Lorenzo de' Medici

 

Le Selve

 

 

Edizione di riferimento: Lorenzo de' Medici, Selve, in Opere, a cura di Tiziano Zanato, Einaudi, Torino 1992

 

 

SELVA 1

 

 

1

 

Dopo tanti sospiri e tanti omei

ancor non veggo quel bel viso adorno;

dopo tanti dolori e pianti rei

non fanno, omè!, quei belli occhi ritorno.

O fallace Speranza, o pensier' miei,

tenuti tanto già di giorno in giorno!

Quando sarà che quei belli occhi guardi?

Non so: sia quando vuol, che sarà tardi.

 

 

2

 

Occhi miei belli, o parolette accorte,

più non vi veggo, lasso, e non vi sento!

O ore or lunghe, e fusti già sì corte,

nimiche allora et ora al mio contento!

O mio destino, o maladetta sorte,

abbiate omai pietà del mio tormento:

rendete quei belli occhi agli occhi miei,

ché sanza lor più viver non potrei.

 

 

3

 

Lasso, io non vivo e morir non potrei

lontano, omè, da quei bei lumi santi!

Non vivo, ché la mia vita è con lei;

qui resta il corpo sol, sospiri e pianti;

una cieca Speranza i dolor' miei

nutrisce, e non permette il fil si schianti.

Amore, a cui per sempre mi son dato,

mi tien mirabilmente in questo stato.

 

 

4

 

Perché son più felici, occhi miei lassi,

che voi le fere e ' boschi e ' monti e ' fiumi?

Perché son più di voi felici e sassi,

che veggon pur talora e vaghi lumi?

La vista mia, che sanza loro stassi,

convien che lacrimando si consumi.

Almen sia presto, s'io debbo star molto

sanza veder quello amoroso volto.

 

 

5

 

Almen m'avessin, sopra quel bel monte

ove or lei sanza me soletta stassi,

le belle luci con lor forze pronte

converso in un di quei più duri sassi!

Forse m'arebbe con pietosa fronte

talor guardato, or tócco i leggier' passi;

s'io lo sentissi, arei ogni mia voglia,

se non, io sarei fuor di tanta doglia.

 

 

6

 

Almen m'avessi quella luce santa

converso nelle fronde ond'io mi chiamo!

Forse, passando poi da quella pianta,

pietosa n'avria còlto qualche ramo;

e mentre con Amore or parla or canta,

forse n'avria la man, quale tanto amo,

fattone una ghirlanda e messa in testa.

Almen fussi erba da quel bel piè pesta!

 

 

7

 

Almen m'avessi col suo mirar fiso

converso in fonte quello sguardo umano,

sopra al bel monte ov'è il mio paradiso!

Forse talor la candida sua mano

s'aria bagnata, e specchiato il bel viso

nell'acque, da cui son tanto lontano.

Se almen m'avessi in fera convertito,

veggendo lei, so non sarei fuggito.

 

 

8

 

Io pur sospiro, e i sospir' vanno in vento;

io chiamo il suo bel nome, e non risponde;

io piango indarno, dolgomi e lamento;

l'umide luci mie più non asconde

un dolce sonno, e sento un foco drento

che m'arde sempre e i miei pensier' confonde.

Non posso più, o mia Speme fallace

Altro che lei o morte non mi piace.

 

 

9

 

O dolcissime notte, o giorni lieti,

amorosi sospiri, o dolci pianti!

O Amor testimon de' bei secreti,

lunghe vigilie, o parolette, o cantil

O reo destin, perché or questo mi vieti,

e rompi il bel disio a' tristi amanti?

Dato m'hai tanto ben, poi me n'hai privo,

per far maggior la doglia in la qual vivo.

 

 

10

 

S'io non debbo veder più gli occhi belli,

sèrrinsi e miei, né vegghin mai più luce;

però che ogni altra cosa in fuor che quelli

ch'io vegga, maggior doglia al cor conduce.

Amor, che del mio mal meco favelli

e in queste pene se' mia scorta e duce,

rendimi con quelli occhi la mia pace,

o tronca il viver mio, se pur ti piace.

 

 

11

 

Io so ben, caro e dolce signor mio,

la pena che tu hai de' miei tormenti,

e veggo insin di qua quel viso pio

bagnar di pianti, e odo i tuoi lamenti;

le tue parole, la pietà e 'l disio,

li amorosi pensier' mi son presenti,

mille altri segni della ardente voglia:

e questo cresce più tanta mia doglia.

 

 

12

 

Amore e mia usanza pur mi mena

nel loco dove fur li ultimi sguardi,

fine al mio ben, principio a tanta pena;

né veggo quei belli occhi ovunque io guardi;

onde dolente e tristo e vivo a pena

mi parto, e muovo e passi lenti e tardi

in qualche parte, per vedere allora

da lungi almeno ove il mio ben dimora.

 

 

13

 

Quivi con Amor parlo e con me stesso,

e dico mille volte: – Oimè lasso!

Là è il mio bel signore, e stassi apresso

all'ombra forse d'arbori o d'un sasso;

qualche rozzo villan parla con esso,

o altri, e non sen cura o sconcia un passo;

e io, che vivo sol della sua vista,

son sì di lungi! Or piangi, anima trista! –

 

 

14

 

Io non so, non che dir, se pensar deggia

sanza uno stuol d'infiniti sospiri:

ché forse alcun quei belli occhi vagheggia,

e par che fiso e da presso li miri,

e quella bella man tocca e maneggia;

e per crescere in tutto e miei martìri,

Amore in preda d'altri alfin mi mostra

la sua bellezza e la dolcezza nostra.

 

 

15

 

Lasso, che pena ho io, se mi rimembra

chi gode in pace tanta sua bellezza,

e vede e tocca le pulite membra

ad ogni or, quando vuole, e non le prezza!

Me divide Fortuna, allunga e smembra

dal suo bel viso e da tanta dolcezza;

né bramo al mondo o prezzo se non quelle

membra, e non posso udirne pur novelle.

 

 

16

 

E, se qualche novella sento pure,

sol questo è: che 'l pensier mi rapresenta

tra tanti mie martìr' mille paure,

e voglia e gelosia pur mi tormenta,

disio, dispetto, invidia e triste cure;

e Fortuna, al mio mal pronta et attenta,

mi perseguita sempre; Amor mi uccide,

poi di tanto mio mal si allegra e ride.

 

 

17

 

Mentre che 'l cor così s'afflige e geme

e di tanto mio mal meco si duole,

allor che più disia e che più teme,

il pianto in preda l'ha e morte il vuole,

surge una dolce e disïata Speme,

che mi conforta con le sue parole

e dice: – Ancor quel bel viso vedrai,

lieto, dolce, amoroso più che mai.

 

 

18

 

Quelli occhi belli, lieti et amorosi,

poche accorte e dolcissime parole,

queteranno e pensier' tuoi disïosi

e l'alma afflitta, che a ragion si duole.

Faran quelli occhi, che or ti sono ascosi,

come fa tra le folte nebbie il sole:

fuggirà il pianto e' tuoi sospir' dolenti

dinanzi alle amorose luci ardenti.

 

 

19

 

Tosto che appare al tuo cieco orizzonte

la luce che nel cor sempre ti splende,

e dalla cima di quel sacro monte

quello amoroso raggio agli occhi scende,

non convien por la man sopra la fronte,

ché questo dolce lume non offende.

O che bella alba! O Titon vecchio, allora

abbiti sanza invidia la furora.

 

 

20

 

Vedrai le piagge di color' diversi

coprirsi, come primavera suole;

né più la terra del tempo dolersi,

ma vestirsi di rose e di vïole.

E segni in cielo, al dolce tempo adversi,

farà dolci e benigni il nuovo Sole;

e la dura stagion frigida e tarda

non si conoscerà, s'ella si guarda.

 

 

21

 

Lieta e maravigliosa e rami secchi

vedrà di nuove fronde rivestire,

e farsi vaghi fior' gli acuti stecchi,

e Progne e Philomena a noi redire;

lasciar le pecchie e casamenti vecchi,

liete di fiore in fior ronzando gire;

e rinovar le lasciate fatiche

con piccol passo le sagge formiche.

