Lorenzo de' Medici

 

Comento de' miei sonetti

 

 

Edizione di riferimento: Lorenzo de' Medici: Comento de' miei sonetti, in Opere, a cura di Tiziano Zanato, Einaudi, Torino 1992

 

 

[PROEMIO]

 

Assai sono stato dubbioso e sospeso se dovevo fare la presente interpetrazione e comento delli miei sonetti, e, se pure qualche volta ero più inclinato a farlo, le infrascritte ragioni mi occorrevano in contrario e mi toglievano da questa opera. Prima, la presunzione nella quale mi pareva incorrere comentando io le cose proprie, così per la troppa extimazione che mostravo fare di me medesimo, come perché mi pareva assumere in me quello iudicio che debba essere d'altri, notando in questa parte l'ingegni di coloro alle mani de' quali perverranno li miei versi, come poco sufficienti a poterli intendere.

 

Pensavo, oltre a questo, potere essere da qualcuno facilmente ripreso di poco iudicio, avendo consumato il tempo e nel comporre e nel comentare versi, la materia e subietto de' quali in gran parte fussi una amorosa passione; e questo essere molto più reprensibile in me per le continue occupazioni e publiche e private, le quali mi dovevano ritrarre da simili pensieri, secondo alcuni non solamente frivoli e di poco momento, ma ancora perniziosi e di qualche preiudicio così all'anima nostra come all'onore del mondo. E, se questo è, il pensare a simili cose è grande errore, metterle in versi molto maggiore, ma il comentarle non pare minore difetto che sia quello di colui che ha fatto uno lungo e indurato abito nelle male opere; maxime perché e comenti sono reservati per cose teologiche o di filosofia e importanti grandi effetti, o a edificazione e consolazione della mente nostra o a utilità della umana generazione. Aggiugnesi ancora a questo, che forse a qualcuno parrà reprensibile, quando bene la materia subietto fussi per sé assai degno, avendo scritto e fattone menzione in lingua nostra materna e vulgare, la quale, dove si parla et è intesa, per essere molto comune non pare declini da qualche viltà, e in quelli luoghi dove no·n'è notizia non può essere intesa, e però a questa parte questa opera e fatica nostra pare al tutto vana e come se non fussi fatta.

 

Queste tre difficultà hanno insino a ora ritardato quello che più tempo fa avevo proposto, cioè la presente interpetrazione. Al presente ho pure deliberato, vinto, al mio parere, da migliore ragione, metterla in opera, pensando che, se questa mia poca fatica sarà di qualche extimazione e grata a qualcuno, sarà bene collocata e non al tutto vana; se pure arà poca grazia, sarà poco letta e da pochi vituperata, e, non essendo molto durabile, poco durerà ancora la reprensione nella quale possa incorrere.

 

E, rispondendo al presente alla prima ragione e a quelli che di presunzione mi volessino in alcuno modo notare, dico che a me non pare presunzione lo interpetrare le cose mie, ma più presto tòrre fatica ad altri; e di nessuno è più proprio officio lo interpetrare che di colui medesimo che ha scritto, perché nessuno può meglio sapere o elicere la verità del senso suo: come mostra assai chiaramente la confusione che nasce della varietà de' comenti, nelli quali el più delle volte si segue più tosto la natura propria che la intenzione vera di chi ha scritto. Né mi pare per questo fare argumento che io tenga troppo conto di me medesimo o tolga ad altri el giudicarmi: perché credo sia officio vero d'ogni uomo operare tutte le cose a benificio degli uomini, o proprio o d'altri; e perché ognuno non nasce atto o disposto a potere operare quelle cose che sono reputate prime nel mondo, è da misurare sé medesimo e vedere in che ministerio meglio si può servire all'umana generazione, e in quello essercitarsi, perché e alla diversità delli ingegni umani e alla necessità della vita nostra non può satisfare una cosa sola, ancora che sia la prima e più excellente opera che possino fare gli uomini: anzi, pare che la contemplazione, la quale sanza controversia è la prima e più excellente, pasca minore numero delli uomini che alcuna delle altre. E per questo si conclude non solamente molte opere d'ingegno, ma ancora molti vili ministerii concorrere di necessità alla perfezzione della vita umana, et essere vero officio di tutti gli uomini, in quel grado che si truovono o dal cielo o dalla natura o dalla fortuna disposti, servire alla umana generazione. Io arei bene desiderato potermi essercitare in maggiore cose; né voglio però per questo mancare, in quello che sopporta lo ingegno e forze mie, a qualcuno, se non a molti, e quali, forse più tosto per piacere a me che perché le cose mie satisfaccino alloro, me hanno confortato a questo: l'auttorità e grazia delli quali vale assai appresso di me. E se non potrò fare altra utilità a chi leggerà li versi miei, almanco qualche poco di piacere se ne piglierà, perché forse qualche ingegno troverranno proporzionato e conforme al loro; e se pure qualcuno se ne ridessi, a me sarà grato che tragga de' versi miei questa voluttà, ancora che sia piccola; parendomi, massimamente publicando questa interpetrazione, sottomettermi più tosto al giudicio degli altri, conciosiacosa che se da me medesimo avessi giudicato questi miei versi indegni d'essere letti, arei fuggito il giudicio degli altri, ma comentandogli e publicandogli fuggo, al mio parere, molto meglio la presunzione del giudicarmi da me medesimo.

 

Ora, per rispondere alle calunnie di quelli che volessino accusarmi avendo io messo tempo e nel comporre e nel comentare cose non degne di fatica o di tempo alcuno, per essere passione amorose etc., e maxime tra molte mie necessarie occupazioni, dico che veramente con giustizia sarei dannato quando la natura umana fussi di tanta excellenzia dotata, che tutti gli uomini potessino operare sempre tutte le cose perfette; ma perché questo grado di perfezzione è stato concesso a molti pochi, e a questi pochi ancora molto rare volte nella vita loro, mi pare si possa concludere, considerata la imperfezzione umana, quelle cose essere migliori al mondo nelle quali interviene minore male. E giudicando più tosto secondo la natura comune e consuetudine universale degli uomini, se bene non l'oserei affermare, pure credo l'amore tra gli uomini non solamente non essere reprensibile, ma quasi necessario, e assai vero argumento di gentilezza e grandezza d'animo, e sopra tutto cagione d'invitare gli uomini a cose degne et excellenti, et essercitare e riducere in atto quelle virtù che in potenzia sono nell'anima nostra. Perché, chi cerca diligentemente quale sia la vera diffinizione dello amore, trova non essere altro che appetito di bellezza; e, se questo è, tutte le cose deforme e brutte necessariamente dispiacciono a chi ama. E mettendo per al presente da parte quello amore el quale, secondo Platone, è mezzo a tutte le cose a trovare la loro perfezzione e riposarsi ultimamente nella suprema bellezza, cioè Dio; parlando di quello amore che s'extende solamente ad amare l'umana creatura, dico che, se bene questa non è quella perfezzione d'amore che si chiama «sommo bene», almanco veggiamo chiaramente contenere in sé tanti beni et evitare tanti mali, che secondo la comune consuetudin e della vita umana tiene luogo di bene: maxime se è ornata di quelle circunstanzie e condizioni che si convengono a uno vero amore, che mi pare sieno due: la prima, che si ami una cosa sola; la seconda, che questa tale cosa si ami sempre.

 

Queste due condizioni male possono cadere se il subietto amato non ha in sé, a proporzione dell'altre cose umane, somma perfezzione, e se, oltre alle naturali bellezze, non concorre nella cosa amata ingegno grande, modi e costumi ornati e onesti, maniera e gesti eleganti, destrezza d'accorte e dolci parole, amore, constanzia e fede; e queste cose tutte necessariamente convengono alla perfezzione dello amore. Perché, ancora che il principio d'amore nasca dagli occhi e da bellezza, nondimeno alla conservazione e perseveranza in esso bisognano quell'altre condizioni; perché se, o per infermità o per età o altra cagione, si scolorissi il viso e mancassi in tutto o in parte la bellezza, restino tutte quell'altre condizioni, non meno grate allo animo e al cuore che la bellezza agli occhi. Né sarebbono ancora queste tali condizioni sufficienti, se ancora in colui che ama non fusse vera cognizione di queste condizioni, che presuppone perfezzione di iudicio nello amante; né potrebbe essere amore della cosa amata verso colui che ama, se quello che ama non meritassi essere amato, presupposto lo infallibile iudicio della cosa amata. E però, chi propone uno vero amore, di necessità propone grande perfezzione, secondo la comune consuetudine degli uomini, così nello amato come in chi ama; e come adviene in tutte le altre cose perfette, credo che questo tale amore sia suto al mondo molto raro: che tanto più arguisce l'excellenzia sua. Chi ama una cosa sola e sempre, di necessità non pone amore ad altre cose, e però si priva di tutti gli errori e voluttà nelle quali comunemente incorrono gli uomini; e amando persona atta a conoscere e cercando in ogni modo che può di piacerli, bisogna di necessità che in tutte le opere sue cerchi degnificarsi e farsi excellente tra gli altri, seguitando opere virtuose, per farsi più degno che può di quella cosa che lui stima sopra all'altre degnissima; parendogli che, e in palese e in occulto, come la forma della cosa amata sempre è presente al cuore, così sia presente a tutte l'opere sue, le quali laudi o reprenda secondo la loro convenienzia, come vero testimonio e assistente giudice non solo delle opere, ma de' pensieri. E così, parte colla vergogna reprimendo el male parte con lo stimolo del piacerli excitando il bene, se pure questi tali perfettamente non operano, almanco fanno quello che al mondo è reputato manco male: la quale cosa, rispetto alla imperfezzione umana, al mondo per bene si elegge.

 

Questo adunque è stato il subietto de' versi miei. E se, pure con tutte queste ragioni, non risponderò alle obtrettazioni e calunnie di chi mi volessi dannare, almanco, come disse il nostro fiorentino Poeta, apresso di quelli che hanno provato che cosa è amore, «spero trovare pietà, non che perdono»: il giudicio de' quali è assai a mia satisfazzione. Perché, se gli è vero, come dice Guido bolognese, che amore e gentilezza si convertino e sieno una cosa medesima, credo che agli uomini basti e solamente sia expetibile la laude degli alti e gentili ingegni, curandosi poco degli altri, perché è impossibile fare opera al mondo che sia da tutti gli uomini laudata; e però chi ha buona elezzione si sforza acquistare laude apresso di quelli che ancora loro sono degni di laude, e poco cura la oppinione degli altri. A me pare si possa poco biasimare quello che è naturale; nessuna cosa è più naturale che l'appetito d'unirsi con la cosa bella, e questo appetito è suto ordinato dalla natura negli uomini per la propagazione della umana generazione, cosa molto necessaria alla conservazione della umana spezie. E a questo la vera ragione che ci debba muovere non è né nobilità di sangue, né speranza di possessioni, di ricchezza o d'altra conmodità, ma solamente la elezzione naturale, non sforzata o occupata da alcuno altro rispetto, ma solamente mossa da una certa conformità e proporzione che hanno insieme la cosa amata e lo amante, a·ffine della propagazione dell'umana spezie. E però sono sommamente da dannare quelli e quali l'appetito muove ad amare sommamente le cose che sono fuori di questo ordine naturale e vero fine già proposto da noi, e da laudare quelli e quali, seguitando questo fine, amano una cosa sola diuturnamente e con somma constanzia e fede.

 

A me pare che assai copiosamente sia risposto a tale obietto. E, dato che questo amore, come di sopra abbiamo detto, sia bene, non pare molto necessario purgare quella parte che in me parebbe forse più reprensibile, per le diverse occupazioni publiche e private: perché, s'egli è bene, il bene non ha bisogno d'alcuna excusazione, perché non ha colpa. E se pure qualche scrupoloso iudicio non volessi ammettere queste ragioni, almanco conceda questa piccola licenzia alla età iuvenile e tenera, la quale non pare tanto obligata alla censura e iudicio degli uomini e nella quale non pare tanto grave qualunque errore, maxime perché è più stimulata a declinare dalla via retta e per la poca experienzia manco si può opponere a quelle cose che la natura e comune uso delli uomini persuadono. Questo dico in caso che pure fussi stimato errore amare molto, con somma sincerità e fede, una cosa, la quale sforza per la perfezzione sua l'amore dello amante: la quale cosa non confesso essere errore. E, se questo è, o per le ragioni dette o avuto rispetto alla età, né il comporre né il comentare miei versi fatti a questo proposito mi può essere imputato a grave errore. E dato che fussi vero che non si convenissi comento a simile materia, per essere piccola e poco importante o a edificazione o a contento della mente nostra, dico che, se questo è, la fatica di questo comento convenirsi massimamente a me, acciò che altro ingegno di più excellenzia che il mio non abbia a consumarsi o mettere tempo in cose sì basse; e se pure la materia è alta e degna, come pare a me, el chiarirla bene e farla piana e intelligibile a ciascuno essere molto utile: e questo, per quello che ho detto di sopra, nessuno il può fare con più chiara expressione del vero senso che io medesimo. Né io sono stato il primo che ho comentato versi importanti simili amorosi subietti, perché Dante lui medesimo comentò alcuna delle sue canzone e altri versi; e io ho letto il comento di Egidio romano e Dino Del Garbo, excellentissimi filosofi, sopra a quella subtilissima canzona di Guido Cavalcanti, uomo al tempo suo riputato primo dialettico che fussi al mondo, e inoltre in questi nostri versi vulgari excellentissimo, come mostrano tutte le altre sue opere e maxime la sopra detta canzona, che comincia Donna mi prega etc., la quale non importa altro che il principio come nasce ne' cuori gentili amore e gli effetti suoi. E se pure alla purgazione mia non sono sufficienti né le sopra scritte ragioni, né gli essempli, la compassione almeno mi doverrà giustificare, perché, essendo nella mia gioventù stato molto perseguitato dagli uomini e dalla fortuna, qualche poco di refriggerio non mi debbe essere dinegato, el quale solamente ho trovato e in amare ferventemente e nella composizione e comento de' miei versi, come più chiaramente faremo intendere quando verremo alla exposizione di quello sonetto che comincia Se tra gli altri sospiri che escono di fore.

 

Quale sieno sute le mie maligne persecuzioni, per essere assai publiche è assai noto; qual sia suta la dolcezza e refriggerio che 'l mio dolcissimo e constantissimo amore ha dato a queste, è impossibile che altri che io lo possi intendere, perché, quando bene l'avessi ad alcuno narrato, così era impossibile a lui lo intenderlo come a me referirne il vero. E però torno al sopra detto verso del nostro fiorentino Poeta, che, «dove sia chi per pruova intenda amore» (così questo amore che io ho tanto laudato, come qualche particulare amore e carità verso di me), «spero trovare pietà, non che perdono». Resta adunque solamente rispondere alla obiezzione che potessi essere fatta avendo scritto in lingua vulgare, secondo il giudicio di qualcuno non capace o degna d'alcuna excellente materia e subietto. E a questa parte si risponde alcuna cosa non essere manco degna per essere più comune, anzi si prova ogni bene essere tanto migliore quanto è più comunicabile e universale, come è di natura sua quello che si chiama «sommo bene»: perché non sarebbe sommo se non fussi infinito, né alcuna cosa si può chiamare infinita, se non quella che è comune a tutte le cose. E però non pare che l'essere comune in tutta Italia la nostra materna lingua li tolga dignità, ma è da pensare in fatto la perfezzione o imperfezzione di detta lingua. E, considerando quali sieno quelle condizioni che danno dignità e perfezzione a qualunque idioma e lingua, a me pare sieno quattro, delle quali una o al più dua sieno proprie e vere laude della lingua, l'altre più tosto dependino o dalla consuetudine e oppinione degli uomini o dalla fortuna.

 

Quella che è vera laude della lingua è lo essere copiosa e abundante e atta a exprimere bene il senso e concetto della mente. E però si giudica la lingua greca più perfetta che la latina, e la latina più che la ebrea, perché l'una più che l'altra meglio exprime la mente di chi ha o detto o scritto alcuna cosa.

 

L'altra condizione che più degnifica la lingua è la dolcezza e armonia, che resulta più d'una che d'un'altra; e benché l'armonia sia cosa naturale e proporzionata con la armonia dell'anima e del corpo nostro, nondimeno a me pare, per la varietà degli ingegni umani, che tutti non sono bene proporzionati e perfetti, questa sia più presto oppinione che ragione: conciosiacosa che quelle cose che si giudicano secondo che comunemente piacciono o non piacciono, paiono più tosto fondate nella oppinione che nella vera ragione, maxime quelle, el piacere o dispiacere delle quali non si prova con altra ragione che con l'appetito. E, non obstanti queste ragioni, non voglio però affermare questa non potere essere propria laude della lingua; perché, essendo l'armonia (come è detto) proporzionata alla natura umana, si può inferire il giudicio della dolcezza di tale armonia convenirsi a quelli che similmente sono bene proporzionati a riceverla, el giudicio de' quali debba essere acettato per buono, ancora che fussino pochi: perché le sentenzie e iudicii degli uomini più presto si debbono ponderare che numerare.

 

L'altra condizione che fa più excellente una lingua è quando in una lingua sono scritte cose subtili e gravi e necessarie alla vita umana, così alla mente nostra come alla utilità degli uomini e salute del corpo: come si può dire della lingua ebrea, per li ammirabili misterii che contiene, accomodati, anzi necessarii alla ineffabile verità della fede nostra; e similmente della lingua greca, contenente molte scienzie metafisiche, naturali e morali molto necessarie alla umana generazione. E quando questo adviene, è necessario confessare che più presto sia degno il subietto che la lingua, perché il subietto è fine e la lingua è mezzo Né per questo si può chiamare quella lingua più perfetta in sé, ma più tosto maggiore perfezzione della materia che per essa si tratta; perché, chi ha scritto cose teologiche, metafisiche naturali e morali, in quella parte che degnifica la lingua nella quale ha scritto pare che più presto reservi la laude nella materia, e che la lingua abbi fatto l'officio d'instrumento, el quale è buono o reo secondo el fine.

 

Resta un'altra sola condizione che dà reputazione alla lingua, e questo è quando il successo delle cose del mondo è tale, che facci universale e quasi comune a tutto il mondo quello che naturalmente è proprio o d'una città o d'una provincia sola. E questo si può più presto chiamare felicità e prosperità di fortuna che vera laude della lingua, perché l'essere in prezzo e assai celebrata una lingua nel mondo consiste nella oppinione di quelli tali che assai la prezzono e stimono, né si può chiamare vero e proprio bene quello che depende da altri che da sé medesimo: perché, quelli tali che l'hanno in prezzo potrebbono facilmente sprezzarla e mutare oppinione, e quelle condizioni mutarsi per le quali, mancando la cagione, facilmente mancherebbe ancora la degnità e laude di quella. Questa tale degnità d'essere prezzata per il successo prospero della fortuna è molto apropriata alla lingua latina, perché la propagazione dello Imperio Romano l'ha fatta non solamente comune per tutto il mondo, ma quasi necessaria. E per questo concluderemo che queste laude externe e che dependono dall'oppinione degli altri o dalla fortuna non sieno laude proprie.

 

E però, volendo provare la degnità della lingua nostra, solamente dobbiamo insistere nelle prime condizioni e vedere se la lingua nostra facilmente exprime qualunque concetto della nostra mente; e a questo nessuna migliore ragione si può introducere che l'experienzia. Dante, il Petrarca e il Boccaccio, nostri poeti fiorentini, hanno, nelli gravi e dolcissimi versi e orazioni loro, mostro assai chiaramente con molta facilità potersi in questa lingua exprimere ogni senso. Perché, chi legge la Comedia di Dante vi troverrà molte cose teologiche e naturali essere con grande destrezza e facilità expresse; troverrà ancora molto attamente nello scrivere suo quelle tre generazioni di stili che sono dagli oratori laudati, cioè umile, mediocre e alto; e in effetto, in uno solo, Dante ha assai perfettamente absoluto quello che in diversi auttori, così greci come latini, si truova. Chi negherà nel Petrarca trovarsi uno stile grave, lepido e dolce, e queste cose amorose con tanta gravità e venustà trattate, quanta sanza dubio non si truova in Ovidio, Tibullo, Catullo, Properzio o alcuno altro latino? Le canzone e sonetti di Dante sono di tanta gravità, subtilità e ornato, che quasi non hanno comparazione. In prosa e orazione soluta, chi ha letto il Boccaccio, uomo dottissimo e facundissimo, facilmente giudicherà singulare e sola al mondo non solamente la invenzione, ma la copia et eloquenzia sua; e considerando l'opera sua del Decameron, per la diversità della materia, ora grave, ora mediocre e ora bassa, e contenente tutte le perturbazioni che agli uomini possono accadere, d'amore e odio, timore e speranza, tante nuove astuzie e ingegni, e avendo a exprimere tutte le nature e passioni degli uomini che si trovono al mondo, sanza controversia giudicherà nessuna lingua meglio che la nostra essere atta a exprimere. E Guido Cavalcanti, di chi di sopra facemmo menzione, non si può dire quanto commodamente abbi insieme coniunto la gravità e la dolcezza, come mostra la canzona sopra detta e alcuni sonetti e ballate sue dolcissime. Restono ancora molti altri gravi et eleganti scrittori, la menzione de' quali lasceremo più tosto per fuggire la prolissità, che perché non ne sieno degni. E però concluderemo più tosto essere mancati alla lingua uomini che la essercitino, che la lingua agli uomini e alla materia la dolcezza e armonia della quale, a chi per essersi assuefatto con essa ha con lei qualche consuetudine, veramente è grandissima e atta molto a muovere.

 

Queste, che sono e che forse a qualcuno potrebbono pure parere proprie laude della lingua, mi paiono assai copiosamente nella nostra. E per quello che insino a ora maxime da Dante è suto trattato nella opera sua, mi pare non solamente utile, ma necessario, per li gravi e importanti effetti, che li versi suoi sieno letti, come mostra lo essemplo per molti comenti fatti sopra la sua Comedia da uomini dottissimi e famosissimi, e le frequenti allegazioni che da santi et excellenti uomini ogni dì si sentono nelle loro publiche predicazioni. E forse saranno ancora scritte in questa lingua cose subtili e importante e degne d'essere lette, maxime perché insino a ora si può dire essere l'adolescenzia di questa lingua, perché ogni ora più si fa elegante e gentile; e potrebbe facilmente, nella iuventù e adulta età sua, venire ancora in maggiore perfezzione, e tanto più aggiugnendosi qualche prospero successo e augumento al fiorentino imperio: come si debbe non solamente sperare, ma con tutto l'ingegno e forze per li buoni cittadini aiutare; pure, questo, per essere in potestà della fortuna e nella voluntà dello infallibile iudicio di Dio, come non è bene affermarlo, non è ancora da disperarsene. Basta, per al presente, fare questa conclusione: che di quelle laude che sono proprie della lingua, la nostra ne è assai bene copiosa; né giustamente ce ne possiamo dolere. E per queste medesime ragioni nessuno mi può riprendere se io ho scritto in quella lingua nella quale io sono nato e nutrito, maxime perché e la ebrea e la greca e la latina erono nello tempo loro tutte lingue materne e naturali, ma parlate o scritte più accuratamente e con qualche regola o ragione da quelli che ne sono in onore e in prezzo, che generalmente dal vulgo e turba populare.

 

Pare con assai sufficienti ragioni provato la lingua nostra non essere inferiore ad alcuna delle altre; e però, avendo in genere dimostro la perfezzione d'essa, giudico molto conveniente ristrignersi al particulare e venire dalla generalità a qualche proprietà, quasi come dalla circumferenzia al centro. E però, sendo mio primo proposito la interpetrazione de' miei sonetti, mi sforzerò mostrare, tra gli altri modi delli stili vulgari e consueti per chi ha scritto in questa lingua, lo stile del sonetto non essere inferiore o al ternario o alla canzona o ad altra generazione di stile vulgare, arguendo dalla difficultà: perché la virtù, secondo e filosofi, consiste circa el difficile.

 

È sentenzia di Platone che il narrare brevemente e dilucidamente molte cose non solo pare mirabile tra gli uomini, ma quasi cosa divina. La brevità del sonetto non comporta che una sola parola sia vana, e il vero subietto e materia de' sonetti, per questa ragione, debba essere qualche acuta e gentile sentenzia, narrata attamente e in pochi versi ristretta, fuggendo la obscurità e durezza. Ha grande similitudine e conformità questo modo di stile con lo epigramma, quanto allo acume della materia e alla destrezza dell stile, ma è degno e capace il sonetto di sentenzie più gravi, e però diventa tanto più difficile. Confesso il ternario essere più alto e grande stile, e quasi simile allo eroico, né per questo però più difficile, perché ha il campo più largo, e quella sentenzia che non si può ristrignere in due o in tre versi sanza vizio di chi scrive, nel ternario si può ampliare. Le canzone mi pare abbino grande similitudine con la elegia; ma credo, o per natura dello stile nostro o per la consuetudine di chi ha scritto insino a qui canzone, lo stile della canzona non sanza qualche poco di pudore ammetterebbe molte cose non solamente leggieri e vane, ma troppo molle e lascive, le quali comunemente si trovono scritte nelle latine elegie. Le canzone ancora, per avere più larghi spazii dove possino vagare, non reputo tanto difficile stile quanto quello del sonetto; e questo si può assai facilmente provare con la experienzia, perché chi ha composto sonetti e s'è ristretto a qualche certa e subtile materia, con grande difficultà ha fuggito la obscurità e durezza dello stile; et è grande differenzia dal comporre sonetti in modo che le rime sforzino la materia, a quello che la materia sforzi le rime. E' mi pare ne' versi latini sia molto maggiore libertà che non è ne' vulgari, perché nella lingua nostra, oltre a' piedi, che più tosto per natura che per altra regola è necessario servare ne' versi, concorre ancora questa difficultà delle rime; la quale, come sa chi l'ha provato, disturba molte e belle sentenzie, né permette si possino narrare con tanta facilità e chiarezza. E che il nostro verso abbia e suoi piedi si prova perché si potrebbono fare molti versi contenenti undici sillabe, sanza avere suono di versi o alcun'altra differenzia dalla prosa. Concluderemo per questo il verso vulgare essere molto difficile, e, tra gli altri versi, lo stile del sonetto difficillimo, e per questo degno d'essere in prezzo quanto alcuno degli altri stili vulgari. Né per questo voglio inferire li miei sonetti essere di quella perfezzione che ho detto convenirsi a tal modo di stile; ma, come dice Ovidio di Phetonte, per al presente mi basta avere tentato quello stile che appresso e vulgari è più excellente, e se non ho potuto aggiugnere alla perfezzione sua o conducere questo curro solare, almanco mi sia in luogo di laude lo ardire d'avere tentato questa via, ancora che con qualche mio mancamento le forze mi sieno mancate a tanta impresa.

 

Parrà forse suto questo nostro proemio e troppo prolisso e maggiore preparazione che non è in sé lo effetto. A me pare non sanza vera necessità essere suto alquanto copioso, e, considerando la inezzia di questi miei versi, ho giudicato abbino bisogno di qualche ornamento, el quale si conviene a quelle cose che per loro natura sono poco ornate; né si conveniva minore excusazione alle colpe che forse mi sarebbono sute attribuite. E però, absoluta questa parte, verremo alla exposizione de' sonetti, fatto prima alquanto di argumento, che pare necessario a questi primi quattro sonetti.

 

 

 

[ARGUMENTO]

 

Forse qualcuno giudicherà poco conveniente principio a' versi miei cominciando non solamente fuora della consuetudine di quelli che insino a qui hanno scritto simili versi, ma, come pare prima facie, pervertendo quasi l'ordine della natura, mettendo per principio quello che in tutte le cose umane suole essere ultimo fine; perché li primi quattro sonetti furono da me composti per la morte d'una donna, che non solo extorse questi sonetti da me, ma le lacrime universalmente dagli occhi di tutti gli uomini e donne che di lei ebbono alcuna notizia. E però, non obstante che paia cosa molto absurda cominciando io dalla morte, a me pare principio molto conveniente, per le ragioni che diremo appresso.

 

È sentenzia de' buoni filosofi la corruzzione d'una cosa essere creazione d'un'altra e il termine e fine d'uno male essere grado e principio d'un altro. E questo di necessità adviene, perché, essendo la forma e spezie, secondo e filosofi, inmortale, di necessità conviene sempre si muova sopra la materia; e di questo perpetuo moto necessariamente nasce una continua generazione di cose nuove, la quale essendo sanza intermissione di tempo alcuno e con una brevissima presenzia dello essere delle cose e dello stato d'esse in quella tale qualità o forma, bisogna confessare il fine d'una cosa essere principio d'un'altra; e, secondo Aristotile, la privazione è principio delle cose create. E per questo si conclude nelle cose umane fine e principio essere una medesima cosa: non dico già fine e principio d'una cosa medesima, ma quello che è fine d'una cosa, inmediate è principio d'un'altra. E, se questo è, molto convenientemente la morte è principio a questa nostra opera. E tanto più, perché chi essamina più sottilmente troverrà il principio della amorosa vita procedere dalla morte, perché chi vive ad amore muore prima all'altre cose; e se lo amore ha in sé quella perfezzione che già abbiamo detto, è impossibile venire a tale perfezzione se prima non si muore quanto alle cose più imperfette. Questa medesima sentenzia pare che abbino seguito Omero, Virgilio e Dante, delli quali Omero manda Ulisse apresso alli inferi, Virgilio Enea, e Dante lui medesimo perlustra lo inferno, per mostrare che alla perfezzione si va per questa via. Ma è necessario, dopo la cognizione delle cose imperfette, quanto a quelle morire: perché, poi che Enea è giunto a' campi elisii e Dante condotto in paradiso, mai più si sono ricordati dello inferno; e arebbe Orfeo tratto Euridice dello inferno e condottola tra quelli che vivono, se non fussi rivoltosi verso lo inferno: che si può interpetrare Orfeo non essere veramente morto, e per questo non essere agiunto alla perfezzione della felicità sua, di avere la sua cara Euridice. E però il principio della vera vita è la morte della vita non vera; né per questo pare posto sanza qualche buono respetto la morte per principio de' versi nostri.

 

Morì, come di sopra dicemmo, nella città nostra una donna, la quale se mosse a compassione generalmente tutto il popolo fiorentino, non è gran maraviglia, perché di bellezze e gentilezze umane era veramente ornata quanto alcuna che inanzi a·llei fussi suta; e, infra l'altre sue excellenti dote, aveva così dolce e attrattiva maniera, che tutti quelli che con lei avevono qualche domestica notizia credevono da essa sommamente essere amati. Le donne ancora e giovane sue equali non solamente di questa sua excellenzia tra l'altre non avevono invidia alcuna, ma somma mente essaltavono e laudavono la biltà e gentilezza sua: per modo che impossibile pareva a credere che tanti uomini sanza gelosia l'amassino e tante donne sanza invidia la laudassino. E se bene la vita sua, per le sue degnissime condizioni, a tutti la facessi carissima, pure la compassione della morte, e per la età molto verde e per la bellezza che, così morta, forse più che mai alcuna viva mostrava, lasciò di lei uno ardentissimo desiderio. E perché da casa al luogo della sepoltura fu portata scoperta, a tutti che concorsono per vederla mosse grande copia di lacrime: de' quali, in quelli che prima n'avevono alcuna notizia, oltre alla compassione nacque ammirazione che lei nella morte avesse superato quella bellezza che, viva, pareva insuperabile; in quelli che prima non la conoscevano, nasceva uno dolore e quasi rimordimento di non avere conosciuto sì bella cosa prima che ne fussino al tutto privati, e allora conosciutola per averne perpetuo dolore. Veramente in lei si verificava quello che dice il nostro Petrarca: «Morte bella parea nel suo bel volto».

