DE SUMMO BONO

Lorenzo de' Medici

I

Da più dolce pensier tirato et scorto,

fuggito havea l'aspra civile tempesta

per ridurre l'alma in più tranquillo porto.

Così traducto il core da quella ad questa

libera vita, placida et sicura,

ch'è quel poco del bene che al mondo resta,

et per levare da mia fragile natura

quel peso che a salir l'aggrava et lassa,

lasciai il bel cerchio delle patrie mura.

Et pervenuto in parte humìle et bassa,

amena valle che quel monte adombra,

che 'l vecchio nome per età non lassa;

là dove un verde lauro faceva ombra,

alla radice quasi del bel monte

m'assisi, e 'l cor d'ogni pensiero si sgombra.

Un fresco, dolce, chiaro, nitido fonte

ivi surgea dal mio sinistro fianco,

rigando un prato innanzi alla mia fronte.

Quivi era d'ogni fiore vermiglio et bianco

l'erbetta verde; e in tra sì bei fiori

riposai il corpo fastidito et stanco.

Evanvi tanti varii et dolci odori,

quanti non credo la fenice aduna,

quando sente gli extremi suoi odori.

Credo che mai o tempestosa o bruna

sia l'aria in loco sì lieto et adorno,

né ciel vi possa nuocere o fortuna.

Così stando soletto al bel soggiorno

della mia propria compagnia contento

et solo con dolci mia pensieri intorno,

contemplava quel loco: e in quello io sento

sonare una zampogna dolcemente,

tal che [del] sonator balla l'armento.

Alla dolce ombra, a quel liquor corrente

venìa per meriggiare et, me veggiendo,

nuovo stupore li venne nella mente.

Fermossi alquanto et poi, pur riprendendo

il perso ardire, con pastoral saluto

mi salutò; poi cominciò dicendo:

«Dimi, per qual cagione se qui venuto?

Perché e theatri e gran palazi e templi

lasci, e l'aspro sentier t'è più piaciuto?

Deh, dimi, in questi boschi or che contempli?

le pompe, le ricchezze et le delitie

forse vuoi prezar più pe' nostri exempli?».

Et io a·llui: «Io non so qual divitie

et quali honori sieno più suavi et dulci

che questi, fuori delle civili malitie.

Tra voi lieti pastori, tra voi bubulci

odio non regna alcuno o rea perfidia,

né nasce ambitione per questi sulci.

El ben qui si possiede sanza invidia;

vostra avaritia ha picola radice,

contenti state nella vostra accidia.

Qui una per un'altra non si dice,

né è la lingua al proprio core contraria,

che quel, che hoggi il fa meglio, è più felice.

Né credo ch'egli advenga in sì pura aria

che 'l cor sospiri et fuor la bocca rida,

che più saggio è chi 'l vero più copre et varia.

Chi in semplice bontate hoggi s'affida

stolto s'appella, e quello che ha più malitia

più saggio pare ad chi 'n quello cerchio annida.

Con l'utile si misura ogni amicitia:

pur pensa che dolcezza è in quello amore,

il quale Fortuna intepidisce o vitia!

Come essere può quieto mai quel core

el qual cupiditate affligge et muove

o ad troppa speranza o ad timore?

Ma voi vi state in questi monti, dove

pensier non regna perturbato o rio,

né 'l cor pendente sta per cose nove.

La vostra sete spegne un fresco rio

la fame i dolci fructi et misurate

con la natura ogni vostro disio.

Il lecto è qualche fronde nella state,

el secco fieno sotto le cappannelle

il verno, per fuggir acque et brinate.

Le veste vostre non sono come quelle

cerche in paesi strani per le salse onde:

contenti state alla velluta pelle.

Oh quanto è dolce un sonno in queste fronde

non ropto da pensieri, ma l'onda alpestre

col mormorio al tuo russare risponde!

Credo che spesso ogni nympha silvestre

convenga al fonte tanto chiaro et bello,

con più dolce armonia che la terrestre.

Al dolce canto lor suave et snello,

al suono della zampogna e a' versi vostri

risponde Phylomena o altro uccello.

Se aviene che un tauro con un altro giostri,

credo non manco al cuor porga dilecto

che i feri ludi de' theatri nostri.

Et tu, giudicatore, al più perfecto

doni verde corona, et in vergogna

si resta l'altro misero et in dispecto.

Felice è quello che quanto li bisogna

tanto disia, et non quello a cui manca

ciò che la [in]satiabile mente agogna.

Nostra infinita voglia mai non manca,

ma cresce, e nel suo crescer più tormenta;

a quel che più disia, più cose manca.

Colui che di quel c'ha sol si contenta

ricco mi pare; et non quel che più prezza

ciò che non ha, che quel che suo diventa.

Quieta povertà è gran ricchezza,

pur che col necessario non contenda:

ricco et non ricco altri è, come s'avezza.

Et non so come alcuno biasmi o riprenda

la mente che contenta è di se stessa,

et laudi quella che d'altrui dipenda.

La vostra vita, pastor, mi pare essa,

se alcuna se ne truova al mondo errante,

ch'alla humana quiete più s'appressa».

Non fu il pastor a l'udire più costante,

ma, vòlti gli occhi alcuna volta in giro,

fe' di voler parlare nuovo sembiante.

Poi cominciò con cordial sospiro:

«Non so che errore chiamare lieta ti face

tal vita, vita no, anzi un martiro.

Né so per qual cagione tanto ti piace

quel che tu laudi et poi, laudato, fuggi,

et come tu non segui tanta pace.

Deh, perché il vero colla menzogna auggi?

et, se ver parti, segui questo vero

che sì brami in parole e te ne struggi.