 

 

22

 

El dolce tempo il buon pastore informa

lasciar le mandrie, ove nel verno giacque

el lieto gregge, che, belando, in torma

torna alle alte montagne, alle fresche acque.

L'agnel, trottando, pur la materna orma

segue, et alcun che pure ora ora nacque

l'amorevol pastore in braccio porta;

il fido cane a tutti fa la scorta.

 

 

23

 

Un altro pastor porta in su la spalla

una pecora ch'è nel cammin zoppa;

l'altro sopra una gravida cavalla

le rete, el maglio e l'altre cose ha in groppa,

per serrarvele allor che 'l sole avalla,

così nel lupo alcuna non intoppa;

torte di latte e candide ricotte

mangion poi lieti, e russan tutta notte.

 

 

24

 

Romperanno e silenzii assai men lunghi,

cantando per le fronde, allor gli uccelli;

alcuno al vecchio nido par che agiunghi

certe festuche e piccoli fuscelli.

Campeggeran ne' verdi prati e funghi,

liete donne corranno or questi or quelli;

lascerà il ghiro il sonno e 'l loco ove era

e l'assiuolo si sentirà la sera.

 

 

25

 

Vedrai ne' regni suoi non più veduta

gir Flora errando con le ninfe sue;

il caro amante in braccio l'ha tenuta,

Zephiro, e insieme scherzan tutti due.

Coronerà la sua chioma canuta

di fronde il verno alla nuova virtùe;

tigri aspri, orsi, leon' diverran mansi;

di dure, l'acque liquide faransi.

 

 

26

 

Lascerà Clyzia il suo antico amante,

volgendo lassa il pallidetto volto;

a questo nuovo amoroso levante

lo stuol degli altri fior' tutto fia vòlto,

attenti a mirar fiso el radïante

lume degli occhi e venerarlo molto.

La rugiada per l'erba e in ogni frasca

non creder più ch'e febei raggi pasca.

 

 

27

 

Sentirà per l'ombrose e verde valli

corni e zampogne fatte d'una scorza

di salcio o di castagno; e vedrai balli

delli olmi all'ombra, quando il sol più sforza.

E pesci sotto e liquidi cristalli

di quei belli occhi sentiran la forza;

Nereo e le figlie in mare aràn bonaccia;

mosterrà il mondo lieto un'altra faccia.

 

 

28

 

Come arbuscel inserto gentilmente

si maraviglia, quando vede poi

nuovi fior', nuove fronde in sé virente

nutrire e maturar pomi non suoi,

tal maraviglia arà la bruma algente,

quando sì bella mosterrassi a noi

la terra del nuovo abito vestita,

fra sé dicendo: «Or sono io rimbambita?».

 

 

29

 

Durerà questa nuova maraviglia

insin che 'l lume de' belli occhi appare

e si presenti alle gelate ciglia;

quando vedrà le dolce luci e chiare,

o si convertirà nella sua figlia

o gli conviene agli antipodi andare:

chi mira fiso questa gentil faccia,

convien gentil diventi o si disfaccia.

 

 

30

 

Se questa gentil forza a lei s'apressa,

se quel bel viso si vedrà d'intorno,

presto la prima maraviglia cessa

che porta il disïato e nuovo giorno.

Tacita allor dirà pur fra sé stessa:

«Maggior maraviglia ho che 'l lume adorno,

come toglie ogni forza a' febei rai,

ancor non facci maggior' cose assai».

 

 

31

 

Lascerà poi la bruma innamorata

partendosi la luce de' belli occhi;

la via è già da molti fior' segnata,

lieti aspettando che 'l bel piè li tocchi;

l'aria che fende è lucida e bëata;

uno amoroso nembo par che fiocchi

sopra lei fior' fragranti, un dolce odore;

splendon per tutto spiriti d'Amore. –

 

 

32

 

Vengon per onorare il mio bel Sole

satir' saltando, coronati e destri;

Pan vien sonando e in sua compagnia vuole

fauni, e in mano han verdi mài alpestri;

candide rose e pallide vïole

porton le ninfe in grembo e ne' canestri;

vengono i fiumi di molle ulva adorni,

di fiori e fronde empiendo i torti corni.

 

 

33

 

Lascia la vecchia madre Falterona

e le caverne dello antico monte

Arno mio lieto, e di verde corona

di popul cuopre la cerulea fronte;

nel suo mormoreggiar seco ragiona

e duolsi Arno d'aver troppo bel ponte;

Arno che quanto può si sforza e brama

aver come il fratello eterna fama.

 

 

34

 

Ecco apparire alle vedove mura

veggiamo il dolce lume de' belli occhi;

triemono e cor' villani et han päura

che questo gentil foco non li tocchi;

nelli altri di alta e di gentil natura

Amore e Gentilezza par trabocchi;

corron già per veder donne e donzelle,

non hanno invidia, anzi si fan più belle.

 

 

35

 

Poi che sarà drento al bel cerchio entrata,

quanta dolcezza sentiran coloro

che con tanto disio l'hanno aspettata,

veggendo allor la dolce pace loro!

O cara patria, or non sia più invidiata

da te già mai la prima età dell'oro

l'isole Fortunate in occidente,

o dove già peccò il primo parente.

 

 

36

 

Ciascun l'applaude, ciascun la saluta

a dito l'uno all'altro costei mostra.

Dicono i cor' gentil': – Ben sia venuta

la dolcezza, la pace e vita nostra! –

La vil gente starà dolente e muta

e fuggirà de' belli occhi la giostra.

Ecco già in casa questa mia gentile,

felice casa, benché alquanto umìle.

 

 

37

 

Non colonne marmoree in altezza

reggon le picciolette e basse mura

dello edifizio; non li dà bellezza

petra di gran saldezza, chiara e dura;

non opra di scultor che 'l vulgo prezza,

non musäico alcun, non v'è pittura,

non gemme orïentali, argento o oro,

ma molto più gentile e bel lavoro.

 

 

38

 

Nella porta Bellezza e Leggiadria,

dolci Sguardi amorosi e bei Sembianti;

Pietà drento si mostra, e in compagnia

Speme e Merzé par dolcemente canti

(oh che dolce e divina melodia!);

Costumi ornati e Modi onesti e santi,

dolce Parlar, Motti arguti in la scala;

Fede, Amor, Gentilezza con lei in sala.

 

 

39

 

Solo una vecchia in uno oscuro canto,

pallida, il sol fuggendo, si sedea,

tacita sospirando, et uno amanto

d'uno incerto color cangiante avea;

cento occhi ha in testa, e tutti versan pianto,

e cento orecchi la maligna dea;

quel che è, quel che non è, trista ode e vede;

mai dorme, e ostinata a sé sol crede.

 

 

40

 

Nel primo tempo che Chaòs antico

partorì il figlio suo diletto Amore,

nacque questa maligna dea ch'io dico:

nel medesimo parto venne fòre.

Giove, padre benigno, al mondo amico,

la relegò tra l'ombre inferïore

con Pluton, con le Furie; e stie' con loro

mentre regnò Saturno e l'età d'oro.

 

 

41

 

Poi, sendo spesso e gravemente offesi

dal fer Cupido gli immortali dèi,

ora ad un laccio, ora ad un altro presi,

feron tornar dalli inferi costei

per decreto divin, di sdegno accesi,

e che dove Amor è, fussi ancor lei.

Così questa inimica il mondo ingombra:

segue Amor sempre come il corpo l'ombra.

 

 

42

 

Temeva forte il sommo padre Giove

che di Chaòs il bello e dolce filio

non si facessi con le forze nuove

rettore in luogo suo del gran concilio,

il scettro e 'l regno transferissi altrove;

però rivocò questa dallo essilio,

giurando allor per la palude stige

che segua di Amor sempre le vestige.

 

 

43

 

Pensò con questa molta forza tòrre

el sommo padre alli amorosi strali

e ' duri nodi e tutti i lacci sciorre:

perché, veggendo gli dèi immortali

in quante pene qualunque ama incorre,

in che pianti e sospiri e in quanti mali,

leverebbon d'Amore ogni pensiero,

fuggendo il grave giogo e duro impero.