 

Essendo adunque questa tale così morta, tutti e fiorentini ingegni, come si conveniva in tale publica iattura, diversamente e si dolsono, chi in versi e chi in prosa, della acerbità di questa morte, e si sforzorono laudarla, ciascuno secondo la facultà del suo ingegno; tra li quali io ancora volsi essere e accompagnare le lacrime loro con li infrascritti sonetti, de' quali il primo comincia così:

 

 

 

I

 

O chiara stella, che coi raggi tuoi

togli alle tue vicine stelle il lume,

perché splendi assai più che 'l tuo costume?

Perché con Phebo ancor contender vuoi?                                   4

 

Forse i belli occhi, quali ha tolti a noi

Morte crudel, che omai troppo presume,

accolti hai in te: adorna del lor nume,

il suo bel carro a Phebo chieder puoi.                                         8

 

O questo o nuova stella che tu sia,

che di splendor novello adorni il cielo,

chiamata essaudi, o nume, i voti nostri:                                      11

 

leva dello splendor tuo tanto via,

che agli occhi, che han d'eterno pianto zelo,

sanza altra offensïon lieta ti mostri.                                            14

 

Era notte e andavamo insieme parlando di questa comune iattura uno carissimo amico mio e io; e così parlando, et essendo il tempo molto sereno, voltavamo gli occhi a una chiarissima stella, la quale verso l'occidente si vedeva, di tanto splendore certamente, che non solamente di gran lunga l'altre stelle superava, ma era tanto lucida, che faceva fare qualche ombra a quelli corpi che a tale luce s'opponevono. E, avendone di principio ammirazione, io, vòlto a questo mio amico, dissi: – Non ce ne maravigliamo, perché l'anima di quella gentilissima o è transformata in questa nuova stella o si è coniunta con essa; e, se questo è, non pare mirabile questo splendore. E però, come fu la bellezza sua, viva, di gran conforto agli occhi nostri, confortiamogli al presente con la visione di questa chiarissima stella; e se la vista nostra è debole e frale a tanta luce, preghiamo el nume, cioè la divinità sua, che li fortifichi, levando una parte di tanto splendore, per modo che sanza offensione degli occhi la possiamo alquanto contemplare. E per certo, essendo ornata della bellezza di colei, non è presuntuosa volendo vincere di splendore l'altre stelle, ma ancora potrebbe contendere con Phebo e domandarli il suo carro, per essere auttrice lei del giorno. E, se questo è, che sanza presunzione questa stella possi fare questo, grandissima presunzione è suta quella della morte, avendo manomessa tanta excellentissima bellezza e virtù –.

 

Parendomi questi ragionamenti assai buona materia a uno sonetto, mi parti' da quello amico mio e composi il presente sonetto, nel quale parlo alla sopra detta stella.

 

 

 

II

 

Quando il sol giù dall'orizzonte scende,

rimiro Clyzia pallida nel vólto,

e piango la sua sorte, che li ha tolto

la vista di colui che ad altri splende.                                            4

 

Poi, quando di novella fiamma accende

l'erbe, le piante e' fior' Phebo, a noi vòlto

l'altro orizzonte allor ringrazio molto

e la benigna Aurora che gliel rende.                                            8

 

Ma, lasso, io non so già qual nuova Aurora

renda al mondo il suo Sole! Ah, dura sorte,

che noi vestir d'eterna notte volse!                                            11

 

O Clyzia, indarno speri vederlo ora!

Tien' li occhi fissi, infin li chiugga morte,

all'orizzonte extremo che tel tolse.                                             14

 

Morì questa excellentissima donna del mese d'aprile nel quale tempo la terra si suole vestire di diversi colori di fiori, molto vaghi agli occhi e di grande recreazione all'animo. Mosso io da questo piacere, per certi miei amenissimi prati solo e pensoso passeggiavo, e, tutto occupato nel pensiero e memoria di colei, pareva che tutte le cose reducessi a suo proposito. E però, guardando tra fiore e fiore, vidi tra gli altri quello piccolo fiore che vulgarmente chiamiamo «tornalsole» e da' Latini detto clytia; nel quale fiore, secondo Ovidio, si transformò una ninfa, Clyzia chiamata, la quale amò con tanta veemenzia e ardore il sole, che così, conversa in fiore, sempre al sole si rivolge e tanto quanto può questo suo amato vagheggia. Rimirando io adunque questo amoroso fiore, pallido, come è natura degli amanti e perché veramente il fiore è di colore pallido, perché è giallo e bianco, mi venne compassione della sorte sua; perché, essendo già vicino alla sera, pensavo che presto perderebbe la dolcissima visione dello amato suo, perché già il sole s'apressava al nostro orizzonte, che privava Clyzia della sua amata vista; el dolore della quale era anco ra maggiore, perché quello che era negato a·llei era comune a molti altri, cioè agli occhi di coloro che sono chiamati «antipodi», a' quali splende il sole quando noi ne siamo privati e la notte de' quali a noi fa giorno. Da questo pensiero entrai in uno altro: che, se bene lei per una notte perdeva questa diletta visione, almanco la mattina seguente gli era concesso el rivederla, perché, come l'orizzonte occidentale gliele toglie, l'orientale gliele rende, e la benigna Aurora, piatosa allo amore di Clyzia, di nuovo gliele mostra; e io ancora ringrazio per questo l'orientale orizzonte che gliel rende, perché è cosa molto naturale e umana avere compassione agli afflitti, maxime a quelli che hanno qualche similitudine d'afflizzione con noi. Questa sorte di Clyzia, diversa e alterna, mi fece dipoi pensare quanto era più dura e iniqua sorte quella di colui che desidera assai vedere la cosa, il vedere della quale necessariamente gli è interdetto, non per una notte, ma per sempre. Veggo quale Aurora rende a Clyzia il suo sole, ma non so quale altra Aurora renda al mondo questo altro Sole, cioè gli occhi di colei; e se questo Sole non può tornare, di necessità agli occhi di quelli che non hanno altra luce bisogna sia sempre notte, perché non è altro la notte che la privazione del lume del sole; e però durissima sorte è quella di colui che con assai desiderio aspetta quello che non può avere. Né questo tale può avere altro refriggerio che ricordarsi e tenere gli occhi della mente sua fissi a quello che ha più amato e che gli è suto più caro; perché, come credo avenga a Clyzia, che la sera resta vòlta col viso allo orizzonte occidentale, che è quello che gli ha tolta la visione del sole, insino che la mattina el sole la rivolta all'oriente, così questo novello Clyzia non può avere maggiore refriggerio che tenere la mente e il pensiero vòlto all'ultime impressioni e più care cose del suo Sole, che sono a similitudine dello orizzonte occidentale, ché lo hanno privato della sua amata visione. Possiamo ancora dire questo ultimo orizzonte intendersi la morte di questa gentilissima, perché «orizzonte» non vuole dire altro che l'ultimo termine, di là dal quale gli occhi umani non possono vedere: come diciamo, se 'l sole tramonta, quell'ultimo luogo di là dal quale il sole non si vede più, e, quando si leva, il primo luogo dove il sole appare. E però convenientemente possiamo chiamare la morte quell'orizzonte che ne tolse la vista degli occhi suoi; al quale questo nuovo Clyzia, cioè lo amatore degli occhi suoi, debbe tenere gli occhi fissi e fermi, venendo in considerazione che ciascuna cosa mortale, ancora che bella et excellentissima, di necessità muore. E questa tale considerazione suole essere grande et efficace remedio a consolare ogni dolore e come cose finite e sottoposte alla necessità della morte. E chi considera questo in altri, può facilmente conoscere questa condizione e necessità in sé medesimo, servando quello sapientissimo detto che nel tempio d'Appolline era scritto, «Nosce te ipsum», perseverando in questo pensiero infino che la morte venga; la quale renderà il Sole suo a questo nuovo Clyzia, come l'Aurora lo rende a Clyzia già convertita in fiore, perché allora l'anima, sciolta dal corpo, potrà considerare la bellezza dell'anima di costei, molto più bella che quella la quale era prima visibile agli occhi: perché la luce degli occhi umani è come ombra respetto alla luce dell'anima. E così come la morte di colei è stata orizzonte all'occaso del sole degli occhi suoi, così la morte di questo nuovo Clyzia sarà l'orizzonte orientale che renderà a·llui il suo Sole, come l'Aurora lo rende a Clyzia già conversa in fiore.

 

Questo pensiero adunque parendomi fussi assai conveniente materia da mettere in versi, feci il presente sonetto.

 

 

 

III

 

Di vita il dolce lume fuggirei

a quella vita che altri «morte» appella,

ma morte è sì gentile oggi e sì bella,

ch'io credo che morir vorran li dèi.                                             4

 

Morte è gentil, poich'è stata in colei

che è or del ciel la più lucente stella;

io, che gustar non vo' dolce poi che ella

è morta, seguirò questi anni rei.                                                  8

 

Piangeran sempre gli occhi, e 'l tristo core

sospirerà del suo bel sol l'occaso,

lor di lui privi, e 'l cor d'ogni sua speme.                                    11

 

Piangerà meco dolcemente Amore,

le Grazie e le sorelle di Parnaso:

e chi non piangeria con queste insieme?                                    14

 

È comunemente natura degli amanti e pasto della amorosa fame pensieri tristi e malinconici, pieni di lacrime e sospiri, e questo comunemente è nella maggiore allegrezza e dolcezza loro. Credo ne sia cagione che lo amore che è solo e diuturno procede da forte inmaginazione, e questo può male essere se l'umore malencolico nello amante non predomina, la natura del quale è sempre avere sospetto e convertire ogni evento, o prospero o adverso, in dolore e passione. Se questa è propria natura degli amanti, certamente il dolore loro è maggiore che quello delli altri uomini quando a questa proprietà naturale si aggiugne accidente per sé doloroso e lacrimoso; e nessuna cosa può accadere allo amante degna di più dolore e lacrime, che la perpetua privazione della cosa amata. Di qui si può presummere quanto dolore dessi la morte di colei a quelli che sommamente l'amavono, che ragionevolmente fu el maggiore che possi provare uno uomo.

 

È natura de' melancolici, come abbiamo detto essere gli amanti, nel dolore non cercare altro rimedio che accumulazione di dolore e avere in odio e fuggire ogni generazione di refriggerio e consolazione. E però, se qualche volta per rimedio di questo acerbissimo dolore si poneva inanzi agli occhi la morte, in quanto era fine di questa dolorosa passione era odiata da me; e tanto più doveva essere odiata, quanto la morte, per essere stata negli occhi di colei, si poteva stimare più dolce e più gentile, perché essendosi comunicata a una cosa gentilissima, di necessità participava di quella qualità che tanto copiosa aveva trovato in lei. E, pensando quanto per questo fussi fatta gentile la morte, credevo gli iddei inmortali dovere mutare sorte e ancora loro volere gustare la gentilezza della morte. E, se questo era, io, per mia natura desiderando solamente dolore e non gustare alcuna cosa dolce, per più mio dolore eleggevo seguitare questi rei anni della vita, acciò che 'l mio dolore fussi più diuturno e che gli occhi potessino più tempo piangere e il cuore più lungamente sospirare l'occaso, cioè la morte, del mio sole, gli occhi privati della loro dolcissima visione e il cuore d'ogni sua speranza e conforto; piangendo e sospirando in compagnia d'Amore, delle Grazie e delle Muse, a' quali è così conveniente il pianto e il dolore, come agli occhi e al cuore mio. Perché, come gli occhi e 'l cuore hanno perduto quello fine al quale da Amore erono suti ordinati e destinati, così Amore debba ancora lui piangere, perché aveva posto lo imperio e fine suo negli occhi di costei, e le Grazie tutti e doni e virtù loro nella sua bellezza, le Muse la gloria del loro coro in cantare le sue dignissime laude. Adunque convenientemente el pianto a tutti questi conviene; e chi non piangessi con questi, bisogna sia uomo al tutto sanza parte o d'amore o di grazia. E però ciascuno debba piangere, alcuni per non essere, altri per non parere almeno rebelli da tanta gentilezza.

 

Questi affetti arei voluto exprimere nel presente sonetto.

 

 

 

IV

 

In qual parte andrò io, ch'io non ti truovi,

trista memoria? In quale obscuro speco

fuggirò io, che sempre non sia meco,

trista memoria, che al mio mal sol giovi?                                     4

 

Se in prato lo qual germini fior' nuovi,

se all'ombra d'arbuscei verdi m'arreco,

veggo un corrente rivo, io piango seco.

Che cosa è, ch'e miei pianti non rinnuovi?                                   8

 

S'io torno all'infelice patrio nido,

tra mille cure questa in mezzo siede

del cor, che come suo consuma e rode.                                    11

 

Che debb'io fare omai, a che mi fido?

Lasso, che sol sperar posso merzede

da morte, che oramai troppo tardi ode!                                    14

 

Non si maraviglierà alcuno, il cuore del quale è suto acceso d'amoroso fuoco, trovando in questi versi diverse passioni e affetti molto l'uno all'altro contrarii, perché, non essendo amore altro che una gentile passione, sarebbe più presto maraviglia che uno amante avessi mai punto di quiete o vita uniforme. E però, se ne' nostri e negli altrui amorosi versi spesso si troverrà questa varietà e contradizione di cose, questo è privilegio degli amanti, sciolti da tutte qualitati umane, perché alcuna ragione non se ne può dire, né trovare modo o consiglio in quelle cose che solo la passione regge. Pare il presente sonetto molto contrario al precedente, perché come quello fugge ogni generazione di consolazione e pare si pasca e del presente dolore e della speranza d'averlo ancora maggiore, questo mostra avere cerco diverse ragioni di consolazione, e, se bene indarno, molte cose avere provato perché questa acerbissima memoria della morte di colei fuggissi dall'animo; e in fine mostra qualche desiderio della morte, dal quale el precedente è in tutto alieno.

 

Chi sente excessivo dolore, comunemente in due modi fa pruova di mitigarlo, cioè o che qualche cosa amena, dolce e piacevole adolcisca il dolore, o che qualche pensiero grave e importante lo cacci; e comunemente s'elegge prima quello rimedio che è più facile e dolce. E però, sentendo io l'acerbità di questa memoria, andavo cercando o qualche luogo solitario e ombroso o l'amenità di qualche verde prato (come ancora testifica il comento del secondo sonetto), o mi ponevo presso a qualche chiara e corrente acqua o all'ombra di qualche verde arbuscello. Ma a me interveniva come a quello che è agravato d'infermità, el quale, avendo corrotto il gusto, se bene diverse spezie di delicati cibi gli sono amministrati, di tutti cava un medesimo sapore, che converte la dolcezza di que' cibi in amaritudine. Così, quanto più letizia dovevano porgere al cuore mio queste cose diverse e amene, perché il gusto mio era corrotto e l'animo disposto a lacrime, tutte multiplicavono il dolore mio; e la memoria di colei, che in ogni luogo e tempo era presente, mi mostrava con molto maggiore amaritudine che l'ordinario tutte quelle cose. E se bene questa memoria era durissima e molesta, pure, come abbiamo detto dello infermo, el quale se bene e cibi tutti rapportono al gusto amaritudine, pure lo nutriscono e sono cagione che viva, così di questo amarissimo cibo della memoria sua si sostentava la mia vita. E, in effetto, contro a questo male nessuno migliore antidoto o rimedio si trovava che 'l male medesimo; né si poteva vincere quel pensiero se non col medesimo pensiero, perché altra dolcezza non restava al cuore che questa amarissima memoria: e però sola questa giovava al mio male. Essendo adunque necessario ricorrere al secondo rimedio, fuggivo di questi dilettevoli luoghi nel freto e tempesta delle civili occupazioni. Questo rimedio ancora era scarso, perché avendo quella gentilissima preso el dominio del mio cuore e una volta fattolo suo, tra tutti gli altri pensieri el pensiero e memoria di lei stava nel mezzo del cuore, e, a dispetto di tutte l'altre cure, come sua cosa se lo consumava: perché «cura» non vuole dire altro se non quella cosa che arde e consuma il cuore. E però, non potendo né con l'uno né con l'altro modo levarmi da tanta amaritudine e acerbità, non mi restava altro rimedio e speranza che quella della morte; la quale troppo tardi ode: che si può interpetrare così per non avere voluto prima udire e prieghi di tanti che a . llei desideravono la vita, come perché l'afflizzione sentita dopo la morte sua, non avendo altro rimedio che la morte, era sì grande, che ogni indugio e dilazione della morte, ancora che piccolo, pareva insopportabile.

 

 

 

[NUOVO ARGUMENTO]

 

Avendo absoluto la exposizione de' quattro precedenti sonetti et essendo quelli che seguono molto differenti, pare necessario, per maggiore dilucidazione, fare prima uno nuovo argumento, il quale sia comune a tutti li seguenti sonetti, acciò che si verifichi quello che di sopra abbiamo detto, cioè che la morte sia stata conveniente principio a questa nuova vita, come mi sforzerò di mostrare appresso.

 

Nascono tutti gli uomini con uno naturale appetito di felicità, e a questo, come a vero fine, tendono tutte le opere umane. Ma perché è molto difficile a conoscere che cosa sia felicità e in che consista, e se pure si conosce non è minore difficultà el poterla conseguire, dagli uomini per diverse vie si cerca. E però, dapoi che in genere e in confuso gli uomini questo si hanno proposto per fine, cominciano chi in uno e chi in uno altro modo a cercare di trovarlo; e così, da quella generalità ristrignendosi a qualche cosa propria e particulare, diversamente s'affaticano, ciascuno secondo la natura e disposizione sua: onde nasce la varietà delli studii umani e l'ornamento e maggiore perfezzione del mondo per la diversità delle cose, simile all'armonia e consonanzia che resulta di diverse voce concorde. E a questo fine forse Colui che mai non erra ha fatto obscura e difficile la via della perfezzione. E così si conosce l'opere nostre e la intelligenzia umana avere principio dalle cose più note, venendo da quelle alle manco note; né è dubio alcuno essere di più facile cognizione le cose in genere, che in spezie e particulare: dico, secondo il discorso dell'umana intelligenzia, la quale non può avere vera diffinizione d'alcuna cosa, se prima non procede la notizia universale di quella.

 

Fu adunque la vita e morte di colei che abbiamo detto, a me notizia universale di amore e cognizione in confuso che cosa fussi amorosa passione; per la quale universale cognizione divenni poi alla cognizione particulare della mia dolcissima e amorosa pena, come diremo appresso. Imperò che, essendo morta la donna che di sopra abbiamo detto, fu da me e laudata e deplorata nelli precedenti sonetti come publico danno e iattura comune, e fui mosso da uno dolore e compassione che molti e molti altri mosse nella città nostra, perché fu dolore molto universale e comune.

 

E se bene nelli precedenti sonetti sono scritte alcune cose che più tosto paiono da privata e grande passione dettate, mi sforzai, per meglio satisfare a me medesimo e a quelli che grandissima e privata passione avevono della sua morte, propormi inanzi agli occhi di avere ancora io perduto una carissima cosa, e introdurre nella mia fantasia tutti gli affetti che fussino atti a muovere me medesimo, per potere meglio muovere altri. E, stando in questa inmaginazione, cominciai meco medesimo a pensare quanto fussi dura la sorte più di quelli che assai avevono amato questa donna, e cercare con la mente se alcuna altra ne fussi nella città degna di tanto amore e laude. E, stimando che grandissima felicità e dolcezza fussi quella di colui, el quale o per ingegno o per fortuna avessi grazia di servire una tale donna, stetti qualche spazio di tempo cercando sempre e non trovando cosa che al giudicio mio fussi degna d'uno vero e constantissimo amore; et essendo già quasi fuora d'ogni speranza di poterla trovare, fece in uno punto più el caso che in tanto tempo non aveva fatto la exquisita diligenzia mia; e forse Amore, per mostrare a me meglio la sua potenzia, volle celarmi tanto bene in quello tempo che io più lo cercavo e disideravo, e concederlo a quello tempo quando al tutto me ne pareva essere disperato. Facevasi nella città nostra una publica festa, dove concorsono molti uomini e quasi tutte le giovane nobile e belle. A questa festa, quasi contro a mia voglia, credo per mio destino, mi condussi con alcuni compagni e amici miei, perché ero stato per qualche tempo assai alieno da simili feste, e, se pure qualche volta m'erono piaciute, procedeva più presto da una certa voglia ordinaria di fare come gli altri giovani, che da grande piacere che ne traessi. Era tra l'altre donne una agli occhi miei di somma bellezza e di sì dolci e attrattivi sembianti, che cominciai, veggendola, a dire: «Se questa fussi di quella dilicatezza, ingegno e modi che fu quella morta che abbiamo detta, certo in costei e la bellezza e vaghezza e forza degli occhi è molto maggiore». Dipoi, parlando con alcuno che di lei aveva qualche notizia, trovai molto bene rispondere gli affetti, non così a ciascuno comuni, a quello che la bellezza sua, e maxime gli occhi, mostravano; nelli quali si verificava molto bene quello che dice Dante in una sua canzona parlando degli occhi della donna sua: «Ella vi reca Amore come a suo loco». Veramente quando la natura gli creò, non fece solamente due occhi, ma il vero luogo dove stessi Amore e insieme la morte, o vero vita e 'n felicità degli uomini che fiso gli riguardassino, secondo che da loro fussino amati o odiati. Cominciai adunque in quel punto ad amare con tutto il cuore quella apparente bellezza; e di quello che non appariva, la oppinione e indizio che ne dava tanto dolce e peregrino aspetto mi fece nascere uno incredibile desiderio. E dove prima mi maravigliavo non trovando cosa che io giudicassi degna d'uno sincero amore, cominciai 'avere maggiore ammirazione, avendo veduto una donna che tanto excedesse la bellezza e grazia della sopra detta morta. E in effetto, tutto del suo amore acceso, mi sforzai diligentemente investigare quanto fussi gentile e accorta e in parole e in fatti; e in effetto trovai tanto excellente tutte le sue condizioni e parti, che molto difficilmente conoscere si poteva qual fussi maggiore bellezza in lei, o del corpo o dell'ingegno e animo suo.

 

Era la sua bellezza, come abbiamo detto, mirabile: di bella e conveniente grandezza; il colore delle carni bianco e non smorto, vivo e non acceso; l'aspetto suo grave e non superbo, dolce e piacevole, sanza leggerezza o viltà alcuna; gli occhi vivi e non mobili, e sanza alcuno segno o d'alterigia o di levità. Tutto il corpo sì bene proporzionato, che tra l'altre mostrava degnità, sanza alcuna cosa rozza o inetta; e nondimeno, e nello andare e nel ballare e nelle cose che è lecito alle donne d'operare il corpo, e in effetto in tutti li suoi moti, era elegante e avenente. Le mani, sopra tutte le altre che mai facessi natura, bellissime, come diremo sopra alcuni sonetti alli quali le sue mani hanno dato materia. Nello abito e portamenti suoi molto pulita e bene a proposito ornata, fuggendo però tutte quelle fogge che a nobile e gentile donna si sconvengono e servando la degnità e gravità. Il parlare dolcissimo veramente, pieno d'acute e buone sentenzie, come faremo intendere nel processo, perché alcune parole e sottili inquisizioni sue hanno fatto argumento a certi delli miei sonetti. Parlava a tempo, breve e conciso, né si poteva nelle sue parole o disiderare o levare; li motti e facezie sue erono argute e salse e, sanza offensione però d'alcuno, dolcemente mordente. Lo ingegno veramente maraviglioso, assai più che a donna non si conviene; e questo però sanza fasto o presunzione, e fuggendo uno certo vizio che si suole trovare nella maggiore parte delle donne, alle quali parendo intendere assai, diventano insopportabili, volendo giudicare ogni cosa, che vulgarmente le chiamiamo «saccente». Era prontissima d'ingegno, tanto che molte volte o per una sola parola o per uno piccolo cenno comprendeva l'animo altrui; nelli modi suoi dolce e piacevole oltre a modo, non vi mescolando però alcuna cosa molle o che provocassi altri ad alcuno poco laudabile effetto; in qualunque sua cosa saggia e accorta e circunspetta, fuggendo però ogni segno di callidità o di duplicità, né dando alcuna suspizio ne di poca constanzia o fede. Sarebbe più lunga la narrazione di tutte le sue excellentissime parti che il presente comento; e però con una parola concluderemo il tutto e veramente affermeremo nessuna cosa potersi in una bella e gentil donna desiderare, che in lei copiosamente non fussi.

 

Queste excellentissime condizioni m'avevono in modo legato, che non avevo o pensiero o membro più che fussi in sua libertà. E posso dire, quanto agli occhi miei, che quella morta di chi abbiamo detto fussi la stella di Venere, da' Latini Lucïfer chiamata, la quale, precedendo il sole, venendo poi quello maggiore lume, cede e al tutto si spegne, quasi come se fussi ordinata per advertire gli uomini che il sole viene, e non per dare luce al mondo. Muore e spegnesi questa stella sopravenendo lo splendore del sole, e nondimeno è chiamata Lucifer, che vuol dire una cosa che porta seco luce, la quale luce non porta nel mondo se non quando si spegne la luce sua; parve adunque ancora a' Latini la morte di questa stella vita e principio della luce del giorno. Adunque con queste auttorità ancora si verifica la morte di quella essere suto conveniente principio a questo giorno, che fece agli occhi miei el nuovo sole degli occhi di colei; la quale se bene abbiamo molto laudata, le laude non aggiungono però alla excellenzia e meriti suoi. Mostrommi il morto Lucifer che presto doveva venire questo mio novello sole, e, come abbiamo detto, scòrse el cammino mio cieco alla visione di questo tanto splendore; e, poi che ebbe assuefatti gli occhi miei a vedere lo splendore della sua stella, cioè splendore celeste, sentendo il sole sopravenire si spense, e io, che per lei avevo cominciato a voltare gli occhi in cielo, con manco offensione della vista mia gli pote' traducere dal lume della stella allo splendore del sole.

 

 

 

V

 

Lasso a me!, quando io son là dove sia

quello angelico, altero e dolce volto:

il freddo sangue intorno al core accolto

lascia sanza color la faccia mia.                                                  4

 

Poi, mirando la sua, mi par sì pia,

che io prendo ardire e torna il valor tolto:

Amor, ne' raggi de' belli occhi involto,

mostra al mio tristo cor la cieca via.                                            8

 

E parlandoli allor dice: – Io ti giuro

pel santo lume di questi occhi belli,

del mio stral forza e del mio regno onore,                                 11

 

ch'io sarò sempre teco, e te assicuro

esser vera pietà che mostran quelli –.

Credeli, lasso!, e da me fugge il core.                                       14

 

Era, come abbiamo detto, il mio cuore tutto acceso e infiammato della biltà e gentilezza di questa mia donna, e se alcuna parte restava in me che non consentisse coll'altre, ne era cagione il dubbio che avevo che con tanta bellezza e gentilissimi modi non fusse congiunta qualche durezza e poca pietà; perché sapevo già quanto era grande il disio, e aspettavone grandissima passione e insopportabile tormento quando in questa mia gentilissima non fussi stata pietà. Questo sospetto teneva ancora in me il mio cuore, né lo lasciava assicurare al partire. E però se mi trovavo alla presenzia di lei, el viso suo, veramente angelico, pareva al cuore dolce e altero: dolce perché così veramente era, altero gliele faceva parere el dubbio già detto della poca pietà. E però prima diventavo tutto pallido, perché el cuore, essendo già acceso e avendo il dubbio che di sopra abbiamo detto, non poteva fare che sommamente non temessi. Di questo suo timore nasceva in lui affanno, e però li spiriti vitali, correndo per soccorrere al cuore, lasciavono la faccia mia sanza colore, pallida e smorta; e insieme con li spiriti, come ha ordinato la natura, assai copia di sangue intorno al cuore conveniva. Questo generava in quel luogo caldo assai più che l'usato; né potendo tanto caldo essalare, per essere piccolo lo spazio a tanta quantità, ne nasceva quasi una suffocazione di quelli spiriti e sangue: onde era constretto, non potendo essalare, il sangue a mortificarsi e raffredarsi, come mostra la experienzia in quelli che per paura muoiono, alli quali si truova intorno al cuore quantità di sangue coagulato e freddo, ancora che nell'altre sue membra resti qualche qualità di caldo. Ma poi, rimirando la faccia sua, parendomi vi fussi tanti segni di pietà, il cuore poneva da parte la paura e ripigliava qualche ardire; e per questo li spiriti vitali ritornavono al luogo onde prima erono partiti, e con loro tornava il valore e colore prima perduto. E tanto più, perché, guardando negli occhi suoi, vedevo Amore involto ne' raggi di quelli belli occhi e mostrandoli la via come potessi fuggire da me nelli occhi della donna mia; la quale via si può dire cieca, perché il cuore non aveva però certezza alcuna se non per le parole d'Amore, e però camminava per tenebre e in dubbio di sé medesimo: e tanto più, perché Amore, el quale era sua scorta a quello cammino, ancora lui si dipigne cieco. E acciò che 'l mio cuore gli dessi più fede, giura per li occhi della mia donna essere vera la pietà che quelli mostrano di fuora, e oltre a questo di stare sempre in compagnia del cuore mio, perché dove concorre pietà e amore non può essere sospetto o timore al cuore mio. E giurando Amore per li occhi di colei, non può fare più efficace giuramento, perché «giuramento» non è altro che producere per testimonio di quello che tu affermi quella cosa per la quale giuri: perché, chi giura, verbi gratia, per Giove, vuole che Giove sia testimonio e quasi fideiussore della observanzia di quella cosa, e chi rompe uno sacramento e diventa periuro, offende la prima cosa e vilipende quello per chi ha giurato. Avendo adunque Amore giurato per li occhi della donna mia, e subiungendo che gli occhi suoi sono l'onore e forza sua, doveva il cuore credere ad Amore, perché non è da presummere volessi ingannare o provocarsi inimici quelli occhi, nelli quali era posto l'onore e forza sua. E però non errò il cuore mio credendogli: e abbandonatamente lasciò el mio petto e se n'andò in quelli splendidissimi e amorosi occhi.

 

 

 

VI

 

Spesso mi torna a mente, anzi già mai

si può partir della memoria mia,

l'abito e il tempo e il loco dove pria

la mia donna gentil fiso mirai.                                                      4

 

Quel che paressi allora, Amor, tu il sai,

che con lei sempre fusti in compagnia:

quanto vaga, gentil, leggiadra e pia,

né si può dir né imaginare assai.                                                  8

 

Quando sopra i nivosi et alti monti

Apollo spande il suo bel lume adorno,

tali e crin' suoi sopra la bianca gonna.                                       11

 

El tempo e 'l loco non convien ch'io conti,

ché dove è sì bel sole è sempre giorno

e paradiso ove è sì bella donna.                                                14

 

Sogliono le prime impressioni nelle menti degli uomini essere molto veemente, e pare cosa molto conforme alla ragione che così sia. Perché, essendo la mente nostra per natura ordinata a ricevere diverse impressioni e con questo naturale appetito di non stare vacua, fa come uno assetato, el quale spegne la sete con la prima cosa che gli occorre atta ad extinguerla, e tanto più volentieri lo fa, quanto è più quella tal cosa dolce al gusto; per questa ragione, secondo Platone, quelli che sono di te nera età hanno più tenace memoria, perché quelle cose che loro imparano, come prime e nuove impressioni meglio si riservano nella memoria.