Ma gran facto è dall'opera al pensiero

e tal sentier par bello in prima vista,

che al caminare è poi spinoso et fero.

Qual cosa questa vita non fa trista?

Al freddo, al caldo stiamo come animali:

et questa è la dolcezza che s'acquista.

El verno, a' tempi rigidi et nivali,

talora a ogni pelo di nostra vesta

veder puossi cristalli glaciali.

Talora un vento sì crudele ne infesta,

che, per porsi al povento dopo un masso,

non cessa il freddo o la crudele tempesta.

Le piume sono il terren duro o il sasso;

e cibi quei delle silvestre fere,

per confortarne, quando altri è più lasso.

Non manco mi vedresti tu dolere,

se lupo via ne porta un de' nostri agni,

che quando tu perdessi un grande avere.

Né più tu del gran danno tuo ti lagni,

che io del poco: ché a proportione

i picoli a me son come a te e magni.

In minor' cose ha in me dominatione

Fortuna certo, et se quel poco ha a sdegno,

più duole a me sanza comparatione.

S'io perdo un vaso di terra o di legno,

non manco mi do[l]go io del vil lavoro,

che se tu il perdi d'oro, che pare più degno.

La differentia ch'è tra·legno et l'oro

natura non la fa, ma noi facciamo,

per extimar l'uno vile, l'altro decoro.

Però se 'l vaso fittile mio amo

quanto tu l'aureo, equalmente a me nuoce

Fortuna, perché equalmente lo bramo.

Ma credo appellar possa a una voce

Fortuna il mondo rigida et inimica,

perché pende ciascuno nella sua croce.

Benché pastore, odo sententia antica:

ciascun mal contentarsi di sua vita

et pare lieta e felice l'altrui dica.

Io mi starò dove il destino m'invita,

tu dove chiama te la stella tua:

ove la sorte sua ciascuno cita,

mal contento ciascun, non sol noi dua».

II

Erano gli orecchi alle parole intesi,

quando una nuova voce a sé gli trasse,

da più dolce armonia legati et presi.

Pensai che Orpheo al mondo ritornasse

o quel che chiuse Thebe col suon degno,

sì dolce lyra mi parea suonasse.

«Forse caduta è dal superno regno

la lira ch'era tra·lle stelle fisse?

- diss'io -, il ciel sarà sanza il suo segno,

o forse, come quello antico disse,

l'alma d'alcun di questi trasmutata

nel suonatore per suo destino si misse!».

Et mentre che tra fronde et fronde guata

et segue l'occhio ove l'orechio tira,

per veder tal dolcezza onde è causata,

ecco in un puncto sente, intende et mira

l'occhio, la mente nobile e l'orecchio

chi suona, sua doctrina et la sua lyra:

Marsilio, habitatore del Montevecchio,

nel quale il cielo ogni sua gratia infuse,

perch'e' fussi a' mortal' sempre uno specchio;

amator sempre delle sancte Muse,

né manco della vera sapientia,

tal che l'una già mai dall'altra excluse.

Perché degno era d'ogni reverentia,

come padre comune d'ambo noi fosse,

surgemo lieti della sua presentia.

Lui non men lieto al bene fonte fermosse

et poi che assiso fu sopra un sasso,

fermò il bel suono et le parole mosse:

«Io ero dello andare già stanco et lasso

et per venire dove or sì mi recreo

guidò qualche felice nume il passo.

Ma prima: Lauro, salve, e salve Alpheo,

de' prudenti pastori certo il più saggio

e per la lunga età buon patre meo.

Maraviglia di te, pastor, non haggio,

ché spesso insieme ci troviamo al fonte

e talora sotto qualche ombroso faggio.

Ma veder te sopra il silvestre monte

crea, Lauro, in me gran maraviglia;

non ch'io non vegga te con lieta fronte.

Chi di lasciar tua patria ti consiglia?

Tu sai che peso alle tue spalle danno

le publiche facende et la famiglia».

Et io a·llui: «Tanto è grieve l'affanno

(che, sol pensando, addoloro et accidio)

che le cose, che di', drieto a sé hanno.

Leva'mi alquanto dal civile fastidio,

per ricreare, col contemplar, qui l'alma,

la vita pastorale, la quale invidio.

La nostra è troppo intolerabile salma,

quale comparando alla pastoral vita,

benché egli il nieghi, a·llei darei la palma.

Questo disputavamo, quando sentita

fu la tua lyra, et ad quel dolce suono

sùbito la dispùta fu finita.

Hor, poi che Dio di te n'ha facto dono,

dimme chi di noi erra il ver cammino

e se le nostre vite hanno vero bono;

se pur lo vieta a noi nostro destino,

qual vita quella sia che se ne addorni,

o se 'l mondo lo dà o se è divino.

Ogni arte, ogni dottrina e tucti i giorni,

ogni acto, ogni electione a questo bene

pare, come ogni acqua a lo alveo marino, torni.

Ma qual sia questo a te dire ne conviene,

perché tu 'l sai: or fa' tal nodo sciolga,

che 'l cor serrato in molta angustia tiene».

Marsilio a noi: «Conviene che 'l mio cor volga

là dove il vostro è tutto inteso et vòlto,

benché provincia assai difficil tol[g]a.

Più [facil] è, chi 'l vero ha ben raccolto,

veder dov'ei non è, che havere compreso

qual sia, in tanta obscuritate involto.

L'amor farà men grieve assai tal peso:

nulla disdire al vero amor conviensi,

perch'un son quei che 'l vero amore ha preso.

Et prima ch'io dica altro, alcun non pensi

di trovar bene che sia perfecto e vero,

mentre l'alma è legata in questi sensi.