 

 

44

 

Così fatta la legge e 'l giuramento

e consentita dal divin senato,

poco passò che ne fu mal contento,

e invan pentissi allora aver giurato,

provando in sé questo mortal tormento:

prima era Amor sicur, lieto e bëato;

e se non fussi la già data fede,

l'arìa rimessa alla tartarea sede.

 

 

45

 

Di Chaòs nata e da Pluton, nutrita

del latte delle Furie (o tristo nume!),

fa sentire a' mortali, ancora in vita,

le pene del gran regno sanza lume;

non sana mai la sua immortal ferita;

porta una spada tinta nelle schiume

di Cerbero laggiù nel basso seggio;

del ben fa male e sempre crede il peggio.

 

 

46

 

D'ombre vane e pensier' tristi si pasce;

rode un cor sempre la infelice bocca

e, come è consumato, allor rinasce

(o miser quello a cui tal sorte tocca,

nelle prime sue cune e nelle fasce!);

nel petto tristo invidia, odio trabocca;

fugge sempre ove il mio bel Sole arriva,

né si parte però la morte viva.

 

 

47

 

Oh quante volte ha tentato il mio Sole

cacciar da sé questo terribil mostro,

or con minacce, or con buone parole!

L'Amor, la Fé: – Questo è il nimico nostro –

dicon piangendo; e invan ciascun sen duole,

invan s'oppone il basso voler nostro

al decreto che è in ciel già fermo e santo.

Lei fugge d'uno, e va in uno altro canto.

 

 

48

 

O venenoso mostro al ciel dispetto,

o vivo fonte d'ogni uman tormento,

d'Amor mortal nimico e di diletto,

di Speranza, di Fé, d'ogni contento,

tu incendi di furore il tristo petto.

Rompi, o Giove, lo ingiusto giuramento,

rimetti la infelice al foco eterno:

ma non l'accetterà forse l inferno !

 

 

49

 

Gli uomin' gli dèi pregano a giunte mani

che la estermini al tutto e che la spenga:

de' lamenti del ciel, de' pianti umani

nel generoso petto pietà venga.

Deh! tanti e giusti prieghi or non sien vani,

e 'l giuramento più non si mantenga,

fatto a danno comun, come chiar veggio:

error fu farlo, e mantenerlo è peggio.

 

 

50

 

Come già, giustamente persüaso,

sciogliesti di Iapeto il saggio filio,

legato eternalmente in Caucàso,

per render qualche merto al buon consilio,

perché fai ora, o sommo padre, caso

rimetter questa trista al primo essilio?

Al primo essilio, e non son cose nuove:

puoi tutto, e giusto è quel che piace a Giove.

 

 

51

 

Come una antica quercia in alto posta,

quando è percossa dal furor de' venti,

ora assalita d'una, or d'altra costa,

cascon le foglie, e' suoi rami pendenti

si piegon sÌ che a terra alcun s'accosta;

sta fermo il tronco e par che non paventi,

poco prezzando di Eolo la guerra,

tenendo ferme le radici in terra;

 

 

52

 

così, padre benigno e giusto, alquanto

ti muove, se perviene a' santi orecchi

il nostro duro e quasi eterno pianto.

Vorresti usar pietà, purché non pecchi;

ma quando pensi al giuramento santo,

convien che 'l fonte di pietà si secchi,

perché il divin voler mai si corregge:

così sta ferma questa dura legge.

 

 

53

 

O mia cieca Speranza, ove hai condutti

e dolcemente lusingando scòrti

di pensiero in pensiero e disir' tutti!

Mentre che falsamente li conforti

di vaghi fiori e belle fronde, e frutti

acerbi, duri, acri e amari or porti;

mostrando invano a me la donna mia,

veggo in suo luogo Amore e Gelosia.

 

 

54

 

Lasso a me!, quando entrasti nel pensiero

io vidi così veri e vaghi lumi,

coprir di fior' l'amoroso sentiero,

correr le ninfe, Pan, satiri e fiumi,

come vede ciascun che vede il vero.

O fallace Speranza, or mi consumi,

or fuggi, e 'l vero el dolce inganno invola,

e resta con Amor Gelosia sola.

 

 

55

 

Amor, che prende ogni mio male in gioco,

sanza pietà si ride dello inganno;

Speranza, se si mostra ancora un poco,

drieto a·llei tutti e van' pensier' ne vanno;

né però manca l'amoroso foco,

ma questi inganni assai maggior lo fanno;

con feroci occhi Gelosia mi mira,

e 'l cor n'ha doglia e nel dolor s'adira.

 

 

56

 

Madonna stassi in quelle parti excelse

ove il mio bel disio da prima nacque,

che Amore ogni pensier del core svelse

e piantò quel che sempre verde giacque,

e la mia donna tra le donne scelse

e me la die', né poi altro mi piacque.

Questo amoroso loco or me la invola:

lì si sta, sanza me, pensosa e sola.

 

 

57

 

In questo loco ove madonna gira

lasso!, le luci belle e lacrimose,

amorosi mister' dolente mira

e rimembra le prime dolce cose:

ad ogni passo mi chiama e sospira

(e chi chiama ode, e di lontan rispose),

piange, e piangendo cresce più il tormento,

e fra sé stessa così dir la sento:

 

 

58

 

– Qui l'aspettai, e quinci pria lo scorsi;

quinci sentii l'andar de' leggier' piedi,

e quivi la man timida li porsi;

qui con tremante voce dissi: «Or siedi»;

qui volle allato a me soletto porsi,

e quivi interamente me li diedi;

quivi legò Amore ambo due noi

d'un nodo che già mai si sciolse poi.

 

 

59

 

Quando il sentii tra l'ombre e vidi apresso,

el cor tremava pavido nel petto;

era il disio e dubbioso e perplesso;

da timor lieto e timido diletto

in un tempo era il vago core oppresso;

né so in quel punto quel che avessi eletto.

Mentre Amor spinge e passi e 'l timor frena,

mi giunse, di letizia incerta piena.

 

 

60

 

«Quivi» li dissi «omai contento giaci:

sia lieto il cor, poi che ha quel che disia».

O parolette, o dolci amplessi, o baci!

O sospirar che d'ambo e petti uscia!

O mobil tempo, o brevi ore e fugaci,

che tanto ben ve ne portasti via!

Quivi lasciommi piena di disio,

quando già presso al giorno disse: «Adio!»

 

 

61

 

Era già, lasso a me!, vicino il giorno,

quasi era Phebo all'orizzonte giunto,

che la dolcezza di quel bel soggiorno

facea parer che fussi un breve punto.

Lui disse: «O vivo o morto a te ritorno».

Così partissi, e da me fu disiunto.

Scorgendo questa mano il cammin cieco,

strinse e baciolla, e 'l cor mio portò seco.

 

 

62

 

Drieto, quanto io pote' da questo loco,

li tenni gli occhi lacrimosi e 'l volto;

soletto andava acceso in dolce foco

co' passi avèrsi e 'l viso ver' me vòlto.

La notte ombrosa fece durar poco

questa ultima dolcezza, e mi fu tolto.

Agli occhi più virtù non è concessa,

ma restò drento al cor la forma impressa. –

 

 

63

 

Questo dice madonna, e chi gli è presso

nol sente; et io, che son sì lontan, l'odo.

Questa memoria nel pensiero ha messo

quel primo tempo che strinse il bel nodo,

e mi ribella tanto da me stesso

ch'i' veggo quasi quel bel tempo e 'l modo

come allor mi legò la bianca mano;

ma poco dura il breve piacer vano.

 

 

64

 

O inimica memoria tenace,

che inanzi agli occhi quel bel tempo mette!

O più cruda Speranza mia fallace,

che questo e meglio ancora al cor promette!

Né però veggo quel che sol mi piace,

né tornan quelle luce benedette;

l'uno occhio indrieto e l'altro innanzi mira

e 'l cor irato e stanco ognor sospira.

