dì in dì, et così sto; et non hebbi mai tanta vogla di essere ad Firenze, quanto hora; ma io non posso altrimenti. Solo dirai che, per cosa che la senta, stia di buona vogla, ché io sarò costì prima che venga travaglo alcuno. Bacia la Baccina, Piero et Totto, se vi è, il quale harei havuto caro intendere se gli è guarito degli ochi. Vivete lieti, et spendete meno che voi potete. Et ricorda a Bernardo che attenda a fare bene, al quale da 15 dì in qua ho scritto due lettere et non ne ho risposta. Christo vi guardi tutti.

Die ii Aprilis 1527.

Niccolò Machiavelli in Imola

 

 

319

Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori

 

Forlì, 5 aprile 1527

Al molto mio magnifico Francesco Vettori.

In Firenze.

Honorando Francesco mio. Poi che la triegua fu fatta a Roma, et che si vidde come la non era voluta da questi imperiali osservare, messer Francesco scrisse a Roma come egli era necessario pigliare uno de' tre partiti; o ritornare alla guerra con tali termini, che tutto il mondo intendesse che mai più si haveva a ragionare di pace, acciò che Francia, Viniziani et ognuno, senza rispetto o sospetto, facesse suo debito, dove mostrò essere ancora molti rimedii, volendo maxime il papa aiutarsi; o vero, quando questo non piacesse, pigliare il secondo, che sarebbe al tutto contrario a questo primo, di tirare drieto a questa pace con ogni diligenzia, et mettere il capo in grembo a questo viceré, et lasciarsi per questa via governare alla Fortuna; o veramente, stracco nell'uno di questi partiti, et invilito nell'altro, pigliare un terzo partito, quale non importa, et non accade dire hora. Ha questo dì messer Francesco risposta da Roma, come il papa è volto a pigliare quel secondo partito, di gittarsi tutto in grembo al viceré et alla pace; il quale se riuscirà, sarà per hora la salute nostra; quando non riesca, ci farà in tutto abbandonare da ognuno. Se gli è per riuscire o no, voi lo potete giudicare come noi; ma solo vi dico questo: che messer Francesco ha fatto in ogni evento questa deliberazione, di aiutare le cose di Romagna, mentre che vede a 16 soldi per lira che le si possino difendere; ma, come le vedrà indefensibili, senza rispetto alcuno abbandonarle; et con quelle forze italiane che si troverrà, et con quelli danari che gli saranno rimasi, venirne a cotesta volta per salvare in qualunque modo Firenze et lo stato suo. Et state di buona voglia, che si difenderà in ogni modo.

Questo esercito imperiale è gagliardo et grande; nondimeno, se non riscontra chi si abbandoni, e' non piglierebbe un forno. Ma è ben pericolo che per fiacchezza non cominci una terra a girarli sotto, et come cominci una, tutte le altre vadino in fumo; il che è nel numero di quelle cose che fanno pericolosa la difesa di questa provincia. Nondimanco, quando la si perdesse, voi, se non vi abbandonate, vi potrete salvare; et difendendo Pisa, Pistoia, Prato et Firenze, harete con loro uno accordo, che se sarà grave, non fia al tutto mortale. Et perché quella deliberazione del papa è per ancora segreta rispetto a questi collegati, et per ogni altro rispetto, vi priego non communichiate questa lettera. Valete.

Addì 5 d'Aprile 1527.

Niccolò Machiavelli in Furlì

 

 

320

Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori

 

Forlì, 14 aprile 1527

Al mio molto honorando et magnifico Francesco Vettori.

In Firenze.

Magnifice vir. Lo accordo è stato consigliato sempre di qua per quelle medexime cagioni che voi costì lo havete sempre consigliato; perché, veduto i portamenti di Francia et de' Viniziani, veduto il poco ordine che era nelle genti nostre, veduto come al papa era mancato ogni speranza di potere sostenere la guerra del regno, veduta la potenzia et obstinazione de' nimici, si giudicava la guerra perduta, come voi medesimo, quando io mi partii di costì, la giudicavi. Questo ha fatto che si è sempre consigliato lo accordo, ma si intendeva uno accordo che fosse fermo, et non dubbio et intrigato come questo, che sia fatto a Roma, et non observato in Lombardia; et che ci siano pochi danari, et quelli pochi bisogni o serbarli per un simile accordo tutto dubbio et restare disarmato; o, per restare armato, pagarli, et rimanere senza essi per lo accordo. Et così dove si pensava che uno accordo netto fosse salutifero, uno intrigato è al tutto pernizioso, et la rovina nostra.