Questo ha facto Colui che ha 'l sommo impero,

perché i mortali al tucto erranti et ciechi

non fermino per di qua solo il pensiero.

Se sono dal vero camino discorti et biechi

nella imperfectione del bene, hor che farieno

credendo questa vita il bene arrechi?

Il vero bene è un, né più né meno,

el quale Idio appresso a sé par serbi

per palma a quei che ben vivuti fieno.

Onde a' mortal' troppo elati et superbi

advien, se innanzi tempo cercar vogliono,

come a chi coglie e fructi ancora acerbi.

Se pur mangiono di quei che acerbi cogliono,

tanto acri son che i loro denti obstupescono,

onde levar dall'impresa si sogliono.

Né sanno come dolci poi riescono,

ma, impauriti nella prima impresa,

da uno in altro errore tucto dì crescono.

Ma il prolungare a voi et a me pesa,

né voglio advenga a me come a coloro

che hanno il cielo come una pelle extesa.

Dico che questo bene, questo tesoro

cerco et descripto già da tante lingue,

sel serba Idio nel suo superno coro,

ove ogni ardore et passione si extingue.

Perché molti beni sono apparenti,

in questo modo prima si distingue.

Tre spetie sono de' beni humani presenti

- così comincia chi tal nodo scioglie -

che cader possono nelle nostre menti:

e primi la Fortuna dà et toglie,

gli altri que' beni che al corpo dà natura,

e terzi l'alma nostra in sé raccoglie.

Quadripartita i primi han lor misura:

dominatione, ricchezza, honore et gratia,

e questi ultimi due hanno una cura.

La prima, quanto più ampla si spatia,

ha più sospecti, et a quanti più dòmini,

con più conviene che stia in contumatia.

[Cesar]e il vero ben par questa nomini,

e pur, vivendo, alfine dove' vedere

che quello che impera più, serve a più huomini.

L'altra è molte ricchezze possedere,

et perché tale disio mai fine non truova,

non debbe ancora quiete alcuna havere.

Et, oltr'a questo, mal per bene s'appruova

et stoltamente alcuno in quello s'affida

che spesso nuoce assai più che non giova.

Per sé già l'oro non si disia o grida,

ma ad altro effecto: adunque non è quello

intero bene, come già parve a Mida.

Lo honor che pare sì spetioso et bello,

che molti sciocchi il bene fermano in lui,

non è quel vero fine di ch'io favello.

Bene non è quello ch'è in potestà d'altrui:

riposto è questo tucto in chi t'honora,

che lauda spesso et non sa che o cui.

Anzi quanto è la turba, che più ignora,

che i sapienti, tanto manco è scorto

colui che laude merta ampla et decora.

Spesso si lauda o biasma alcuno a torto

et spesso adviene che sanza sua saputa

si lauda, et tale laudare a·llui è morto.

Questa adunque non è vera et compiuta

dolcezza, come alcuno cieco già volse,

che in questo error la mente hebbe involuta.

E chi pel primo fiore la gratia colse,

errò; et in questo il bene usava porre

chi il mondo in pace sotto sé racolse.

Però che quel pericolo proprio corre

questa benivolentia che l'onore:

altri la dà, altri la può ancor tôrre.

Onde veggiamo che invan si pone il cuore

dove sanza ragione Fortuna impera,

poi che ognuna di queste et manca et muore.

Questi apparenti beni dal mane a sera

ci toglie et dà lei cieca et importuna,

né saggio alcuno el pensier fema o spera,

dove ha potentia la crudele Fortuna».

III

«Quello che Fortuna in sua potentia tiene,

- soggiunse a noi parlando il novel Plato -,

dunque chiamar non puossi intero bene.

El bene del corpo ben proportionato

solo in tre parte si divide et pone:

l'essere robusto, sano et pulcro nato.

E primi due, da poca lesione

offesi, quel bene perdono, che già piacque

per sommo bene al robusto Milone.

Però felicità già mai non giacque

in questi, né è ancora porto tranquillo

in quello che bello et spetioso nacque.

In questa il sommo bene già pose Herillo,

et benché fussi ogni bellezza in esso,

già contento per questo non puoi dillo.

Se l'esser pulcro ad alcuno è concesso,

ad altri giova più quella figura

sanza comparatione che a se stesso.

Quest'è uno bene che toglie et dà Natura,

né puossi in esso la speranza porre,

ché, come un fior, lo strugge il tempo et fura.

Però passa il pensier più oltra et scorre,

et dice: «Forse fia in nostra mente,

di cui altri che noi non può disporre?».

E ben' della nostra anima vivente

son divisi da' savi in parte bina:

l'una rationale, l'altra che sente.

La ragione tiene in sé parte divina,

el senso comun è con li animali,

et per due vie in questo si camina.

La prima è che li sensi tuoi sien tali

da fare perfectamente il loro offitio;

la seconda i dilecti sensuali.

Qui Aristippo errò con van iuditio

et qui pose la mira troppo bassa,

pigliando d'esti l'uno et l'altro vitio.

Alcuna spetie d'animali ne passa

perché hanno certi sensi più acuti

che l'alma nostra infastidita e lassa.

Sarieno adunque più felici e bruti;

et, oltr'a questo, per li acuti sensi

più dispiaceri che piaceri sonsi havuti.

S'egl'è più il male che il ben, certo conviensi

che più cose si gusti, hodori e cerna

con dispiacere, né so qual ben compensi.

Dilecti sensuali son guerra eterna

et innanzi hanno un ardore che il core distrugge,

sospitione gl'accompagna et governa,

poi pentimento, quando il piacer fugge;

et tanto dura questa voluptate

quanto il cor, per l'ardor, disia e rugge;

ché tanto dura la suavitate

del bere, quanto la sete il gusto invischia:

se quella manca, et tale felicitate.