 

 

65

 

Perché seguite, o pensier' vani e folli

tante volte ingannati, ancor costei?

Et io più stolto, a che seguir voi volli?

Deh, fermatevi, o stanchi pensier' miei!

Più presto eleggo star con li occhi molli

e gridar l'ora mille volte «Omei!»,

in doglia, in foco il tempo che m'avanza,

e morir poi, che vivere in speranza.

 

 

66

 

Almen, se la memoria il disio punge,

dinanzi al core il ver mi rapresenta,

ma questa vana finge un bene a lunge,

che, se t'apressi, più lontan diventa,

fugge di tempo in tempo e mai non giunge;

sperando e disïando, il cor tormenta.

Amor, che sempre in compagnia la mena,

così dipigne questa dolce pena.

 

 

67

 

E una donna di statura immensa,

la cima de' capelli al ciel par monti,

formata e vestita è di nebbia densa,

abita il sommo de' più alti monti.

Se e nugoli guardando, un forma e pensa

nuove forme veder d'animal' pronti

che 'l vento muta e poi di nuovo figne,

così Amor questa vana dipigne.

 

 

68

 

Par molto grande e bella dalla lunga,

con l'ombra quasi tutto il mondo piglia;

se advien che apresso disïoso giunga,

a poco a poco manca e s'assottiglia;

e, come suol quando par Borea punga,

vedi sparire il nugol dalle ciglia;

così mai giugni ove trovar la credi,

ma sempre innanzi agli occhi te la vedi.

 

 

69

 

Sì come un can che la bramosa bocca

crede bagnar nel sangue d'una fera

che fugge innanzi, e già quasi la tocca,

pur non la giugne e pur giugnerla spera:

così la voglia disiosa e sciocca

non sazia, e digiun resta come s'era;

lei più veloce innanzi a llui si fugge,

lui pien di rabbia e di disio si strugge.

 

 

70

 

O come, se la schiena scalda il sole,

chi vuol giugner quella ombra che ha dinanzi,

s'almen co' passi pareggiar la vuole,

convien di spazio equal pur l'ombra avanzi:

se corre come cervio correr suole,

li resta drieto alfin quanto era dianzi;

or par la priema, or par l'avanzi un pezzo,

al fin del corso poi pur resta il sezzo.

 

 

71

 

Giugner non posson le volubil' rote

bue o caval, che innanzi il carro tira;

così costei già mai trovar si puote:

la vana fronte occhio mortal non mira.

Uno occhio ha in testa e cose alte e remote

innanzi guarda, e drieto mai nol gira;

Minerva sol con l'egida già vide

la fronte, e di noi miseri si ride.

 

 

72

 

Sopra a' nebulosi omeri li nascono

due pennute alie, oltra misura grande;

vola per alti lochi, onde poi cascono

quei che credon che lei alto gli mande;

vento e vane ombre questa fera pascono,

e rade volte gusta altre vivande;

vola la notte, e sempre fuggir suole,

come Äurora, la luce del sole.

 

 

73

 

Il ciel da sé, Pluton da sé l'arretra;

vola per questa mezza regïone,

ove il liquido umor aghiaccia e 'mpetra

e solve in acqua e nugoli Iunone;

lì fabrica Vulcan le sua fulgetra,

indi Eolo Austro muove et Aquilone;

fuochi, comete e cadenti vapori,

e la bella Iris di mille colori.

 

 

74

 

Seguon questa infelice in ogni parte

el sogno, lo äugurio e la bugia;

e chiromanti et ogni fallace arte,

sorte, indovini e falsa profezia,

la vocale e la scritta in sciocche carte,

che dicon, quando è stato, quel che fia;

l'archimia e chi di terra il ciel misura,

e fatta a volontà la coniettura.

 

 

75

 

Alla cieca ombra delle sue grandi ali

il mondo vano alfin tutto ricovera.

Oh cecità de' miseri mortali!

Oh ignoranzia troppo vana e povera!

E chi potessi contar tutti e mali,

le stelle in cielo e ' pesci in mare annovera,

li uccelli in autunno che 'l mar passano

o le foglie ch'e rami nudi lassano.

 

 

76

 

Ma che male è che l'uom mortal patisca,

che da te maladetta non proceda?

O che grave dolor che non nutrisca?

Quanti tristi hai ad Amor dati in preda?

Che forte periglio è che non ardisca

il cor, se advien che 'l misero ti creda?

Tu fusti dal ciel data a noi mortali

vita e conservazion di tutti e mali.

 

 

77

 

O figlio di Iapeto al tutto stolto,

non valse il saggio frate t'admonisse

a non mirar Pandora bella in volto

o accettar dono che da lei venisse.

Rendi il furto, Promethëo, che, tolto,

nel miser mondo tanti morbi misse.

Qual fu più stolto puoi discerner poco,

chi prese il dono o chi furò già il foco.

 

 

78

 

Stolta prudenzia e cieco accorgimento

fu il tuo, e del fratel folle stultizia.

Deh!, rendi il furto, se Giove è contento

ritrar del mondo e morbi e la malizia.

Tu non sapevi ancor che 'l pentimento

va drieto sempre a quel che mal s'inizia.

Credesti ingannar Giove! O error' gravi!

Così maggiori error' fanno e più savi.

 

 

79

 

Se tu non eri, non dava l'offizio

Giove a Vulcan di fabricar Pandora;

Pallade l'arte belle e lo essercizio

non vi agiugnea per farla più decora;

nel volto ogni bellezza, in bocca il vizio,

la grazia Vener non li dava ancora,

e ' dolci sguardi e 'l bel sembiante umano;

né Giove poi la nostra morte in mano.

 

 

80

 

Così leggiadra e bella non avria

offerto il vaso al folle, come offerse.

Lui, come sai, benché admonito pria,

il vaso prese e subito l'aperse.

Subito uscîr del vaso e fuggîr via

pel mondo e morbi e passïon diverse;

del vaso fatto dal celeste fabro

Speranza sola si restò nel labro.

 

 

81

 

E così fu troppo dannoso e caro

el foco che furasti nella ferula:

dapoi fu il mondo crudele et avaro,

la mente sempre disïosa e querula;

le guerre, incendi, e torti e 'l pianto amaro

dapoi sulcorno e legni l'onda cerula;

la menzogna, l'inganno e 'l romper fede,

da questa vana ciascun mal procede.

 

 

82

 

Tu ti restasti su l'orlo soletta,

perché la Speme a terra mai non casca;

se 'l disio nasce et ella tel prometta,

dell'un vago pensier par l'altro nasca:

del male il bene e del ben meglio aspetta,

sì come äugel va di ramo in frasca,

certa non mai: però non drento o fòra

restò nel vaso che donò Pandora.

 

 

83

 

Troppo sforza e mortal', troppo presume

questa inimica della umana mente;

ancor nel cieco regno sanza lume

extender vuol la sua forza latente:

parse ad alcun degno e gentil costume

la dolce vita abandonar presente;

la dolce vita sprezza e morte brama

alcun, sperando poi viver per fama!

 

 

84

 

Pria che venissi al figlio di Iapeto

del tristo furto il dannoso pensiero,

reggeva nel tempo äureo quïeto

Saturno il mondo sotto il giusto impero.

Era il viver uman più lungo e lieto;

era e pareva un medesimo vero;

frenato e contento era ogni disio,

né conosceva il mondo «tuo» o «mio».

 

 

85

 

La terra liberal dava la vita

comunemente in quel bel tempo a tutti;

non da vomere o marra ancor ferita,

produceva e frumenti e vari frutti,

di odorifere erbette e fior' vestita,

non mai dal sol, non mai dal gel destrutti;

l'acque correnti, dolce, chiare e liete

spegniéno allor la moderata sete.

 

 

86

 

Per l'erbose campagne lieti e sciolti

givan gli armenti sanza alcun timore,

sanza sospetto che gli fusser tolti

da orso o lupo il timido pastore.

Erano e tori indomiti allor molti,

non privi ancor del genital calore,

né per fatica di lungo intervallo

del giogo avendo al collo il duro callo.