 

Essendo adunque già assicurato da Amore il mio cuore e già da me fuggito, nessuna cosa molesta restava nel pensiero, parendomi già vedere indizii assai certi della futura pietà nella donna mia. Questo generava in me grandissima speranza e dolcezza; e perché naturalmente s'appetisce quello che piace, quando non può essere presente la memoria e il pensiero ce lo rappresenta, e più volentieri quelle cose che sono sute prime, come principio e cagione di quello bene che sente la mente. Erano adunque nella memoria mia quasi perpetualmente presenti lo abito, del quale era adorna la mia donna, e il luogo e 'l tempo quando prima fiso mirai negli occhi suoi, cioè quando, già acceso dello amore suo, con somma delettazione la guardai: perché il mirar fiso non procede se non da due cagioni, cioè o per conoscere bene quella tale cosa che si guarda, o per grande delettazione che si piglia guardandola. Cessava in me la prima cagione, perché già conoscevo la bellezza e forza degli occhi suoi; restava adunque solamente il diletto, cagione del mio mirare fiso. E io, se bene per altri tempi avevo veduto gli occhi suoi, non avendo ancora avuto grazia di conoscerli, non gli avevo mirati fiso; e quando prima gli mirai fiso fu dopo la cognizione di tanto bene, dopo la quale inmediate e necessariamente tutto di loro m'accesi: perché prima procede la cognizione e poi lo amore. Quello che paressi agli occhi miei era a me molto difficile o inmaginare o referire, perché le bellezze sue, come dice Dante, «soverchiono lo nostro intelletto, come raggio di sole in fraile viso»; e però quello che era impossibile a me lasciai ' Amore, il quale, stando sempre con lei e abitando (come abbiamo detto) negli occhi suoi, e meglio conoscere e più absolutamente exprimere poteva tanta excellenzia. E, oltre a questo, proponendo io che la sua bellezza, leggiadria, gentilezza e pietà erono cose impossibile o a narrare o a inmaginare, e parendo questo a chi legge mirabile e quasi impossibile, pare molto conveniente producere in fede di questo uno testimonio autentico; e nessuno è migliore testimonio che Amore, maxime sendo suto presente, e ancora merita essere creduto da quelli almanco che li sono stati subietti, e quali, come nel proemio dicemmo, bisogna che sieno animi alti e gentili, appresso li quali basta simili amorosi miracoli avere fede; e se fuora di questo numero non fussino creduti, non è bene che e cuori rozzi e villani e rebelli da Amore gustino tanta gentilezza.

 

Avendo adunque in genere detto della excellenzia di costei e quanto nel primo aspetto paressi bella, gentile e pia, parve da fare menzione delle tre cose proposte nel principio del sonetto, cioè l'abito e 'l tempo e 'l loco. E però, quanto allo abito, ancora che sia minore la comparazione che la excellenzia di lei, essendo vestita tutta di bianco e mostrando in su quel campo e suoi aurei capelli, mi parve conveniente assimigliarli a' raggi del sole quando si spandono sopra a uno monte di candida neve, perché né meno candida cosa coprivano e capelli che sia la neve, né manco splendore avevono e capelli che li raggi del sole; e se e capelli erono tanto lucenti, molto più erono gli occhi. E però, quanto al tempo, non è dubbio che era giorno, el quale almeno faceva il sole degli occhi suoi. E, dato che questo fussi, il luogo di necessità era paradiso, perché dove era tanto splendore, bellezza e pietà, certamente si può dire paradiso; el quale paradiso, chi vuole rettamente diffinire, non vuole dire altro che uno giardino amenissimo, abundante di tutte le cose piacevoli e dilettevoli, d'arbori, di pomi, di fiori, e acque vive e correnti, canti d'uccelli, e in effetto di tutte le amenità che può pensare el cuore dell'uomo. E per questo si verifica che paradiso era ove era sì bella donna, perché quivi era copia d'ogni amenità e dolcezza che uno gentile cuore può disiderare.

 

 

 

VII

 

Occhi, voi siate pur dentro al mio core

e vedete il tormento ch'ei sostiene

e la sua intera fé: dunque, onde adviene

che madonna non cura il suo dolore?                                          4

 

Tornate a·llei, e con voi venga Amore,

testimone ancor lui di tante pene;

dite che resta al cor sol questa spene

de' prieghi vostri, e se invan fia, si more.                                     8

 

Portate a·llei i miseri lamenti.

Ma, lasso, quanto è folle il mio disio,

ché 'l cor non vive sanza gli occhi belli!                                     11

 

O occhi, refrigerio a' miei tormenti,

deh, ritornate al misero cor mio!

Amor sol vadi, e lui per me favelli.                                            14

 

Era già per li occhi miei discesa al cuore la imagine della bellezza di costei, e gli occhi suoi avevono fatto in esso tale impressione, che sempre gli erono presenti; e Amore, il quale abbiamo detto sempre con loro abitava, se n'era ancora lui in compagnia di quelli occhi venuto. Il cuore per questo era di tante fiamme circundato, che li pareva impossibile assopportare lo affanno che dal suo ardente desiderio nasceva; e, pensando quale migliore remedio potessi a questo male opporre, nessuna cosa gli occorse di maggiore efficacia che fare intendere la sua dolorosa condizione e miserabile stato alla donna mia, la quale sola poteva, come sola cagione di tanta pena, sollevarlo. Pareva in questo caso necessario eleggere nunzio e messaggero che avessi due condizioni: una, che fussi grato a colei a cui era mandato, perché avendo a riportare grazia, più facilmente si poteva per mezzo di graziosa persona; l'altra, che chi andava, oltre a essere bene informato della miseria in che si trovava il cuore, fussi creduto da·llei, acciò che la verità della pena più facilmente movessi la pietà. E però fece il cuore concetto di pregare gli occhi della donna mia, e quali, essendo in lui, vedevano il suo grande tormento, che andassino a referirlo a·llei; e in compagnia di loro Amore, acciò che, multiplicati li intercessori e il numero de' testimoni del male suo, più facilmente s'impetrasse grazia per questi graziosi messi: perché nessuno doveva essere alla donna mia o più grato o più creduto che Amore e gli occhi suoi medesimi. Erono testimoni quelli occhi, e Amore con loro, della pena del cuore e ancora della intera sua fede, non superata dalla grandezza de' martirii, e credeva per questo il cuore che a·llei dovessi essere noto lo stato suo; e, come nel processo del sonetto si vede, era in grande errore, perché non potendo vivere il cuore sanza quelli occhi et essendo vivo quando mandava questi nunzii, per le parole sue medesime si comprende che quelli occhi mai s'erano partiti dal cuore mio. E però, quando il cuore dice: «Tornate a·llei», presupponendo quasi che altre volte si fussino partiti, si vede che il cuore per la passione erra; come ancora mostra maravigliandosi lui che madonna non curi il suo dolore, presupponendo gli sia noto. Prega adunque il cuore questi due nunzii che vadino a placare la durezza della donna mia, come unico refugio e sola speranza della sua salute. E chi legge bisogna presupponga che già gli occhi e Amore erano in cammino per partirsi, quando il cuore, accortosi dello errore suo e che impossibile gli era a vivere sanza quegli occhi, gli richiamò indrieto, pregandogli che restino con lui e commettendo che Amore solo andassi e pregassi per lui. Una passione amorosa in dua modi si può levare dal cuore, cioè o con dimenticare la cosa amata o col placarla. Tentò il cuore mio l'una e l'altra via, e volendo cacciare da sé gli occhi di colei, fece experienzia di metterla in oblivione, perché non è nel cuore quella cosa di che altri non si ricorda. Tentò questo remedio invano, e però ricorse al secondo, cioè di placarla; questo non si può fare se non per mezzo d'Amore, né poteva nascere pietà nella donna mia se Amore non era con lei insieme con la certezza della pena e fede del cuore, perché l'amore, la pena e la fede sono quelle cose che muovono la pietà.

 

Parla adunque il presente sonetto agli occhi della donna mia, che erano continui assistenti al cuore.

 

 

 

VIII

 

Quel che il proprio valore e forza excede,

folle è sperare o disïar d'avere.

Se alcun tien l'occhio fisso per vedere

il sol, né quel né altra cosa vede.                                                4

 

Se gli è vero il pensier d'alcun che il crede,

l'alta armonia delle celeste spere

vince i mortali orecchi; né volere

si dee quel che altri con suo danno chiede.                                  8

 

Ah, folle mio pensier!, perché pur vuole

giugner pietate alle bellezze oneste

della mia donna, agli occhi, alle parole.                                     11

 

Suo parlar men che l'armonia celeste

non vince, o il guardo offende men che il sole:

or pensa se pietà si aggiugne a queste!                                      14

 

Adviene spesse volte agli uomini che desiderano quello che sarebbe loro gravissimo danno e sperano ottenere quelle cose che sono impossibili a conseguire, mossi da presunzione e ignoranzia, la quale secondo e filosofi è madre di tutti e mali. Questo difetto più spesso si ritruova in quelli che sono posti in maggiore desiderio e passione, nelli quali la afflizzione e la pena è sì grande, che ogni desperata via tentano per liberarsene. Questo tale errore si nota per lo sopra scritto sonetto, el quale prima propone quanto sia grave inconveniente o desiderare o sperare di avere quelle cose che excedono le forze nostre e alle quali la natura nostra non è proporzionata, per essere assai inferiore e meno degna, subiungendo due essempli in confermazione di questa verità. El primo contro a quelli occhi che presumono guardare verso il sole, e quali non solamente non lo possono vedere, ma pèrdono per quello la visione dell'altre cose; l'altro essemplo è degli orecchi, e quali non sono sufficienti a potere udire l'armonia delle spere celesti. E per chiarire meglio questa parte è da intendere essere suto oppinione di alcuni filosofi, la quale mette Cicerone nel suo libro intitolato De somnio Scipionis, che il moto delle celeste spere generi diverse voci secondo la diversità de' moti, più veloce o più tarda, e di tutti insieme una dolcissima armonia, di tanta grande voce e suono, che gli orecchi umani non sono sufficienti a udire, come gli occhi mortali non possono vedere il sole; dando per essemplo che quelli uomini e quali nascono vicini alle cateratte del Nilo, cioè dove quello grande fiume d'altissimi monti cade in basso, per lo strepito e romore grande tutti sono sordi. Questa oppinione, non essendo molto aprovata, ancora da me non è messa per certa, e però dissi: «Se gli è vero il pensiero d'alcun che il crede». Da queste comparazioni degli occhi e degli orecchi umani non proporzionati a potere vedere il sole o udire l'armonia predetta, vengo poi a mostrare lo errore degli occhi e degli orecchi miei, e quali sono suti presuntuosi, gli occhi a guardare il sole della donna mia, gli orecchi a udire l'armonia dolcissima delle parole sue. E, se questo è grave errore, molto maggiore è quello del pensiero mio e molto maggiore presunzione, desiderando che s'agiunga pietà, cioè tanto maggiore forza, alle bellezze della donna mia; le quali se erano insopportabili alli miei frali e umili sensi sanza questa pietà, si può pensare quanto el pensiero mio desideri contro a sé, volendo agiugnere forza alla offesa sua.

 

Pare molto conveniente alla presente materia fare intendere la cagione per che si fa solamente menzione del pensiero, degli occhi e degli orecchi, e non d'altra forza o senso; e però diremo apresso da che cagione mossi abbiamo fatto questo. Secondo li Platonici tre sono le spezie della vera e laudabile bellezza, cioè bellezza d'anima, di corpo e di voce. Quella dell'anima può solamente conoscere e appetire la mente, quella del corpo solamente diletta gli occhi, quella della voce gli orecchi; e diletti degli altri sensi fuora di questi, come vili e non convenienti ad animo gentile, sono repudiati. Pel pensiero adunque s'intende la mente, la quale ha per obietto la bellezza dell'anima, la quale consiste nella perfezzione che dalla virtù gli viene; et è più e manco bella, e di più e manco bellezza è ornata, secondo che è accompagnata da più virtù, così in numero come in quantità e perfezzione d'esse. La bellezza del corpo e grazia d'esso pare che proceda dall'essere bene proporzionato, di grazioso aspetto, e in effetto da una certa venustà e leggiadria, la quale qualche volta piace non tanto per la perfezzione e buona proporzione del corpo, quanto per una certa conformità che ha con li occhi ai quali piace, che dal cielo o dalla natura procede: e tutto questo è obbietto e iudizio degli occhi. La terza bellezza, della voce, consiste quando di più voce concorde resulta uno concento che si chiama armonia; e questo può procedere così da diverse voce, come è detto, come da una dolcezza e suavità di parole insieme bene connesse e accomodate, le quali ancora non possono essere così composte sanza armonia.

 

Tutta questa bellezza solamente agli orecchi si riferisce. E per questo solamente questi tre modi abbiamo posti a conoscere la donna mia: imperò che per quella pietà che 'l mio pensiero desiderava in lei bisogna intendere la bellezza delle virtù e dote dell'anima della donna mia, desiderate dalla nostra mente (perché la pietà è opera degnissima dell'anima mossa da iustizia, perché, essendo posta in anima ragionevole, sanza qualche parte di merito non si muove); per li occhi suoi la bellezza del corpo, dagli occhi miei amata; per le parole sue, che vincono l'armonia celeste, si tocca la terza bellezza, della voce e dell'armonia, alla quale solo gli orecchi miei stavono intenti. Perché copiosamente queste tre bellezze erano in questa gentilissima, bellissima e dolcissima donna, la quale è a me cara sopra ogni cosa.

 

 

 

IX

 

Occhi, io sospiro come vuole Amore

e voi avete per mio mal diletto;

sempre ardo, né già mai giugne allo effetto

qual più disia lo inveterato ardore.                                              4

 

Ma voi sentite ben pel mio dolore,

perché mirate il più gentile obietto

che aver possiate: al vostro ben perfetto

vi conduce la doglia di me, cuore.                                               8

 

Se pur piangete, io son quel che distillo

alquanto del mio mal per la via vostra;

né il ben vi toglie il cor, quando si duole.                                   11

 

Pregate meco Amor che sia tranquillo,

qual se benigno il chiaro obietto mostra,

quanto sarà più bello il vostro sole!                                           14

 

Se gli è vera quella diffinizione d'amore che nel proemio abbiamo detto, molto bene ancora si verifica il proposito e intenzione del presente sonetto, la quale è di provare per evidente ragioni che il cuore acceso d'amore già mai ha pace, e gli occhi dello inamorato tanto sono più felici, quanto il cuore ha maggiore tormento. La diffinizione che abbiamo detta d'amore è che amore sia desiderio di bellezza; e, se questo è, molto veramente si può dire amore non possedere quella bellezza che desidera, perché se la possedessi el desiderio d'essa sarebbe invano, perché non si può desiderare quello di che altri ha copia. E però diremo altra cosa essere amore, altra cosa essere il fine che lo muove, perché lo amore desidera et è mosso da uno fine che si chiama felicità e beatitudine, la quale consiste nel congiugnersi con quella bellezza che lo amore appetisce e con essa inseparabilmente stare; e insino a tanto che a questo fine di beatitudine non si perviene, amore non solamente non è bene, anzi è pena e tormento insopportabile, più e manco secondo la grandezza dello amore. E però, presupponendo che il cuore non sia pervenuto alla perfezzione di questa beatitudine e dolcezza, bisogna confessare il cuore sia gravemente tormentato, perché il cuore ha per obbietto quella beatitudine della quale è privato. Ma gli occhi, l'officio de' quali è vedere, tanto sono più felici, quanto veggono cosa più bella, e ciascuna cosa tanto pare agli occhi più bella, quanto è maggiore lo amore, cioè il desiderio del cuore; perché se lo amore è grande, necessariamente conviene che la bellezza o sia o paia agli occhi grande, altrimenti non sarebbe amore, cioè il desiderio della bellezza. Adunque si conclude per una medesima cagione gli occhi essere tanto più felici quanto il cuore è più misero: pigliando questi termini largamente, cioè il cuore come sede e luogo della concupiscibile, cioè nel quale nascono tutti e desideri, e gli occhi non in quanto sono senso, perché come senso proprio et exteriore non possono giudicare la bellezza d'una cosa o d'un'altra; e però bisogna per li occhi intendere l'operazione dell'anima nostra, che opera mediante gli occhi, e quel contento e piacere che sente per mezzo dello strumento degli occhi, quando per rapporto loro giudica una cosa bella e piglia per questo consolazione e conforto.

 

Parla adunque nel presente sonetto il cuore agli occhi miei, mostrando l'afflizzione e miseria in che si truova, come vuole Amore, e il diletto che pel male suo sentono gli occhi, mostrando prima il male suo e poi il loro diletto. La miseria del cuore è questa: che lui sempre desidera quello che non possiede, né agiugne a quello effetto e fine il quale lui più brama e desia d'uno desio antiquo e inveterato. Ma gli occhi non solamente veggono l'obbietto loro, cioè gli occhi e la bellezza della donna mia, ma veggono la più bella et excellente cosa che possino vedere, cioè la donna mia, perché nessuna cosa può tanto desiderare il cuore quanto lei; e dal desiderio suo nasce la maggiore bellezza della donna mia, la quale è tanto più bella e perfetta, quanto è maggiore la doglia del cuore, cioè il desiderio d'essa, per le cagioni che abbiamo dette. Risponde dipoi a una tacita contradizione che li potria essere fatta, cioè che gli occhi qualche volta ancora loro piangono, e questo pare contro alla felicità la quale il cuore afferma essere negli occhi e però dice che, se pure gli occhi piangono, questo non procede per cagione d'alcuna pena loro, ma dal dolore e desiderio del cuore, il quale per la via delle lacrime sfoga una parte del suo dolore. Poi, rivoltatosi a·lloro, gli priega che loro prieghino Amore che faccia pietosa la donna mia; e a questo gli debbe muovere non solamente la compassione della miseria del cuore, ma ancora la speranza di maggiore bene degli occhi, perché, agiugnendosi pietà nella donna mia, Amore sarà tranquillo, cioè il desiderio della bellezza già sarà adempiuto, né più molesterà il cuore; e in questo caso il sole, cioè gli occhi e bellezza della donna mia, sarà molto più bello agli occhi, e tanto più bellezza vedranno quanto la pietà la farà maggiore. Pare molto conveniente, in confermazione di quello che abbiamo detto, che il cuore sia cagione delle lacrime, narrare come naturalmente le lacrime procedino più tosto dal cuore che dagli occhi e intendere che cagione muove le lacrime, come diremo appresso. Secondo e fisici, nel cuore nascono tutte le perturbazioni, d'allegrezza, di dolore, d'ira, di speranza e di timore, e qualunque altra passione; le quali tutte, così nate nel cuore, per una certa conleganzia e conformità che è tra il cuore e il cervello, subito al cervello sono comunicate. Onde adviene che quando si comunica con lui o dolore o letizia, el cervello, oppresso o vero compresso da alcuna di queste passioni, quasi in sé medesimo si ristringe; et essendo per natura umido e ristringendosi in guisa d'una spugna piena d'acqua, distilla per li occhi una parte di quella umidità, e così genera lacrime, le quali sono più abundante in uno che in un altro, secondo che il cervello è più o manco umido o secco. È cosa manifesta che ancora si piange così per allegrezza come per dolore; ma, secondo Aristotile, questa differenzia hanno le lacrime che procedono da letizia da quelle che vengono da dolore, che le lacrime liete sono fredde, le dolorose più calde; e ne assegna questa ragione: l'allegrezza e il dolore, per essere diverse passioni, fanno molti diversi effetti, perché l'allegrezza dilata e fa più rari li spiriti vitali, il dolore gli ristrigne; dove concorre maggiore numero di spiriti, di necessità è maggiore copia di caldo, e così e contra; onde nasce la differenzia delle lacrime calde e fredde, che nascono o da dolore o da letizia. Concludesi per questo le lacrime avere due cagioni, l'una la passione del cuore, l'altra la distillazione della umidità che fa il cervello, e per questo gli occhi più tosto essere via che cagione delle lacrime.

 

 

 

X

 

Se tra li altri sospir' che escon di fore

del petto, come vuol mia dura sorte,

Amor qualcun ne mischia, par che porte

dolcezza alli altri e riconforti il core.                                            4

 

Quel viso, che col vago suo splendore

ha già li spirti e le mie forze extorte

più volte delle avare man' di morte,

ancora aiuta l'alma, che non more.                                              8

 

Fortuna invìda vede quei sospiri

che manda Amor dal core, e li comporta,

credendo che si arroga a' miei martìri.                                       11

 

Così la inganno e fòlla manco accorta,

se advien che Amore a lacrimar mi tiri;

né sa quanta dolcezza il pianto porta.                                        14

 

Promettemmo nel proemio, quando venissimo alla exposizione del presente sonetto, narrare quanto fussi grande e maligna la persecuzione che io sopportai in quel tempo e dalla fortuna e dagli uomini; e nondimeno, sono in disposizione passarmene molto brievemente, per fuggire el nome di superbo e vanaglorioso, imperò che il narrare e proprii e gravi pericoli difficilmente si fa sanza presunzione o vanagloria. E questo credo proceda ché, quando uno legno di turbolentissima tempesta dopo molti pericoli e paure si riduce nella tranquillità del porto, el più delle volte el nocchiere e governatore d'esso più tosto alla propria virtù lo atribuisce che ad alcuna benignità della fortuna; e acciò che la virtù sua paia tanto maggiore, accresce tanto più il pericolo passato, e spesse volte fuora della verità, acciò che della virtù sua ancora si creda più che non è il vero. Questo medesimo essemplo seguitando, li medici della età nostra sempre fanno il pericolo dello infermo assai maggiore ch'e' non è, mettendo spesse volte dubbio di morte in quelli nelli quali la salute quasi manifesta si vede: perché, sopravenendo pure la morte, la colpa sia più tosto della natura che della cura; venendo la salute, la cura e opera si mostri tanto più efficace. E però, brevemente, diremo la persecuzione essere suta gravissima, perché li persecutori erano uomini potentissimi, di grande auttorità e ingegno e in disposizione e proposito fermo della mia intera ruina e desolazione, come mostra avere tentato tutte le vie possibili a nuocere a uno. Io, contro a chi venivano queste cose, ero giovane, privato e sanza alcuno consiglio o aiuto se non quello che dì per dì la divina benignità e clemenzia mi ministrava. Ero redutto a quello che, essendo a uno medesimo tempo nell'anima con excomunicazione, nelle facultà con rapine, nello stato con diversi ingegni, nella famiglia e figliuoli con nuovo trattato e macchinazione, nella vita con frequenti insidie persequitato, mi saria suto non piccola grazia la morte, molto minor male allo appetito mio che alcuno di quelli altri. Essendo adunque in questa obscurità di fortuna posto, tra tante tenebre qualche volta pure luceva lo amoroso raggio, talora gli occhi, talora il pensiero della donna mia; la quale dolcezza e refriggerio traeva la vita mia delle mani della morte, ancora che la fortuna non s'accorgesse di questo mio refriggerio, perché non discerneva bene gli amorosi sospiri da quelli che procedevano da lei. E però dico che, quando Amore mescolava alcuno de' suoi sospiri tra quelli che mi dava la mia adversa fortuna e dura sorte, gli amorosi adolcivono e mitigavono quelli altri e riconfortavono il cuore; e se adveniva qualche volta che vedessi il viso della donna mia, come altre volte aveva extorto delle mani avare di morte li spiriti e forze mie, al presente ancora difendeva contro alla morte l'anima mia. Et «extorta» non vuole dire altro che una cosa che è tolta a uno a suo dispetto; e la morte è veramente avara, perché maggiore avarizia non può essere che di colui il quale vuole il tutto per sé, come la morte vuole ogni mortal cosa. Subiunge poi che, veggendo la fortuna, inimica e invidiosa d'ogni mio bene, quelli sospiri che Amore mandava dal cuore, non gli conosceva per amorosi, ma, credendo procedessino dalla mia mala sorte e persecuzione predetta, gli comportava, non credendo mi portassino dolcezza, ma che si arrogessi tanto più al mio male e che la pena mia fussi tanto maggiore. E io, accorgendomi dello inganno della fortuna, per ingannarla tanto meglio, qualche volta, come Amore voleva, piangevo e mi lamentavo, e tanto manco poteva intendere la fortuna la dolcezza e de' sospiri e de' pianti miei. Con questa arte adunque, per virtù di quelli belli occhi e d'Amore, qualche volta sentivo qualche refriggerio e dolcezza, la quale non arei sentita se·lla fortuna se ne fussi accorta.

 

 

 

XI

 

Se il fortunato cor, quando è più presso

a voi, madonna mia, talor sospira,

non s'incolpi di ciò disdegno o ira

o päura o dolor, lo qual sia in esso;                                            4

 

ma la dolcezza che Amor li ha concesso

ciascun spirto disvia e a sé il tira,

tal che alcun refrigerio più non spira

al cor, che arde oblïato di sé stesso.                                           8

 

Amor vede, se presto non soccorre,

per soverchia dolcezza il cor perire,

e i vaghi spirti al suo soccorso chiama.                                      11

 

Ciascun per obedirlo pronto corre:

così crëan talor qualche sospire,

per refrigerio a quel che morir brama.                                       14

 

Io vorrei avere o tal forza di parole o tanta fede apresso degli uomini, che potessi bene exprimere e fare credere la excellenzia della donna mia, perché a·llei sarebbe onore e io fuggirei qualche pericolo d'essere stimato poco veritiero; ma non potendo né exprimere né mostrare gli occhi e le bellezze sue, perché, secondo il comune uso, forse quello che è virtù a incarico sarebbe atribuito, almanco mi sforzerò in qualche parte mostrare la gentilezza dello ingegno suo, narrando alcuno delli suoi motti, e questi, al mio parere, molto più alti e sottili che a donna non si conviene. E perché dinanzi abbiamo detto che le parole e quesiti suoi qualche volta hanno dato argumento a' nostri versi, el presente sonetto è uno d'essi, come faremo intendere apresso.

 

Ero assai vicino agli occhi suoi, per modo che da presso e quelli e l'altre bellezze potevo vedere; e guardando fiso in essi, tutto acceso già di speranza e pieno di dolcezza, qualche volta con profondi sospiri sospiravo.

 

Questa gentilissima, alla quale già era noto il desiderio e stato del cuore mio, con dolcissime parole mi domandò come io ero contento e come stavo; e rispondendo io che più contento non potevo essere, né il cuore in maggiore dolcezza, ella subiunse: – Donde procedono adunque questi tuoi sospiri? – Io, e per timidità e perché e la bellezza e le parole avevono quasi trattomi di me stesso, non potei per allora rispondere altro; ma, partitomi dipoi da lei, feci il presente sonetto, nel quale mi sforzai mettere le cagioni naturali onde procedono e sospiri. E fatto questo sonetto in risposta di quella gentilissima donna: e però parla alla donna mia e dice che se 'l mio cuore fortunato, cioè felice e contento (perché «fortunato» non vuole dire altro che quello el quale ha prospera fortuna), sospira in quel tempo quando è più presso alla donna mia, cioè agiunto alla sua beatitudine, non n'è cagione alcuna perturbazione o cosa che l'offenda, come sarebbe sdegno, ira, dolore o paura; ma, volendo intendere meglio il vero, ne è cagione la dolcezza che lui sente, la quale è sì grande, che tiene occupate tutte le forze e spiriti vitali e gli svia dal loro officio naturale alla fruizione di quella dolcezza. Essendo adunque tutti li spiriti attenti a questo, bisogna cessino le operazioni naturali che per mezzo loro si fanno. Tra l'altre operazioni naturali è ancora el respirare, o vogliamo dire alitare, el quale ancora s'intermette per quello abbiamo detto; di qui nasce che al cuore manca el suo usato refriggerio, perché, essendo el cuore di natura caldo, e ancora per el concorso delli spiriti molto più acceso, si suffocherebbe e morrebbe se non si rinfrescassi per mezzo di quella aria, la quale aria per quello alito continuamente si rinuova e rinfresca. Di questo nasce che Amore, veggendo el cuore mio in tanto pericolo, chiama in soccorso e suoi spiriti vitali; e veramente Amore gli muove, perché la natura, amatrice della conservazione della vita, subitamente pigne in ogni passione del cuore li spiriti vitali: e quali spiriti, per ubbidire a questo amore della natura, con prontitudine e velocità corrono in soccorso suo. Di questo nasce che, se prima il cuore aveva bisogno di respirare e refriggerarsi, molto più ne ha bisogno sopravenendo tanti spiriti, e quali di natura loro sono caldi; e però necessariamente bisogna tirare dentro al petto più quantità d'aria, per ristorare l'ordinario officio dello alito, quale era intermesso. E di qui nasce il sospiro, e quinci si rinfresca il cuore; el quale, avendo già dimenticato sé stesso, per sé non si curava di morire, anzi bramava sì dolce e sì felice morte. Possiamo adunque dire el sospiro procedere da ogni passione di mente e da ogni fatica del corpo, pur che la passione della mente sia efficace in modo che diverta o intermetta le operazioni naturali dell'ordinario alitare, che appresso a' Latini propriamente refocilare si chiama, o vogliamo dire respirare; la fatica e agitazione del corpo, come in uno che corra o facci qualche forte essercizio, ancora genera sospiri, perché il caldo naturale si excita e accende, né potrebbe il corpo in quella fatica perseverare, se el cuore non si refrigerassi e spesso respirassi.

 

Vorrei avere potuto meglio exprimere questo mio concetto, perché così si conveniva a tanto degno e gentile quesito; e nondimeno ho eletto più tosto che al sonetto manchi ornamento e la vera expressione di questo senso, che in me manchi una pronta voluntà di satisfare a quello che vuole Amore.