Nulla col suo contrario stare s'arrischia:

ben non è adunque, anzi più tosto male,

dove dolore con voluptà si mischia.

Qui s'absolve la parte sensuale

et viensi all'altra, chi ben si rimembra,

più bella, che decta è rationale.

Ha questo capo sotto sé due membra,

la virtù naturale et l'acquisita,

e così prima si divide et smembra.

La prima nasce colla nostra vita:

ciascuno ne ha certi semi et certo lume,

come l'alma è dentro dal corpo fitta.

Memoria, audacia et dello ingegno acume

in questi non è il bene, ché sono secondo

che li fa l'uso et il buono o rio costume.

Anzi, se più perfecti, maggior pondo

all'alma danno, se sono male usati,

come fa il più del tempo il cieco mondo.

E beni, che sono nel vivere acquistati,

si dividono ancora in parti due

(così di grado in grado siam montati):

speculativa et activa virtùe;

di queste due la prima è assai più degna;

comincereno dall'altra ch'è vile piùe.

Questa vivere al mondo sol ne insegna

con le virtù morali in compagnia

e prepararne alle altre ancora s'ingegna.

enone et la sua setta per tale via

et la cinica turba tucta corse,

dicendo il vero fine in esse stia.

Più lume la Natura non li porse,

et disson quel che ad mettere ad effecto

più difficile che a dire sarebbe forse.

Ciascuno di questi ben' par sia suggietto

a fatica, a dolore et a durezza,

però non vuole ragione che sia perfecto.

Perché la temperanza et la fortezza

son nelle operationi laboriose:

in più dolor, più ciascuna si prezza.

El fine par sia di tucte humane cose

affaticarsi, non già per fatica,

ma perché l'alma poi quieta pose.

Laonde falsamente pare si dica

che in questo bene il vero fin consiste,

che dal proprio dolore il bene mendica.

Ma che bisogna havere più cose viste?,

poiché Colui che al vero fine ne mena,

ne die' sententia, et tu in quella siste.

Optima parte elesse Magdalena,

poi che una delle due è necessaria,

quella di Marta è di turbatione piena.

Questa è la verità che mai non varia:

nessuno al vero suo iuditio appella,

anzi ogni cosa è falsa a·llei contraria.

Come vedete, Marta non è quella

che spegner possa la nostra lunga sete,

ma l'acqua chiesta dalla feminella

Samaritana, et di quella chiedete:

seguiamo Maria, che presso al sancto piede

non sollecita gìa, ma in quiete.

Così la mente che contempla siede,

et quando al contemplato ben s'appressa,

altro che contemplare già mai non chiede;

allor la sua salute gli è concessa.

Hor perché alcuno cierta ignoranza veste,

anco in tre parti poi divisa è essa.

La prima è contemplare cose terrestre

et naturali, et la seconda il cielo,

la terza è quel che sia superceleste.

Democrito fermossi al primo zelo,

et che natura ad caso conducesse

quel ch'è o fia e stia sotto tale velo.

Et voleva che quello che 'l mondo havesse,

sanza fare exceptione di cosa alcuna,

la multitudine d'athomi facesse.

Ma il vero bene non è sotto la luna:

dunque non è nel contemplare di quelle

cose, che si disfanno a una a una.

Lo speculare cose celesti et belle,

sì come il grande Anaxagora volse,

contento al cielo mirare et le stelle,

non è bene sommo; et tale palma li tolse

un altro maggiore bene che li sta sopra,

che in sé l'honore de' più bassi raccolse.

Et come il sole pare l'altre stelle copra,

così questo splendore lucente et chiaro

spegne l'inferiore, ch'è più degna opra.

Tanto più degno, quanto egli è più raro

contemplare quel che sopra il cielo dimora,

come parve al philosafo preclaro

Aristotile, che il mondo tucto honora.

Ma tal contemplatione ha in sé due parti:

una che l'alma fa col corpo ancora,

l'altra che questa vita non può darti.

Nella prima Aristotile pare metta

el sommo bene, sanza altro separarti.

Dice, chi bene sua sententia ha lecta,

che la felicità è l'operare

virtù perfecta in vita ancor perfecta.

Ma se in due cose il vero bene dee stare,

l'una la volontà, l'altra lo intendere,

perfecta o l'una o l'altra non può fare,

perché la mente non può ben comprendere,

sendo legata in questo corpo et, inclusa,

ha disio sempre di più alto ascendere.

Resta in anxietà et circunfusa

da più ardore per quel bene che le manca

e drento allo intellecto più confusa,

lo intellecto e 'l disio così stanca:

adunque mai non truova la nostr'alma

la pura verità formosa et bianca,

mentre l'aggrava esta terrestre salma».

IV

Sanza esser suto da altro nume scorto,

modulato ho colla zampogna tenera

el verso, col favor che Pan ne ha porto.

Pan, quale ogni pastore honora et venera,

il cui nome in Archadia si celèbra,

che impera a quel che si corrompe et genera.

Or, perché quanto la luce è più crebra

et più lucente alli occhi de' mortali,

par sia maggiore obscuro et più tenèbra,

all'alma adviene come a certi animali,

che manco veggono quel ch'è più lucente:

ancor gli occhi nostri al sole son tali.

Et così l'occhio della nostra mente

per la imperfectione sua manco vede

quel ch'è più manifesto et apparente.

Salir non può più alto il mortal piede,

onde conviene che altri il camino scorga

e lievi l'alma al cielo, che in terra siede.

La figlia qui del gran Tonante sorga,

che sanza matre del suo capo uscìo;

questa la mano al basso ingegno porga.