 

 

87

 

E' si potea vedere in una stoppia

col lupo lieta star la pecorella,

sanza sospetto l'un dell'altro, in coppia:

non fero il lupo allor, non timida ella.

Né la volpe era maliziosa o doppia,

e non bisogna che la villanella

pe' polli tenga il botol che la cacci,

ma par, se pur vi vien, festa li facci.

 

 

88

 

La lepre e 'l bracco in un cespuglio giace,

l'un non abbaia e l'altra ancor non geme;

tra 'l veltro e 'l cavriolo e cervio è pace,

né alcun ne' piè veloci spera o teme:

scherzan tra loro e provocar lor piace

talor l'un l'altro; e se corrono insieme,

non corron per fuggire il fero morso,

ma sol per superar l'un l'altro in corso.

 

 

89

 

Semplice, bianca e sanza una magagna,

ove li piace la colomba annidia

lieta, sanza temer che la compagna

o il maschio guasti l'uova per invidia;

non teme del falcon per la campagna,

né tra le fronde dello astore insidia.

Sora stridendo lieto lo aghirone,

né teme il colpo o l'unghia del falcone.

 

 

90

 

Non teme la pernice che 'l terzuolo

la stringa, come il ferro suol tanaglia,

né restar presa sul levar del volo

dallo sparvier, quando è grassa, la quaglia;

gode lo smerlo che dal basso sòlo

l'allodola cantando al ciel sù saglia;

né alla serpe dubitar bisogna

d'esser esca a' pulcin' della cicogna.

 

 

91

 

Tu puoi pel prato scalzo ir sanza rischio

di far crucciar, calcando, il frigido angue:

e serpenti non han veleno o fischio,

onde dal volto al cor si fugge il sangue.

Sicuro è mirar fiso il bavalischio,

né pel guardo mortal tristo alcun langue;

né gli animali al fonte han pazïenza

che l'unicorno facci la credenza.

 

 

92

 

El tigre e 'l fer leone e la pantera

come conigli, mansüeti e pigri,

et ogni vile e mansüeta fera

feroce par come leoni e tigri.

Non fugge l'animal l'umana cera;

gli augei bianchi, vermigli, gialli e nigri

già per le folte macchie non si ascosono:

in mano, in testa, in spalla all'uom si posono.

 

 

93

 

Non era ancor nel petto de' mortali

di carne sazïar la fera voglia.

Pel nutrimento diventiam bestiali,

che 'l sangue uman di sua natura spoglia;

quinci guerra è tra l'uomo e gli animali,

quinci fugge l'uccel di foglia in foglia,

e si lamenta con pietoso strido

quando non truova e cari figli al nido.

 

 

94

 

Non si sentiva il doloroso belo

della madre che perde il caro agnello,

la vacca non empiea di mughi il cielo

tornando sanza il figlio dal macello,

né per difender le membra dal gelo

muoion le fere, per averne il vello.

Secura agli animali era la traccia,

né per nutrirsi o per piacer si caccia.

 

 

95

 

Gli augei cantando van di ramo in ramo

sanza sospetto di rete o di lacci;

truova la starna e figli al suo richiamo,

se advien che gli rassegni o il conto facci;

né sotto l'esca avìen trovato l'amo

e pesci ancora, o rezze o altri impacci.

La porpora sicura è dalli inganni,

né tigne il sangue e preziosi panni.

 

 

96

 

Sicuro già non teme, anzi s'accosta

con cento code il polpo alla murena,

né serra ambo le bocche alla aligosta,

né la aligosta morde in su la schiena

la murena, a difendersi indisposta,

né fa vendetta l'una all'altr'apena.

Oggi l'un l'altro vince e par che ceda

al vinto, e 'l primo vincitore ha in preda.

 

 

97

 

Così, pien di fatica e luce, il giorno

pallida e rossa l'äurora caccia;

lei poi la notte; qual fuggendo intorno

convien che 'l giorno alfin sua preda faccia:

e mentre suona il cacciatore il corno,

vinto rimane in questa eterna caccia.

Così tra queste fere in mare occorre,

se si dee queste cose a quelle opporre.

 

 

98

 

Teneva occulte nel ventre la terra

le triste vene in sé d'ogni metallo,

né il fer disio i cor' mortali afferra

d'oro, e non era per päura giallo;

né ferro si trovava atto alla guerra,

né col freno o col piè suona il cavallo,

né il bronzo propagava la memoria,

né sete alcuna era di mortal gloria.

 

 

99

 

Nereo quïeto e ciascuna sua figlia

d'Argo ancor la prima ombra ne' lor regni

non avìen visto, pien' di maraviglia,

o dal remo o dal vento muover legni,

né misurare il mare e ' liti a miglia,

con mille altri dannosi e nuovi ingegni.

D'isole ancor non s'era il nome udito,

parea finissi il mondo ove era il lito.

 

 

100

 

Nelle piante era il fior, la foglia e 'l pome,

né tempo o sito l'ordine confonde;

in ogni loco la natura prome

ogni animale in terra, in aria, in onde;

ogni cosa chiamata pel suo nome

secondo il natural valor risponde.

Non era alcuna cosa vecchia o nuova,

né maraviglia a quel tempo si truova.

 

 

101

 

El corpo uman sì bene era disposto,

sì bilanciati e partiti gli umori,

che 'l disio era frenato e composto:

non speme, non invidia, ira o dolori;

né la natura appetito ha proposto

che per le vie comuni o pe·li pori

superfluo venga alcuno: e nulla avanza

per dolcezza di cibi o abondanza.

 

 

102

 

Così belli, robusti, sani e netti,

non senton, ché non era, caldo o gelo,

né fuggon brina o acqua sotto e tetti,

né fa tremar il cor di Giove il telo.

Il dolce sonno per li erbosi letti

è quando sanza sole è il nostro cielo;

quando e razzi del sol le nebbie purgono,

con li animal', co' fiori insieme surgono.

 

 

103

 

D'amore accesi sanza passïone,

speranza o gelosia non li accompagna:

un amor sempre, qual il ciel dispone

e la natura, che è sanza magagna.

Con questa simil di complessïone

soletti e lieti van per la campagna;

l'età non mai o püerile o grande;

e panni son di fronde, e fior' ghirlande.

 

 

104

 

Qual porpora non perde a que' colori,

qual grana o chermisì in lana o in seta?

Quale argento o qual oro aguaglia e fiori?

Così menan la vita sempre lieta.

Oh dolce tempo, oh dolcissimi amori!

Oh vita sempre disïosa e queta!

Ché l'acceso disio mai non tormenta,

né, spento, il corpo languido diventa.

 

 

105

 

Tanto è il disio quanto natura vuole,

e vuol quel che ha, e quel che ha non l'offende,

né mai d'averlo o non aver si duole;

né manca mai o maggior forza prende.

Quel che oggi piace, piacer sempre suole,

non sazia o penitenzia indrieto rende;

da sé stesso se adempie e da sé frena,

né per l'uno o per l'altro sente pena.

 

 

106

 

Ogni appetito che altri offenda dorme:

ambizïon non occupava e regni.

Era natura allora assai conforme

tra l'uom bëato e li celesti segni.

Queste proprïetà, quelle alte forme

vedevan gli occhi, vedevan gli ingegni;

non dubbio alcun, non fatica ha il pensiero,

sanza confusione intende il vero.

 

 

107

 

L'ingegno era aguagliato col disio,

la voglia con la forza dello intendere:

stavan contenti a conoscer di Dio

la parte che ne puote l'uom comprendere;

né la presunzion del vano e rio

nostro intelletto dee più alto ascendere,

né ricercar con tanta inutil cura

le cause che nasconde a noi natura.

 

 

108

 

Oggi il mortal ingegno pur presume

essere un bene occulto, al quale aspira;

muove l'uman disio il basso acume,

né truova ove fermarlo, onde s'adira

e duolsi che la mente ha troppo lume,

quel ben presupponendo; e se nol mira,

si duol del poco e vede che non vede:

esser cieco o il veder perfetto chiede.