Di costì si è hora scritto come lo accordo è quasi fermo; et perché la prima paga è sessantamila ducati, si fa fondamento per la maggior parte in su' danari che sono qui. Qui sono tredicimila ducati contanti, et settemila in credito con i Viniziani. Se i nimici vengono innanzi per venire in Toscana, bisogna spenderli in mantenere queste genti, a volere mantenere questa povera città, sì che, se voi vi fondate in su l'accordo, conviene si fondi in su uno accordo, che fermi queste armi et queste spese. Altrimenti, se si mantiene uno accordo intrigato, che faccia si habbia a provvedere allo accordo et alla guerra, e' non si provvedrà né all'uno né all'altro, et ne risulterà male a noi et bene a' nimici nostri, i quali attendono, caminando verso di noi, alla guerra, et lasciano voi avvilupparvi fra la guerra et gli accordi. Sono vostro.

Addì 14 d'Aprile 1527.

Vostro Niccolò Machiavelli in Furli

 

 

321

Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori

 

Forlì, 16 aprile 1527

Al molto magnifico Francesco Vettori suo honorando.

In Firenze.

Magnifico etc. Monsignor della Motta è stato questo dì in campo degli imperiali con la conclusione dello accordo fatta costì, che se Borbone lo vuole, egli ha a fermare lo esercito: se lo muove, è segno che non lo vuole; in modo che domani ha ad essere giudice delle cose nostre. Pertanto qui si è deliberato, se domane egli muove, di pensare alla guerra affatto, senza havere un pelo che pensi più alla pace; se non muove, pensare alla pace, et lasciare tutti i pensieri della guerra. Con questa tramontana conviene che voi ancora navichiate, et resolvendosi alla guerra, tagliare tutte le pratiche della pace, et in modo che i collegati venghino innanzi senza rispetto alcuno, perché qui non bisogna più claudicare, ma farla alla impazzata: et spesso la disperazione truova de' rimedii che la electione non ha saputi trovare. Costoro vengono costà senza artiglierie, in un paese difficile, in modo che, se noi quella poca vita che ci resta racozziamo con le forze della Lega che sono in punto, o eglino si partiranno di cotesta provincia con vergogna, o e' si ridurranno a termini ragionevoli. Io amo messer Francesco Guicciardini, amo la patria mia più dell'anima; et vi dico questo per quella esperienza che mi hanno data sessanta anni, che io non credo che mai si travagliassino i più difficili articuli che questi, dove la pace è necessaria, et la guerra non si puote abbandonare, et havere alle mani un principe, che con fatica può supplire o alla pace sola o alla guerra sola. Raccomandomi a voi.

Addì 16 d'Aprile 1527.

Niccolò Machiavelli in Furlì

 

 

322

Guido Machiavelli a Niccolò Machiavelli

 

Firenze, 17 aprile 1527

Al suo honorando padre Niccolò Machiavegli.

In Furlì.

Jhesus.

Honorando padre salute etc. Per dare risposta alla vostra de' 2 d'Aprile, per la quale intendiamo voi esser sano, che Idio ne sia laudato, et a·llui piaccia mantenervi.

Non vi si scripse di Totto, per non l'havere ancora riscoso; ma intendiamo dal balio non esser ancora guarito degli ochi; ma dice va tuttavia migliorando; siché statene di buona voglia. El mulectino non s'è ancora mandato in Monte Pugliano, per non esser l'erbe ancora rimesse; ma, comunche il tempo si ferma, vi si manderà a ugni modo.

Per lectera vostra a mona Marietta intendemo chome havete compero così bella catena alla Baccina, che non fa mai altro che pensare a questa bella catenuza, et pregare Idio per voi, et che vi faccia tornare presto.

A' Lanziginec non vi pensiamo più, perché ci avete promesso di volere esser con esso noi, se nulla fussi; sì che mona Marietta non à più pensiero.