 

 

 

XII

 

Poscia che il bene adventurato core,

vinto dalla grandezza de' martìri,

mandando innanzi pria molti sospiri,

fuggì dello angoscioso petto fore,                                               4

 

stassi in quei due belli occhi con Amore;

e perché loro, ove che Amor li giri,

fan gentile ogni cosa che . llà miri,

degnato hanno ancor lui a tanto onore.                                       8

 

Il cor, dagli occhi a questo bene eletto,

fatto è per lor virtù tanto gentile,

che più cosa mortal non brama o prezza;                                  11

 

e benché abbin cacciato fòr del petto

quelli occhi ogni pensier vulgare e vile,

né torna a me, né brama altra bellezza.                                     14

 

Come nel precedente sonetto abbiamo narrato, già el cuore, assicurato da Amore, era da me fuggito, e di questo convenientemente séguita volere intendere e in che luogo arrivassi e in che stato si trovassi. Le quale cose si narrano nel presente sonetto, la sentenzia del quale è questa: che dapoi che il cuore mio, bene adventurato (e questo si vede per la conclusione del sonetto, perché «adventurato» si può chiamare quello che è gentile e perfetto, come dimosterremo nella diffinizione infrascritta della gentilezza; e però non dice bene adventurato per essere suto vinto dalla grandezza de' martirii, ma pel bene che glien'è seguìto), dico adunque che, dapoi che questo cuore, vinto dai martirii, molto sospirò, finalmente si partì del petto mio. Li martirii suoi non erano altro che lo acceso desiderio della bellezza della donna mia. Così adunque fuggito, giunse agli occhi suoi e da loro graziosamente fu ricevuto: che si può interpetrare che il cuore mio si pasceva e della bellezza di quelli occhi e della speranza che aveva della futura pietà; la quale speranza gli dava Amore, che era ancora lui in quelli occhi, el quale non è mai sanza pietà. Questo dolcissimo ricetto, per la virtù di quelli occhi, fece gentile el mio cuore; perché, se gli è vero che quelli occhi, mossi da Amore, faccino gentile ogni cosa che e' guardano, molto più dovevono fare il mio cuore degno di tanto onore, cioè della gentilezza, il quale cuore sempre in loro abitava. E, per exprimere meglio il vero e verificare quanto è detto, diremo in questo modo: farsi gentile le cose che sono vedute da quelli occhi, quando Amore gli muove; per li occhi suoi si presuppone una singulare bellezza, per Amore pietà; e dove concorrono queste due cose, nasce nel cuore di chi vede gran dolcezza e amore, el quale, secondo che abbiamo detto, non è mai sanza gentilezza. Né possono quelli occhi mossi da Amore, cioè con affezzione, guardare cosa che non sia o in potenzia o in atto gentile, perché l'affezzione non si extende se non a quello che piace, né può piacere se non quella cosa la quale abbi qualche conformità con noi, e però, presuposto la gentilezza di quelli occhi, si verifica che e' non possono con amore guardare cosa che non faccino gentile. El cuore mio adunque, eletto, cioè non per alcuno merito suo ma per liberalità e grazia della donna mia assunto a questo grado di gentilezza, già si stimava tanto e in tale perfezzione gli pareva essere venuto, che non estimava alcuna cosa vile o mortale. E perché non paia questo contradica a quello abbiamo detto, che sanza qualche merito non possa alcuna cosa ricevere da quelli occhi il grado di questa gentilezza, avendo io detto che il mio cuore sanza merito a questo fu eletto, dico, confermando la sentenzia sopra detta, che possiamo chiamare uno «gentile» o in atto o in potenzia, cioè veramente gentile e con tutte le parte che vengono da gentilezza, o atto a potere essere gentile: come diremo d'un fabro, el quale avendo il ferro sanza alcuna certa forma, si può dire abbi in mano una spada, una zappa o quello instru mento il quale è sua intenzione di comporre di quel ferro.

 

Era il mio cuore prima questo ferro rozzo, ma atto a essere quello che volevano quelli occhi; e perché in loro potenzia era o lasciarlo così rozzo o farne una o un'altra cosa, per elezzione del fabro fu fatto gentile cosa: e, quanto alla elezzione, sanza merito; quanto allo essere disposto e atto a essere gentile, non sanza qualche merito; e così si absolve questa parte. Io, veggendo il mio cuore tanto gentile, cominciai ad amarlo più e desiderare che tornassi a me; e per muoverlo a questo, purgai la mente e il petto mio d'ogni cosa vile e vulgare per mezzo pure di quelli occhi, la perfezzione de' quali, portata in me dagli occhi miei, si restò nella inmaginazione. Né sarebbe restata quella gentilissima forma in mezzo di tutti i miei pensieri, se i miei pensieri fussino suti vili e vulgari; e però, come di natura fa il bene, così prima spogliò el petto mio d'ogni male. E, non obstante questa purgazione, non voleva tornare il cuore mio a me, né desiderava altra bellezza che quella di quelli occhi ove lui era; e così di necessità bisogna fussi, sendo quelli occhi bellissimi e 'l cuore già fatto gentile, come meglio faremo intendere nella exposizione di quel sonetto che comincia Candida, bella e dilicata mano.

 

Pare solamente al presente necessario, perché spesse volte nelli nostri versi si truova questo vocabulo di «gentilezza» e «gentile», diffinire una volta per sempre quello che sia gentilezza secondo la mia oppinione. Né arei presunto di fare questo se Dante, clarissimo poeta, in quella canzona dove si diffinisce la gentilezza, non si fussi ristretto alla diffinizione della gentilezza dell'uomo, la quale lui chiama quasi «nobilità». Ma essendo questo vocabulo, secondo il vulgare uso, quasi comune a tutte le cose, non mi pare inconveniente dire quello che ne intendo; maxime perché, nella significazione che si usa, è vocabulo nuovo e al tutto vulgare, del quale non può essere né per diffinizione né per lo uso degli antichi alcuna certa proprietà. Pare adunque a me che questo vocabulo «gentile» sia nato da quelli che «gentili» furono chiamati, cioè e Romani, e quali e dalli ebrei teologi e da' cristiani furono chiamati «gente» 'e dipoi «gentili», come per molti essempli si può provare. E perché e gentili, cioè e Romani, in queste cose che il mondo onora e pregia furono reputati excellentissimi, credo si cominciassi a chiamare «gentile» ogni cosa che avessi tra le altre qualche excellenzia, quasi opera fatta da' gentili o che alla excellenzia loro convenissi. Lo uso dipoi ha allargato la significazione del vocabulo, tanto che la diffinizione è molto difficile; perché si dirà, verbi gratia, uno «gentile» avorio o uno «gentile» ebano, che l'uno è tanto più bello quanto è più candido, l'altro quanto è più nero è più stimato: cose molto contrarie l'una all'altra, e nondimeno expresse dal medesimo vocabulo. Diremo adunque «gentile» essere quella cosa la quale è bene atta e disposta a fare perfettamente l'officio che a·llei si conviene, accompagnata da grazia, la quale è dono di Dio. E, per essemplo, chiameremo «gentile» un cavallo corridore, el quale corra più velocemente che gli altri, e oltre a questo vi agiugneremo la bellezza, che agli occhi lo facci grato. Perché, oltre al correre forte, non sarebbe gentile s'e' non corressi levato e ben partito e con poca dimostrazione di fatica o d'affanno; né sarebbe gentile se e' non fussi bello, né avessi piccola testa e asciutta, larghe le nare del naso, gli occhi di conveniente grandezza e vivi, piccoli orecchi, collo sottile e svelto, non molto petto ma raccolto, el piè di buon colore e forte, alti e larghi calcagni, giuntato corto; le gambe né grosse né sottile, ma asciutte, le quali equalmente eschino delle spalle; abbi assai, a proporzione del resto, dalla punta della spalla al guidalesco; schiena non molto lunga, doppio di lombi, poco corpo e non pendente, e lungo più di sotto che nella schiena, le lacche buone, le falce di drieto diritte, piccola coda; mantello che sia grato agli occhi, con qualche buono segno: come sarebbe un cavallo, verbi gratia, tutto morello, col piè di drieto sinistro balzano e un poco di stella in fronte. Chi volessi laudare con queste parte uno corsiere da guerra, errerebbe, perché ha a fare officio molto diverso. E però la gentilezza è quasi una distinzione iudiciale di tutte le cose. Volendo adunque vedere quello che era il mio cuore già fatto gentile, è necessario intendere l'officio del mio cuore, el quale, avendo per obbietto gli occhi e bellezza della donna mia, a me pare avessi tre officii: l'uno conoscere, l'altro amare, il terzo fruire e godere quella bellezza. E se questa bellezza è grande, come abbiamo detto, grande perfezzione bisognava fussi quella del cuore a conoscerla, ad amarla e a fruirla. Non diremo più di questa parte per al presente, perché nelli sonetti seguenti explicheremo molto meglio questa materia e mosterremo chiaramente perché il cuore già fatto gentile non può bramare altra bellezza che quella della donna mia.

 

 

 

XIII

 

Candida, bella e dilicata mano,

ove Amore e Natura poser quelle

leggiadrie dolci, sì gentili e belle,

che ogni altra opera lor par fatta invano,                                     4

 

tu träesti del petto il cor pian piano

per la piaga che fêr le vaghe stelle,

quando Amor sì piatose e dolce felle;

tu drieto a·lloro entrasti a mano a mano;                                     8

 

tu legasti il mio cor con mille nodi;

tu 'l formasti di nuovo; e poi che fue

gentil fatto per te, rompesti e lacci.                                           11

 

S'egli è fatto gentil, non convien piùe

cercar per rilegarlo nuovi modi

o pensar che altra cosa mai li piacci.                                         14

 

Abbiamo detto quelle cose potersi chiamare «gentile», le quale perfettamente e con grazia fanno quello a che sono ordinate; e per questo parrebbe, prima facie, che qualunque cosa fatta una volta gentile non avessi bisogno d'alcuna altra cosa alla perfezzione sua: che pare contro a quello che dice il presente sonetto. La conclusione del quale è che la mano gentilissima della donna mia, avendomi tratto il cuore del petto, lo abbi fatto gentile avendolo formato di nuovo; el quale cuore già era suto fatto gentile dagli occhi suoi, come mostra il sonetto già exposto che comincia Poscia che 'l bene adventurato core. E però, prima che più particularmente vegnamo alla exposizione del sonetto, per concordare questa apparente contradizione diremo così. Che se·lla gentilezza è quello che abbiamo detto, tante cose possono essere gentili quanto sono e fini a che tendono le cose; come si vede per experienzia in uno uomo, perché lo chiameremo nella sua tenera e puerile età un «gentile» fanciullo, dipoi un «gentile» garzone, un «gentile» giovane, un «gentile» uomo, etc., secondo che l'età e la natura gli mostra diversi fini: perché diverse cose convengono a diverse età. E però, quando el mio cuore si fuggì negli occhi della donna mia, dalli quali fu fatto gentile, si può intendere che allora il cuore aveva per obietto solamente gli occhi della donna mia e le altre aparenti bellezze, e solamente di quello si pasceva per mezzo della visione degli occhi miei; e a questo fu fatto gentile, cioè a intendere, contemplare e fruire solamente per mezzo degli occhi quella bellezza. Ma dipoi, essendo quella mano candidissima entrata nel petto e trattone il cuore, pare che questo fussi absunto a più degno officio, perché questo mostra la iurisdizione che aveva la donna mia sopra 'l mio cuore et expressamente chiarisce che già lei lo reputava suo; et essendo sua cosa per elezzione di lei, di necessità lo amava. E questo mostra più chiaramente lo averlo cominciato a fare gentile con li occhi, cioè fattoli questo benifizio, perché quelle cose si amano più che l'altre, le quale noi reputiamo nostre e, come nostre, abbiamo cominciato a benificarle. Altro era adunque l'officio del cuore prima che la donna mia facessi segno alcuno d'amore verso di lui, altro è questo che doveva fare dopo tante benigne dimostrazione; e però, come a nuovo officio e fine, di nuovo bisognò farlo gentile, perché non solamente aveva per obbietto la bellezza sua, ma ancora lo amore della donna mia: tanto più degna cosa, quanto più spirituale e manco corporea, e non di manco o meno desiderabile bellezza al cuore mio che gli occhi suoi agli occhi miei. Era adunque necessario, come è detto, di nuovo farlo gentile e formarlo per questo nuovo obbietto, e questo officio a nessuno pare che più si convenissi che alla mano della donna mia. La quale bisogna intendere fussi la mano sinistra, la quale, partendo dal cuore, appariva come più certo nunzio e testimonio della intenzione del cuore della donna mia: perché si dice nel dito anulario, cioè quello che è allato al dito che vulgarmente chiamiamo «mignolo», è una vena che viene inmediate dal cuore, quasi un messo della intenzione del cuore. Veggiamo adunque di necessità el cuore di nuovo bisognava essere riformato e fatto gentile a questo nuovo e più degno fine, e che la vera ministra a questo effetto era la mano sinistra, per le sopra dette ragioni.

 

Ora verremo a più particulare exposizione del sonetto. Certamente, tra l'altre gentilissime bellezze della donna mia, le mani sue non parevono cose umane; e benché ambo fussino belle, pure el presente sonetto, come di sopra dicemmo, parla alla mano sinistra, la quale chiama candida, bella e dilicata non perché comprenda tutte le bellezze di quella mano, ma, narrandone una parte, vuole che chi legge comprenda ogni essatta perfezzione che si convenga a una mano. E che questo sia vero, lo mostra subiungendo poi che l'amore e la natura gli avevono in modo contribuito ogni loro gentilezza, leggiadria e dolcezza, e in effetto ogni generazione d'ornamento, che pareva ogni altra opera loro fatta invano, quanto a comparazione di queste bellezze.

 

Qui è da notare che tutte le cose che piacciono, per due rispetti piacciono, cioè o per essere perfettamente belle o per essere molto amate e desiderate, perché spesso adviene che s'ama una cosa che non è reputata bella; e però, dove si unisce colla bellezza naturale lo amore, nessuna cosa può piacere tanto. Per questo si dice che l'amore e la natura avevono posto in quella mano ogni ornamento: che si può interpetrare la perfezzione della bellezza naturale e lo amore grande, che non lasciava mancare alcuna, ancora che piccola parte di bellezza a quella mano. Questa mano tanto bella, adunque, entrò nel petto mio, el quale trovò aperto per la ferita che prima avevono fatta gli occhi, drieto alli quali subitamente entrò e ne trasse el mio cuore. Ebbono grazia gli occhi miei, prima, di conoscere la bellezza degli occhi suoi, e poi, come spesso adviene, o ballando o in altro simile onesto modo fui fatto ancora degno di toccare la sua sinistra mano: perché sulla scala d'amore si monta di grado in grado. Ebbe tanta forza questa mano così da me tocca, che mi tolse di me lo intero dominio e, come abbiamo detto, trasse el cuore del mio petto; el quale, preso da questa mano, fu di principio legato molto stretto, dipoi reformato di nuovo e fatto gentile da quella mano, perché il formare è proprio officio delle mani. Et essendo così reformato e fatto gentile, quella mano sciolse tutti e lacci e misse il mio cuore in libertà, perché essendo fatto gentile non poteva amare se non gentile cose, né avere altro che gentilissimo obbietto; e nessuno più gentile ne poteva trovare che la donna mia, anzi la vera gentilezza. E però non bisognava dubitare che mai più si partissi da lei, perché già stava sanza essere legato; né ancora si poteva dubitare che altra bellezza gli potessi piacere, perché se quella cosa piace più la quale è o pare più bella che l'altre, nessuna più bella se ne poteva trovare che la donna mia: della quale si può veramente dire, per essere gentile e bella, quello che dice Dante: «Di costei si può dire gentile in donna ciò che in lei si truova, e bello è tanto quanto lei simiglia».

 

 

 

XIV

 

O mano mia, suavissima e decora!

«Mia» perché Amor, quel giorno che ebbe a sdegno

mia libertà, mi dette te per pegno

delle promesse che mi fece allora.                                              4

 

Dolcissima mia man, con quale indora

Amor li strali onde cresce il suo regno,

con questa tira l'arco, a cui è segno

ciaschedun cor gentil che s'innamora.                                          8

 

Candida e bella man, tu sani poi

quelle dolci ferite, come il telo

facea (come alcun dice) di Pelide.                                            11

 

La vita e morte mia tenete voi,

eburnee dita, e il gran disio ch'io celo,

qual mai occhio mortal vedrà, né vide.                                      14

 

Come nel precedente sonetto abbiamo detto, la natura e lo amore danno ogni perfezzione e ornamento. Questo medesimo conferma il sonetto presente, el quale, parlando pure a quella mano gentilissima, la chiama suavissima e decora: decora per li ornamenti e bellezze naturali, suavissima per lo amore e desiderio d'essa, perché se non fussi questo amore e desiderio non potrebbe essere suave, ancora che bellissima. Oltre a queste due proprietà, è da notare che io la chiamo mia; e perché questo pareva arroganzia, perché di sì bella e gentile cosa non ero degno, replico questo vocabulo «mia» inmediate nel secondo verso, e giustifico se così la chiamo mostrando esserne cagione Amore, el quale me la dette per pegno della promessa pietà della donna mia. E comune e antiqua consuetudine tra gli uomini in ogni patto e transazzione, per più efficace segno del cuore e voluntà nostra, toccare con la mano destra propria la destra di colui con chi si fa il patto, e comunemente s'usa quando si perviene a pace dopo qualche guerra e ingiuria seguìta; similmente, quando in tali o in altri casi si piglia giuramento alcuno, la destra mano è lo instrumento e ministra. Credo questa tale consuetudine sia suta introdotta dalla cagione che diremo apresso. Qualunque pace o simile patto e fede data che fussi interrotta o non observata, bisogna che sia così rotta da qualche nuova ingiuria, della quale il più delle volte suole essere principio e ministra la mano destra, che è quella che percuote e nella maggiore parte degli uomini è più expedita e pronta alla offesa; e però, usandosi la destra nelle convenzioni sopra dette come testimonio e confermazione di quello che è fatto, pare che si oblighi quella cosa la quale prima e più facilmente può violare il patto. Dettemi adunque Amore questo pegno delle promesse sue quel giorno che ebbe a sdegno la mia libertà, cioè quello dì che mi legò. E qui è da notare che questo pare contro alla verità, perché quel giorno che quelli occhi mi legorono, ancora non avevo tocca questa gentilissima mano. Ma bisogna intendere in uno de' dua modi, cioè o che quel dì che Amore mi legò, in sé medesimo fece questo proposito di darme in pegno questa mano, ancor che per qualche tempo differissi lo effetto; o vero, ch'io fui interamente legato e al tutto fuori di libertà come toccai quella mano, perché, come dicemmo nel precedente sonetto, quella legò il mio cuore con mille nodi. E questo mostra che il cuore allora stava per forza di legame, e, se avessi forse potuto, volentieri si saria sciolto: e però riteneva ancora qualche parte di libertà; ma poi che fu riformato di nuovo, e levato e lacci, stando di sua voluntà sempre con la donna mia, allora si poteva interamente chiamare fuori d'ogni sua pristina libertà. E quel dì Amore ebbe a sdegno la libertà sua, cioè la libertà che prima aveva el cuore inanzi che conoscessi questa nuova libertà dove lo misse Amore; perché «libertà» si può chiamare quando alcuno può disporre a suo arbitrio, come poteva il cuore mio, sendo sciolto e libero da ogni legame; e di questa parte diremo più ampliamente nella exposizione del sonetto che comincia Chi ha la vista sua etc. Subiunge dipoi che questa mano veramente dolcissima indora li strali di Amore, questa tira l'arco di Amore e ferisce tutti e cuori gentili che s'inamorono, che sono segno e berzaglio alli strali amorosi: come certifica il nostro Petrarca, quando dice: «Amore, che i cuor gentili suave invesca, né degna di provare sua forza altrove». Qui è da notare che tutti questi sono officii che si fanno per mezzo delle mani. E, oltre a questo, dicendo che questa mano indora le saette amorose, bisogna intendere che questa mano prepara ad Amore li strali li quali inamorano, che si dicono essere aurei, e non quelli di piombo, e quali sogliono cacciare Amore e fare nascere odio. E come tutti questi sono officii della mano, similmente è officio suo medicare le ferite, perché la cerusica, la cura della quale si extende a simili medicine, non vuole dire altro che opera di mani. Ferisce adunque e sana, cioè accende il desiderio, dipoi l'adempie, come si dice faceva il telo, cioè la lancia d'Achille figliuolo di Pelleo, la quale avendo due punte, dicono e poeti che con l'una feriva, con l'altra sanava le ferite. Di questo nasce convenientemente che, potendo questa mano e ferire e sanare, può ancora uccidere e vivificare; adunque convenientemente è detto che quelle dita eburnee, cioè quelle dita di colore d'avorio, tengono la vita e morte mia. E ancora questo è proprio officio delle dita, perché quello che strigne la mano, lo fa per mezzo delle dita. Tiene ancora questa mano el mio gran disio, e questo molto veramente, per quello che nel precedente sonetto è detto; perché, tenendo il cuore mio, nel quale è la virtù concupiscibile, cioè il desiderio, tiene el mio disio, el quale io nascondo dagli occhi degli uomini, a' quali al tutto è invisibile. Perché, se gli è vero quello che abbiamo detto, che questa mia donna sia gentilissima e il cuore mio da lei sia fatto gentile, perché altrimenti non poteva conoscere o amare tanta bellezza, gli occhi degli altri uomini non possono vedere el mio gentilissimo disio, perché, non sendo fatti gentili da lei, non sono sufficienti.

 

Ora, per non lasciare in confusione chi ha letto nel precedente comento nostro qualche cosa che pare prima facie contraria, a maggiore declarazione diremo come apresso. Abbiamo detto questa mano tanto da me lodata e amata essere suta la sinistra, e tutti gli essempli che abbiamo dato (e della fede che per suo mezzo ebbi da Amore, e dello indorare li strali, tirare l'arco e medicare etc.) si referiscono più presto alla mano destra. Per levare adunque questa confusione bisogna intendere che naturalmente la mano sinistra è più degna e più forte che la destra, perché è più propinqua al cuore, el quale è datore della virtù e della potenzia. E vero che lo uso umano, come molte altre cose, ancora questa naturale potenzia ha depravato, e però se la destra ha più degnità o forza è più tosto per consuetudine che per natura; né debbe lo uso obstare che non sia più degno quello che per natura è più degno. E però li buoni intelletti, come è quello della donna mia, non obstante la perversa consuetudine, volle in questa come nell'altre cose essere excellente tra gli altri; e avendo a fare fede al cuore mio della pietà e disposizione del cuore suo, lo fece per quel mezzo a cui era più naturale e che meritava più fede, come più vicino al cuore. Oltre a questo, lo indorare le saette, tirare l'arco d'Amore e medicare le piaghe amo rose è officio della mano sinistra, perché, se bene le bellezze legano molto, el cuore della cosa amata strigne molto più, e così molto meglio medica; e tutte queste opere manuali, che hanno a essere a significazione del cuore, molto meglio convengono alla mano sinistra per la propinquità già detta. E però è più tosto errore quello che comunemente usano gli uomini, che la elezzione in questa parte della donna mia.

 

 

 

XV

 

Quanta invidia ti porto, o cuor bëato,

che quella man vezzosa or mulce or stringe,

tal che ogni vil durezza da te spinge!

E poi che sì gentil sei diventato,                                                  4

 

talora il nome, a cui te ha consecrato

Amore, il bianco dito in te dipinge,

or l'angelico viso informa e finge,

or lieto, or dolcemente perturbato;                                             8

 

or li amorosi e vaghi suoi pensieri

ad uno ad un la bella man descrive,

or le dolce parole accorte e sante.                                            11

 

O mio bel core, oramai più che speri?

Sol che abbin forza quelle luci dive

di transformarti in rigido adamante.                                           14

 

Abbiamo di sopra concluso e più volte diffinito «gentile» potersi chiamare quella cosa che, secondo la umana perfezzione, fa perfettamente e con grazia l'officio a che è ordinata; et essendo giunto a questa perfezzione el cuore mio per mezzo di quella mano bellissima, el presente sonetto fa menzione del modo come fu fatto gentile, e ancora di alcuni affetti di beatitudine e dolcezza che per questo sente il cuore: perché questa tale menzione e memoria non altrimenti è grata al cuore, che a' navicanti il raccontare qualche loro pericolosa fortuna, poi che hanno conseguita la sicurtà del porto. Parla adunque il presente sonetto al cuore mio, mostrando portarli invidia: non perché gli dispiaccia il bene suo, ma più presto per desiderio di potere conseguire il medesimo bene. E chiamandolo cuore beato, mostra assai manifesto la cagione della invidia, la quale se è, come abbiamo detto in questo luogo, desiderio del medesimo bene, la invidia necessariamente è maggiore e più manifesta quanto è maggiore il bene che si vede in altri; e nessuno è maggiore bene che lo essere beato, e quella cosa è veramente beata che è gentile; e però, dicendo cuore beato, già si presuppone la gentilezza. Narra dipoi il modo che tenne quella mano a riducere il mio cuore dalla durezza e viltà sua naturale alla perfezzione della gentilezza, cioè mulcendolo e stringendolo: che si può interpetrare che quella mano usasse qualche volta seco cose piacevoli e dolce, qualche volta aspre e forte. Perché, avendo a combattere con due inimiche, cioè durezza e viltà, bisogna opporre due virtù contrarie, cioè forza contro alla durezza e dolcezza contro alla viltà. Perché, chi pensa bene che cose obstano a qualunque vuole andare alla perfezzione, troverrà essere solamente due. Prima una naturale inezzia e contraria disposizione alla beatitudine che si cerca; e questo nasce e per difetto di complessione e di organi del corpo e per le naturali concupiscienzie e inclinazione a molti errori, conciosiacosa che la via della perfezzione sempre fu laboriosa, e difficile. E però queste cose contrarie sono spesso di tale impedimento, che non lasciono, non che altro, qualche volta conoscere la beatitudine; e questa si può chiamare «durezza». L'altro obstaculo è che, ancora che qualche volta questa beatitudine in confuso si conosca, e conoscendosi si desideri, gli uomini hanno una naturale viltà e diffidenzia, per la quale spesso si disperono di conseguirla; né tentando la via per andarvi, possono già mai adiungervi. Bisogna adunque, contro a quella prima durezza la forza, contro alla viltà la mollificazione e dolcezza, usando or l'una e or l'altra secondo che si truovono potenti gli inimici, perché l'una rompe la durezza, l'altra contro alla viltà dà speranza. Questi due affetti mostra il presente sonetto dicendo or mulce or stringe, e con queste due cose trae del cuore ogni durezza e viltà, le quali remosse si fa gentile, cioè diventa subietto atto a ricevere ogni degna forma e gentile impressione. Séguita di questo che, subito che il cuore è diventato materia gentile, tanto può stare sanza la forma gentile quanto può la materia sanza la forma; e perché lo amore congiugne la materia e la forma, cioè un naturale desiderio che ha l'uno dell'altro, così Amore, che mosse quella mano a fare gentile il mio cuore, fa ancora che di nuovo si muove a darli tanta gentile impressione. E, trovando il mio cuore sanza durezza, cioè mollificato e atto a ricevere ogni impressione, comincia col dito a scrivere in lui il nome della donna mia: quel nome, dico, al quale Amore consecrò il mio cuore, perché «consecrare» s'intende un tempio a uno iddio o una chiesa a uno santo, dandoli il titolo di quel nome perché perpetuamente si conosca quel tal tempio o chiesa. Adunque il cuore mio fu veramente consecrato, perché Amore ne fece un tempio e abitaculo per sempre, dove si celebrassi e stessi quel nome della donna mia. Dipinge ancora quel candido dito l'apparenzia del viso della donna mia e quelle perturbazioni e passioni che a gentile donna si convengono, come è qualche modesta letizia e qualche dolce perturbazione. E perché pare cosa impossibile quello che apresso si scrive, cioè che si possa descrivere o depingere e pensieri, che non sono sottoposti agli occhi, bisogna intendere che le passioni che convengono alla donna mia sono tre, cioè le due che abbiamo dette della modesta letizia e dolce perturbazione e quella che si gli aggiunge al presente è l'amore, el quale include di necessità una dolce speranza; e si exclude, delle quattro perturbazione, il timor solamente, perché questo non si conviene a sì gentile donna, ancora che sia comune a tutti gli uomini. Volendo adunque fare menzione di questa gentilissima passione dello amore, et essendo il vero nutrimento dello amore e pensieri, abbiamo detto nel mio cuore essere dipinti e suoi pensieri amorosi; e volendo referire questa pittura agli occhi, bisogna intendere che 'l medesimo viso della donna mia, che prima era dipinto or lieto or dolcemente perturbato, fussi dipinto ancora qualche volta amoroso. Perché, come conosciamo la letizia e 'l dolore e ridendo e piangendo e per altri segni, così e pensieri amorosi per molti segni si conoscono, anzi dagli occhi inamorati difficilmente si nascondono; e tra gli altri segni, come adviene ancora delle altre perturbazioni, per le parole molto meglio si conoscono, le quali sogliono essere el più delle volte expressioni di pensieri. E però subiunge che la medesima mano descrive ancora le parole della donna mia, come nunzii veri de' pensieri e testimoni exteriori di quello che il cuore fa dentro. Debbesi adunque presupporre che degnissima pittura fussi quella della quale era ornato il cuore mio. Perché tre cose, secondo il giudizio mio, si convengono a una perfetta opera di pittura, cioè il subietto buono, o muro o legno o panno o altro che sia, sopra 'l quale si distenda la pittura; el maestro perfetto e di disegno e di colore; e oltre a questo, che le cose dipinte sieno di loro natura grate e piacevole agli occhi. Perché, ancora che la pittura fussi perfetta, potrebbe essere di qualità quello che è dipinto, che non sarebbe secondo la natura di chi debbe vedere, conciosia che alcuni si dilettano di cose allegre, come è animali, verzure, balli e feste, e simili; altri vorrebbono vedere battaglie o terrestre o marittime, e simili cose marziale e fere; altri paesi, casamenti e scorci e proporzioni di prospettiva; altri qualche altra cosa diversa; e però, volendo che una pittura interamente piaccia, bisogna adiungervi questa parte, che la cosa dipinta ancora per sé diletti.

 

Era il mio cuore materia e subietto molto atto a ricevere ogni impressione; mai non fu mano tanto gentile e dotta a tale pittura quanto quella della donna mia, né più grate cose potevono essere expresse nel mio cuore che i dolcissimi accidenti e il viso e il nome della donna mia: e però, quanto al iudicio del mio cuore, era tanto perfetta questa pittura, che desiderava si perpetuassi e che etternalmente così in esso si conservassi. E questo è molto naturale desiderio e séguita da' principii già detti, conciosiacosa che si va per la via della perfezzione, molto dura e laboriosa per venire alla beatitudine, e chi ha grazia di condurvisi non gli resta altro desiderio che stabilirsi e fermarsi in essa, come ancora desidera il mio cuore. E, credendo che questo fussi el modo a potersi perpetuare in tanto bene, desiderava che gli occhi della donna mia avessino quella forza e virtù che si legge ebbe già il viso di Medusa, e che, come l'aspetto suo convertì gli uomini in sassi, così gli occhi della donna mia, così dipinto il mio cuore e così bello, convertissino in un duro adamante. Bisogna adunque intendere, per la pittura di tante belle e dolcissime cose nel mio cuore, i pensieri ch'erano in lui e la inmaginazione di quelle tali cose; li quali pensieri essendo pieni di somma dolcezza, el cuore desiderava si conservassino in lui e durassino a guisa della durezza d'uno adamante, e che nuovi e molesti pensieri non succedessino e cacciassino quelli che erano dolci: come spesse volte adviene negli amanti, e quali comunemente brieve tempo si preservano nel medesimo stato.

 

 

 

XVI

 

Belle, fresche e purpurëe vïole,

che quella candidissima man colse,

qual piaggia o qual puro aer produr volse

tanti più vaghi fior' che far non suole?                                          4

 

Qual rugiada, qual terra o ver qual sole

tante vaghe bellezze in voi raccolse?

Onde il süave odor natura tolse,

o il ciel, che a tanto ben degnar ne vuole?                                   8

 

Care mie vïolette, quella mano

che vi elesse intra l'altre, ove eri, in sorte

vi ha di tante excellenzie e pregio ornate!                                  11

 

Quella che il cor mi tolse, e di villano

lo fe' gentile, a cui siate consorte:

quella adunque, e non altri, ringraziate!                                     14

 

Fu non solamente la donna mia sopra tutte l'altre bellissima e dotata di degnissimi modi e ornati costumi, ma ancora piena d'amore e di grazia; e puossi veramente di lei affermare che era tanto excellente in tutte le parte che debba avere una donna, che qualunque altra donna che fussi suta così perfettamente dotata di una parte sola di tante che n'aveva la donna mia, sarebbe suta tra le altre excellentissima. E che fussi, come abbiamo detto, tutta piena d'amore e di grazia, oltre a molti altri evidentissimi segni mi accade nel presente sonetto fare menzione d'uno singularissimo e a me gratissimo. E questo fu che essendo io stato per qualche tempo, per alcuno accidente, sanza potere vederla, questo era diventato cosa insopportabile, né potevo, sanza pericolo della vita mia, stare per qualche altro tempo, ancora che brieve, così sanza vederla. Di che essa accorgendosi, non per visibili segni, ché questo era impossibile, ma per esserli noto lo amore grande che io li portavo, e provando forse in sé medesima quanto fussi difficile e insopportabile la privazione degli occhi suoi agli occhi miei, né potendo a questo per allora rimediare, soccorse alla mia afflizzione in quel modo che per allora si poteva. Dilettavasi di natura, come di molte altre cose gentili, ancora di tenere in casa in alcuni vasi bellissimi certe piante di viuole, alle quali lei medesima soccorreva e d'acqua per li excessivi caldi e d'ogni altra cosa necessaria al nutrimento loro. Elesse adunque tre viuole tra molte altre che ne aveva, quelle alle quali o la natura volse meglio, per averle produtte più belle che l'altre, o la fortuna, che prima all'altre le fece venire a quella candidissima mano; le quali viuole così còlte mi mandò a donare: che veramente, da lei in fuora, nessuna cosa poteva meglio mitigare tanto mio dolore.