 

 

109

 

Al troppo manca, e par che avanzi al poco,

men vegga il troppo, e 'l poco assai presuma,

e come in verde legno debil foco

non splende chiar, ma gli occhi umidi affuma.

Gli uccei notturni son degli altri gioco,

cercando il sole; e l'insolita piuma

Icaro perde se troppo alto sale,

e resta in mezzo al ciel uccel sanza ale.

 

 

110

 

Come uccel peregrin che il lito amato

pel freddo lassa e il mar volando varca,

stanco già a mezzo l'onde, d'ogni lato

l'acqua sol vede e di dolor si carca:

non ramo o scoglio ferma il suo volato;

se pur l'onde solcar vede una barca,

de l'uom le mani e del mar la tempesta

teme, e dubbioso in mezzo l'onde resta;

 

 

111

 

così se lassa il suo nativo sito

la mente, da sé stessa si confonde;

se vuol cercare uno incognito lito,

dubbiosa e stanca alfin resta tra l'onde.

Allor vedeva lo ingegno expedito

quel ver che alle sue forze corresponde,

né la presunzïon questo ben guasta:

voglion quanto hanno, e quel che intendon basta.

 

 

112

 

Quel che 'l ciel da sé mostra e la natura

intendon sanza aver dubbio o fatica,

né la troppo sottile e vana cura

muove la bile o adusti umor' nutrica.

La nuda verità gentile e pura

lunghe vigilie o studio non mendica:

questa vera dolcezza e bella vede

la mente, e, qui contenta, altro non chiede.

 

 

113

 

Questo felice tempo al mondo tolse,

a l'uom la vera sua bëatitudine,

Promethëo, che troppo saper vòlse:

dal saper troppo nasce inquïetudine.

Per saper poco il van fratello sciolse

la morte poi, e' morbi in moltitudine.

Troppo e poco saper la vita attrista,

ché 'l troppo e 'l poco equal dal mezzo dista.

 

 

114

 

El folle antiveder, la stolta cura

e la presunzïon del vano ingegno

il foco trasse della sua natura:

le forze extese allor fuor del suo regno.

Quinci la guerra nacque, che ancor dura,

tra li elementi, che n'ebbono sdegno:

triema la terra, il ciel lampeggia e piove;

ogni distemperanza di qui muove.

 

 

115

 

Questo mal foco il fer disio accese

di superar l'un l'altro agli elementi;

la trista voglia poi più basso scese

ne' mortal' corpi e nelle umane menti;

dalla Speranza ogni sua forza prese,

che soffia nel mal foco co' suoi venti.

Così sta il mondo et ogni mortal vita

per guerra, che non è ancor finita,

 

 

116

 

sì come nave in alto mar, percossa

da rapidi e tra lor contrarii venti,

travaglia, ma del luogo non è mossa,

se advien che sieno equalmente potenti,

ma se l'un sforza e più che l'altro possa,

stanca alfin, vinta, va drieto a' perdenti.

Oh miser mondo, anzi stolto a chi piace

o crede in tanta guerra trovar pace!

 

 

117

 

Arda almeno, arda questo foco tanto

che gli altri tristi umor' tutti consumi,

poi si ritorni al primo loco santo,

né altri più di furarlo presumi.

Torni il dolce ozio sanza speme o pianto,

sudin le querce il mèl, corrano e fiumi

nettare e latte, e dolor' sien cacciati,

ardan di dolce amor e cor' bëati.

 

 

118

 

In questi dolci luoghi, in questi tempi

ponmi, Amor, con la bella donna mia,

nell'età verde, ne' primi anni scempi,

sanza Speranza, sanza Gelosia;

né 'l tempo mai l'età matura adempi,

ma il nostro dolce amore eterno sia:

non più bellezza in lei, non altro foco

in noi, ma sol quel dolce tempo e loco.

 

 

119

 

Quel dolce loco e basso paradiso,

quel bel tempo, non ha altro difetto

che di veder Madonna bella in viso;

questo lo fa dolcissimo e perfetto,

se sente le parole o il suave riso,

sopra quel ch'è vero amore e diletto.

L'oro di quella età quasi divina

nel dolce foco di mia donna affina.

 

 

120

 

E se pur questo l'alta legge vieta,

Amor, tanta Speranza caccia almeno,

inimica, domestica e secreta,

che uccide il cor col suo dolce veleno.

Rendimi l'amorosa luce e lieta

e 'l dolce sguardo angelico e sereno;

fa' il dolce sguardo a questa cruda e trista

sì come il bavalischio a mortal vista.

 

 

121

 

Se tu mi rendi bella et amorosa

la mia donna gentil, come io lasciai,

quella età d'oro, o vera o fabulosa,

io non ti chiederò, Amor, già mai,

né altro paradiso o altra cosa.

Ove è la donna mia, come tu sai,

concorre ogni virtù, ogni dolcezza:

e ciò che è bello, è nella sua bellezza.

 

 

122

 

Lasso a me!, or nel loco alto e silvestre

ove dolente e trista lei si truova,

d'oro è l'età, paradiso terrestre,

e quivi il primo secol si rinuova.

Se trista e lassa in quelle parti alpestre

advien che ogni dolcezza e grazia muova,

se, dolorosa, tanti beni ha seco,

or che farà quando fia lieta meco?

 

 

123

 

Quel che farà, se 'l tristo cor vi pensa,

tanto disio, il misero!, l'accende,

che offeso poi da crudel doglia immensa

a fatica da morte si difende.

Se pur Amor gli promette o 'l dispensa

che pensi ad altro, questo più l'offende;

viver non può sanza pensier d'amore,

e, pensando anche alla sua donna, muore.

 

 

124

 

Amor, che vedi il suo misero stato,

pietoso, come io credo, del suo male,

vola velocemente in quel bel lato,

portami la mia donna, o le tue ale

metti agli omeri e dammi il tuo volato,

ch' io per lei vada; se mi se' rivale,

com' io penso, et acceso de' belli occhi,

ho gelosia se nel portar la tocchi.

 

 

125

 

Se mi farai uno amoroso uccello,

io arderò, come fenice suole,

ne' febei raggi, e mi farò più bello,

regenerato dal mio chiaro Sole.

Se le tue ale abruceranno in quello

foco gentile, il torto hai se ten duole,

e non è giusto te ne chiami offeso,

perché tu hai quel gentil foco acceso.

 

 

126

 

Questo foco furò da te lo sguardo

della mia donna, e 'l cor con esso accese.

Tu ne sdegnasti; io ne patisco, et ardo

d'un diverso disio, che forza prese.

Tra 'l cor veloce e 'l corpo grave e tardo

tira il foco el pensier al bel paëse;

qui resta il corpo e non segue il pensiero:

né vo, né sto, né son diviso o intero.

 

 

127

 

Questo foco è d'una gentil natura:

stassi nel cor nella più alta cima,

e la materia, che era rozza e dura,

con qualche suo dolor consumò prima;

alfin l'incendio si fe' luce pura,

che par nel cor dïafano s'exprima:

così nel cor, non che in sé luce abbi elli,

luce la luce de' due occhi belli.

 

 

128

 

Con gran fatica drento al petto lasso

lo tengo, che non fugga con la vita;

questo gentil così puote star basso,

se per forza la via non gli è impedita,

come in mezzo del ciel fermarsi un sasso,

ché l'uno il centro e l'altro il cielo invita;

natura ogni riposo gli disdice

se non torna alla bella furatrice.

 

 

129

 

Così sono io una rete distesa,

la qual il legno van tien sopra l'onda,

e 'l grave piombo che da basso pesa

la tira nella parte più profonda;

alfin ciascun di lor perde la 'mpresa,

bagnasi il legno e 'l piombo non si affonda,

né l'un disio, né l'altro par si faccia;

la rete intanto si consuma e straccia.

 

 

130

 

L'imagin bella, che nel core stampa

la bianca man sì come fusse viva,

inganna in modo l'amorosa vampa,

che si sta seco et è cagion che io viva.

Quel dolce inganno la mia vita scampa,

e, se non fusse, via con lei sen giva:

vede nel cor la sua ladra sì bella,

che si quïeta, e crede esser con quella.