Vi priegiamo ci scriviate quando i nimici facessino pensiero di venire a' danni nostri, perché habiamo ancora di molte cose in villa: vino et olio, benché habiamo condocto quagiù dell'olio venti o ventitre barili; et èvi le lecta. Le qua' cose ci scrivesti sapessimo dal Sagrino, se lui le voleva in casa, il che lui l'à acceptate. Ve ne priegamo; perché a·ccondurre tante bazice a Santo Cassiano, bisognia dua over tre dì di tempo.

Noi siamo tutti sani, et io mi sento benissimo, et comincierò questa Pasqua, quanto Baccio sia guarito, a·ssonare et cantare et fare contrapunto a tre. Et se l'uno et l'altro istati sano, spero tra un mese potere fare sanza lui: ch'a Dio piaccia. Della gramatica io entro oggi a' participii; et Miami lecto ser Luca quasi il primo di Ovidio Metamorphoseos; el quale vi voglio, comunche voi siate tor-nato, dire tutto a mente.

Mona Marietta si raccomanda a voi et vi manda 2 camice, 2 sciugatoi, 2 berrectini, 3 paia di calcetti, et 4 fazoletti. Et vi prega torniate presto, et noi tutti insieme. Christo vi guardi, et in prosperità vi mantenga.

Di Firenze, addì 17 d'Aprile mdxxvii.

Vostro Guido Machiavelli in Firenze

 

 

323

Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori

 

Brisighella, 18 aprile 1527

Al molto magnifico Francesco Vettori mio honorando.

In Firenze.

Honorando Francesco. E' si sono condotte queste genti franzese qui a Berzighella miracolosamente: et così sarà un miracolo se il duca di Urbino verrà a Pianoro domani, come pare che il Legato di Bologna scriva quivi et qui si aspetterà, come io credo, di sapere quello che ha fatto lui. Et, per lo amor di Iddio, poiché questo accordo non si può havere, se non si può havere, tagliate subito la pratica, et in modo, con lettere et con dimostrationi, che questi collegati ci aiutino; perché, come l'accordo, quando fosse observato, sarebbe al tutto la certezza della salute nostra, così, tractarlo senza farlo, sarebbe la certezza della rovina. Et che lo accordo fosse necessario, si vedrà se non si fa; et se il conte Guido dice altrimenti, egli è un cazzo. Et solo voglio disputare con lui questo: domandatelo, se si potevono tenere che non venissino in Toscana; vi dirà di no, se dirà come egli ha sempre detto per lo addietro; et così il duca d'Urbino. Quando e' sia vero che non si potessino tenere, domandatelo come e' se ne potevono cavare senza fare giornata, et come cotesta città era atta a reggere duoi eserciti addosso, di qualità che lo esercito amico sia più insopportabile che il nimico. Se vi risolve questo, dite che gli habbia ragione. Ma chi gode nella guerra, come fanno questi soldati, sarebbono pazzi se lodassino la pace. Ma Iddio farà che gli haranno a fare più guerra che noi non vorremo. Addì 18 d'Aprile 1527.

Niccolò Machiavelli in Berzighella

 

 

324

Lodovico Machiavelli a Niccolò Machiavelli

 

Ancona, 22 maggio 1527

Al molto suo honorando padre Nicholò Machiavegli.

In Firenze.

† Christus. Addì xxii di Mago 1527.

Honorando padre etc. L'ultima mia fu di Pera. Dipoi, non vi s'è schritto per non ci esere ochorso. Al presente, per dirvi chome dua gorni fa arrivai qui in Anchona, e ieri ebi una gran febre. Siamo qui stallati e achonfinati rispetto al morbo. Vorrei subito, per questo fante ch'à esere di ritorno, mi dicessi se' mia chavagli sono venduti e se à chonperatori per le mani: perché qua mi truovo 7 chavagli. E avendo chonperatori del chavallo grande, vi richordo mi chosta ducati 110, e per mancho non lo date. E subito date per detto fante aviso, che non baderà niente chostì: e noi di qua non partiremo, se detto fante non torna. Non sarò più lungo, per non ci avere tenpo e anche non mi sentire tropo bene; ché siamo passati da·rRauga in trenta ore, dove chadevano di peste li uomini morti per la strada. E per questo rispetto ò gran paura. Che Idio m'aiuti. A voi senpre mi rachomando. Idio di male senpre vi guardi. Rachomandatemi a mona Marietta, e dite che pregi Idio per me; e salutate tutta la brigata.