Parla adunque el presente sonetto alle sopra dette tre viuole, le quali, et essendo per loro medesime di maravigliosa bellezza et essendo dono della donna mia e còlte da quella mano candidissima, ragionevole cosa era che mi paressino molto più belle che non suole produrre la natura; e per questo convenientemente si domanda pel presente sonetto, come si suole fare di tutte le cose maravigliose, della cagione di tanta excellenzia. E perché il presente sonetto per sé pare assai chiaro, brievemente diremo che nel domandare della cagione per che erono sì belle, si tocca tutti e mezzi per li quali la natura produce le piante, li arbusti, l'erbe e i fiori. E perché tutte queste cagioni insieme non parevono ancora sufficienti alla nuova bellezza, al colore, alla forma e allo odore di quelle bene adventurate viuole, bisognava che qualche nuova cagione et extraordinaria potenzia le avesse produtte; e impossibile era intendere qual cagione fusse, se non da chi avesse in altre cose veduta experienzia d'una simile virtù e potenzia. Avendo io adunque in me provato la virtù e forza di quella candidissima mano, che, secondo il precedente sonetto, di vile e durissimo aveva fatto il mio cuore gentile, potevo credere e affermare quella medesima mano potere avere fatto quelle viuole di tanta excessiva bellezza, perché maggiore cosa era fare gentile una cosa rozza e villana, che bellissima una cosa bella, come di natura sono le viuole. Per questo si conclude quella mano avere fatto quelle viuole di tanto pregio et excellenzia, che aveva fatto il cuore mio di villano gentile, e per questo meritamente queste viuole essere consorte del mio cuore, perché «consorti» si chiamono quelli che sono sottoposti alla medesima sorte. E però di tanta loro bellezza quelle viuole non dovevono ringraziare né il sole, né la terra, né l'aria, né la rugiada, né il luogo aprico, né qualunque altra naturale potenzia che concorressi a simile produzzione, ma solo la virtù e potenzia di quella candidissima mano.

 

Non è forse inconveniente vedere se la bellezza di queste viuole o era in oppinione mia o era possibile in fatto. E benché io non possa iudicare se fussi vera in fatto, perché non posso referire se non quello che pareva a me, secondo che i sensi raportavono al giudicio, e quali se erano depravati e corrutti, o se pure mi portavono il vero, a me è difficile a intendere, perché bisogna el giudicio giudichi quello che portono e sensi e in quel modo che lo portono, nondimeno confesso essere possibile che la forte inmaginazione sia cagione di corrompere i sensi: come spesso adviene in uno farnetico, che li pare vedere quello che non è; imperò che gran potenzia ha ne' sensi la inmaginazione, come faremo intendere nella exposizione di quello sonetto che comincia Della mia donarla, omè, gli ultimi sguardi. E nondimeno questo non toglie che non possa essere vera quella bellezza, o vero che la cagione d'essa sia la virtù di quella mano. Perché si vede o per la grazia di Dio o per influsso celeste o per virtù naturale, a diversi uomini essere dato diverse potenzie e grazie. Vedesi spesso un medico dottissimo uccidere gran numero di uomini, uno più ignorante sanare quasi tutti quelli che e' cura; alcuni uomini avere qualche propria virtù, con la presenzia sanare certi mali e con uno semplice tatto di mano; ad alcuno essere giovato più, contro a chi lo assale, la presenzia che la spada. Truovasi in alcuni autori di astrologia che chi ha una certa constellazione ha virtù, solo colla pre senzia, di guarire indemoniati. E non è molto maggiore forza quella delle parole, che sieno udite dagli animali bruti, dalle piante e dall'erbe, come si dice de' serpenti e d'altri animali, e che possino fare seccare le piante e l'erbe, e che solo la fascinazione facessi tanti diversi e grandi effetti, quanti si legge e in Catone e in Plinio e in altri autori antiquissimi e degni di fede e reverenzia? E che più vogliamo cercare di essempli? Non veggiamo noi che maggiore forza hanno spesso gli occhi umani, che con uno semplice sguardo uccidono quasi e vivificano, fanno fuggire e tornare el sangue, tolgono e rendono le forze, e, quello che è più, conrompono el giudizio della mente umana? Pare per questo assai possibile che possa una mano avere tanta virtù, che dia, non dico alcuna nuova qualità, ma alle medesime qualitate più bellezza et excellenzia che non suole dare la natura; e maxime la più bella mano che forse mai facessi natura. E se io fussi di questo suspetto giudice, rispondo che prima fu giudicata da me la bellezza di quella mano, che amata excessivamente, perché di necessità la cognizione precede la voluntà. Se adunque prima mi parve bella che io l'amassi, è necessario che io vachi da colpa di passione e che quella mano veramente fussi bellissima. E, se così è, pare più tosto impossibile che con tanta bellezza non fussi coniunta una maravigliosa virtù e potenzia, che difficile a credere di lei quello che ne scrivo.

 

 

 

XVII

 

Chiare acque, io sento il vostro mormorio,

che sol della mia donna il nome dice:

credo, poiché Amor fevi sì felice,

che fussi specchio al suo bel viso e pio                                       4

 

La bella imagin sua da voi partio

perché vostra natura vel disdice;

solo il bel nome a voi ricordar lice,

né vuole Amor che lo senta altri ch'io.                                         8

 

Quanto più furo o fortunati o saggi

che voi, chiare acque, gli occhi miei, quel giorno

che furno prima specchio al suo bel volto,                                 11

 

servando sempre in loro i santi raggi!

Né veggon altro poi mirando intorno,

né gliel cela ombra, né dal sol gli è tolto.                                   14

 

Ancora che nel precedente comento abbiamo detto volere riservare alla exposizione del sonetto che comincia Della mia donna etc. che gran potenzia ha ne' sensi la inmaginazione, nondimeno pare che accaggia al presente dire qualche cosa più tosto dello effetto che della cagione. Interviene adunque molte volte che quando altri sente qualche continua e non articulata voce, la inmaginazione nostra si accomoda quella tale voce a quello che allora più inmagina, e, inmaginando, gli pare articulata quella tale voce, dandogli quel senso e faccendoli dire quello che più desidera; e comunemente, sonando campane, cadendo una acqua continua, pare che questo tale suono dica quella cosa che vuole colui che la inmagina. Vedesi ancora, per essemplo di questo, qualche volta nelle nube aeree diverse e strane forme d'animali e d'uomini; e, considerando certa ragione di pietre che sieno molte piene di vene, vi si forma ancora dentro el più delle volte quello che piace alla fantasia. Questo medesimo interveniva a me, che ritrovandomi in un luogo amenissimo dove era uno chiaro e abundante fonte, nel quale perpetualmente l'acqua, cadendo da alto, faceva uno dolcissimo mormorio, a me pareva che quel mormorio continuamente dicesse el nome della donna mia, perché questa era quella cosa la quale più inmaginavo e quel nome che più desideravo sentire. Aiutava questo dolcissimo inganno lo essere già suta la donna mia in questo luogo amenissimo e avere guardato nel fonte, che di ne cessità era diventato suo specchio, perché per qualche tempo aveva pure ritenuto in sé quella chiarissima acqua la effigie bellissima della donna mia. E però non pareva impossibile alla credulità delli amanti che quella acqua, inamorata di sì bel viso, da quel tempo in qua col suo amoroso mormorio perpetualmente replicassi quello dolcissimo nome. Pareva per questo conveniente, se quelle acque erano di sì bel viso inamorate, che dovessino sempre ritenerlo in loro, né lasciarlo mai partire, come a me pareva che perpetualmente dicessino il nome della donna mia. E si può bene credere che la medesima inmaginazione che mi faceva sempre udire quel nome, guidata da una amorosa simplicità, mi conducessi ancora a guardare nell'acqua, per vedere se v'era dentro ancora il viso della donna mia; e non ve lo vedendo, mi accorsi dello errore, e considerai subito che l'acqua non può ricevere alcuna tale forma se non ha un simile obietto assistente, perché la natura dell'acqua è così fatta per essere corpo diafano. Ma gli è bene lecito col mormorio suo, secondo che pareva a me, ricordare el suo nome; e perché questo nasceva solamente dalla inmaginazione e desiderio mio, altri che io non lo sentiva, né permetteva Amore che sì dolce armonia pervenissi ad altri che a' miei inamorati orecchi. Cominciai dipoi a fare comparazione dalla felicità di quelle acque alla propria; e parendomi essere più felice di loro, se avevo prima concetto alcuna invidia a quelle acque, la converti' in alquanto di arroganzia, mostrando che o gli occhi miei avevono avuto migliore fortuna, o erono suti più prudenti e saggi, perché dalla prima ora in qua che 'l bel viso della donna mia si presentò agli occhi, sempre serborono in loro quella dolcissima inmagine, né poterono da poi in qua mai vedere altra cosa, né per obscurità di tenebre o d'ombra, né per lume di sole: che si può interpetrare l'ombra per la notte e il sole per il giorno, che è tanto a dire come se dicessi né dì né notte toglie quelli occhi dagli occhi miei. O, interpetrando più largamente, possiamo dire che due cose conrompono la vista umana e levano la potenzia agli occhi, cioè una grande obscurità (e la obscurità non è altro che ombra che nasce dalla interposizione della materia tra 'l sole e noi) o uno superchio lume, come adviene a chi guarda il sole. Adunque, quella medesima inmaginazione che mi faceva sentire il nome della donna mia per il cascare dell'acqua, mi faceva ancora vedere in ogni tempo e luogo quello dolcissimo viso. Tutto questo concetto così expresso si include nel presente sonetto, el quale parla sempre all'acque del fonte sopra detto.

 

Resta a chiarire meglio quella parte che dice che gli occhi miei furono specchio al volto della donna mia, la quale abbiamo riservata all'ultimo per non interrompere la sentenzia del sonetto. E, non parendo da pretermetterla, diciamo che, volendo verificare che gli occhi miei fussino specchio al suo viso, bisogna intendere naturalmente come gli occhi veggono e come la potenzia visiva si reduce in atto. Secondo e Peripatetici, la cosa che è veduta si rapresenta drento agli occhi multiplicandosi la spezie e forma di essa cosa, tanto che perviene a quella parte dell'occhio che si chiama «cristallina», perché è transparente e diafana come il cristallo, la quale riceve quella tale forma della cosa che si vede, come fa lo specchio di qualunque cosa che gli è opposita; questa tale forma così veduta, dalla cristallina si transferisce al senso comune, che giudica per questo la qualità di quella tale cosa. Secondo gli Accademici, negli occhi nostri sono certi spiriti sottilissimi, e quali si partono dagli occhi e vanno a quella cosa che si vede, e riportonla per riflessione agli occhi, quasi informati dalla forma di quella tale cosa, la quale rapresentono pure alla cristallina già detta, come a uno specchio, e di quivi poi al senso comune. E però, secondo qualunque di queste due oppinioni, molto propriamente abbiamo detto che gli occhi miei fussino specchio al viso della donna mia, perché negli occhi si forma la inmagine di qualunque cosa si vede, come nello specchio qualunque opposita forma.

 

 

 

XVIII

 

Io ti lasciai pur qui quel lieto giorno

con Amore e madonna, anima mia:

lei con Amor parlando se ne gia

sì dolcemente, allor che ti svïorno!                                              4

 

Lasso!, or piangendo e sospirando torno

al loco ove da me fuggisti pria:

né te né la tua bella compagnia

riveder posso, ovunque io miri intorno.                                       8

 

Ben guardo ove la terra è più fiorita,

l'äer fatto più chiar da quella vista

che or fa del mondo un'altra parte lieta,                                    11

 

e fra me dico: «Quinci sei fuggita

con Amore e madonna, anima trista:

ma il bel cammino a me mio destin vieta!».                                14

 

Quando li successi d'alcuna cosa sono prosperi e il desiderio grande, se il fruire quella tale cosa per qualche cagione è impedito, si ricorre il più delle volte a quelli remedii e quali, o per similitudine o per propinquità, meglio e più proprio la rapresentono al pensiero; e perché il principio in tutte le opere è la potissima parte, la mente nostra volentieri torna col pensiero e, potendo, co' sensi a quelle cose che concorsono al principio, come è tempo, luogo, parole, modi e che altro vi fussi intervenuto. Credo sia già detto a·ssufficienzia quanto fussi grande il desiderio di fruire la sua dolcissima presenzia; della quale sendo privato in quel tempo che composi il presente sonetto, mi era necessario avere ricorso al sopra detto remedio di cercare qualche cosa e più simile e più propinqua che potevo al vero che desiderava il cuore mio. E però cominciai prima a rimembrare nel pensiero quello felicissimo principio onde sono proceduti tanti dolci successi. Da questo pensiero mi nacque uno desiderio ardentissimo d'andare in quello luogo nel quale prima l'anima mia, e con la donna mia e con Amore, assai lontano da me si partì: perché passò poco tempo, dapoi che gli occhi suoi m'ebbono legato, che la vidi e molto bella e molto amorosa e dolce in uno luogo amenissimo assai vicino alla terra nostra; dopo el quale tempo, come volle la fortuna mia, lei si partì, e io stetti per qualche spazio che mi era interdetta la sua dolcissima visione: nel quale feci il presente sonetto.

 

Trovandomi adunque in questo luogo nel quale avevo lasciato l'anima mia, cercavo se ve la potevo ritrovare; ma non vi vedendo né la donna mia né Amore, pensai subito che 'l mio cercare era invano e che l'anima, insieme con Amore e madonna, fussi fuggita in altra parte, come era segno manifesto non vi vedendo né l'anima né la compagnia sua, cioè Amore e madonna, li quali tutti insieme avevo lasciati in quello bello luogo. La quale anima fu sviata da Amore e dalle parole che con Amore parlava la donna mia: perché parlare con Amore non vuole dire altro che parlare cose che piacessino all'anima, e, piaccendoli, più la legassino; e certamente fu vero che molte e dolcissime parole piene d'amore e di pietà quel giorno mi fece udire. Tornai adunque non solamente in questo luogo, ma ancora mi riducevo in esso a memoria e le parole e i modi suoi, perché maggiore conforto nella absenzia sua non potevo ricevere. Questo pensiero e il luogo, che continuamente mi rapresentava quello lieto giorno, facevono nascere in me maggiore desiderio di vedere gli occhi suoi e investigare la via per la quale si fusse partita; et essendomi incognita, nessuno migliore argumento mi occorreva a trovarla che guardare la terra e l'aere. Perché, dove avevono tocco li piedi suoi era fiorita la terra, tanta virtù e grazia da quelli piedi aveva ricevuta; quella aria, per la quale il viso e gli occhi suoi erono penetrati e l'andare suo aveva divisa e partita, essendo assai più chiara e inlustre che l'altra, faceva in quella regione segno del passare di madonna: come la via lattea in cielo, la quale, mostrandosi per abundanzia di splendore che viene da moltitudine di stelle più spesse e serrate insieme, assai similitudine aveva con la via della donna mia, inlustrata dallo splendore delli occhi suoi. Era adunque assai noto a me il cammino onde, e con madonna e con Amore insieme, s'era da me dilungata e fuggita l'anima mia; ma il destino mio e adversa sorte non sopportava che io potessi, come aveva fatto l'anima, seguitare quel bello cammino: che non poteva essere se non bellissimo, per essere ornato di fiori novelli e inlustrato dallo splendore di quelli belli occhi. Questi affetti amorosi vorrei fussino expressi nel presente sonetto, il quale parla sempre alla fuggitiva anima mia, e conviene presupporre che fussi composto e recitato nel proprio luogo dove furono questi amorosi accidenti.

 

 

 

XIX

 

Datemi pace omai, sospiri ardenti,

o pensier' sempre nel bel viso fissi,

ché qualche sonno placido venissi

alle roranti mie luci dolenti!                                                         4

 

Or li uomini e le fere hanno le urgenti

fatiche e ' dur' pensier' queti e remissi,

e già i bianchi cavalli al giogo ha missi

la scorta de' febei raggi orïenti.                                                   8

 

Deh, facciàn triegua, Amor! ch'io ti prometto

ne'sonni sol veder quello amoroso

viso, udir le parole ch'ella dice,                                                 11

 

toccar la bianca man che il cor m'ha stretto.

O Amor, del mio ben troppo invidioso,

lassami almen dormendo esser felice!                                       14

 

Sogliono comunemente tutte le infirmità corporale nel sopravenire della notte pigliare augmento e affliggere più lo infermo; e questo adviene ché, mancando la virtù del sole, el quale è propizio all'umana natura, li umori maligni prendono maggiore forza e la virtù fa manco resistenzia, perché naturalmente la notte gli è data per riposo, et essendo più inclinata la notte che 'l giorno a posare, non è così intenta e vigilante alla conservazione del corpo. Questo medesimo adviene delle infirmità dello animo nostro, le quali sono nutrite da' maligni e malinconici pensieri, come le corporali da' maligni umori; e questo procede forse da più altre cagioni, ma al presente me ne occorre due: perché, come abbiamo detto alle infirmità del corpo concorrere e maggior forza di maligni umori e manco resistenzia della virtù naturale, così due cagioni hanno e morbi della mente per le quali sono più validi la notte che 'l dì. La prima si è che naturalmente gli umori di che siamo composti si muovono nel corpo nostro a certe ore determinate e proporzionate alla lunghezza o brevità del dì e della notte, cioè dividendo la notte (e 'l dì), o lunga o brieve, in dodici parte e chiamando ciascuna d'esse parte un'ora, in modo che verso la sera comincia a muoversi l'umore maninconico, e consuma una parte della notte, e quasi tutto il resto occupa la flemma. Conciosiacosa che, secondo e fisici, l'ultime tre ore della notte e le tre prime del giorno si muove il sangue, le seguenti sei ore la collora, l'altre ultime tre ore del giorno e le tre prime della notte l'umore maninconico le sei seguenti della notte la flemma; e perché l'umore maninconico e flemmatico generano nella mente nostra malinconici e tristi pensieri, di necessità conviene questi tali pensieri abbino maggior forza in quello tempo che si muovono quelli umori. L'altra cagione che multiplica el male della mente più la notte che il giorno, diremo essere che la notte non si possono usare quelli remedii contro a questi mali che si può il giorno; conciosiacosa che contro alla malignità de' pensieri migliore rimedio non si può trovare che la diversione da quel tale pensiero, e questo procede da vedere, udire e praticare diverse cose che ritragghino la mente dalle moleste cogitazioni, la qual cosa difficilmente si può fare la notte. Concludesi per questo e notturni pensieri essere molto più veementi, e, quando sono maligni, molto più molesti, e per essere più potenti e per avere manco resistenzia e remedio.

 

Era adunque notte, e io ero tanto afflitto da' pensieri miei amorosi, che più resistere non potevo, privato al tutto di sonno, cioè di quel poco di refriggerio ch'io potevo avere; e se cercavo porre da parte que' pensieri, questo mostra assai chiaramente ch'e pensieri erono molesti. La molestia de' miei pensieri amorosi da due cose poteva procedere: o veramente da una dubitazione e continua gelosia, la quale, ancora che non abbi cagione vera, accompagna sempre la mente come l'ombra il corpo, perché è natura de' maninconici, come dicemmo nella exposizione del terzo sonetto, mettere dubio nella chiarezza del sole; o veramente ché, pensando io alla bellezza della donna mia, se n'accendeva in me uno maraviglioso desiderio, del quale ardendo il cuore mio non poteva non avere grandissima passione, desiderando sommamente quello di che allora era al tutto privato. Quale adunque di queste due cagioni fussi, mosso da questa molestia, priego nel presente sonetto li miei ardenti sospiri, cioè e sospiri che nascevono dallo acceso desiderio sopra detto; priego ancora li miei pensieri, sempre fissi in quel bel viso, cioè che altro non vedevano o pensavano che quella; priego ancora le lacrime degli occhi miei (ché tutte a tre queste cose a uno tempo mi molestavono), che mi dieno pace, acciò che qualche sonno placido e dolce venissi alle mie luci roranti, cioè agli occhi miei lacrimosi: perché «rorante» s'interpetra quello che vulgarmente diciamo «rugiadoso». E per muovere conmiserazione in questi e quali io pregavo, mostro che tutti gli altri uomini e gli animali bruti, in quel tempo che io sospiravo e lacrimavo, si stavono quieti e in riposo, sanza fatica o sanza pensiero alcuno; e oramai avevo passato con questi affanni tanta parte della notte, che era tempo mi dovessi posare, perché già e cavalli del sole erono suti messi al giogo del carro solare per conducere la luce nel mondo, perché la scorta de' raggi febei, cioè l'aurora, che precede il sole, già faceva segno al mondo del futuro giorno. E perché forse pare impropriamente detto ch'e pensieri malinconici e flemmatici avessino tanta forza nel tempo dell'aurora, che abbiamo detto muoversi il sangue, bisogna intendere che, come dicemmo ne' sonetti precedenti, gli amanti il più delle volte o sono o diventano di natura malinconici; e benché in ogni tempo produchino pensieri simili alla complessione, pure questi tali pensieri multiplicano più quando alla natura si agiugne el tempo nel quale si muove l'umore. E però, ancora che succede quel tempo che pare contrario alla malinconia, interviene come d'una fornace, dalla quale ancora che si levi el fuoco, vi resta el caldo per qualche tempo, per la impressione che ha fatto el fuoco: perché naturalmente da uno extremo a un altro non si va sanza mezzo. La impressione che ha fatto l'umore malinconico è grande, e la flemma che subintra non è opposita in modo allo umore precedente che gli tolga forza, per la participazione che ha con la maninconia della freddezza; e però, giugnendo questi pensieri, così fortificati dagli umori, all'ora che si muove il sangue, bisogna che a grado a grado, per la forza dell'umore, si reduchino e pensieri alla natura del sangue. E però, all'ora già detta, veramente la forza di quelli maligni pensieri non era tanto diminuita che reducessi el sonno agli occhi miei. Non bastorono e prieghi miei a farmi essaudire da' sospiri, da' pensieri e dalle lacrime. E però, pensando quello che più potessi fare, mi accorsi che la cagione vera del male mio, quella che moveva le lacrime, e sospiri e i pensieri, era Amore; e però cominciai a voltare a lui e miei prieghi, e, avendo chiesto a quelli primi invano pace, mi ridussi con Amore a domandarli triegua: cosa che più facilmente doveva consentire, perché la pace è una perpetua quiete, la triegua temporanea. E perché più facilmente me la consentisse, promissi ad Amore che, ancora che io dormissi, non mi rebellerei dal suo regno e ne' sonni miei vederei el viso della donna mia, udirei le sue dolce parole e toccherei quella candidissima mano; e i pensieri miei, dormendo, sarebbono amorosi come erano nella vigilia, solamente con questa differenzia: che, vigilando, o per gelosia o per desiderio, e pensieri erono molestissimi e duri; dormendo, sarebbono dolci e suavi, perché adempierei quello desiderio che avevo di vedere, udire e toccare la donna mia. E questo potevo securamente promettere, perché comunemente ne' sonni si veggono quelle cose che più s'inmaginono e desiderono nella vigilia. Negandomi adunque questo bene Amore, che almanco dormendo io fussi felice, veramente lo potevo chiamare invidioso, poiché d'una falsa e brevissima dolcezza non consentiva satisfarmi.

 

 

 

XX

 

O Sonno placidissimo, omai vieni

allo affannato cor che ti disia!

Serra il perenne fonte a' pianti mia,

o dolce oblivïon, che tanto peni!                                                 4

 

Vienne, unica quïete, quale affreni

sola il corso al disire! E in compagnia

mena la donna mia benigna e pia,

con gli occhi di pietà dolci e sereni.                                             8

 

Mostrami il lieto riso, ove già ferno

le Grazie la lor sede, e il disio queti

un pio sembiante, una parola accorta.                                       11

 

Se così me la mostri, o sia eterno

il nostro sonno, o questi sonni lieti,

lasso, non passin per la eburnea porta!                                     14

 

Abbiamo nel precedente sonetto verificato che li pensieri della notte sono più intensi che quelli del giorno, e quando sono maligni, molto più molesti. Ma ancora che generalmente così sia, li pensieri amorosi più che gli altri, secondo la mia oppinione, prendono la notte forza, e sono molto più insopportabili quando sono molesti; né possono essere altro che molesti, presupponendo la privazione della cosa amata. Perché tutti e mali che possono cadere negli uomini non sono altro che desiderio di bene, del quale altri è privato: perché chi sente alcuno dolore o torsione nel corpo desidera la sanità, di che è privato; chi è in carcere, la libertà; chi è deposto di qualche dignità, tornare in buona condizione; chi ha perduto alcuna facultà e substanzia, la ricchezza. E di questo veramente si può concludere che chi fussi sanza desiderio non sarebbe sottoposto ad alcuno caso, e chi più desidera sente maggiore afflizzione. E, se questo è vero, certamente gli amanti sono più che tutti gli altri miseri, perché hanno maggiore desiderio, e la notte sono miserrimi, perché el desiderio è maggiore; perché, mancando le altre occupazioni che distraggono la mente, non hanno altro recorso contro il pensiero che gli affligge che il medesimo pensiero, e sono privati di qualche mitigazione che potrebbe il giorno avere la loro passione: come sarebbe vedere la donna amata, parlarne con qualche amico, vedere qualche suo intimo o consanguineo o domestico, vedere almeno la casa dove lei abita; le quali benché non sieno al tro che a uno febricitante e siziente lavarsi alquanto la bocca, che è cagione di crescere tanto più la sete, pure el tempo passa con manco afflizzione. E puossi veramente dire che gli amanti vivono di dolcissimi inganni che loro fanno a loro medesimi; de' quali essendo privati in qualche parte la notte, soli e pensosi, né consolazione alcuna né sonno amettono: come mostra el presente sonetto, molto simile di sentenzia al precedente. Il quale parla al Sonno, pregandolo che vogli venire, dopo tanti affanni e inquietudine, a serrare il fonte degli occhi miei lacrimosi, fonte perenne, cioè vivo e perpetuo, quasi dica che, se 'l Sonno non serra quelli occhi, non resteranno mai di lacrimare. Chiama dipoi il Sonno dolce oblivione e unica quiete per raffrenare il desio, perché questi due soli remedii aveva l'afflizzione mia, cioè o dimenticare, intermettendo e pensieri, o mitigare tanto desiderio. E perché a me medesimo pareva impossibile non solamente il dormire, ma il vivere sanza inmaginare la donna mia, priego il Sonno che, venendo negli occhi miei, la meni seco in compagnia, cioè me la mostri ne' sogni e mi faccia vedere e sentire il suo dolcissimo riso; quello riso, dico, ove le Grazie hanno fatto loro abitaculo, cioè che è sopra tutti gli altri grazioso e gentile: che veramente è detto sanza alcuna adulazione, tanta grazia e in ogni cosa e maxime in questo aveva la donna mia. Desideravo ancora che 'l sembiante suo, cioè l'apparenzia, mi fussi mostra dal Sonno pia, e il parlare accorto, e atta l'una e l'altra cosa a porre in qualche pace il mio ardentissimo desiderio; e però bisognava che il sembiante e le parole fussino amorose e piene di speranza. E, come si vede, in tutto questo sonetto non si cerca altro che raffrenare e temperare il disio corrente e ardentissimo. E credendosi il mio pensiero dovere obtenere dal Sonno questa sua petizione, come adviene alla insazietà dello appetito umano, da questo primo desiderio transcorre al desiderare ancora, o vero perpetuamente queste felicità dormendo, o qualche volta remosso el sonno. Perché dice che, consentendo el Sonno e volendo essaudire e prieghi miei di rapresentarmi la donna mia bella e pietosa etc., desiderebbe dormire etternamente, sanza destarsi mai, presupponendo sempre vedere la donna mia con le già dette condizioni; e se pure questo fussi impossibile, almeno non sieno questi sogni vani e bugiardi, come sono quelli che passono per la porta eburnea. Trovasi scritto fabulosamente per li antichi poeti essere appresso gli inferi due porte, che l'una è eburnea, cioè d'avorio, l'altra è di corno, e che tutti e sogni e quali pervengono alla umana inmaginazione nel sonno passono per queste due porte, con questa distinzione: che e sogni veri passono per la porta del corno, quelli che sono falsi e vani per la porta dello avorio. E però, pregando io che questi sogni lieti non passino per la porta eburnea, tanto è come pregare che quelli sogni non sieno falsi, ma verificati, e abbino quello felice effetto che sogliono avere quelli della porta cornea.

 

 

 

XXI

 

Cerchi chi vuol le pompe e gli alti onori,

le piazze, e templi e gli edifizii magni,

le delizie, il tesor, quale accompagni

mille duri pensier', mille dolori.                                                    4

 

Un verde praticel pien di bei fiori,

un rivolo che l'erba intorno bagni,

uno uccelletto che d'amor si lagni,

acqueta molto meglio i nostri ardori;                                           8

 

l'ombrose selve, e sassi e gli alti monti,

gli antri obscuri e le fere fugitive,

qualche leggiadra ninfa päurosa.                                               11

 

Quivi veggo io con pensier' vaghi e pronti

le belle luci come fussin vive,

qui me le toglie ora una ora altra cosa.                                      14

 

Assai copiosamente nelli due precedenti sonetti abbiamo mostro quanto sieno più veementi e pensieri notturni, e spezialmente gli amorosi; e avendo fatto menzione solamente dell'afflizzione che danno li maligni pensieri, convenientemente pare che séguiti li due precedenti el presente sonetto, nella exposizione del quale accade mostrare quanta dolcezza portino li pensieri amorosi che non procedono da molesta cagione, che ragionevolmente portono maggiore dolcezza che gli altri pensieri, se è vero che li maligni amorosi pensieri portino maggiore molestia; perché le medesime cagioni che fanno el primo excesso della infelicità producono ancora più excessiva felicità: come diremo d'uno avaro, el quale ha tanto dolore perdendo una quantità di danari, quanto è la letizia se guadagnassi la medesima quantità. Perché, se gli è vero, come abbiamo detto nel precedente comento, che l'appetito sia quello che ci sottometta a' casi della fortuna e alle perturbazioni, pare necessario bisogni che secondo la quantità dello appetito si misuri el bene e 'l male nostro; et essendo d'una medesima cosa el medesimo appetito, pare non solamente vero, ma necessario che la felicità e infelicità di quella tale cosa sia equale secondo equali gradi, o della privazione di quella cosa o dello adempiere l'appetito. Sono adunque gli amorosi pensieri dolcissimi e più che gli altri soavi quando procedono da dolce cagione, come mostra el presente sonetto. E perché dicemmo inanzi che la infelicità degli amorosi pensieri procedeva da privazione della cosa amata e dal suspetto che comunemente accompagna gli amanti, da due cagione similmente procede la felicità de' pensieri già detti, presupposta sempre la certezza, come possono avere gli amanti, della fede e amore della cosa amata. L'una cagione è pensando a qualche fresca e passata felicità e contento, sopra alla quale il pensiero si dilata e volentieri a cosa a cosa rimembra, parendogli, così faccendo, quasi più prolungare la passata dolcezza; l'altra procede da una speranza, assai vicina allo effetto, del futuro bene, la quale abbi in sé tale certezza che quasi lo facci parere presente. E come la prima cagione, dopo il fatto, fa più perpetuo el passato bene, così la propinqua speranza, inanzi al fatto, gli dà principio: come si vede, per essemplo, che chi aspetta una simile dolcezza o chi di fresco l'ha provata vorrebbe alienarsi da tutti gli altri pensieri; e io ho conosciuto qualcuno che, avendo una sùbita e insperata novella e certezza nel propinquo e futuro bene, ne resta quasi attonito, sanza udire alcuna cosa che gli sia detta o usare alcuno senso, essendo astratto da quel pensiero.