 

 

131

 

Sì come il cacciator che e cari figli

astutamente al fero tigre fura,

e benché innanzi assai campo li pigli,

la fera, più veloce di natura,

quasi già il giugne e insanguina gli artigli;

ma veggendo la sua propria figura

nello specchio ch'e' truova su la rena,

crede sia il figlio e 'l corso suo rafrena;

 

 

132

 

così drento allo specchio del mio core

si queta questo bel foco amoroso;

ma poi che riconosce il vano errore,

questo fer tigre surge furïoso;

e se non giugne il ladro cacciatore,

non truova irato alcun breve riposo.

Amor, che vedi e la pena e il periglio,

o tu m'aiuta o tu mi da' consiglio.

 

 

133

 

Se pur la bella donna non mi rendi,

serri un placido sonno gli occhi molli;

se dormendo la veggo, tu difendi

la vita coi pensieri erranti e folli.

O sonno, che col pianto ognor contendi

di prender gli occhi, spiana li alti colli,

l'aspra via leva, e sassi e boschi e fiumi,

e mostrami da presso e vaghi lumi.

 

 

134

 

Io veggo non so che nell'ombra oscura:

un foco è che di cielo in terra casca,

quasi un vapore, e la sua luce pura

arriva in terra, e par che lì rinasca;

torna la fiamma verso il cielo, e dura

sanza che nuovo nutrimento il pasca.

Qualche propizio nume agli occhi mostra

che presto rivedrem la donna nostra.

 

 

135

 

I' sento un suave venticel, che spira

dalla Äurora rutilante e rossa;

ogni animal, che accieca quando mira

la febea luce, credo fuggir possa.

Radoppia e baci l'amante, e sospira

che sia già della notte ogni ombra scossa;

pien di maggior disio, con gran fatica

esce di braccio alla sua dolce amica.

 

 

136

 

Già alcun de' più solleciti augelli

chiamono il sol con certi dolci versi,

e impongon la canzona; e segue quelli

il coro poi di mille augei diversi.

E fior', che sanza sol si fan men belli,

non posson più nella boccia tenersi:

pria d'un color e poi, dal sol dipinti,

si fan di mille, da niuna arte vinti.

 

 

137

 

Cacciata fugge innanzi l'Äurora;

l'äer già spoglia la cangiante vesta

e vestesi di luce che lo indora,

di negro quel che sanza Febo resta.

Ecco il mio Sol che vien del monte fòra,

e lascia quella parte ombrosa e mesta:

veggo la luce e sento già il calore,

la luce è la bellezza e il caldo amore.

 

 

138

 

Questa luce conforta e non offende

gli occhi, ma leva loro ogni disio

di veder altro, e 'l foco non incende,

ma scalda d'un calor süave e pio.

Madonna questi due per la man prende:

dalla sinistra mena il cieco dio

e la Bellezza dalla destra tiene,

e lei più bella in mezzo a questi viene.

 

 

139

 

Amor, che mira e due belli occhi fiso,

radoppia il foco onde sé stesso incende;

la Biltà, che si specchia nel bel viso,

più bella e più sé a sé stessa rende.

Madonna muove in quello un suave riso,

dal quale ogni bellezza il mondo prende:

questa sola bellezza lo innamora

(in varie cose il bel principio ignora!).

 

 

140

 

Cantando vengon lietamente insieme,

né sente ognun la dolce melodia:

el cor la intende, e di ridirla teme

agli altri. Advien della bella armonia

come della celeste in queste extreme

parti del mondo, che par muta sia,

ché 'l basso orecchio a quel tuon non s'accorda;

così la gente a quel bel canto è sorda.

 

 

141

 

Dicemi pure il cor secretamente

che le parole di questa canzona

composte ha la Bellezza, e di poi sente

che Amore il canto gentilmente intuona;

e benché l'abbi in secreto la mente,

pur non si exclude ogni gentil persona:

ridirlo a questi al cor non è molesto,

e, per quel ch'e' ritrae, il canto è questo:

 

 

142

 

– O vaghi occhi amorosi

che in questo e in quel bel viso,

quando mirate fiso,

vedete mille bellezze e diverse,

mentre vi sono ascosi

questi due vaghi lumi,

stolto alcun non presumi

aver veduto la bellezza intera.

Qui è la biltà vera

tutta accolta in un volto;

quinci lo essemplo han tolto

l'altre, che in varie cose son disperse.

Chi questa biltà mira,

di eterno e dolce amor sempre sospira. –

 

 

 

SELVA 2

 

 

1

 

O dolce servitù, che liberasti

el cor d'ogni servizio basso e vile,

quando a sì bel servizio me obligasti

sciogliesti il cor da cento cure umìle.

O bella man, quando oggi mi legasti,

tu mi facesti libero e gentile.

Che benedetti siano e primi nodi,

Amor, che mi legasti in tanti modi.

 

 

2

 

O dolce e bel signore, in cui s'aduna

beltade e gentilezza tal, che excede

ogni altra in altri, e poi tra lor ciascuna

il primo grado in la mia donna chiede,

quanto è dolce e bëata la fortuna,

che servo a sì gentil signor mi diede!

E 'l servo più che alcun libero e degno,

servendo a tale il cui servire è regno.

 

 

3

 

Così, se l'una e l'altra ripa frena

el fiume, lieto il lento corso serva,

suave agli occhi l'onda chiara mena

e' pesci nel queto alveo conserva;

di vaghi fior' la verde ripa piena

bagna, e così par lietamente serva;

sta nel cieco antro, indi preme e distilla

con dolce mormorio l'onda tranquilla.

 

 

4

 

Ma se leva del sol la luce a noi,

piovendo, un nimbo tempestoso e spesso,

a poco a poco il vedi gonfiar poi,

tanto che alfin non cape più sé stesso,

e le fatiche de' già stanchi buoi,

le selve trarre, e pinger sassi in esso:

l'erbosa ripa in mezzo e 'l curvo ponte

resta, e torbido lago è 'l chiaro fonte.

 

 

5

 

Allor che un venticel suave spira

con dolce legge, e fiori a terra piega

e scherzando con essi intorno gira,

talor gli annoda, or scioglie, or gli rilega;

le biade impregna; ondeggia alta e s'adira

l'erba vicina alla futura sega;

süave suon la giovinetta frasca

rende, né pure un fiore a terra casca.

 

 

6

 

Ma se dà libertà dalla spelunca

Eolo a' venti termpestosi e feri,

non solamente e verdi rami trunca,

ma vanno a terra e vecchi pini interi;

e miser' legni con la prora adunca

minaccia il mare irato, e par disperi;

l'aria di folte nebbie prende un velo;

così si duol la terra, il mare e 'l cielo.

 

 

7

 

Poca favilla, dalla petra scossa,

nutrita in foglie e in picciol' rami secchi,

scalda, e, dal vento rapido percossa,

arde gli sterpi pria, virgulti e stecchi;

poi, vicina alla selva folta e grossa,

le querce incende e ' roveri alti e vecchi;

cruda inimica al bosco l'ira adempie,

fumo e faville e stran stridor l'aria empie.

 

 

8

 

L'ombrose case in fiamme e i dolci nidi

vanno e l'antiche alte silvestre stalle,

né fera alcuna al bosco par si fidi,

ma spaventata al foco dà le spalle;

émpiono il ciel diversi mughi e stridi,

percossa rende il suon l'opaca valle;

l'incäuto pastor, cui s'è fuggito

il foco, piange attonito, invilito.

 

 

9

 

Benigna legge all'acqua ha il termin posto

che non lo passi e la terra ricuopra;

in mezzo del gran corpo è 'l centro ascosto,

grave e contrario al foco che è di sopra;

diverse cose un tutto hanno composto,

tra lor contrarie fan conforme l'opra.

Ordina e muove il ciel benigna legge,

dolce catena il tutto lega e regge.

 

 

10

 

Dolce e bella catena al collo misse

quel lieto dì la dilicata mano,

che aperse il petto e drento al core scrisse

quel nome, e sculse il bel sembiante umano.

Da poi sempre mirâr le luci fisse

sì belli occhi, ch'ogni altro obietto è vano.