Vostro Lodovico Machiavegli

fuora d'Anchona

 

 

325

Maestro R. a Niccolò Machiavelli

 

Al molto honorando Niccholò Machiavelli, in villa.

Niccholò honorando. Per quello ritraggho per la vostra lettera, el male di Bernardo sarà salubre, et la urina è meglio assai, et voi potete vedere che la è mancho rossa, et per questo, sendo le mutationi alquanto suspecte, gudicho non lo moviate, perché costì è meglio aria che qui. Purgheretelo et adviserete alla gornata, et vedrete che 'l caso succederà felicemente: el sudore si vòle ascughare con panni caldi et non lo lasate dipoi fermare in quel luogho dove è sudato. Et state di buona voglia. A voi mi racchomando.

maestro R.

 

 

Appendice

 

MINUTA DELLA LETTERA XXI [204]

Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori

 

Firenze, 29 aprile 1513

Ihesus Maria

Magnifice orator mihi plurimum honorande. Io nel mezo di tucte le mia felicità non hebbi mai cosa che mi dilectassi tanto quanto e ragionamenti vostri, perché da quelli sempre imparavo qualche cosa; pensate adunque, trovandomi hora discosto da ogn'altro bene, quanto mi sia suta grata la lectera vostra, alla quale non mancha altro che la vostra presenzia et il suono della viva voce; et mentre la ho lecta, che la ho lecta più volte, ho sempre sdimenticato le infelici conditioni mia, et parmi essere ritornato in quelli maneggi, dove io ho invano tante fatiche durate et speso tanto tempo. Et benché io sia botato non pensare più ad cose di stato né ragionarne, come ne fa fede l'essere io venuto in villa, et havere fuggito la conversazione, nondimanco, per rispondere alle domande vostre, io sono forzato rompere ogni boto, perché io credo essere più obligato alla antica amicitia tengo con voi, che ad alcuno altro obligo io havessi facto ad alcuna persona; maxime faccendomi voi tanto honore, quanto nel fine di questa lettera mi fate, che, ad dirvi la verità, io ne ho preso un poco di vanagloria, sendo vero quod non parum sit laudari a laudato viro. Dubito bene che le cose mie non vi habbino ad parere dello antico sapore, d'il che voglio mi scusi lo havere col pensiero in tucto queste pratiche adbandonate, et appresso non ne intendere delle cose che corrono alcuno particulare. Et voi sapete come le cose si possono bene iudicare al buio, et maxime queste; pure ciò che io vi dirò sarà o fondato sopra 'l fondamento del discorso vostro, o in su' presupposti miei, e quali se fieno falsi voglio me ne scusi la preallegata cagione.