D'uno amor sancto incenda il mio disio

et d'un tale lume lo 'ntellecto allumine,

qual si conviene a chi vuole parlar di Dio.

Et come sanza matre è il sancto numine,

così sanza materia netto et puro

si separi dal corpo il nostro acumine.

Mostri questo il camino vero et sicuro,

et sia allo intellecto mio quel sole

ch'ogni confuso lievi et ogni obscuro.

Or, perché qui la mia Musa si duole,

spesso da me chiamata, hor derelicta,

accusar me de ingratitudine vuole.

Musa, tu le parole e 'l verso dicta

et quella luce che Minerva prome,

come mostra è da lei, da te sia scripta.

Apollo, se ami ancor le caste chiome

della tua tanto disiata Damne,

soccorri a chi ritiene il suo bel nome;

et tanto del tuo sacro furor danne,

non quanto a me conviensi, ma al suggiecto

di che debbo cantare, bisogno fanne.

Tua gratia abondi più, se è più il difecto,

acciò che quello che soggiunse Marsilio

ne' versi chiuga come è nel concetto.

Quale, riguardando noi con lieto cilio,

disse: «Come vaggiam, qui non è il bene,

Alpheo padre, in età tu Lauro filio.

Mentre è legata in corporale catene

et in questo obscuro carcere l'alma accolta,

sempre ambiguità, sempre ardore tiene.

Anzi nel corpo in tanto errore è involta,

che non ha di se stessa cognitione,

fin che in tucto non è libera et sciolta.

Dunque veggiam che la separatione

che fa l'alma dal corpo, ch'è beata,

ne dà di questo ben la perfectione.

La divina iustitia al bene fare grata

serba, come pria dissi, questa palma

all'anima che a Dio è dedicata.

Ma doppio è il contemplare della nostra alma,

l'angelica natura et la divina:

la prima non è la quiete o calma.

Nostro intellecto, per natura inclina

ricercare d'ogni cosa la sua causa,

d'una in altra cagione sempre camina;

et mai non ha quiete alcuna o pausa,

finché d'ogni cagion la causa truova,

ch'è nello arcano di Dio serrata et clausa.

La voluntà conviene sempre si muova,

né si contenta d'alcuno bene già mai,

sopra il quale sia maggiore dolcezza nuova.

Fermasi et posa solo ne' divini rai,

perché d'intero bene ha sempre inopia,

finché il suppremo bene ritrovato hai.

Tutto quiesce nella causa propia,

e questo è Dio: adunque Dio è quello,

non l'Angielo, che ne dà di tal bene copia.

Benché Avicenna, Spano et Algazello

fermassino nella prima il bene suppremo,

il vero bene è Dio formoso et bello.

Ma, contemplando Dio, due vie havemo,

una per lo intellecto Dio vedere,

onde per questo mezzo il conoscemo;

l'altra è pel conosciuto ben gaudere

per mezzo del disio, onde il felice

et disiato fine puoi possedere.

Plato divino, al mondo una fenice,

la prima visione ambrosia appella

e il gaudio pel veduto nectar dice.

Due ale ha la nostra alma pura et bella,

lo intelletto e 'l disio, ond'ella è ascensa

volando al sommo Dio sopra ogni stella,

ove si ciba alla divina mensa

d'ambrosia e nectar, né già mai vien meno

questa somma dolcezza eterna et imensa.

Di questi due è il nectare più ameno

all'alma, che alhora vive al mondo interita

et il gaudio del veduto assai più pieno.

Perché s'è più nella vita preterita

merito Dio amando che intendendo,

se amore è il fiore, el frutto merita.

Che amor merita più, provare intendo

e che più l'alma amando in vita acquista

la divina bontà che inquirendo.

Prima sì poca è nostra mortal vi[s]ta

che vera cognitione di Dio non dona,

ma pare, in vita, in più errori consista.

Ma quello ha voluntà perfecta et buona

et Dio veramente ama, che a se stesso

per Lui o ad altra cosa non perdona.

Come errore fa maggiore et più expresso

chi ha Dio in odio che chi non lo intende

così chi l'ama più, più merto ha in esso:

questo Natura e la ragion ne ostende.

Per fare il decto mio più vero et forte

de' contrarii una regola si prende:

Amor del paradiso apre le porte,

né la nostra alma amando già mai erra,

ma il ricercarlo spesso induce morte.

Leva in superbia l'animo di terra

la scientia talhora et li occhi vela:

a questi sempre Dio s'absconde et serra.

A' sapienti et prudenti si cela,

come di sé la sancta bocca disse,

amore a' semplici occhi lo rivela.

Colui che ad perscrutare di Dio si misse,

già non li atribuisce et non lo honora

per questo, et forse a sua gloria lo ascrisse.

Ma chi di sua bellezza s'innamora,

et sé et quel possiede a Dio presenta,

ad cui Dio sé retribuisce ancora.

L'anima che al conoscer Dio è intenta,

in lungo tempo fa poco proficto;

quella che l'ama, presto assai contenta.

Così conchiuderem per quel ch'è dicto,

che, se lo amore più merta, alcun non pensi

che maggiore premio non li sia prescripto.

A chi cerca vedere, vedere conviensi,

ma allo amante della cosa che ama

gaudere sempre et fruire piaceri immensi.

Amore è quello, el qual disia et brama,

amore è quello che debbe havere il merto,

onde più degno fin drieto a sé chiama,

come noi mosterremo ancor più certo».

V

Era il mio core sì di dolcezza pieno,

che udendo mi pareva esser tirato

al Bene che le parole sue dicieno.