 

Questi affetti amorosi adunque mostra el presente sonetto, el quale, postponendo a simili pensieri amorosi tutte le cose che agli uomini comunemente sono gratissime e dolce, assai chiaro fa intendere quanto sia grande la dolcezza della amorosa cogitazione. Dice adunque lasciare a chi le vuole le pompe e gli alti onori e le publiche magnificenzie, come piazze, templi e gli altri edifizii publici, e per questo denota gli ambiziosi e quelli che con sommo studio cercano l'onore; dice dipoi che cerchi ancora chi vuole le civili dilicatezze, e per questo denota tutti e piaceri e lascivie umane; agiugne il tesoro, mostrando l'amore e lo studio della pecunia. Perché l'appetito nostro solamente circa queste tre cose si extende, cioè ambizione, voluttà corporale e avarizia, perché l'onore, il piacere e l'utile impedisce ogni altra nostra operazione. Séguita dipoi mostrando che cose aiutono e nutriscono e pensieri amorosi, cioè un verde praticello pieno di be' fiori, e uno rivolo che bagni l'erba intorno al luogo onde gira, e gli amorosi canti di qualche uccelletto. E qui è da notare che contro alle pompe et edifizii magni e l'altre cose descritte con parole grande e magnifiche, si oppone tutte cose piccole e chiamate per vocabuli diminutivi, come praticello, rivulo e augelletto, per provare meglio che se le predette cose grande sono accompagnate da mille duri pensieri e da mille dolori, queste piccole a contrario debbono inducere più tranquilli e quieti pensieri. Séguita dipoi che le selve, e monti, e sassi, le spelonche, le fere silvestre e qualche timida ninfa sono cose propizie a questi pensieri d'amore, per mostrare in effetto che la solitudine e il dilungarsi dallo umano consorzio riduce la mente più quieta e non forza e pensieri; e però, non sendo forzati, facilmente tornono alla natura e si profondono tanto più nella inmaginazione di quello che più desiderano e amano. E allora ha tanta forza la inmaginazione, che mostra agli occhi quello che vuole; e a me mostrava in modo le luci, cioè gli occhi della donna mia, come se vedessi lei viva e vera. Ma nella città, quando una cura, quando un'altra mi toglieva questa dolcezza, la quale veramente è grandissima. E, quando non si provassi per altra ragione, si prova per questa: che la dolcezza della inmaginazione ha qualche similitudine con la vera beatitudine, cioè quella che consegue l'anima a cui è data la gloria etterna, la quale in altro modo non si fruisce che inmaginando e contemplando la bontà divina. E benché questa contemplazione sia differente assai dalla contemplazione umana, perché quella contempla el vero e questa una inmaginazione vana che forma l'appetito mortale, nondimeno l'una con l'altra ha qualche poco di similitudine nel modo; e così imperfetta come è, questa mortale è aprovata per la prima felicità del mondo quando ha per obietto la vera perfezzione e bontà, secondo che si può conseguire nella mortale vita. Per questo si può dire che la contemplazione di qualunque cosa non molesta abbi in sé grande dolcezza, perché ha qualche parte di similitudine con la somma dolcezza e perfetta felicità.

 

Bisogna nel presente sonetto presupporre che fussi composto nella città, perché dicendo «qui me la toglie» etc., come si legge nell'ultimo verso, è necessario s'intendi «qui», cioè nella città, presupponendo ancora qualche fresco piacere o di contemplazione o d'altro ricevuto in luoghi alpestri e solitarii, per la quale comparazione si appetischino le ville e s'abbi in odio la città.

 

 

 

XXII

 

– Ponete modo al pianto, occhi miei lassi,

presto quel viso angelico vedrete!

Ecco, già lo veggiam. Perché piangete?

Perché nel petto il cor pavido stassi? –                                       4

 

– Miseri noi, che se fiso mirassi,

fermando in noi le vaghe luci e liete,

il nostro bavalischio, o faria priete

di noi, o converria l'alma expirassi! –                                          8

 

– Dunque, qual disio face a voi, qual sorte,

e temere e voler quel vi disface?

Chi muove o scorge il passo lento e raro? –                              11

 

– Natura insegna a noi temer la morte,

ma Amor poi mirabilmente face

süave a' suoi quel ch'è ad ogni altro amaro–.                             14

 

Leggesi in Omero, antiquo et excellentissimo poeta greco, che Giove, quando vuole mandare agli uomini nel mondo la sorte che a ciascuno si conviene, ha due grandissimi vasi, delli quali l'uno è pieno di sorte adverse e infelice, nell'altro sono sorte felici e infelici insieme confusamente miste. E volendo mandare ad alcuno cattiva sorte, toglie di quelle del vaso el quale solamente contiene le sorte adverse; volendo fare alcuno felice, gli manda dell'altro vaso nel quale sono le adverse e prospere sorte mescolate: per denotare che facilmente gli uomini possono essere infelici sanza participazione d'alcuna felicità, ma non possono già essere felici sanza participazione di miseria. E se alla confermazione di sì vera sentenzia non fussi abastanza l'auttorità d'uno poeta tanto excellente che fu chiamato «divino», la experienzia dell'umane cose ne rende assai abundante testimonianzia. Questa verità seguitiamo ancora noi nel presente sonetto; e avendo nelli tre precedenti verificato due sentenzie, cioè la felicità e infelicità degli amorosi pensieri, non pare che sanza vera cagione accaggia nel presente sonetto mostrare che la felicità e infelicità amorose bene spesso sono congiunte e complicate insieme, anzi quasi sempre sono in compagnia, se bene tra loro or l'una or l'altra abbia maggior potenzia. Né adviene questo solamente nelle cose amorose, ma ancora nelle naturali, e comunemente in tutti e casi che advengono agli uomini. Perché, quanto alle naturali, veggiamo tutte le cose che vivono al mondo constare d'oppositi e vivere per contrarietà d'umori, et essere composte di cose che ciascuna per sé offende molto la natura di quella tale cosa; e se non fussi la repressione degli umori contrarii, non viverebbe alcuna cosa in questo mondo inferiore. E però si può dire tutti gli animali mortali, vegetativi, sensitivi e razionali, non vivere per benificio degli umori de' quali sono composti, ma a dispetto d'essi e contra alla voglia loro, perché ciascuno umore naturalmente appetisce vincere e contrarii suoi, e sùbito che questo tale naturale appetito in qualunque d'essi ha effetto, e che l'uno vinca l'altro, di necessità viene la morte; e la vita si conserva mentre che dura la potenzia equale e la guerra tra l'uno e l'altro. E però diremo la vita nostra constare d'opposizione, contrarietà e diversi mali, e la morte procedere dalla pace. Pruovasi adunque per questo la vita, che appresso e mortali è stimata tra ' primi beni, avere sempre in compagnia questo conflitto delli elementi. Quanto a' casi del mondo e a quello che 'l più delle volte adviene agli uomini, è assai manifesto o essere male puro sanza participazione di bene, o bene misto con molto male. E benché non mi paia questa proposizione abbi bisogno d'alcuna confirmazione, tuttavolta, distinguendo le operazioni umane in mentali e corporali, credo sia facile ad intendere che sempre la mente e intelletto ha oppositi e inimici e sensi e le passioni corporali: che così conviene che sia, essendo di natura molto contrarii lo intelletto e il corpo; le passioni e gli appetiti corporali sempre hanno per obstaculo el rimordimento della conscienzia, che procede dallo intelletto; e oltre a questo, spesso, anzi quasi sempre, una passione è contraria all'altra e l'uno appetito all'altro: che così conviene che sia, procedente le passioni umane in gran parte dagli umori delli quali siamo composti, che, come abbiamo detto, sono de directo contrarii l'uno all'altro. Veggiamo ancora nelle civili, proprie e domestiche operazioni la difficultà del pigliare qualche partito nascere dal concorrere in ogni partito qualche inconveniente, né si trovare di mille volte una vera diliberazione alla quale non si possa contradire. E però quelli che sono più prudenti indugiono più a pigliare partito, e per questa tardità si chiamono «uomini gravi»; e il tempo si chiama «sapientissimo», perché la sapienzia vera consiste nello aspettare e usare la occasione, e questa non sarebbe necessaria se non per la molta difficultà che portano seco le occorrente deliberazioni. Verificasi adunque ogni umana azzione non essere absolutamente buona, né dolce sanza participazione di miseria. E questo molto più si conosce nelle cose che la passione e l'appetito governono: come sono e casi amorosi, perché dicemmo nel comento del sonetto che comincia In qual parte andrò io etc., amore non essere altro che una gentile passione.

 

Questa medesima sentenzia conferma el presente sonetto, el quale è composto per dialago: perché nel primo quadernario parla el sonetto agli occhi miei lacrimosi; el secondo quadernario, che comincia Miseri noi, rispondono gli occhi; dipoi il primo ternario, che comincia Dunque, qual disio, parla pure il sonetto agli occhi; l'ultimo ternario, che comincia Natura, rispondono pure gli occhi. Ritornando adunque al principio, è necessario presupporre che gli occhi miei da grave e continuo pianto erono occupati; e questo pareva maraviglia, essendo loro molto vicini e avendo quasi presente l'angelico viso della donna mia, nella visione del quale pareva consistessi la loro felicità, come dicemmo nel sonetto che comincia Occhi, io sospiro etc. Per questo pareva ragionevole prima confortare gli occhi a porre fine al pianto, perché presto vedrebbono la donna mia, la quale si poteva dire essere quasi presente. E perseverando pure gli occhi nel pianto, molto convenientemente si domanda perché pure piangono e per che cagione el cuore sta nel petto tutto pavido e pieno di sospetto. Rispondono a questa proposta gli occhi, mostrando el pianto loro procedere per il dubbio che hanno della forza degli occhi della donna mia, la quale chiamano bavalischio, il quale si dice avere per natura d'uccidere solamente con lo aspetto degli occhi; e però, come con li occhi solo lui uccide, così dubitano gli occhi miei non potere sopportare lo sguardo della donna mia, la quale, se fiso gli mirassi, o farebbe priete degli occhi come del resto del corpo, o converria l'alma expirassi e la vita si partissi. Vedesi questi due dubbi che mostravano gli occhi miei essere fondati nella experienzia di cose già sute, perché, quanto al diventare priete, si legge di Medusa (come abbiamo detto), quanto alla morte, similmente abbiamo lo essemplo del bavalischio. Absoluto adunque el primo dubio e mostra la cagione giusta del pianto, ne nasce uno altro, e questo è che, dato che tale sospetto sia giusto, gli occhi dovevono fuggire lo aspetto della donna mia come cosa mortale, e, seguitando pure el cammino per vederla, era necessario che giustificassino se desiderio o sorte menassino gli occhi miei, desiderando loro e temendo una medesima cosa; e in questo desiderio e timore si mostra l'amistione sopra detta della amaritudine con la dolcezza, perché el timore presuppone la amaritudine e il desiderio la dolcezza. Dice disio o sorte perché gli uomini qualche volta sono mossi da uno proprio e naturale desiderio, qualche volta sforzati quasi dal destino: perché si legge: «Fata volentem ducunt, nolentem trahunt», e per experienzia spesse volte si vede gli uomini per elezzione fare molte cose contro alla propria voluntà. Qual disio, adunque, o qual sorte muove el passo lento e raro? E in questi due epiteti del passo si mostra a un tempo e voglia e timore nello andare; perché, se fusse voglia sanza timore, el passo sarebbe presto et expedito, se fusse timore sanza voglia, non sarebbe el passo né alcuno movimento verso quella cosa che si temessi, perché el timore di natura fa fuggire, conciosiacosa che quello che si teme s'ha in odio e quello che s'ha in odio si fugge. A questo obietto rispondono gli occhi, mostrando la cagione del timore essere molto naturale, conciosiacosa che per natura ciascuno teme la morte; la cagione dello andare pure inanzi essere Amore, el quale non per alcuna naturale ragione, ma mirabilmente fa parere suave nelli amanti quello che in tutti gli altri è amaro e durissimo. E veramente è detto «mirabilmente», perché «mirabile» è ogni cosa la quale è contro all'ordine della natura; né potrebbe essere più opposito all'ordine della natura quanto è el desiderio della morte, de' pianti, de' sospiri e dell'altre amorose passione. Concluderemo per questo gli amanti essere di tutti gli uomini miserrimi, non solamente per una sorte comune che abbiamo detto avere tutte le cose umane, per avere sempre l'amistione del male, ma ancora per una particulare cagione: che gli amanti non hanno mai bene alcuno, né per proprietà (come l'altre cose), né per participazione, conciosiacosache le maggiore dolcezze amorose non pare che consistino in altro che in quello che gli altri uomini chiamano «sommo male». Pure è assai agli amanti gustare una felicità che paia a·lloro propria, perché il contento umano consiste più tosto nel parere che nell'essere; e se a·lloro pare essere felici, sono, non però sanza ammistione sempre di 'nfelicità, pure amorose. E per questo io giudico che la dolcezza degli amanti sia rara, e qualche volta assai grande, ma le infelicità loro essere quasi continue e il dolore sanza comparazione maggiore, conciosiacosa che 'l dolore è spesso sanza dolcezza e la dolcezza non mai sanza dolore. E così conviene che sia, dove è infinita passione e insaziabile appetito.

 

 

 

XXIII

 

Sì dolcemente la mia donna chiama

morte nelli amorosi suoi sospiri,

che accende in mezzo alli aspri miei disiri

un süave disio, che morte brama.                                                4

 

Questo gentil disio tanto il core ama,

che scaccia e spegne in lui gli altri martìri;

quinci prende vigore e par respiri

l'alma contr'a sua voglia, afflitta e grama.                                     8

 

Morte, dalle dolcissime parole

di mia donna chiamata, già non chiude

però i belli occhi, anzi sen fa piatosa.                                        11

 

Così mantiensi al mondo il mio bel Sole,

a me la vita mesta e lacrimosa,

per contrario disio, che morte exclude.                                     14

 

Perché nel precedente sonetto abbiamo fatto qualche menzione de' miracoli d'Amore, vorrei avere tale facultà che gli potessi fare credibili apresso di qualunque, come sono certi apresso alli gentilissimi ingegni delli inamorati. E veramente, come si può imputare a gran difetto il credere leggermente quelle cose che prima facie paiono impossibile, così non mi pare da aprovare la oppinione di quelli che non prestono fede ad alcuna cosa, quando exceda in qualche parte o l'uso comune o l'ordine naturale, perché spesso si è veduto nascere grandissimi inconvenienti presupponendo una cosa falsa, per parere quasi impossibile, e nondimeno pure essere vera. E, oltra questo, come el credere presto pare officio di uomo leggiere, così absolutamente el non credere dimostra grande presunzione; perché, chi dice: «Questa cosa non può essere», presumme di sapere tutte le cose che possono essere e quanto sia la potenzia della natura; e nondimeno si vede molti effetti naturali diversi e quasi incredibili, se non fussino notissimi quasi a ogni persona. E chi crederrebbe che d'uno piccolo acino d'uva, nel quale non si vede colore, odore o sapore certo, si generassi la vite, con tante degne qualità? Questo medesimo degli altri semi, che tutti servano diversamente la propria spezie; né paiono mirabile queste cose perché si veggono a ogni ora. E a me pare che sieno maggiore maraviglie quelle che a ogni ora si veggono degli effetti naturali, che quelle di alcune altre cose le quali, per essere molto rare e lontane dalla cognizione nostra, paiono mirabile: come sono alcune spezie d'animali, che, per essere ignote a noi, giudichiamo quasi impossibile che possino essere, e forse in quelli paesi che le producono sono così comune, come a noi cani, cavalli e altri simili animali. Leggonsi quelle sei maraviglie, che mette el poeta nostro Petrarca in quella canzona che comincia Qual più diversa e nuova, appresso gli autori antiqui e autentici. E chi considera bene e quelle e l'altre cose che per mirabile si prèdicono, vedrà, se si può così dire, molto maggior fatica della natura in queste cose che a ogni ora abbiamo inanzi agli occhi, che in quelle le quali ammiriamo più tosto per essere rare che impossibile. Debbonsi adunque ancora gli amorosi miracoli, se non al tutto credere che sieno, almanco credere che sieno possibili. E a me è paruto dovere fare questa preparazione nella exposizione del presente sonetto, avendo a narrare una cosa che forse pare impossibile, e nondimeno è vera, perché il sonetto non intende altro che provare come el desiderio della morte è cagione inmediate della vita. E, per venire allo effetto, bisogna intendere che la mia gentilissima donna aveva per uno suo costume spesso in bocca la morte e mostrava nelle parole sue bramarla, credo conoscendosi tanto gentile, che li pareva questa vita noiosa non fussi degna di sì bella cosa. Et essendo io suto presente qualche volta quando lei dolcissimamente chiamava la morte, mi veniva tanta amaritudine e dolore, quanto darebbe a ciascuno el dubbio della privazione d'ogni suo bene, perché mi pareva che lei la chiamassi sì dolcemente e con parole tanto efficace, che la morte non si gli potesse negare; agravando più el dolore mio la cagione di questo suo desiderio, la quale era Amore, chiamando lei morte negli amorosi suoi sospiri. E per questo bisognava che fussi cagione di questo desiderio o una grande amaritudine e passione o una somma dolcezza; perché ambodue questi affetti causano negli uomini simili desiderii, perché la morte si brama o per uscire di doglia, o perché non sopravenga amaritudine che contamini una somma dolcezza e felicità, seguitando quella sentenzia, «tunc pulchrum esse mori» etc. Quale adunque fussi di queste cagione, a me dava grandissima afflizzione, maxime per quello di che io potessi essere suto imputato, poiché Amore era cagione di questo desiderio. E, combattuto da questa passione, in fine mi risolvevo a uno unico rimedio, d'accompagnare ancora io la donna mia in questo durissimo desiderio della morte. E però si accendeva tanto in me questo desiderio, che cominciava a parermi dolce in modo, che addolciva tutte le altre mie passioni. E perché naturalmente si appetisce e si seguita quello che piace più, el cuore mio abbandonò tutti gli altri pensieri e pose da parte ogni altro desiderio e cura per seguire questo dolcissimo e gentile desio della morte. E benché tutti e pensieri d'alcuna cosa, essendo intensi e veementi, faccino postporre comunemente tutte l'altre cure, pure quello della morte fa molto meglio questo effetto. Perché ogni altro pensiero mette da parte gli altri pensieri minori non per sempre, ma per qualche tempo, perché, vivendo, possono tornare, anzi è necessario che tornino, e almeno quelli che induce la necessità della vita; ma el pensiero della morte debba alienare la mente da ogni altra cosa, perché dopo la morte non v'è che pensare quanto pel corpo e pel mondo. Per questo si dice che ogni altro desiderio e passione e tutti e martirii e affanni che si sentono, erono spenti nel cuore sopravenendo questo dolce desiderio della morte. Et essendo spente tutte queste passioni e restando solo el dolce pensiero della morte, la vita ne pigliava vigore e respirava alquanto: che così necessariamente conveniva che fussi, essendo spenti gli inimici suoi e restando in lei solo quello dolcissimo desiderio, cioè uno desiderio che gli piaceva, e, piaccendogli, dava forza all'anima e contra a sua voglia prolungava la vita; non «contra a sua voglia», quasi contra alla sua naturale voglia, ma contra al desiderio della morte. E benché questo gli dovessi arrecare qualche molestia, sendo opposito alla dolcezza di quello desiderio, pure, vivendo madonna (come faremo intendere) e mantenendosi viva, per questa medesima cagione non gli dava molestia alcuna, anzi maggiore contento, perché el desiderio vero del mio cuore era la vita della donna mia. Provasi adunque che del desiderio della morte, che chiamava spesso la donna mia, si conservava in me la vita. Questo medesimo desiderio suo conservava ancora la vita in lei, conciosiacosa che 'l desiderio faceva che lei con le dolcissime sue parole chiamasse la morte, la quale, sentendosi chiamare, non chiudeva per questo però e belli occhi della donna mia, ma per pietà di lei gli prolungava la vita. E così e in lei e in me si conservava la vita; e questa conservazione era causata da uno desiderio contrario al la vita, cioè della morte, el quale excludeva la morte, cioè, ne' modi che abbiamo detto, faceva scostare la morte. Questo miracolo e molti altri abbiamo veduti d'Amore, e crediamo appresso e gentili cuori sarà assai credibile, el testimonio de' quali ancora appresso degli altri doverrebbe avere fede.

 

 

 

XXIV

 

Allor ch'io penso di dolermi alquanto

de' pianti e de' sospir' miei teco, Amore,

mirando per pietà l'afflitto core

l'imagin veggo di quel viso santo.                                                4

 

E parmi allor sì bella e dolce tanto,

che vergognoso il primo pensier more;

nascene un altro poi, che è uno ardore

di ringraziarla, e le sue laude canto.                                             8

 

La bella imagin che laudar si sente,

come dice il pensier che lei sol mira,

sen fa più bella e più pietosa assai.                                            11

 

Quinci surge un disio nuovo in la mente

di veder quella che ode, parla e spira:

e torno a voi, lucenti e dolci rai.                                                14

 

Ero soletto e sanza alcuna compagnia, se non delli miei amorosi pensieri, li quali molestandomi come el più delle volte sogliono fare, cominciai meco medesimo a fare pensiero di volerne fare doglienza con Amore, come cagione de' miei pianti e sospiri e dell'altre amorose pene; e, volendo ad una ad una narrargliene, mi era necessario cominciare da quella parte che e prima e più era offesa, la quale era il cuore. Volendo adunque narrare l'afflizzione del cuore, pareva necessario di guardare nel cuore, e, guardando, considerare, per potere narrare lo stato suo. E se bene nel cuore erano dipinte molte passioni e tormenti, pure maggiore impressione aveva fatto in esso la inmagine del viso della donna mia; el quale, essendo bellissimo e, sì come era il vero, molto lucente e chiaro, e per la bellezza e per la luce tirò gli occhi miei e gli sforzò a rimirare quella inmagine, levando loro la visione delle pene del cuore: parendo molto conveniente che una cosa bella e lucente e levi la visione dell'altre cose, come è natura della excessiva luce, e tragga gli occhi a sé, come sempre suole fare la bellezza. Mirando adunque gli occhi miei questa inmagine in luogo delle pene, parve loro molto bella e dolce, cioè piena di pietà; e però, se prima era intenzione degli occhi vedere l'afflizzione del cuore, cosa molesta e deforme, per dolersi, veggendo il viso della donna mia bello e pietoso, e de directo opposito a quelle afflizzioni, ne doveva nascere ancora uno affetto tutto contrario al dolersi. Per la qual cagione il primo pensiero di dolersi vergognoso morì e in tutto si spense, e un altro ne nacque contrario di ringraziare e onorare la donna mia; la quale era sì bella e tanto gentile, che, solamente essendomi concesso di vedere sì bella cosa, quando mai non vi fussi suto pietà alcuna, non potevo avere cagione a dolermi, ma più tosto di ringraziarla. Mosse el pensiero di dolersi la passione, che accieca la mente e obumbra lo intelletto di una tenebrosa ignoranzia; ma sopravenendo la luce della verità, e fugate queste tenebre, non sanza vergogna si rimira lo errore passato; e però muore vergognoso el primo pensiero e nel suo luogo succede l'altro pensiero, più vero e più laudabile, di ringraziare la donna mia e d'essaltarla e laudarla. Le quali laude, sendo portate alla inmagine sua che è nel mio cuore, la fanno parere assai più bella e più pietosa: che così pare al pensiero mio, che non vede alcuna cosa se non questa inmagine. E perché di sopra abbiamo detto gli occhi vedere il cuore e le cose che sono in lui, le quali sono invisibili, al presente si dice che il pensiero, el quale non ha potenzia di vedere, mira la inmagine della donna mia. E per solvere l'una e l'altra obscurità, bisogna intendere, dove si dice «occhi» e «vedere», «pensieri» e «inmaginare», perché gli occhi, gli orecchi e la lingua e ogni senso che s'atribuisce al cuore non sono altro che pensieri, per mezzo de' quali el cuore, cioè la mente nostra, inmagina e opera, come el corpo per mezzo de' sensi; e però tutte le altre operazioni corporali, come è parlare e sentire, che fa quella inmagine, si debbono referire a inmaginazioni. E, così intendendo, si verifica quello abbiamo detto, che, sentendosi quella inmagine laudare, si fa più bella e più pietosa; perché quanto la inmaginazione è più forte, più gli pare vedere quello che allora inmagina, e inmaginando la donna mia pietosa e bella, pare necessario che, quanto più la inmagina così, più diventi bella e pietosa nel pensiero. Da questa tale inmaginazione di tanta bellezza e dolcezza nasce uno desiderio ardentissimo e nuovo nella mente di vedere la donna mia viva e vera; né dice disio nuovo perché questo sia nel cuore mio el primo desiderio che avessi mai di vedere la donna mia, ma dice nuovo a quelli altri pensieri, quasi rinato allora di nuovo. Questo nuovo disire, adunque, mi muove a vedere la donna mia viva e vera, perché il parlare, udire e spirare sono officio d'animale vivo, e non di cosa che sia inmaginata. Con questo desiderio, adunque, torno a vedere li lucenti e dolci raggi degli occhi della donna mia; e dicendo torno, mostro el desiderio non essere nuovo, cioè il primo che avessi mai di vederla, perché tornare a vederla presuppone altre volte essere ito per vederla; e dicendo raggi e lucenti e dolci, si mostra la bellezza e pietà che prima era in quella inmagine, la quale, per similitudine del vero, mi mosse a vedere quella bellissima cosa della quale ella era un dolcissimo essemplo. Notasi nel presente sonetto tre pensieri e uno effetto. Prima el pensiero di dolersi; el quale vergognoso morendo, nasce el secondo di ringraziare e laudare la donna mia, inmaginandola bella e pietosa; quinci nasce el terzo dello andare a vedere la vera, per similitudine della inmaginata. Dopo questi tre pensieri séguita l'effetto di mettere ad essecuzione quello che propose l'ultimo pensiero.

 

 

 

XXV

 

Madonna, io veggo ne' vostri occhi belli

un disio vago, dolce et amoroso,

che Amore a tutti li altri tiene abscoso,

a me benignamente lo mostra elli.                                               4

 

Questo gentil disio par che favelli,

promettendo al mio cor pace e riposo:

questo afferma un sospir caldo e piatoso,

che Amore in compagnia per fede dielli.                                     8

 

Questo sospir porta al mio cor novelle

della pietà, che fuor del bianco petto

lo manda messagger del vostro cuore.                                      11

 

Giunto alla bella bocca, e pie e belle

parole forma, di sì dolce effetto,

che fa stupido star, non che altri, Amore.                                  14

 

Di tutti e sensi nostri, sanza alcuna controversia, el più degno è reputato il vedere; e questo non è solamente giudicio degli uomini, ma ancora della natura, conciosiacosa che ha posto gli occhi e più alti che alcuno altro senso e più vicini al luogo dove sta lo intelletto. Conoscesi manifestamente gli occhi essere più necessarii alla vita umana che alcuno degli altri sensi, perché pare che per la notizia delle cose visibile si proceda agli altri sensi molto più facilmente. Sono cagione ancora gli occhi di farci conoscere la più bella cosa che possino conoscere e sensi, cioè la luce, perché né odore, né sapore, né alcuna voce o altra cosa sensitiva si può comparare alla luce.

 

Hanno ancora gli occhi questo previlegio et excellenzia negli altri sensi: che il cuore per alcuno altro mezzo sensitivo non si manifesta, ma tiene a tutti gli altri quasi secreti e suoi concetti, e solo per li occhi gli manifesta; perché di letizia e dolore, ira e amore, e di tutte l'altre passioni del cuore, gli occhi bene spesso danno assai chiaro indizio. E tanto vicino questo senso del vedere alla qualità dello animo nostro, che, secondo Plinio, chi bacia gli occhi ad alcuna persona, gli pare quasi baciare l'animo suo. E benché questo advenga in tutte le passioni, pure molto meglio si conosce negli affetti amorosi, nelli quali gli occhi hanno grandissima parte; perché il principio onde esce e onde entra Amore sono gli occhi, e quali e per loro medesimi sono la più bella cosa che abbi el corpo umano, e hanno per obietto la bellezza; e però, essendo la più bella cosa che abbi una donna bella, credo el più delle volte sieno la prima cosa che cominci dagli occhi dello amante a essere amata. Esce adunque Amore dagli occhi della cosa amata e per li occhi dello amante entra nel cuore: che si verifica che gli occhi active et passive sono principio d'amore. Faccendo adunque Amore la prima impressione negli occhi e aprendo per loro la strada al cuore, molto più facilmente comunica el cuore le sue passioni amorose agli occhi che le altre. E ha Amore dato questo rimedio all'afflizzione degli amanti, che, essendo tolto di mezzo el parlare e ogni altra via d'intendere el cuore l'uno dell'altro, per li occhi spesso e amorosi sguardi s'intendono. Era la donna mia, come abbiamo detto, sopra tutte le altre bellissima, e però si può pensare quanto fussino belli gli occhi suoi, che, secondo abbiamo detto, vincono qualunque altra corporale bellezza; e perché l'appetito nostro sempre cerca più quello che gli pare migliore, ancora che tutta la donna mia da me fusse amata, pure gli occhi miei erono tirati a guardare gli occhi suoi, come maggior bellezza. Guardavo adunque fiso e suo belli occhi e pareami vedere in essi uno desiderio amoroso pieno di pietà e dolcezza, che così per mezzo loro mi voleva fare intendere el suo gentilissimo cuore. E questo dolcissimo desiderio Amore non lo mostrava se non agli occhi miei, nascondendolo dagli altri, credo perché gli altri così fiso non gli miravano; né era tanto expedita la via tra la donna mia e loro da Amore per mezzo degli occhi, come tra 'l cuore suo e 'l cuore mio, secondo che di sopra abbiamo detto; e oltra questo, essendo Amore quello che mi mostrava questo desio della donna mia, che era mezzo tra lei e me, gli altri non lo potevano vedere, perché tra loro e lei non era Amore che lo mostrassi. Parevami quello gentile desiderio parlassi al mio cuore e gli promettessi, dopo tanti affanni e amorose persecuzione, pace e riposo, presupponendo per la futura pace la passata guerra e pel riposo e quiete le fatiche e affanni amorosi: perché tutti questi affetti dolcissimi mostravano quelli occhi. E dubitando la donna mia che per li passati essempli io non prestassi forse interamente fede alle parole che gli occhi suoi mi dicevano, accompagnò questo pietoso desiderio d'uno amoroso sospiro; el quale, sendo mandato nunzio al mio cuore, uscì fuora del bianco petto della donna mia, testimonio della pietà ch'era in essa, la quale pietà aveva messo nel cuore quello sospiro amoroso. E avendo detto la cagione naturale de' sospiri nella exposizione di quello sonetto che comincia Se 'l fortunato core etc., non pare necessario qui dirne altro, ma bisogna intendere che questo sospiro nacque nel cuore, el quale contrasse a sé, per mezzo dello alito, l'aere per refrigerarsi; e prima che essalassi e spirassi fuora, formò nella bocca della donna mia certe parole dolcissime e amorose, per modo che e le parole e il sospiro pareva che a uno tempo di quella bella bocca uscissi. Perché, parendo alla donna mia non fussi forse sufficiente, a testificazione della sua pietà e amore, né il segno degli occhi, né la testimonianza del sospiro, vi aggiunse quella delle parole, molto più efficace testimonio che li due precedenti, acciò che il cuore mio, e per la efficacia del testimonio e pel numero sufficiente, essendo tre, avessi maggiore certezza. Furono le parole della donna mia tanto pie e belle e di tanto dolcissimo effetto, che Amore ne restò obstupefatto: e per questo si debbe pensare quello intervenisse a me; né si debbe maravigliare alcuno che crede questo, se non sono per me narrate formalmente le parole, perché, vinto dal medesimo stupore che vinse Amore, non solamente le parole, ma quasi dimenticai me stesso.