Voi vorresti sapere quello che io creda che habbi mosso Spagna ad fare questa tregua con Francia, non vi parendo che ci sia drento el suo, discorrendo bene ogni cosa da tucti e versi; in modo che giudicando da l'un canto el re savio, da l'altro parervi che li habbi facto errore, sete forzato ad credere che ci sia sotto qualche cosa grande, che voi per hora, né altri, non intendete. Et veramente el vostro discorso non potrebbe essere né più trito né più prudente, né credo in questa materia si possa dire altro. Pure, per parere vivo et per ubbidirvi, dirò quello mi occorre. A me pare che nessuna cosa vi facci stare tanto sospeso, quanto il presupposto che fate della prudentia de Spagna. Ad che io vi rispondo che Spagna parse sempre mai ad me più astuto et fortunato, che savio et prudente. Io non voglio repetere più le sue cose in lungo, ma venire ad questa impresa facta contro ad Francia in Italia, avanti che Ingilterra movessi o che credessi al certo che li havessi ad muovere, ne la quale impresa ad me parve et pare, non obstante che l'habbi hauto el fine contrario, che mectessi sanza necessità ad periculo tutti li stati suoi, il che è cosa temeriissima in uno prencipe. Dico sanza necessità, perché egli haveva visto pe' segni dello anno dinanzi, dopo tante iniurie che 'l papa haveva fatte ad Francia, di assaltarli li amici, voluto farli ribellare Genova, et così, dopo tante provocationi che lui haveva fatte ad Francia, di mandare le genti sue con quelle della Chiesa a' danni de' suoi raccomandati, nondimanco sendo Francia victoriosa, havendo fugato el papa, et spogliatolo, distructi e sua exerciti, possendo cacciarlo di Roma, et Spagna da Napoli, non lo havere voluto fare, ma havere volto l'animo ad lo accordo; donde Spagna non poteva temere di Francia; né è savia la cagione che si allegassi per lui, che lo facessi per assicurarsi del regno, veggiendo Francia non ci havere volto l'animo per essere stracco et pieno di rispecti. Et se Spagna dicessi: Francia non venne innanzi allhora perché gli hebbe el tale et el tale rispecto, che un'altra volta non gli harebbe hauti; rispondo che tucti quelli rispecti che li hebbe allora era per haverli sempre, perché sempre el papa non doveva volere che Napoli ritornassi ad Francia, et sempre Francia doveva havere rispecto al papa et all'altre potentie, che non si unissino, veggendolo ambitioso. Et s'uno dicessi: Spagna dubitava, che non si unendo con el papa ad fare guerra ad Francia, el papa non si unissi con Francia per sdegno ad fare guerra ad lui, sendo el papa huomo rotto et indiavolato come era, et però fu constrecto pigliare simil partito; che risponderei? che Francia sempre s'harebbe più presto convenuto con Spagna che con el papa, quando havessi in quelli tempi possuto convenire o con l'uno o con l'altro, sì perché la victoria era più certa, et non ci si haveva ad menare arme; sì perché allora Francia si teneva sommamente iniuriato dal papa, et non da Spagna, et per valersi di quella iniuria et satisfare ad la Chiesa del Concilio, sempre harebbe abbandonato el papa; di modo che ad me pare che in quelli tempi Spagna potessi essere o mediatore d'una ferma pace, o compositore d'uno accordo sicuro per lui. Nondimanco e' lasciò indreto tucti questi partiti, et prese la guerra, per la quale poteva temere che con una giornata ne andassino tucti li stati suoi, come e' temé quando e' la perdé ad Ravenna, che subito dopo la nuova della rotta, ordinò di mandare Consalvo ad Napoli, ch'era come per lui perduto quel regno, et lo stato di Castiglia li tremava sotto. Né doveva mai credere che Svizeri lo vendicassino et assicurassino, et li rendessino la reputatione persa, come advenne; in modo che se voi considerrete tucta quella actione et e maneggi di quelle cose, vedrete nel re di Spagna astutia et buona fortuna, più tosto che sapere o prudentia; et come io veggo fare ad uno uno errore, io presuppongo che ne faccia mille; né crederrò mai che sotto questo partito hora da lui preso ci possa essere altro che quello che si vede, perché io non beo paesi, né voglio in queste cose mi muova nessuna autorità sanza ragione. Pertanto io voglio concludere, che Spagna possa havere errato et intesala male et conclusala peggio.