L'animo s'era abstracto e separato,

et dicendo fra me: «Hor che fia il vero,

se 'l sentirne parlare mi fa beato?».

Quando, visto Marsilio il mio pensiero,

dissemi: «In te medesmo hora fai pruova

qual è de' due predecti il bene intero.

Intendere quel ch'io dico assai ti giova,

ma, passato il primo acto, il bene inteso

crea nel core maggiore dolcezza nuova.

L'animo ch'è nel ricercare acceso,

pel conosciuto bene poi possedere

cerca, et solo per godere il bene compreso

et non a fine d'intendere vuol godere:

adunque quello intendere che procede

ministro è di quel ben che cerca havere.

Rendere ragione possiamo a chi richiede

ad che fine noi cerchiamo, ch'è per fruire

quel bene che nostra mente prima vede.

Del gaudio altra ragione non si può dire

se non ch'è sol gaudio, che in etterno dura,

né in altro maggior bene può la mente ire.

Non fugge gaudio alcuno nostra natura:

spesso vedere quelle cose rifiuta,

che stima esser moleste et di gran cura.

Colui che vede non ha sempre havuta

dolcezza pel vedere, ma vede e intende

chi di gaudio ha la mente sua compiuta.

Et come più nostra natura offende

dolersi che ignorare, pel suo contrario

el gaudio per più bene che 'l veder prende.

Non è giudicio buono dal nostro vario

che questo gaudio sia l'ultimo bene,

s'è dolor primo male, ch'è suo adversario.

Et come alla natura nostra adviene

fuggir dolore per sé et per dolore

qualunque cosa come somme pene,

così gaudio per sé disia il core,

et pel gaudio ogni cosa, et a quel corre,

sì come a sommo bene, il nostro amore.

Come non puoi nel numero de' buon' porre

un che sol veda il bene, ma chi il disia,

colla intentione che tel può dare e tôrre,

così convien che l'alma nostra sia

divina amando Dio, non solo vedendo,

che goda allora quel che ha veduto pria.

Adviene a l'alma nostra, Dio intendendo,

che ad sua capacità tanta amplitudine

contrahe, et Dio in sé vien ristrignendo.

Amando, alla sua immensa latitudine

amplifichiamo et dilatiamo la mente:

questa pare sia vera beatitudine.

Vedendo, dello immenso Omnipotente

pigliam la parte sol che cape in noi

et quel che l'alma vede alhora presente.

Amando, et quel che alhor vede amare puoi

et quel più che 'l pensiero tuo t'ha promisso

della infinita sua bontà dipoi.

Della divina infinità l'abisso

quasi per una nebbia contempliamo,

benché l'alma vi tenga l'occhio fisso

ma d'uno perfecto et vero amor l'amiamo.

Quel che conosce Dio, Dio ad sé tira;

amando, alla sua altezza c'innalziamo.

A quello per sommo ben la mente aspira

che la contenta; ma non è contenta,

se solamente Dio riguarda et mira,

perché la visione, benché sia intenta,

che l'anima vidente in sé riceve

per creata et finita si conventa.

Et così esser ne' sua gradi deve:

se per potentia l'anima è finita,

l'operatione anche è finita et brieve.

Ma l'alma ch'è di questi lacci uscita

sol si contenta interamente et posa

in cose, le quali sieno d'immensa vita;

et solo è di quel bene volenterosa

che dà Dio sconosciuto, et tale disio,

e 'l gaudio d'esso pare immensa cosa,

però che, amando, si converte in Dio

et sopra Dio veduto si dilata».

Et io allora ruppi il silentio mio,

et dissi: «Sia da te meglio explicata

tal cosa, allo intelletto mio confusa

per qualche obscurità drento al cor nata».

Marsilio a me: «Se l'alma è circunfusa

da qualch'error, non me ne maraviglio,

né tu per questo meco ne far scusa,

mirar non può sì alto il mortal ciglio.

Ma io ad tua più intera cognitione

un sensuale exemplo per te piglio.

Differentia è da gusto a gustatione:

il gusto è la potentia del gustare,

la gustation per l'acto suo si pone;

ad muover questi due ad operare

bisogna sia 'l sapor, ch'è il suo obiecto,

che fa il primo al secondo ministrare.

El gusto l'animo è puro et perfecto,

che si muove a gustare l'obiecto degno

per la gustazione, ch'è l'intellecto.

Et poi che giugne a questo primo segno,

gaude gustato Dio col disio sancto,

et tal gaudio è 'l sapore d'ogni ben pregno.

La gustazione apuncto è buona quanto

dolce è il sapore, et gusta Dio mirando

l'alma, e 'l disio piacere glielo fa tanto.

Così conchiudereno, al fine andando,

che 'l nostro vero et sommo bene è quello

etterno Dio, che tucti andiamo cercando:

semplice, puro, immaculato agnello,

al quale camina l'alma peregrina,

per riposarsi nel suo sancto ostello.

Et la beatitudine sua divina

è fruire questo ben per voluntate,

ché amore la muove, ond'ella a Dio camina,

ove assapora la suavitate

da·llei già tanto disiata et chiesta,

qual non li possano dare cose create.

Amando Dio, conviene che Dio la vesta

del sancto suo amore et in sé converta

l'amante e dagli gaudio che non resta.

Amore è quel che amato amore sol merta,

amor ne dà la etterna nostra pace,

amore vera salute, intera et certa.

L'Apostol sancto, testimone verace,

con questo amore insino al cielo aggiunse,

vaso di tanta gratia bene capace.

Amore insino al terzo ciel lo assumpse,

alla stella che al mondo amore infonde,

onde e sua occhi coi divini congiunse.

A quella spera Dio mai non si asconde,

indi sé mostra e 'l suo sancto habitacolo

et le ricchezze sue magne et profonde.