 

È a mio giudicio, el processo del presente sonetto assai naturale e secondo el vero. Perché, chi ama, prima ne fa qualche segno con li occhi; dipoi di necessità nasce il sospiro, perché el piacere del vedere la cosa amata e quella ferma intenzione del vedere genera il sospiro, per le ragione dette nel sonetto preallegato; e mostra più veemenzia d'amore el sospirare che il guardare. Seguitano el sospiro le parole, tanto più efficace quanto più si riducono alla certezza della cosa; conciosia che e li sguardi e li sospiri potrebbono essere per altre cagione che non paiono, ma le parole mostrano più chiara la verità e sono spinte da maggiore forza d'amore. E così fa la natura di grado in grado gli effetti suoi.

 

 

 

XXVI

 

Quando la bella imagine Amor pose

drento al mio cor, per sua grazia o virtute,

se per altri disir' v'eran venute,

spense e scacciò da·llui tutte altre cose.                                      4

 

Lasso or, se con le luci lacrimose

invan cerco le luci che ho perdute!

Dalli occhi al pensier fuggo, e mia salute

a·llui domando, a cui già mai si ascose.                                       8

 

El mio pensier allor benignamente

sola in mezzo del cor la donna mia

mi mostra, e intorno tutti e miei disiri.                                        11

 

Allor di novel foco arder si sente

il tristo cor, che già cener saria,

se non fusse la forza de' sospiri.                                                14

 

Avendo nel precedente comento mostro quanto sieno excellenti gli occhi tra gli altri sensi e quanta degnità ha dato loro Amore, volendo che sieno la porta onde egli entri e faccendogli spesso ministri suoi e nunzii de' pensieri del cuore, bisogna confessare che grandissima dolcezza traggono gli amanti dagli occhi. E, se questo è vero, a contrario è quasi insopportabile tormento, in chi ama, la privazione d'essi, anzi sarebbe al tutto insopportabile se Amore non vi avessi posto uno solo rimedio, di sovenire in questo caso il cuore mediante e pensieri; el quale rimedio però non è fatto altrimenti che l'altre amorose subvenzioni, le quali sono più presto fomento e legno allo amoroso fuoco che refrigerio al cuore. Questa sentenzia mostra el sonetto presente, nel quale in principio si denota l'amorosa providenzia; perché, essendo antiveduta da Amore, come le altre pene degli amanti, ancora questa della privazione degli occhi amati, ha preparato il soccorso de' pensieri contro a questo male, avendo messo la inmagine della cosa amata drento al cuore, che la rapresenta a' pensieri quando ne sono privati gli occhi. Pose adunque Amore nel mio cuore, secondo la sua usanza, la bella inmagine della donna mia, per grazia o virtù che fusse nel cuore mio, cioè o per una particulare grazia di Amore verso di lui, che lo fe' degno di sì degna inmagine, o per virtù, essendo già fatto gentile. Quando venne questa inmagine nel cuore, spense e scacciò da lui tutte l'altre impressioni che per qualunque desire fussino nel cuore mio, e solo vi rimase la bella inmagine della mia donna. In quel giorno che io composi el presente sonetto avevo con assai passi e tempo cerco di vedere gli occhi della donna mia, e certamente invano, perché mai ebbi grazia di vederli quel dì. Cercavo adunque con le mie lacrimose luci le luci che avevo perdute, cioè gli occhi della donna mia, e quali non potevo trovare: di che certamente intollerabile tormento sentivo. Ma non sendo possibile che altrimenti fussi, ricorsi a quello unico rimedio che mi aveva concesso Amore, e, lasciato il cercare con li occhi la donna mia, rifuggi' al cercarne col pensiero; al quale domandai la salute mia, cioè che lui almeno mi mostrassi la mia donna, perché in potenzia sua era il mostrarmela, non si ascondendo ella già mai da lui, perché el pensiero la vede sempre. Furono essauditi e miei prieghi benignamente dal pensiero, e subito mi mostrò la donna mia sola; e in mezzo del cuore non erano altri pensieri, come dicemmo di sopra: ma non vi potevano essere, perché essendo el mezzo del cuore fondamento de' pensieri, come el centro fondamento della terra e di tutto el mondo, non si poteva fondare pensiero alcuno se non nella donna mia, e tutti gli altri che avessi fatto el cuore, se pure avesse potuto, sarebbono suti come sono tutte le cose sanza fondamento. Era adunque madonna in mezzo del cuore, e intorno a lei erono tutti e desiderii miei: che per questo si verifica che né li pensieri pensavono ad altro, né 'l desiderio appetiva altra cosa; e naturalmente el luogo e fonte de' desiderii è il cuore, per la concupiscibile, che è virtù e potenzia del cuore. Soccorse Amore col pensiero al difetto degli occhi; né di questo advenne altro che accumulazione di pene, perché, come dicemmo nel comento del sonetto che comincia Allora che io penso etc., la inmagine della cosa amata multiplica el desiderio della vera: come advenne ancora a quel tempo, perché del vedere la donna mia drento al mio cuore s'accese uno nuovo e maggiore desiderio della donna mia. E perché pare impossibile che a tanto fuoco el mio cuore potesse resistere, che ardendo non si consumasse e divenisse cenere, si pone, per fare credibile questa maraviglia, el rimedio che non lasciava consumare el cuore, cioè la forza de' sospiri, e quali, come abbiamo detto, naturalmente sono dal cuore generati per suo refriggerio et essalazione contro alla suffocazione che l'offende, pel concorso delli spiriti vitali.

 

 

 

XXVII

 

Più dolce sonno o placida quïete

già mai chiuse occhi, o più belli occhi mai,

quanto quel che adombrò li santi rai

delle amorose luci, altere e liete.                                                 4

 

E mentre stiêr così, chiuse e secrete,

Amor, del tuo valor perdesti assai,

ché lo imperio e la forza che tu hai

la bella vista par ti presti e viete.                                                 8

 

Alta e frondosa quercia, che interponi

le frondi tra ' belli occhi e ' febei raggi

e subministri l'ombra al bel sopore,                                           11

 

non temer, benché Giove irato tuoni,

non temer sopra te più folgor caggi,

da quei grati occhi consecrata a Amore.                                   14

 

 

 

 

XXVIII

 

Odorifera erbetta e vaghi fiori,

che ornate il prato come il ciel le stelle,

le dolcemente fatigate e belle

membra vedesti in mezzo ai bei colori!                                        4

 

Alto e dolce pensier suo, quanto onori

le cose di cui tacito favelle!

O me felice, che allor fui di quelle

(che 'l dice Amor, che ha in pegno i nostri cuori)!                        8

 

Aura süave, quale or togli or rendi

a·llei la vista del febeo splendore,

movendo i rami e insieme l'ombra intorno!                                11

 

Alla alta quercia i tuoi trofei sospendi,

o dolce sonno, e non si sdegni Amore

se trïunfasti de' belli occhi il giorno!                                           14

 

Se io potessi a uno a uno gli atti e amorosi accidenti della donna mia proseguire, certamente molto maggiore ornamento ne riceverebbe questa nostra amorosa istoria e molto più laude la donna mia, perché veramente ogni atto, ancora che minimo, della vita sua è suto degno d'essere celebrato da me. E, avendone io gran parte pretermesso, ne do cagione solamente alla abundanzia e copia delle cose; perché a me è accaduto come a uno, el quale, sendo in mezzo d'uno amenissimo prato, el quale produce diversi colori di fiori, e volendo còrre de' più vaghi, non sa a qual prima porre la mano: perché la qualità della bellezza fa più difficile la elezzione, essendo l'appetito nostro tirato più da quelle cose che più piacciono. Non potendo io adunque còrre tutti e fiori dello excellentissimo prato della donna mia, né proseguire tutte le laude sue, né sappiendo eleggere qual prima meritassi essere da me còlta e celebrata, a caso errando con la mano quelli primi fiori che la sorte mi ha mostro ho còlti, faccendone più tosto giudice la fortuna che la mia elezzione.

 

Era, come nel precedente sonetto abbiamo detto, la donna mia absente, come mostra averla io cercata assai con li occhi e solo trovatola col pensiero. Trovandosi ella adunque in una villa non molto lontana dalla città, ma posta in luogo che non poteva vederla, mosse e passi suoi e, montando per uno monte assai alto e silvestre, pervenne in parte onde facilmente la città, dove io ero, poteva vedere, credo pensando potere dare qualche refriggerio o presente o futuro alla afflizzione la quale vedeva in me per l'absenzia sua. Era questo luogo salvatico, come abbiamo detto, e 'l terreno coperto d'erba e di fiori, il quale una vecchia quercia adombrava; et essendo pure la donna mia, pel cammino erto e difficile, alquanto affaticata, e vedendo sì bello luogo, deliberò fare degna quella erba e que' fiori che fussino letto e piuma al suo gentilissimo corpo. E dapoi che alquanto, così giacendo, contemplò la terra e luogo dove io ero, avuti alcuni dolcissimi e amorosi pensieri e mossa da quella pietà dell'afflizzione mia, vinta finalmente dal sonno, s'adormentò, aiutando el sonno l'ombra di quella quercia e una aura dolce estiva, la quale, movendo e rami della quercia e gli altri arbori vicini, con mormorio ancora quel dolcissimo sonno nutriva.

 

Questo atto amoroso intendendo io, giudicai degno delli sopra scritti due sonetti, delli quali il primo contiene che, poi che la natura concesse sonno agli occhi umani, più dolce sonno o più quieto riposo non serrò occhio mortale, né ancora il sonno mai chiuse più belli occhi che quelli della donna mia. Quello che faceva el sonno sopra tutti gli altri dolcissimo era l'ombra, la mollizie del luogo ove giaceva lei, la dolcezza del venticello, el mormorio degli arbori che di necessità da quello nasceva e la fatica che era preceduta: che tutte sono cose che danno forza al sonno. Che quelli occhi fussino così belli come abbiamo detto, non posso assegnare altra ragione che la mia oppinione, fondata in sugli effetti che in me facevono; e se erono così belli, di necessità seguiva che Amore da loro avesse gran forza. E però, stando serrati dal sonno e celandosi quella amorosa luce al mondo, di necessità il valore e forza d'Amore ne sentiva detrimento assai, perché la vista sua gli dava e toglieva la forza. Siccome adviene ad alcuna spezie di fiori, li quali si aprono venendo il sole e dipoi nell'occaso si riserrano, in modo che quelle tali erbe il dì sono fiorite e la notte private dell'ornamento de' fiori, così diremo che i cuori gentili, pel sole degli occhi amati, si aprono a ricevere le influenzie amorose, le quali quando mancassino si riserrerebbono; e acciò che mai non si serrino, fa la virtù d'Amore per mezzo di quelli occhi tale impressione, che possono dire già mai essere sanza sole. Amore adunque, che fa sentire la virtù sua per mezzo degli occhi, quando mancassi quella visione perderebbe la sua virtù. Ora, tornando al sonno, si può facilmente comprendere che, essendo tanto suave quanto abbiamo detto, alla donna mia fussi molto grato; e però, come quella che in tutte le cose era sommamente gentile, come grata, retribuì qualche gratitudine a tutte le cose che avevano avuta parte e cagione di tanta dolcezza. E però alla erba e fiori, che sanza durezza e morbidamente avevono recevute le sue membra e fattali così ornata piuma e delicato letto, dette uno dono gratissimo, d'essere sute tocche e premute da sì pulite membra; l'aura, che aveva mosso gli arbori e rinfrescato l'aria, similmente toccò el suo bellissimo corpo; l'ombre ancora, sopra a quel viso bellissimo e l'altre membra, a loro piacere errando, erano vagante. Restava solamente la quercia, non minima cagione di questa dolcezza, perché era suta cagione dell'ombre le quali aveva subministrate a quel bel sonno; e acciò che questa ancora sanza parte di premio non restassi, gli occhi della donna mia la consecrorono ad Amore, liberandola dalle percosse e impeti de' fulmini e tempestose saette: perché la quercia, essendo l'arbore di Giove, più spesso è percossa che gli altri arbori dalle sue saette; in luogo delle quali, da quel tempo in qua che soprastette a quelli belli occhi, sarà più tosto recettaculo delle saette amorose, poiché quelli occhi grati ad Amore l'hanno consecrata.

 

E perché nel primo sonetto non è fatta menzione alcuna del praticello sopra el quale giaceva la donna mia, né dell'aura suavissima (due cagioni, secondo abbiamo detto, assai efficace di quello bellissimo sonno), perché è difficile fare capace la brevità del sonetto di molte cose, se ne fa menzione nel sequente, che comincia Odorifera erbetta etc., dove si vede che con somma dolcezza el mio pensiero, rimembrava tutti quelli amorosi accidenti; né sanza qualche invidia di quella erba e fiori mi s'apresentò quell'atto, che fussi ricevuta da loro la donna mia così dolcemente affaticata. E però, volgendomi a quella erba e fiori, chiamandola odorifera e ponendo la varietà de' fiori simile alla distinzione che fanno le stelle nel cielo sereno, si dà quelle proprietà quasi che può avere el prato, cioè l'odore e la bellezza. E perché abbiamo detto che la donna mia, così giacendo, ebbe qualche amoroso pensiero di me, e questo era impossibile a sapere se non per chi ne udisse e pensieri, s'introduce Amore per testimonio di questa occulta visione, come quello che udì parlare tacitamente la donna mia di me, che, per essere degno d'entrare in sì alti e dolci pensieri, felicissimo mi potevo chiamare; perché il pensare non è altro che uno tacito parlare, perché chi pensa, inmagina quelle cose e in sé medesimo le chiama per li nomi loro: onde si può dire veramente il pensare essere uno parlare tacito. Discorre poi el pensiero mio a tutte l'altre circunstanzie, come fu ancora quella dell'aura, o vogliamo dire piccolo vento, e, quasi riferendogli grazia, mostra lo effetto che faceva: perché, movendo e rami, che per la interposizione loro tra 'l sole e gli occhi suoi facevono ombra, di necessità bisogna l'ombre ancora si movessino, e però quelli occhi talora potevono vedere il sole, talora no. Et essendo questi occhi di tanta perfezzione e bellezza che signoreggiavono Amore, come di sopra abbiamo detto, gloriosa vittoria fu quella del sonno quando vinse sì belli occhi; e acciò che fussi perpetua e memorabile, doveva el sonno appiccarne all'alta quercia e trofei con le spoglie degli occhi già da lui vinti: siccome solevano gli antichi Romani, e quali ebbono in consuetudine, quando vincevano qualche potente e famoso inimico, pigliare le spoglie sue e vestirne el troncone d'uno arbore per memoria della ricevuta vittoria. Bisogna vedere che fussino le spoglie di quelli belli occhi, per vedere di che cosa doveva vestire el sonno il troncone della quercia; né si può interpetrare che gli occhi della donna mia fussino vestiti d'altro che di belli e amorosi sguardi e d'una amorosa luce, che solo dagli occhi degli innamorati suole lasciarsi vedere. Questi sguardi e luce amorose, adunque, doverono certamente restare come stigmate nel tronco della quercia; e di questi spogliò el sonno la donna mia, subito che chiuse quelli belli occhi; e di queste spoglie credo sia ancora ornata quella quercia. Né Amore di questo triunfo del sonno si debba sdegnare, se è vero quello che abbiamo detto, che gli occhi suoi signoreggiassino Amore, dandogli e togliendo forza, avendo poi el sonno superati quelli belli occhi.

 

 

 

XXIX

 

Tante vaghe bellezze ha in sé raccolto

il gentil viso della donna mia,

che ogni nuovo accidente che in lui sia

prende da·llui bellezza e valor molto.                                          4

 

Se di grata pietà talor è involto,

pietà già mai non fu sì dolce e pia;

se di sdegno arde, tanto bella e ria

è l'ira, che Amor triema in quel bel volto.                                    8

 

Pietosa e bella è in essa ogni mestizia,

e se rigano i pianti il vago viso,

dice piangendo Amor: «Questo è il mio regno!».                       11

 

Ma quando il mondo cieco è fatto degno

che muova quella bocca un suave riso,

conosce allor quale è vera letizia.                                              14

 

Grandissimo argumento mi pare di excessiva potenzia quando alcuna virtù nelle cose contrarie e diverse tra loro opera potentemente, faccendo ancora qualche volta effetti quasi fuora d'uno naturale ordine dell'altre cose; e perché questo spesse volte accade nella vita degli amanti, gli abbiamo chiamati di sopra «miracoli amorosi». Che grandissima fussi la potenzia della bellezza della donna mia intende provare el presente sonetto, per li effetti diversi et extraordinarii che in me faceva. Perché, contemplando io la bellezza del viso suo in diversi accidenti e passioni, mi pareva che tutte le passioni che apparivano o dimostravansi in quel bel viso, e ne divenissino più belle e ricevessino più forza, cioè movessino più potentemente in altri o timore o pietà o dolore o letizia; movendo non solamente potentemente, come è detto, secondo la qualità delle passioni, ma servando sempre la bellezza e la grazia, le quali in alcune passioni, come è il timore e 'l dolore, pare quasi impossibile si possino conservare. Perché, chi teme, di necessità ha in odio la cagione del timore; questo medesimo adviene a chi sente dolore, perché, potendo, fuggirebbe la cagione d'esso, e quelle cose che si fuggono non s'amano. E però grandissima potenzia era quella di questa bellezza, avendo forza, movendo timore e dolore, d'essere ancora in queste tali passioni desiderata e amata. Introduce adunque el presente sonetto quattro passioni solamente, cioè la pietà, l'ira, il dolore e la letizia, le quali dal viso della donna mia pigliano più forza e più bellezza. E, cominciando dalla pietà, mostra che quando la pietà viene in quel bel viso, non trovò mai luogo o domicilio alcuno dov'ella paressi più veramente pietà, né dove paressi più dolce e pia; et essendo per sé la pietà bella, basta sia fatta menzione solamente della forza che piglia, presuponendo la bellezza. Venendo dipoi all'ira, propriamente è detta ardere d'ira e di sdegno, perché «ira» non è altro ch'uno accendimento della collera intorno al cuore, e gli effetti dell'ira sono comunemente simili a quelli del fuoco, che presto fa gli effetti suoi; e quelli che sono di natura collerica e calda sono più disposti all'ira. Ardendo adunque quel bel viso d'ira, diventa più bello e rio, cioè più da temere, come mostra lo essemplo sequente: perché, tremando Amore nel viso suo, è segno manifesto el timore della potenzia di quell'ira, e il non si partire di quel viso non obstante il tremore (che dimostra il timore essere grandissimo) mostra assai chiaro la bellezza essere quella che lo ritiene, perché, se questo non fusse, il timore caccerebbe Amore. Questo medesimo adviene nella mestizia e dolore della donna mia, la quale, movendo a lacrime ancora Amore e, così piangendo, affermando lui el viso di lei essere il regno e l'imperio suo, mostra la medesima forza e bellezza nel dolore che prima nell'ira. Nasce poi di queste premisse molto bene la conclusione del sonetto, perché, se la bellezza di quel viso ha avuto forza di parere più bella in quelli accidenti che sogliono obscurare e diminuire la bellezza, fortificando questi tali accidenti oppositi alla bellezza, molto più facilmente può crescere in bellezza negli accidenti che naturalmente subministrono forza alla bellezza, tanto più fortificando questi accidenti: come adviene nella letizia della donna mia. Era la donna mia per sé bellissima; la letizia per sé in qualunque persona è bella; se adunque quella per sé è bella e lo accidente ancora è bello, excessiva bellezza era quella quando si congiugneva insieme sì bella natura e sì bello accidente, presupposto che l'uno e l'altro pigliassi forza per tale congiunzione, come di sopra abbiamo detto dell'altre passioni, e che ancora l'accidente fussi per sé fortissimo e quasi in supremo grado: come mostra il riso, che è maggior segno di letizia che faccino gli uomini, come il pianto del dolore, il quale similmente di sopra è posto per segno d'excessivo dolore. Credendo adunque tanta bellezza e dolcezza insieme, si può dire questa bellezza essere al mondo non solamente maravigliosa, ma forse non più veduta (e però veramente il mondo potersi chiamare «cieco«), e dovere producere in chi la vede quello che si può chiamare vera letizia e beatitudine.

 

 

 

XXX

 

Lasso!, che sento io più muover nel petto?

Non già il mio cor, che s'è da me fuggito.

Questi spessi sospir', s'ei se n'è gito,

a cui dan refrigerio, a cui diletto?                                                4

 

Li alti e dolci pensier' del mio concetto

chi muove adunque, se il core è smarrito?

Amor, che 'l fece al fuggir via sì ardito,

questo me ne ha con la sua bocca detto:                                     8

 

– Quando i belli occhi prima la via fero,

entrò la bianca mano e 'l cor ti tolse,

e in cambio a quello un più gentil ne misse;                                11

 

questo in te vive, e 'l tuo, fatto più altero,

in più candido petto viver volse.

Questo è de' miei miracolil – Amor disse.                                 14

 

Ancora che in molti e diversi modi la donna mia dessi assai evidenti argumenti dello amore e pietà sua verso di me, come già in più luoghi abbiamo mostro, nessuno più efficace ne dette, né poteva mai dare, che quello el quale contiene el presente sonetto; né io da lei potevo maggiore dono ricevere, perché maggiore dono non può essere che quando altri dà e quello che è suo e quello che è carissimo al donante. Secondo Epitteto, «in nobis quecumque nostra sunt opera», però nessuna cosa possiamo chiamare nostra al mondo se non la oppinione, perché tutte l'altre cose o sono della fortuna o sono della natura. E che questo sia vero, si manifesta perché e la natura e la fortuna spesse volte contro alla voglia nostra ce ne privano. E però, sanza extendersi in molte cose, per essere tali conclusioni molto trite e provate, confesseremo essere nostra solamente l'oppinione, come è detto, la quale è sempre libera, né può da alcuna cosa essere forzata. E, a mio giudicio, chi fa menzione della oppinione, di necessità presuppone la voluntà, la quale non è altro che desiderio di quello bene che alla oppinione pare bene; e per questo si può dire, se bene la oppinione e voluntà non sono una cosa, essere tanto simile e prossime, e di necessità l'una con l'altra congiunte, che a me non sia inconveniente parlare dell'una come dell'altra: perché queste mie non sono diffinizioni, ma più tosto parole largamente e liberamente dette. Se adunque sola la oppinione e voluntà è nostra, chi dona questa tale cosa dona tutto quello che possiede per suo; e chi dona tutto el suo, di necessità dona una cosa che al donante è carissima, e però non può fare maggiore dono. Intendesi largamente in questi versi amorosi per la oppinione e voluntà nostra el cuore; e però, avendo fatto la donna mia una conmutazione del suo cuore al mio, cioè tolto el mio per sé e a me donato el suo, come mostra el presente sonetto, nessuno maggiore dono mi poteva dare, né fare più evidente segno che io fussi pieno della grazia sua. E perché parrebbe, la mia, grandissima arroganzia, persuadendomi questo essere vero e faccendo me medesimo auttore e degno di tanto bene, sanza el testimonio della donna mia, mi accade dire el vero di questo amoroso processo, e per fuggire la colpa della arroganzia detta e pel contento che mi reca al cuore la dolcissima memoria di quello atto amoroso.

 

Ero in parte che assai vicino mi trovavo al viso della donna mia, e riguardandola fisa, per la dolcezza che porgevono gli occhi suoi quasi attrito e indebilito, sostenevo col mio destro braccio la testa. Lei, pensando di darmi qualche conforto, con uno gentile modo appressandosi più a me, pose la candida sua mano sopra la sinistra parte del petto mio; e tenendola per alquanto spazio ferma, io la dimandai assai timidamente quello che intendessi fare. Lei con una onesta baldanza rispose che stava a udire muovere el cuore suo; e io a·llei: – Veramente e questa e ogni altra cosa che vive in me è vostra.– Lei, subiungendo, disse: – Io dico veramente questo essere il cuore che già viveva in me, che ora in te vive, e quello che prima era tuo conservo io nel mio petto. – Quello che mi paressino sì dolce parole e che effetto facessino in me, lascio qui giudicare a coloro a' quali è nota la fiamma e forza amorosa, perché, come dice Dante in una sua canzona, «non è di core villano sì alto ingegno, che possa inmaginare di questo alquanto». Partendomi dipoi da lei e considerando qual fussi più, o la gentilezza di quel parlare o l'amore che per questo dimostrava, diliberai fare el presente sonetto e li dui sequenti nella medesima invenzione, ancora che concludino diversamente se bene quello amoroso parlare e quello atto gentilissimo fussino degni d'altra lingua che la mia per farne memoria.

 

Fingo adunque, ancora che la istoria sia sopra detta, io medesimo sentire nuovo moto nel petto mio, e con qualche ammirazione domando me medesimo della cagione, maxime perché, essendo fuggito il mio cuore da me, come di sopra in più luoghi abbiamo detto, non poteva essere la cagione di quel moto dal mio cuore. El moto adunque, e li spessi miei sospiri, che naturalmente sono ordinati per refrigerio del cuore, mostravano pure che uno cuore dovessi essere quello che nel mio petto si moveva. Mostravano ancora questo medesimo gli alti e dolci pensieri che concepeva la mente mia, li quali dovevano essere similmente mossi dal cuore, non come luogo de' pensieri, ma come cagione; perché, essendo il cuore quello che desidera, quelli pensieri erano dal cuore, perché non erano altro che un desiderio della donna mia. Et essendo i pensieri alti e dolci, cioè più degni che a me non si conveniva, comincia' poi in me medesimo a credere che più degna cagione che non era il mio cuore gli movessi. In mezzo a questi miei dubii soccorse Amore, el quale, essendo stato quello che aveva fatto ardito il mio cuore a fuggirsi (come mostra quel sonetto che comincia Lasso a me!, quando io sono là dove sia), sapeva veramente il mio cuore essere fuggito, e però con la sua bocca mi manifestò questa verità: che interpetrando secondo il vero, come abbiamo detto Amore fu la donna mia, che con la bocca sua mi manifestò questo amoroso miracolo; el quale fu questo: che quando Amore prima fece la via agli occhi della donna mia, per la quale entrorono al cuore, allora quella gentilissima mano entrò drieto agli occhi nel petto e ne trasse il cuore mio (come mostra el sonetto che comincia Candida, bella e delicata mano), e in luogo del mio cuore pose quello della donna mia; e perché questo, pare cosa mirabile e inaudita, subiunse Amore questa essere opera maravigliosa della potenzia sua. E considerando veramente, Amore non è altro che una transformazione dello amante nella cosa amata, e, quando è reciproco, di necessità ne nasce la medesima transformazione in quello che prima ama, che diventa poi amato, per modo che maravigliosamente vivono gli amanti l'uno nell'altro: ché altro non vuole inferire questa conmutazione di cuori.

 

 

 

XXXI

 

Quel cor gentil, che Amor mi diede in pegno

mirabilmente in cambio al mio, eletto

a maggior bene, or vuol lasciar soletto

il petto mio, di sì bel core indegno.                                             4

 

Io priego il mio che torni; egli è sì degno,

che l'antiqua sua sede ora ha in dispetto.

Io dico a·llui: – Se non degna il mio petto

quel core, arà te, cor, quel petto a sdegno.                                 8

 

Misero, che farai? – E lui risponde:

– Starò in essilio in quelle luci belle,

se pur cacciato son sanza riguardo:                                           11

 

queste non mi può tòr, né Amor le absconde.

E tu arai di me spesso novelle

pe' dolci raggi di quel bello sguardo. –                                      14

 

Sogliono quelle cose che per la excellenzia e degnità loro excedono e meriti di chi le riceve parere ancora poco durabili, perché ogni excesso è di questa natura; e però si vede talora quelli temere più, che sono da infimo grado venuti in grande condizione. Oltra questo, secondo il corso delle cose umane, quelli che sono in maggiore felicità constituti debbono più che gli altri temere, essendo la felicità umana el più delle volte brieve e poco stabile. Queste condizioni erono in me, per quanto mostra il precedente comento, perché, essendo il mio petto fatto recettaculo del cuore della donna mia e il cuore mio altero e troppo nobile essendo ito ad abitare nel candido petto di quella, e mi pareva cosa molto sopra li meriti miei, e mi pareva tanto maggiore per essere di umile luogo in un tratto essaltato a tanto bene, e felicissimo sopra ogni altro per questo mi riputavo. Dovevo adunque per tutte queste cagioni temere, e parevami quasi impossibile conservarmi lungo tempo in tanta felicità; e ancora che la constanzia e fede della donna mia non mi dessi cagione alcuna di dubitare, mi pareva ad ogni ora il cuore della donna mia, el quale in me viveva perché Amore per pegno del mio me lo aveva dato, da me si volessi partire e lasciare di sé solo il mio petto. Facevami questo dubio pensare di richiamare el mio cuore a me, pregandolo che tornassi; ma essendo lui eletto a maggiore bene, cioè per stare nel candido petto della donna mia, era fatto sì degno e in tal modo insuperbito, che aveva in dispetto el petto mio, dove prima soleva stare, né tornare a me voleva. Io, credendo che di questo fussi cagione perché lui avessi oppinione di potere starsi nel petto della donna mia, proposi al cuore mio, acciò che tornassi, che quando il cuore della donna mia non degnassi di stare più nel mio petto, el petto suo similmente non degnerebbe di ricettare più el mio cuore; e di questo poteva nascere che il cuore mio, a un tempo, per elezzione sarebbe privato del petto mio e per necessità di quello della donna mia, quando da lei fussi cacciato. Risponde il cuore a questo dubio che, quando bene fussi cacciato da lei, starà in luogo donde non potrà esser cacciato, cioè nelli occhi della donna mia, perché Amore e lei fanno che quelli occhi sieno comuni a ciascuno; e, stando in quelli occhi, non sospiri, non parole, non altro segno che proceda dal cuore diranno novelle a me del cuore mio, ma li sguardi solamente della donna mia, e quali spesso ne diranno novelle perché spesso da me saranno veduti gli occhi suoi.