Ma lasciamo questa parte, et facciàllo prudente, discorriamolo come partito di savio. Dico addunque, faccendo tale presupposto, che ad voler nectamente ritrovare la verità di questa cosa, mi bisognerebbe sapere se questa tregua è suta facta dopo la nuova della morte del pontefice et absuntione del nuovo, o prima, perché forse ci si farebbe qualche differentia; ma poiché io non lo so, io discorrerò presupponendo che la sia facta prima. Se io vi domandassi addunque quello che voi vorresti che Spagna havessi facto, trovandosi ne' termini si trovava, mi risponderesti quello mi scrivete; cioè che gli havessi potuto far pace con Francia, restituitogli el ducato per obligarselo et per torli cagione di condurre arme in Italia. Ad che io rispondo, che, ad discorrere questa cosa bene, si ha ad notare che lui fece quella impresa contro ad Francia per la speranza haveva di batterlo, faccendo per adventura nel papa, in Inghilterra et nello imperadore più fondamento che non ha poi in facto veduto da farvi; perché dal papa e' presuppose trarre danari assai; dallo 'mperadore credeva venissi contro al re qualche offesa gagliarda; credeva che Inghilterra, sendo giovane et danaroso et ragionevolmente cupido di gloria, qualunque volta e' lussi imbarcato, havessi ad venire potentissimo, talemente che Francia in tucto havessi et in Italia et ad casa, ad pigliare le conditioni da lui; delle quali cose non gliene è riuscita veruna, perché dal papa ha tracto danari nel principio, ma ad stento; et in questo ultimo non solum non li dava danari, ma ogni dì cercava di farlo ruinare, et teneva pratiche contro di lui; da lo 'mperadore non è uscito altro che la gita di Mons. di Gursa, et sparlamenti et sdegni; da Inghilterra gente debole, incompatibile con le sue; di modo che, se non fussi lo acquisto di Navarra, che fu facto innanzi che Francia fussi in campagna, e' rimaneva l'uno et l'altro di quello exercito vituperato, ancora che non n'habbino riportato sed non vergogna, perché l'uno non uscì mai delle machie di Fonterabi, l'altro si ritirò in Pampalona et con fatica la difese; di modo che, trovandosi Spagna stracco in mezo di questa confusione d'amici, da' quali, non che e' potessi sperare meglio, anzi ogni di peggio, perché tucti tenevono strecte pratiche d'accordo con Francia, et veggiendo da l'altra parte Francia reggiere ad la spesa, accordato co' Venitiani, et sperare ne' Svizeri, ha giudicato che sia meglio prevenire con el re in quel modo ha possuto, che stare in tanta incertitudine et confusione, et in una spesa ad lui insopportabile; perché io ho inteso di buono luogo, che chi è in Spagna scrive quivi non essere danari né ordine da haverne et che l'exercito suo era solum di comandati, e quali ancora cominciavono ad non lo ubbidire; et credo che 'l fondamento suo sia suto levarsi la guerra da casa, et da tanta spesa, perché se ad tempo nuovo Pampalona havessi spuntato, e' perdeva la Castiglia in ogni modo, et non è ragionevole che voglia correre più questo periculo. Et quanto alle cose d'Italia, potrebbe fondare forse più che 'l ragionevole in su le sue genti, ma non credo già che facci fondamento né in su Svizeri, né in sul papa, né in su lo 'mperadore più che si bisogni, et che pensi che qua el mangiare insegni bere a llui et agli altri Italiani; et credo che non habbi facto più strecto accordo con Francia, di darli el ducato lui, come voi dite che doveva fare, per non lo havere trovato, et anche per non lo iudicare più utile partito; perché io credo che forse Francia non lo harebbe facto, perché di già doveva havere accordato co' Vinitiani, et poi per non si fidare né di lui, né delle sua armi, harebbe creduto che lui non facessi per accordarsi seco, ma per guastarli li accordi con altri. Quanto ad Spagna, io non ci veggo veruna utilità, perché Francia diventava in Italia ad ogni modo potente, in qualunque modo e' s'entrassi nel ducato. Et se ad acquistarlo li fussino bastate l'armi spagnuole, ad tenerlo li bisognava mandarci le sua, et grossamente, le quali potevono dare e medesimi sospecti ad l'Italiani et ad Spagna, che daranno quelle che venissino ad acquistarlo per forza; et della fede et delli oblighi non si tiene hoggi conto. Siché Spagna non ci vede securtà per questo conto, et da l'altra parte ci vedeva questa perdita, perché o e' faceva questa pace con Francia con el consenso de' confederati, o no; con el consenso, e' la giudicava impossibile, per non si potere adcordare papa et Francia et Vinitiani et imperadore, tale che ad volerla fare d'accordo eo' confederati era un sogno. Havendola dunque ad fare contro al consenso loro, ci vedeva una perdita manifesta per lui, perché e' si sarebbe adcostato ad uno re, faccendolo potente, che ogni volta che ne havessi occasione ragionevolmente si doveva ricordare più delle iniurie vechie che de' benifici nuovi; et inritatosi contro tucti e potenti Italiani, et fuori d'Italia, perché essendo stato lui solo el provocatore di tucti contro ad Francia, che li havessi dipoi lasciati, sarebbe suta troppa grande iniuria. Et però di questa pace facta, come voi vorresti che l'havessi facta, e' vedeva la grandeza del re di Francia certa, lo sdegno de' confederati contra di lui certo, et la fede di Francia dubbia, in su la quale solo bisognava che si riposassi, perché havendo facto lui potente et gli altri sdegnosi, bisognava che li stessi con Francia; et e principi savi non si rimettono mai, sed non per necessità, ad discretione d'altri. Siché io concludo, ch'egli habbi iudicato più securo partito fare tregua, perché con questa tregua e' mostra a' collegati l'errore loro, fa che non si possono dolere, et dà loro tempo ad disfarla se la non piace loro, havendo promesso che ratificheranno; levasi la guerra di casa, et mette in disputa et in garbuglio di nuovo le cose d'Italia, dove e' vede che è materia da disfare ancora, et osso da rodere; et come e' dixe di sopra, spera che 'l mangiare insegni bere ad ognuno, et ha ad credere che al papa et ad lo 'mperadore, et a Svizeri non piaccia la grandeza de' Vinitiani et Francia in Italia, et giudica, se costoro non fieno bastanti ad tenere Francia che non occupi la Lombardia, e' saranno almeno bastanti seco ad tenerlo, che non vadino più avanti; et che 'l papa per questo se li habbi ad gittare tucto in grembo; perché e' può presummere che il papa non possi convenire con e Vinitiani né con loro adherenti, rispecto alle cose di Romagna. Et così con questa tregua e' vede la victoria di Francia dubbia, non si ha ad fidare di Francia, et non ha da dubitare della alteratione de' confederati; perché o lo 'mperadore et Inghilterra la ratificheranno o no: se la ratificano, e' penseranno come questa tregua habbia ad giovare ad tuoi, et non ad nuocere; se non la ratificano, e' doverrebbono diventare più pronti ad la guerra, et con maggiore forze et più ordinate che l'anno passato venire a' danni di Francia; et in ogni uno di questi casi Spagnia ci ha lo intento suo. Credo pertanto ch'el fine suo sia stato questo, et che creda con questa tregua, o costrignere lo 'mperadore et Inghilterra ad fare guerra da dovero, o con la reputatione loro, con altri mezi che con l'armi, posarle ad suo vantaggio. Et in ogni altro partito vedeva periculo, cioè, o seguitando la guerra, o faccendo la pace contro alla volontà loro; et però prese una via di mezo, di che ne potessi nascere guerra et pace.