Perché sopra essa è quello chiaro spiracolo

che sé et ogni cosa agli occhi mostra,

sole dove pose Dio suo tabernacolo.

Questo premio è serbato a l'alma nostra

sciolta dal corpo, né nel mondo cieco

lo può trovar la mia vita o la vostra:

ma tale vita al mondo ha tanto mal seco,

che in vita più felice li animali

sarien bruti et selvaggi in qualche speco:

quanto più veggon gli occhi de' mortali

el bene, si dolgon più se ne son privi

et maggiore cognitione ne dà più mali.

Et, oltr'a questo, mentre siam qui vivi,

assai più cose nostra vita agogna,

ché a·lloro basta l'herbetta e' freschi rivi:

felice è più a chi manco bisogna.

Così par l'uomo più infelice al mondo,

mentre che in vita qui vacilla e sogna.

Ma el premio è poi nel vivere suo secondo,

che 'l mondo errante trista morte appella;

alhora giunge al suo fine lieto et giocondo.

Così la vita nostra non è quella

(o vero la tua, pastore, ch'è più quieta,

o ver, Lauro, la tua che pare sì bella)

che un punto sol di tanti mai sia lieta

(o qualunque altra vita ch'è mortale),

perché vera dolcezza il mondo vieta.

Or perché pare allo Oceàno si cale

Phebo, et finito è il mio sermon col sole,

Alfeo, statti con Dio; tu, Lauro, vale».

Così lasciò le piagge di lui sole,

et noi, benché al chiar fonte, con più sete

d'udire ancora l'ornate sue parole,

le parole che mai passeranno Lete.

Ma poi disse il pastor: «Questa ora induce

me a ridurre le bestie nella rete.

Già si parte da noi la phebea luce,

ond'io ritorno al mio antiquo stento,

e tu dove il disio tuo ti conduce».

Et, questo decto, mosse il suo armento

et io alle sue spalle volsi il tergo,

partendomi da·llui col passo lento.

Così ciascun tornossi al proprio albergo,

et me acceso della sancta fiamma,

mentre che drieto al pensier dolce pergo,

mosse ad cantar l'Amor che 'l tucto infiamma.

VI

Oratione a Dio nella quale si domanda quel bene di che s'è disputato di sopra

O venerando, immenso, etterno Lume,

el quale in te medesimo te vedi

e luce ciò che luce nel tuo Nume!

O infinita vista, che procedi

da te et per te luci et per te splende

ogni splendore pel lume che concedi!

O occhio spiritual, quale non comprende

se non la vista spiritale, pel quale

et quale solo et non altro vede et intende!

O vita d'ogni vivente immortale,

o di qualunque vive intero bene,

che adempi ogni disio, che di te cale!

Tu accendi il disio et da te viene

che la voglia è d'ogni bene ardentissima,

perché ogni bene se' tu, o sola spene.

O vera luce micante et purissima,

te per te priego che la vista obscura

di caligine purghi, et sia chiarissima,

acciò ch'io vegga la tua luce pura;

perché tu nel mio core la sete accendi,

tu fai che 'l ghiaccio suo s'infiammi et ura.

L'occhio mio parvo amplifica et distendi,

perché io ti vegga, e la pupilla bassa

innalza, acciò che sopra al cielo ascendi.

Nell'interiore mio penetra et passa

la tua profundità, profunda più

che altra profundità, qual più s'abbassa.

La tua sublimità mi lieva in su,

quella sublimità che è eminente

et alta più che alcun'altra virtù.

Lo splendor tuo mirando è rilucente

e di bontà mirabile et bellezza

penetra l'alme e' corpi et pria la mente.

Questa immensa bontà, questa vaghezza

m'aletta, scalda, incende et mi costrigne

sanza ch'io il sapia: oh singulare chiarezza!

Vola il disio, ma poi pigra s'infigne

l'alma, pensando che alla gloria etterna

finite passioni non sono condigne.

O unica fortezza, alta et superna,

porgi la mano al mio zoppo disio:

la tua pietà la sua miseria cerna.

Speranza intera, o solo refugio mio,

guida il core che tu chiami e in te ricetta

quel che costrigni a te venire, o Dio!

Quel che tormenti, contenta e dilecta,

refrigera quel che ardi, com'io spero,

perché tu se' la letitia perfecta.

Fonte d'ogni letitia, al gaudio intero

io so che tu se' solo, et in te giace

quel che appetisce il nostro desidèro.

Perché, se questo o vero quel ben ne piace,

non cerca il disio nostro o quello o questo,

ma il Bene in essi, dov'è la sua pace.

La qualità del Bene il core ha chiesto

in ogni cosa e 'l salutare liquore

che vive in sé et spargesi pel resto.

Al fonte di questa acqua corre il core,

questo perenne fonte cerca et cole,

sparto in qualunque cosa inferiore.

Et come quello che vede l'occhio è sole,

che in quella et in questa cosa chiaro si mostra,

così è un solo ben, che 'l mondo vuole.

Però non manca mai la sete nostra

per questo o quello, o questo et quello insieme,

finch'altro maggior bene si li dimostra.

El fonte solo, che 'l sancto liquor geme,

spegne la sete nostra: o liquor sancto,

spegni la sete mia che troppo prieme!

Poi che ogni cosa apunto è buona quanto,

Bene d'ogni bene, la fai con la presentia,

non ne lasciar sanza te essere tanto.

O prima Mente, ch'è sanza dementia,

o prima Sapientia alta e profonda,

non maculata da insipienza,

alla quale pare che nulla si nasconda

di quel ch'ordina e crea il tuo intellecto

per providentia immensa, quale abonda.