Questa unica bellezza or sol contenta

la vista, pria in mille cose intenta.

 

 

11

 

Non ornate di fronde apriche valli,

non chiaro rivo che l'erbetta bagni

di color' pitta bianchi, rossi e gialli,

non città grande o edifizii magni,

ludi feri, stran' giuochi o molli balli,

non legni in mar che Zephiro acompagni,

non vaghi uccei, nuovi animali o mostri,

non sculta petra, òr, gemme, agli occhi nostri.

 

 

12

 

In queste cose sanza legge alcuna

givan gli occhi cercando la lor pace,

ascosa (e non sapevono) in questa una

che, conosciuta, poi tanto a lor piace.

Occultamente mia lieta fortuna

conduceva il disio che nel cor giace:

condotto era il mio core (e non sapeva)

a riveder chi già veduto aveva.

 

 

13

 

Quel giorno adunque che nel cor dipinse

quella amorosa man l'imagin bella,

con volontario fren gli occhi constrinse

lei sol mirar, non questa cosa o quella;

mille varii pensieri in un ristrinse,

né poi la lingua mia d'altro favella,

né cercono altro gli amorosi passi:

con lei sempre il mio cor legato stassi.

 

 

14

 

Legato sta nel gran tempio di Iano

con mille e mille nodi il fer Furore,

cerca disciorsi l'una e l'altra mano,

freme, di sangue tinto e pien d'orrore.

Cerber nel basso regno cieco e vano

latrando all'ombre triste dà terrore;

stretto da tre catene, par che ira aggia,

rabbia, schiuma, velen da' denti caggia.

 

 

15

 

Non già così la mia bella catena

stringe il mio cor gentil pien di dolcezza;

di tre nodi composta, lieto il mena:

con le sue mani el primo fe' Bellezza,

la Pietà l'altro per sì dolce pena,

e l'altro Amor, né tempo alcun gli spezza;

la bella mano insieme poi gli strinse

e di sì dolce laccio il core avinse.

 

 

16

 

Mostrommi Amor quel benedetto giorno

più che mai belle le luci serene,

le Grazie tutte alla mia donna intorno;

né usò per legarmi altre catene.

Qual maraviglia è se a me non torno?

O qual disio si fugge dal suo bene?

Somma Bellezza, Amor, dolce Clemenzia,

al cor fan voluntaria vïolenzia.

 

 

17

 

Quando tessuta fu questa catena,

l'aria, la terra e 'l ciel lieto concorse;

l'aria non fu già mai tanto serena,

né il sol già mai sì bella luce porse;

di fronde giovinette e di fior' piena

la terra lieta, ove un chiar rivo corse;

Ciprigna in grembo al padre il dì si mise,

lieta mirò dal ciel quel loco e rise.

 

 

18

 

Dal divin capo et amoroso seno

prese con ambo man' rose diverse,

e le sparse nel ciel queto e sereno:

di questi fior' la mia donna coperse.

Giove benigno, di letizia pieno,

gli umani orecchi quel bel giorno aperse

a sentir la celeste melodia,

che in canti, rithmi e suon' dal ciel venìa.

 

 

19

 

Movevan belle donne al suono e piedi

ballando, d'uno amor gentile accese;

l'amante apresso la sua donna vedi,

le disïate mani insieme prese;

sguardi, cenni, sospir', d'amor remedi;

breve parole e sol tra loro intese;

dalla donna cascati e fior ricôrre,

baciati pria, in testa e in sen riporre.

 

 

20

 

In mezzo a tante cose grate e belle,

la mia donna bellissima e gentile,

vincendo l'altre, ornava tutte quelle

in una veste candida e sottile;

parlando in nuove e tacite favelle

con gli occhi al cor, quando la bocca sile,

«Vientene» disse «a me, caro cor mio:

qui è la pace d'ogni tuo disio».

 

 

21

 

Questa süave voce el petto aperse

e a partirsi il cor lieto constrinse;

la bella mano incontro se li offerse

a mezza via, e dolcemente el strinse;

pria rozzo, in gentilezza lo converse,

poi quel bel nome e 'l volto vi dipinse:

così ornato e di sì belle cose,

nel petto alla mia donna lo nascose.

 

 

22

 

Quivi si sta, indi non può partire;

non può partir, perché poter non vuole:

più dolce obietto el suo alto disire

né ha né puote aver, però non vuole;

lui a sé stesso è legge, lui servire

a questa gentil legge elegge e vuole;

con le sue man' lui stesso ha fatto e lacci,

né vuol poter voler che altri li piacci.

 

 

23

 

Miri chi vuol, diverse cose miri

e vari obietti agli occhi ognor rinuovi:

se advien che ora uno e poi un altro il tiri,

non par vera bellezza in alcun truovi,

ma, come avida pecchia e vaga, giri

cercando per nutrirsi ognor fior' nuovi;

né muteria sì spesso il lento volo

se quel ch'è in molti fior' fussi in un solo.

 

 

24

 

Nel primo tempo che Amor gli occhi aperse,

questa beltade innanzi al disio pose,

e poi che, come è bella, me la offerse,

ridendo, lasso!, agli occhi la nascose.

Con quanti pianti bellezze diverse

poi cercâr, quanto tempo, in quante cose!

Talor vedevan pur l'afflitte ciglia

cosa la qual questa beltà simiglia.

 

 

25

 

Allor, sì come can bramoso in caccia

tra le fronde trovar l'occulta fera,

se vede terra impressa dalla traccia,

conosce al segno che indi passata era,

perché la simiglianza par che faccia

certo argumento alla bellezza vera,

così, cercando questa cosa e quella,

Amor mostrommi alfin mia donna bella.

 

 

26

 

Disson gli occhi allor lieti al cor mio: – Questa

è quella che mostrò la prima volta

Amor, da noi sol disïata e chiesta,

mostra e renduta poi che ci fu tolta.

La sua vera dolcezza manifesta

quanta grazia e virtute abbi raccolta.

In molte non trovammo mai questa una

che sola in sé ogni bellezza aduna. –

 

 

27

 

Anzi, [questa] si truova in ogni parte,

ché ciò che agli occhi è bel da questa viene.

Varie bellezze in varie cose sparte

dà al mondo el fonte vivo d'ogni bene,

e quel che mostron l'altre cose in parte,

in lui tutto e perfetto si contiene;

e se la simiglianza agli occhi piace,

quanto è qui più perfetta ogni lor pace!

 

 

28

 

Contrarie voce fanno un suon süave

e diversi color' bellezza nuova:

piace la voce acuta per la grave,

nel negro el bianco la sua grazia truova.

Mirabilmente l'alta bellezza have

fatto che l'un nimico all'altro giova:

l'alta bellezza che ogni cor disia

et io sol veggo nella donna mia.

 

 

29

 

Questa sol bramo, e le mie luci ardenti

non fanno in altra cosa alcun soggiorno;

e come li bëati spirti intenti

stanno alla santa faccia sempre intorno,

né posson le celesti pure menti

altro mirar, ché ogni altro è manco adorno,

così quel primo tempo e quel bel luogo

al collo misse un simil dolce giogo.

 

 

30

 

Sento il mio cor, nell'amoroso petto

di mia donna gentil, che cantar vuole

e, nel laudar quel tempo benedetto,

usar la bella bocca (come suole)

della mia donna a così grato effetto,

dolce instrumento al canto, alle parole.

Non può tenersi il cor lieto e felice,

così, cantando, in la sua bocca dice:

 

 

31

 

– O benedetto giorno,

giorno che fusti el primo agli occhi nostri,

che con la luce vera

ogni ombra cacci, e che fussi ombra mostri!

Ombra invisibile era

che agli occhi nostri sempre era d'intorno;

e pur questa vedièno,

e il lume alto e sereno

non potevan vedere, o occhi tristi!

O per me fortunato

tempo, che gli occhi a sì bel sol m'apristi!

Forse ch'io parrò ingrato,

tempo dolce, se viene

da te ogni mio bene,

se il cor per te felice or sol disia

che sanza tempo alcun questo ben sia. –