Se voi havete notato el procedere di questo re, voi vi meraviglierete meno di questa tregua. Questo re da poca et debole fortuna è venuto ad questa grandeza, et ha hauto sempre ad combattere con stati nuovi et subditi dubii. Et uno de' modi con che li stati nuovi si tengono, et li animi dubii o si fermano o si tengono sospesi et inresoluti, è dare di sé grande expectatione, tenendo sempre li huomini sollevati con l'animo, nel considerare che fine habbino ad havere e partiti et le 'mprese nuove. Questa necessità questo re la ha conosciuta et usatala bene, da la quale è nato la guerra di Granata, li assalti d'Affrica, l'entrata nel reame et tucte queste altre intraprese varie, et senza vederne el fine, perché el fine suo non è quello adquisto o quella victoria, ma è darsi reputatione ne' populi sua et tenerli sospesi con la multiplicità delle facende; et però è animoso datore di principii, a' quali e' dà dipoi quel fine che li mette innanzi la sorte et che la necessità l'insegna; et infino ad qui e' non si è possuto dolere né della sorte, né dello animo. Provovi questa mia opinione con la divisione che fecie con Francia del regno di Napoli, della quale e' doveva sapere certo ne havessi ad nascere guerra intra lui et Francia, senza saperne el fine ad mille miglia; né poteva credere haverli ad rompere in Puglia et in Calavria et al Garegliano. Ma a llui bastò cominciare per darsi quella reputatione, sperando, come è seguito, o con fortuna o con inganno andare avanti. Et quale che li ha facto, sempre farà, et il fine di tuoi questi giochi vi dimosterrà così essere el vero.

Tucte le sopradette cose io ho discorse, presupponendo che vivessi papa Julio; ma quando egli havessi inteso la morte sua et la vita di questo, harebbe facto el medesimo, perché se in Julio e' non poteva confidare per essere instabile, rotto, impetuoso et avaro, in questo e' non può confidare per essere savio. Et se Spagna ha punto di prudenza, non lo ha ad muovere alcuno benifitio che li habbi facto in minoribus, né alcuna coniuntione habbino hauti insieme, perché allora egli ubbidiva, hora comanda; giucava quello d'altri, hora gioca el suo; faceva per lui e garbugli, hor fa la pace.