Né una pure delle cose hai neglecto,

le quali produce tua carità immensa,

ma dal perfecto vedi lo imperfecto.

Et pur fa tucto tua carità accensa

et gran maraviglia ha la mente mia

che a chi non pensa a·llei provede e pensa.

O abondante Gratia, o Mente pia,

com'esser può ch'ogni minima cosa

da te pasciuta et adempiuta sia,

e l'uom, factura tua maravigliosa,

che 'l nome sancto tuo cole et adora,

lasciato in sete sia tanto bramosa?

L'uomo, dico, che per fede sol te honora

non patire che habbi sempre inquietudine,

che solo in te posarsi spera ancora.

Fugga da quella immensa multitudine

di tua beneficentia et tanta laude

la malefica et trista ingratitudine!

Da te, o verità, fugga la fraude,

perché certo fraudata saria l'alma,

se dopo tanta sete ancora non gaude.

Se per te porta qualche greve salma

e prende la sua croce et in odio ha il mondo,

retribuir li debbi etterna palma.

O sommo etterno Bene, amplo et fecondo,

misero è l'huomo più che una bestia sciocca,

se nella patria tua nol fai giocondo.

Ma d'ogni gratia il tuo vaso trabocca,

ond'io spero quel fine a' mia martìri,

qual più per gratia che per merto tocca.

Et benché un tempo il nostro core sospiri

a pene temporali, a questi affanni

retribuisci, et abrievi i desiri

felicità, qual non misuran gli anni.

Al poco molto bene, al brieve etterno

dài, et così non ne defraudi o inganni.

O Redentor del mondo inferno,

o ver reffugio, o unica salute,

che salvi tucto sotto el tuo governo.

O Ben de' beni, Virtù d'ogni virtute,

io so che dato m'hai l'eternitate,

perché peggio non sia che bestie brute;

perché la tua ardente caritate

amore nel vaso della mente infonde,

onde possiamo amar la tua bontate.

Così nostro intellecto al tuo risponde

et, se intendiamo, la intelligentia tua

ci allumina alle cose alte et profonde.

Come dalle tue due le nostra dua

vengon, tua vita in ordine primiera

in nostra vita vuol la parte sua.

Per te, Vita, viviamo: et se a noi vera

cognition dài d'alcune immortale cose,

e voluntà che alle mortali impera,

prima la vita desti, che rispose

etterna alla tua etterna e immutabile,

qual prima all'altre due in noi si pose.

Così di queste tre ciascuna è habile

nel modo suo l'etternità fruire,

facte immortale, in etterno durabile:

lo 'ntelletto intendendo, el buon disire

volendo, pria la vita che ne è data

vivendo sanza mai potere morire.

Sendosi agli altri due comunicata

l'etternità, alli posteriori,

prima nella vita è, che prima è nata.

Porrai dunque ancora fine a' miei dolori:

saran beati per heredità

et per gratia abundante e nostri cuori.

Almeno or qualche parte ce ne fa':

fa' che alquanto gustiamo speranza certa

in questa vita della tua bontà.

Se non ti piace ancora, perché nol merta

l'anima ancora, almeno, noi ti preghiamo,

mostra la via della salute aperta.

Concedi che ingannare non ne lasciamo

da mondane lusinghe corruptibile,

né 'l certo per l'incerto et vano perdiamo.

Fortificando il core contra il terribile

impero di Fortuna et sua minaccia,

a cui cede talor l'huom ch'è sensibile,

monstra benigna a noi la sancta faccia;

o Padre a' tua figli indulgentissimo

la tua misericordia apra le braccia.

Recrea quei che creasti, o Bene amplissimo,

aiuta noi, perché di te solo nati

siamo, Padre omnipotente et clementissimo.

Gl'intellecti et disiri nostri assetati

tua verità sol empie et bontà intègra,

né la cagione [pensiam] che n'ha creati.

Miserere alla figlia infecta e egra

alma, dalla celeste patria lunge,

ch'exula in questa selva obscura et negra.

Leva dal cuore quel che da te il disiunge;

miserere del pianto lachrimoso

pel disio della patria, che 'l cor punge.

Ov'è la patria, ivi è vero riposo;

ov'è il padre et la patria, posa il filio;

quivi è ben sommo, vero et copioso.

Inquietudine è dov'è l'exilio

et falso bene, anzi male vero et aperto:

però fa' noi del tuo divin concilio.

Allor al cuore s'è qualche bene oferto,

allor viviamo da' rei pensier' remoti

et l'alma gusta qualche ben ch'è certo,

quando li nostri cori prompti et devoti

pensano a te, et par che al suo ben giunga

l'alma, se drizza a te tucti i suoi voti.

Se adviene che teco il suo pensiero congiunga,

allor quiesce: adunque da noi fugga

quel che da tale pensiero l'alma dilunga.

Freddezza et diffidentia in noi si strugga,

et la disperatione, et l'alma poi

a fede et speme et carità rifugga,

sì che da te mai siamo divisi noi,

o Vita delle vite et vero Lume,

che ogni altro lume alluminar sol puoi!

Dalla via vera erriamo sanza il tuo nume

et presto nelle tenebre cadremo

exteriori, seguendo il propio acume.

Dunque fa' dal principio al fine suppremo

l'alma solo ad te viva e in tua luce

luca, quando è passato il punto extremo.

Teco arda et goda, poi che si conduce

ad te, infinito Fine, Verità, Vita,

per te, Via, che a tale bene se' nostro duce.

Fanne amar la bellezza tua infinita,

priva d'anxietà, che 'l core tormenti

e te, Bene sommo che ogni mente incìta,

fruir possiamo sempre avidi et contenti.