 

È necessario intendere el naturale processo di questo sonetto, col quale queste amorose fizzioni debbono quadrare. Nasce amore allo amante e va nella cosa amata, e così prima si fugge il cuore dello amante alla cosa amata; nasce dipoi amore reciprocamente nella cosa amata, e allora si fa la conmutazione che abbiamo detta de' cuori; nasce dipoi la gelosia, vera miseria delli amanti, perché è tormento inmortale, e allora nasce il dubio che il cuore della amata non si torni a·llei; e di questo un pensiero di ritrarre lo amore suo dalla cosa amata, e questo è revocare el cuore suo a sé. Ma perché il vivace amore cresce nelli affanni, non può impetrare lo amante di ritrarre l'amore suo, ma necessario li bisogna continuare in esso; e benché fra sé stesso assai certo si giudichi non potere avere alcuna dolcezza, anzi affanni e tribulazioni, non sendo amato dalla cosa amata, né essendo mai libero da gelosia, si riduce infine per necessità a prendere quello che più facilmente può avere dalla cosa amata; e non potendo avere il cuore suo, non si parte però el cuore dalla amata, ma fermasi nelli occhi della amata, cioè gode le exteriori bellezze e con esse si conforta, poiché del cuore cioè amore della amata non può disporre. E allora li sguardi delli occhi amati fanno segno dello amore che è in lei, perché e la pietà e l'amore, e così lo sdegno e l'ira, qualche volta per segno delli occhi si comprendono; e di questo s'ha spesso novelle, perché la visione della amata male si può celare dalli occhi o diventare invisibile, e lo amore tanto più muove e incita l'amante a vedere spesso l'amata, quanto più mancano l'altre cose che solevano consolare la mente. Tutti questi affetti vorrei fussino meglio expressi nel sonetto, per levare ogni difficultà a quelli intelletti che faranno degni e versi miei della loro cognizione.

 

 

 

XXXII

 

– Amorosi sospiri, e quali uscite

del bianco petto di mia donna bella,

ditemi del mio cor qualche novella,

qual voi sì dolcemente in lei nutrite. –                                          4

 

– Stassi lieto il tuo cor, quïeto e mite,

mille dolci pensier' movendo in quella,

co' qual' sovente e con Amor favella

alte cose e gentil'; né voi l'udite. –                                               8

 

– Sospir' benigni, ora è ver quel che io sento

da voi? –Sì, certo! – Almen ditemi ancora

«se là dove è starà il mio core assai –.                                      11

 

Mentre che io parlo, e lor sen vanno in vento.

Amor sopra il suo petto giura allora

che a me il mio cor non tornerà già mai.                                    14

 

Truovonsi scritte due sentenzie contrarie, e nondimeno spesso verificate nelle umane azzioni, per che si dice «e miseri facilmente credere quello che desiderano», e, contro a questo, che «a gran speranza uomo misero non crede». Io penso che la diversità delle oppinioni sopra dette nasca più presto dalla natura di quelli che sperano e desiderano alcuna cosa, che dalla ragione, presuposto che l'una e l'altra oppinione abbi cagioni equali, che non inclinino per sé più ad una parte che all'altra. E però credo che quelli uomini che di natura sono malinconici sieno di manco speranza che gli altri, e tanto più quanto nella vita loro hanno avuto la fortuna così adversa, che poche cose hanno consecute secondo il desiderio loro. Abbiamo nel principio detto ogni forte amore procedere da forte imaginazione, e questi tali amanti di natura essere malinconici: io confesso essere di quelli che con grandissima fervenzia ho amato, e però come amante ragionevolmente dovevo dubitare, più che sperare; aggiunto a questo che in tutta la mia vita, advenga che più onore e grado abbi consecuto che a me non si conveniva, pure rari piaceri e poche altre cose secondo il desiderio mio ho vedute: dico di quelle cose che per refrigerio delle publiche e private fatiche e pericoli qualche volta ammette lo animo nostro, ancora che contentissimo viva e che molto mi appaghi della mia sorte. Dovevo adunque, e per le ragioni nel precedente comento scritte e per le presente, ragionevolmente dubitare; et essendo una volta nel cuore mio nato el sospetto, grandissima e intollerabile passione, m'insegnava la natura fare ogni cosa per cacciarlo da me. E dubitando, come molto mostra el precedente sonetto, el mio cuore non fussi cacciato del petto della donna mia, né sapendo bene se quivi o altrove fussi, mi parve dovere intenderne novelle da chi veniva dal luogo medesimo; e nascendo e sospiri dal proprio luogo ove sta il cuore, loro me ne potevano dire el vero. E però il presente sonetto, composto per dialago, si dirizza e parla a quelli sospiri che uscivano del petto della donna mia, e quali inmedïate venivano dal cuore mio, se era in quel petto. E, per tòrre confusione, è da notare che li primi quattro versi parlo io a' sospiri sopra detti; nel secondo quadernario rispondono e sospiri a me; dipoi tutto el nono verso e il principio del decimo, cioè quella parola che dice da voi, parlo pure io ai sospiri, e la sequente parola, dove dice Sì, certo!, rispondono e sospiri a me; tutto el resto del sonetto parlo poi io, parte ai sospiri e parte per narrazione. Ora, tornando al principio, è da notare che, parlando io a' sospiri della donna mia e chiamandoli amorosi, cioè mossi da Amore, o era o volevo che paressi che fussi qualche speranza mescolata col dubio; come mostra ancora perché, domandandogli io che mi dicessino novelle del mio cuore, quale loro nutrivano dolcemente nel petto suo, già avevo oppinione e che el mio cuore vi fussi e che fussi bene trattato da lei. E veramente è detto che i suoi sospiri nutrivano el cuore mio, perché lui stava in quel petto dove era ancora Amore, sanza el quale el mio cuore non vi poteva stare; e però la cagione che moveva e sospiri veramente nutriva dolcemente il mio cuore e lo conservava in quel petto, perché e sospiri erano mossi da Amore. Rispondono e sospiri il mio cuore starsi lieto, quieto e pieno d'umiltà e di dolcezza, et esser cagione di molti dolci e amorosi pensieri nella donna mia, con e quali pensieri e con Amore parla spesse volte molti alti misterii amorosi e cose molto gentili. E per questo si mostra non solo il mio cuore era in quel petto, ma già vi abitava come familiare di esso e domestico, poiché intendeva tutti e pensieri della donna mia: e quali li altri non possono intendere, cioè quelli che da Amore non sono fatti degni e gentili, come era il cuore mio. Fu tanto maggiore la dolcezza che per questa desiderata novella mi venne, quanto era suta maggiore la dubitazione, come sempre adviene di qualunque sperata allegrezza. E, quasi non credendo che possibile fussi quanto avevono riferito quelli amorosi sospiri, di nuovo gli domando se è vera la loro relazione. Loro risposono in confermazione una brevissima risposta, cioè «Sì, certo!»; né potevano più lungamente rispondere, come mostra el sequente del sonetto, perché, facendo io loro una nuova interrogazione, non bastò lo spirito a que'sospiri in modo che potessino più rispondere. E qui è da notare che tutto quello che parlano e sospiri predetti in questo sonetto sono tante parole, quante naturalmente potrebbe dire uno commodamente con uno spirito, cioè sanza riavere l'alito; e però, finita quella forza che portava seco lo spirito d'un sospiro, ragionevolmente più parole non doveva dire. E se bene io gli chiamo «sospiri», in plurale, cioè più d'uno, bisogna imaginare che e sospiri della donna mia fussino più, ma che uno solo contenessi la risposta. È natura di chi ha conseguito qualche gran bene fare ogni cosa per conservarlo e farlo diuturno; e però, avendo io già quello che desideravo sentito dello stato del cuore mio, desideravo ancora intendere quanto dovessi essere durabile e diuturna questa sua tale beatitudine: e però domandai li spiriti quanto fussi per stare il cuore mio in quel petto. Et essendo già, come abbiamo detto, mancato quello spirito, e li sospiri già resoluti in vento, non poterono rispondere. Amore allora, che secondo che di sopra abbiamo detto era in quel luogo donde venivano li sospiri, in supplemento loro risponde, giurando sopra il petto suo che 'l mio cuore starà sempre con la donna mia, né già mai tornerà a me, assicurandomi col giuramento, come da principio aveva assicurato el cuore mio quando prima partì da me, come mostra il sonetto che comincia Lasso a me!, quando io sono là dove sia.

 

 

 

XXXIII

 

Ove madonna volge li occhi belli,

sanza altro sol la mia leggiadra Flora

fa germinar la terra e mandar fora

mille varii color' di fior' novelli.                                                    4

 

Amorosa armonia rendon li uccelli

sentendo il cantar suo, che l'innamora;

veston le selve i secchi rami, allora

che senton quanto dolce ella favelli.                                            8

 

Delle timide ninfe a' petti casti

qualche molle pensiero Amore infonde,

se trae riso o sospir la bella bocca.                                           11

 

Or qui lingua o pensier non par che basti

a intender ben quanta e qual grazia abonde,

là dove quella candida man tocca.                                            14

 

Era del mese d'aprile, nel quale, secondo la comune consuetudine della città nostra, li uomini volentieri insieme con la loro famiglia nelle dilettevole ville a·lloro consolazione si stanno, perché in quel tempo l'anno è tanto più bello, quanto è la prima iuventù più bella che tutte l'altre età delli uomini; e, oltre a questo, la città nostra ha vicini a sé molti e delicati e piacevoli luoghi, e quali, oltre alla naturale consuetudine, alettano qualche volta a lasciare le civili e private cure e fruire alquanto di rusticano ozio. In questo tempo, adunque, accadde alla donna mia andare, come molte altre, in una sua dilettevole villa, ove stette alquanti dì, privandomi della sua desiderata visione; nel quale tempo uno, amicissimo mio e di tanto mio amore verso di lei conscio, mi disse: – Ora si vorrebbe essere nella tale villa a vedere la tua bella donna, perché ora cantano gli uccelli, ora si rinnuovano e prati d'erbe e di fiori, ora si rivestono gli arbori di fronde; le ninfe, li uomini e tutti li animali sentono al presente più le forze amorose; e però ora sarebbe tempo che tra tanti naturali ornamenti vedessi la tua carissima donna. – Al quale io risposi che il desiderio mio di vederla né cresceva, né poteva per tempo alcuno diminuire, e che io credevo, ancora che tutto el mondo in questo tempo fussi bellissimo e ornato più che in alcuno altro, quel paese quale era intorno alla donna mia doveva essere più bello che li altri, perché dove era lei non bisognava né sole, né stagione novella, né altra virtù che la sua a fare germinare la terra, fiorire et empiersi di fronde li arbori, cantare li uccelli, e li altri effetti che suole fare primavera.

 

Finì il nostro parlare in simili parole. E, partito dal predetto amico mio, tutto pieno di quelli pensieri composi el presente sonetto, nel quale mi sforzai exprimere li effetti della virtù della donna mia, li quali operava in quelli salvatichi luoghi dove in quel tempo si trovava; mostrando prima che li occhi suoi avevono la virtù del sole, perché dove ella li volgeva, faceva producere alla terra diversi colori di novelli fiori, chiamandola la bella Flora in questa parte che faceva nascere e fiori, cioè la dea de' fiori. Faceva ancora cantare amorosamente li uccelli, innamorati del canto suo, quando lei sentivano dolcemente cantare; rivestiva delle loro fronde e secchi rami di quelli arbori che la vernata perdono le foglie, quando dolcemente parlava. E qui è da notare che nel cantare e nel parlare della donna mia sono comprese tre parti, che, secondo Platone, contiene la musica, le quali sono queste: el parlare, armonia e rithmo (che credo sia detta quella che vulgarmente chiamiamo «rima», perché «rithmo» non è altro che un parlare terminato da certa misura, come sono li versi e rime vulgari) . Chiamasi el parlare «musico», ancora che non abbi piedi certi, quando è composto in modo che diletti li orecchi, come si vede in quelli che «eloquenti» sono chiamati; l'armonia è una consonanzia di voce umane, o veramente di suoni, come è notissimo; el rithmo abbiamo detto quello sia. Vedesi la prima spezie di musica, cioè il parlare, expressa nel verso che dice: «che sentono quanto dolce la favelli»; l'altre due, cioè l'armonia e 'l rithmo, si includono nel canto della donna mia, la quale conviene presuporre che cantassi dolcemente certi versi e rime amorose, delle quali lei sopra modo si dilettava; e io molte volte li senti' cantare e delli altri e de' miei con tanta dolcezza e gentilezza, che poi in bocca d'altri non mi potevano piacere. Cantando adunque lei con suavissima melodia simili versi e rime, abbiamo tutte a tre le spezie già dette della musica. Et essendo così, manca in qualche parte la maraviglia delli effetti che faceva la donna mia, perché, essendo la musica comune a tutte le cose, che non potrebbono sanza una certa consonanzia essere, ragionevolmente per la musica si dovevono muovere: come veggiamo che, temperando due instrumenti di corde in una medesima voce e mettendo vicino l'uno all'altro, quando l'uno si suona, le corde dell'altro ancora si muovono per loro medesime, sanza essere tocche da altri, solamente per la conformità del tuono e similitudine di voce che hanno tra loro. Ora, avendo detto di sopra due potenzie della donna mia, cioè delli occhi e della armonia etc., e avendo a dire più maravigliosa operazione di lei, bisogna ancora assegnarne più potente cagione. Perché, ancora che sieno grandi effetti fare germinare la terra, cantare li uccelli e vestire li arbori di fronde, queste sono tutte cose naturali; ma mettere una impressione contraria in uno subietto è maggiore cosa, come è fare che le ninfe, timide e caste, ammettino nella durezza del cuore loro qualche molle e dolce pensiero d'amore: perché lo amore è al tutto contrario alla timidità e castità. E però maggior cagione fa questo maggiore effetto, come è il riso e il sospirare della donna mia, el quale quando viene nella bocca sua muove li pensieri amorosi, come abbiamo detto, nelle ninfe. E che sia più potente cagione questa, lo mostra che quella cagione a mio parere è più potente a muovere effetto, che mostra in sé maggiore affetto, come mostra in sé maggiore affetto il riso e il sospiro che il guardare, il cantare o il parlare, come mosterremo; e maggiore affetto mostra di tutti questi il toccare. E però conclude il sonetto che questo fa ancora maggiore effetto che li altri, mostrando che dove tocca la sua candida mano abonda tanta grazia e virtù, che non si può né referire né imaginare. E così, delle cose manco efficace per gradi si procede a quelle che sono efficacissime. Perché, presuponendo che Amore muova tutti li atti che abbiamo detto della donna mia, cioè il vedere, il cantare, il parlare, il ridere e sospirare, e ultimamente il toccare, manco affezzione mostra il vedere che il cantare, manco il cantare che il parlare, e così dico di tutti gli altri, insino al tatto. Perché, presuponendo essere uno amante innamorato di questa donna, credo che, se lei lo guarda amorosamente, li sarà molto grato, se la sente cantare versi amorosi, li parrà ancora maggior segno d'amore; se la ode parlare seco, lo giudicherà ancora più efficace testimonio dello amore suo; se la vede o ridere o sospirare per amore, li parrà maggiore augumento della grazia sua; e molto maggiore di tutti se la toccassi. E però tutte queste cose faranno maggiori o minori effetti in lui, secondo la qualità delle cagioni predette. Sono adunque comprese nel presente sonetto quelle linee, cioè gradi di amore, che pone Ovidio, poeta ingeniosissimo, in quel libro ove dà gli amorosi precetti.

 

 

 

XXXIV

 

Il cor mio lasso, in mezzo allo angoscioso

petto, i vaghi pensier' convoca e tira

tutti a sé intorno; e pria forte sospira,

poi dice con parlar dolce e piatoso:                                            4

 

– Se ben ciascun di voi è amoroso,

pur ve ha crëati chi vi parla e mira.

Deh! perché adunque eterna guerra e dira

mi fate, sanza darmi un sol riposo? –                                          8

 

Risponde un d'essi: – Come al novo sole

fan di fior' varii l'ape una dolcezza,

quando di Flora il bel regno apparisce,                                     11

 

così noi delli sguardi e le parole

facciam, de' modi e della sua bellezza

un certo dolceamar che ti nutrisce. –                                         14

 

Ancora che nel comento del sonetto che comincia Ponete modo al pianto, occhi mia etc., assai dicessimo quanto fussi misera la condizione umana, e maxime l'amorosa, pure, perché non se ne può dire tanto, che non sia molto più, accade nella presente exposizione farne qualche menzione nuova. Né so quale più efficace argumento possa meglio provare la verità di questa cosa, che considerando a quello in che l'umana felicità consiste, parlando largamente e secondo la depravata consuetudine delli uomini, e mettendo da parte per ora la vera felicità, la quale credo in questa vita non si truovi. E però diremo quella felicità essere maggiore alla quale procede maggiore desiderio e ardore; et essendo ogni appetito, quanto è maggiore, più veemente passione, bisogna confessare il fondamento di questa felicità essere miseria grandissima. E che lo appetito sia suo vero fondamento è manifesto perché, mancando lo appetito, manca ancora la volontà: come, per essemplo, chi ha grande appetito di mangiare sente con più dilettazione e piacere el sapore di quello che mangia, la quale dura quanto dura la fame e con la fame muore; anzi, quello che è piacere mentre che è desiderato, quietato tale desiderio, diventa cosa molesta e fastidiosa. E per questo si può dire questa tale felicità consistere più presto nella privazione di quello che dà molestia, che in cosa la quale porti seco alcuno bene, et essere una medicina che solamente levi dallo infermo il male, sanza fortificare poi la natura o darli virtù alcuna. Come mostra Orazio in una sua epistola, quando dice: «Nocet empta dolore voluptas», e avenendo questo in tutte le cose umane, in nello onore, nello utile, nella voluttà, è necessario confessare tutta la vita umana, che da queste cose depende, essere una passione, e la felicità sua sempre mista con essa, perché la passione è sola inmediata cagione di essa e l'accompagna come l'ombra el corpo.

 

Trovandosi adunque in me questo medesimo affetto, e ricevendo io dalli miei pensieri gravissima e continua molestia, né parendomi potere sanza questi tali pensieri vivere, composi il presente sonetto, ad expressione dello stato del cuore mio. El quale, sendo posto in mezzo del petto mio pieno d'angoscia, e stracco già dalla molestia de' pensieri, chiama intorno a sé tutti e pensieri, e quali, secondo abbiamo detto, naturalmente sono intorno al cuore come cagione di essi. Di questo adviene naturalmente che il cuore sospira, perché, concorrendo diverse passioni a un tempo, generano sospiri, e per le ragioni già dette. Dopo il quale sospirare il cuore, voltatosi ai pensieri, con dolce e pietoso parlare gli priega che debbino cessare alquanto di molestarlo e fare pace della lunga e continua guerra che sanza intermissione li fanno; mostrando che debbino satisfarli in questo, conciosiacosa che sono suoi figliuoli, creati e generati da lui: perché, ancora che sieno pensieri amorosi, perché d'altro non parlano che d'amore, il cuore gli ha fatti amorosi, e però altro padre che lui non debbono riconoscere, e, come figliuoli, non gli dare tanta molestia. A questa pietosa proposta risponde uno de' pensieri già detti, mostrando in effetto loro essere cagione della vita del cuore, e faccendo comparazione che, come le pecchie la primavera, quando Flora di fiori adorna il mondo, fanno di diversi fiori una sola dolcezza, cioè il mèle, così li miei pensieri, di diverse bellezze della donna mia generano nel cuore una certa dolcezza mista con amaritudine, onde il cuore si nutrisce e vive; mettendo nella donna mia li sguardi, le parole, e modi e l'altre bellezze sue come stanno fiori in un prato, ove diversamente pascendosi, e miei pensieri generano questa amara dolcezza, per le ragioni dette di sopra: che alcuna voluttà del mondo non è sanza mistione di passione (ancora che ne' pensieri amorosi si vegga più distinto lo amaro dal dolce, benché sieno misti insieme) e che grandissima dolcezza è contemplare e inmaginare tante maravigliose bellezze nella donna mia, ma grandissimo tormento e amaritudine è poi desiderarle et esserne privato. E perché il cuore, tirato dalla dolcezza detta, non può fare che non pensi alla donna sua, e li pensieri di necessità portono seco ancora el desiderio, cioè la privazione di quel bene, veramente è detto el cuore nutrirsi e vivere di questi dolci e amarissimi pensieri.

 

 

 

XXXV

 

Se io volgo or qua or là li occhi miei lassi

sanza veder quel ben che sol mi piace,

miseri lor!, già mai non truovon pace:

questo adviene a' pensier', parole e passi.                                   4

 

Onde pel meglio e lacrimosi e bassi

gli tengo, e la mia lingua afflitta tace,

el piè nel primo suo vestigio iace,

ciascun pensiero al cor ristretto stassi.                                        8

 

Allor sì bella e sì gentil la veggio

drento al mio core, ove Amor l'ha scolpita,

che altro bene, altra pace più non chieggio.                               11

 

Tacito e solo il mio bel cor vagheggio:

e in quel si parte, e fugge con la vita;

né vivo resto o morto allor, ma peggio.                                     14

 

Perché io non credo sia determinato qual sia maggiore infelicità, o lo essere infelicissimo o veramente perdere al tutto lo essere, lascerò la verità di questa cosa a maggiore iudicio che 'l mio, affermando però, per mol te experienzie, alli uomini accadere molte volte cose che pigliano per elezzione più presto privarsi della vita che sopportarle; e ancora che sia cosa reprensibile, la passione in questi casi si tira drieto ogni altro migliore rispetto. Vedesi ancora molte volte li uomini eleggere più presto privarsi per qualche poco di tempo della operazione de' sensi, che sopportare la offesa loro: come diremo d'uno che serra li orecchi a qualche grande e pauroso strepito, un altro li occhi per non vedere o qualche cosa brutta o altro che movessi compassione e dolore, altri el naso per qualunque fetore; e si debbe credere questi tali terrebbono questi sensi sempre serrati, se sempre durassino le cose che offendono. E, se questo è, possono accadere molti casi che reputeremmo manco male la privazione dello essere che la offensione. E perché a' sensi mia era gravissima offesa quando erono privati del vero obbietto loro, cioè la donna mia, el presente sonetto verifica la sentenzia sopra detta, eleggendosi per me in tal caso più presto la privazione d'ogni exteriore operazione che tale offensione, stimando maggior cosa la privazione della donna mia che la privazione dello essere delle operazioni già dette; e ancora che paia che privandomi solamente dello atto, e non della potenzia, non sia intera privazione, presuposto quello che abbiamo detto di sopra, cioè che la offensione durassi sempre, si può affermare la privazione così della potenzia come dello atto.

 

Dice adunque il sonetto che, quando accadeva che io cercassi o con li occhi o co' passi, con le parole o co' pensieri la donna mia sanza trovarla, ne resultava grandissima miseria a tutte queste cose che lei cercavano, perché non è maggiore miseria che non trovare mai pace o quiete né fine alle passioni, maxime quando quella cosa della quale altri è privato è assai desiderata. Nessuna cosa poteva essere più desiderata o cara che la donna mia, presuposto che la fussi quel bene che solo mi piacessi: che significa ogni altra cosa fuori che lei darmi dispiacere e molestia; e però, sendo infinite di numero l'altre cose, tanto maggiore era la molestia mia quante più cose mi si offerivano dinanzi: e però erono quasi infinite molestie, e tutte gravi, perché tutte mi appresentavano la privazione della donna mia. Interviene allo animo nostro che non si quieta mai insino che non truova quella cosa che più che l'altre li piace; e ancora che molte cose li piaccino, l'appetito, che si ferma in quello che li piace più, mette da parte tutte l'altre quando può conseguire il suo primo desiderio. Come, per essemplo, uno si diletta di diverse cose, come è cani, uccelli e cavalli, e con queste cose insieme è avaro di natura e più tirato al cumulare che alcuna di quelle altre cose; e però, postposti li altri piaceri che ancora naturalmente appetisce, l'appetito suo solo in quello si quieta che prima e più appetisce, e ogni altra cosa li dà molestia. Molto maggiore era la molestia mia, perché solo desideravo la donna mia, né di altra cosa mi appagavo, perché il desiderio di lei non solo era el primo e maggiore desiderio mio, ma era solo, sanza compagnia di alcuna altra cosa che mi dilettassi: e però grandissima molestia era la mia, e per il numero delle molestie e per la quantità di esse. Né truovavo a queste cose migliore rimedio che la privazione sopra detta, perché serravo li occhi, coprendoli con le lacrime e tenendoli fissi a terra, fermavo e passi nel vestigio loro, cioè in quella orma nella quale si trovavano, la lingua teneva silenzio e i pensieri si ristrignevano al cuore. E qui è da notare che questi pensieri s'intendono per la industria la quale io usavo per trovare la donna mia, pensando quelli modi come più presto la potessi trovare, a differenzia de' pensieri che diremo apresso, e quali in un altro modo e in un altro luogo la cercavano; e, trovandola, di questa sedazione delle operazioni exteriori, li pensieri intrinseci e la fantasia ne pigliava tanto più forza, quanto più mancava la distrazzione de' sensi. E però quasi di necessità e pensieri miei, ristretti al cuore, contemplavano la donna mia, nel cuore da Amore scolpita, nel quale la vedevano e bellissima e gentile, come era veramente. E allora con li occhi de' pensieri io vagheggiavo il mio cuore, bello veramente, essendo in lui scolpito la bella donna mia; et era lo imaginare mio sì forte, che, imaginando, in me medesimo quel piacere ricevevo allora, che se li occhi la vera avessino veduta. E perché una forte imaginazione, se non in molti pochi et eletti, può poco durare, accorgendomi io di quel dolcissimo inganno, quasi come da un sonno svegliato, trovandomi sanza la mia donna, in grandissima passione restavo, per la quale il cuore si partiva da me e, quasi essanime e mezzo morto, così tacito e solo mi lasciava. Perché la bellezza della donna mia, che nel cuore a' miei pensieri si mostrava, faceva nascere el desiderio della vera, come dicemmo nel comento del sonetto che comincia Allor ch'io penso di dolermi etc.; e quel desiderio faceva non solo e pensieri, ma quasi tutti li spiriti miei partire di quella forma imaginata e ire alla vera, perché e pensieri non potevano stare se non dove era la donna mia. E però stettono tanto in me, quanto in me la vedevano, e partendosi quella imagine, loro ancora mi abbandonorno. Allora restai né vivo né morto, perché, partendo il cuore, sede della vita, morto mi potevo chiamare; ma perché pure qualche vitale forza restava, né morto mi potevo chiamare, né vivo interamente. E se sono vere quelle cose che abbiamo dette nella exposizione de' tre sonetti della conmutazione del cuore, chi vive in altri, come fanno li amanti, quanto a sé non si può chiamare vivo, né ancora morto, se vive in qualche luogo. Né si può interpetrare che altra cosa fussi lo stato in che io restavo, se non el primo che mostra questo sonetto, cioè in quella molestia di cercare con li occhi, con le parole e co' passi etc., sanza trovare la donna mia. E però si verifica quello che proponemmo al principio di questo comento, la privazione dello essere parere manco male qualche volta che una gravissima molestia, poiché io restai peggio che se fussi stato o tutto vivo o tutto morto, e perché morte include questa tale privazione, così dello atto come della potenzia, a me pareva minor male che la miseria di quello infelicissimo stato.

 

 

 

XXXVI

 

– Lasso!, or la bella donna mia che face?

Ove assisa si sta? Che pensa o dice?

Chi fanno or li occhi o quella man felice?

Amor, dimmelo tu! – E lui si tace.                                               4

 

Li occhi allor, per saper della lor pace,

mandan lacrime fuor triste, infelice:

qual giugne al petto, a qual più oltre ir lice,

bagna la terra, ivi s'arresta e iace.                                               8

 

Manda il mio cor molti sospiri allora:

questi sen vanno in vento; onde conforta

i pensier' pronti il core al bel cammino:                                      11

 

questi a·llei vanno, et ella l'innamora,

sicché alcun le novelle non riporta.

Segueli il core; io piango il mio destino.                                     14

 

Ancora che molte e diverse sieno le pene delli amanti, pure, chi considera bene, tutte da due cagioni procedono, cioè da gelosia e da privazione per l'absenzia della cosa amata; e bisogna di necessità così sia, perché in due cose similmente consiste la felicità loro, cioè due proprietà che sono nella cosa amata: la prima, la exteriore e apparente bellezza, l'altra lo amore, cioè il cuore della cosa amata. Perché due cose sono nello amante che si hanno a pascere e adempiere, cioè li sensi, per li quali si conosce così le bellezze visibili come dolcezza di parole e altri sensitivi ornamenti o naturali o accidentali, e il cuore, al quale piaccendo queste cose, tanto che si transforma in altri (come abbiamo detto), si pasce della reciproca transformazione del cuore amato nello amante. Se queste sono adunque le felicità delli amanti, la infelicità consiste nella privazione di queste, che non può essere se non per mezzo della gelosia e absenzia già dette. E però, trovandosi in questi nostri versi bene spesso la deplorazione della absenzia, non è maraviglia, perché, dettando la passione il verso, maggiore passione muove più numero di versi; et essendo grandissima passione l'absenzia della cosa amata, tanto più spesso ricorreva il mio cuore a·rremedio de' versi, quanto spesse volte accadde l'absenzia mia, sempre con grandissimo mio dolore. Trovandomi adunque dilungato dalli occhi della donna mia e per qualche tempo e per assai intervallo di luogo, cominciai meco medesimo a pensare, non sanza gran passione, quello che in quel punto facessi la donna mia, ove sedessi e quello pensassi, e chi fussi degno di tanto bene o tanto in grazia della fortuna, che, essendo veduto dai suoi belli occhi o tocco dalla mano sua, fussi felicissimo. Né potendo intendere quello che desideravo da altri che da Amore, lui ne domandavo; e non volendo lui darmi alcuna risposta, pensai meco medesimo chi potessi portarmene qualche novella. Né occorse alli miei lacrimosi occhi più expedito messo che le lacrime, le quali da loro uscivano: ma non potevano però aggiugnere al luogo dove era la donna mia, perché il loro cammino si finiva in sul petto mio, dove cadevano, o alla più lunga insino a terra, la quale le mie lacrime bagnavano. El cuore allora, veggendo tornare vano el disegno delli occhi e le lacrime non potere arrivare alla mia donna, deliberò mandare a·llei molti sospiri, pure per intendere qualche novella. E qui si verifica quello abbiamo detto di sopra, mettendo li occhi per tutti e mezzi sensitivi che hanno per obietto la exteriore bellezza, e il cuore che aveva per obietto il cuore della donna mia; e li occhi sono e primi che si muovono, e il cuore li segue, perché, approvata la bellezza exteriore, séguita inmediate il desiderio del cuore, non solo di quella bellezza, ma del cuore amato. Mandò adunque il cuore drieto alle lacrime delli occhi molti sospiri, el viaggio de' quali non fu molto più lungo che quello delle lacrime, resolvendosi in vento e in aria, come erono quando diventorono sospiri. Essendo adunque il cuore fraudato di questa sua speranza, ricorse a' pensieri, confortandoli che loro andassino a trovare la donna mia, ché, essendo velocissimi e pronti, ancora che il cammino fussi lungo, presto potevano andare. Li pensieri subitamente vanno a trovarla, e trovonla sì bella e piena di tanta dolcezza, che s'innamorono di lei, né possono da essa partirsi; e, non si ricordando della miseria nella quale m'avevano lasciato, non mi rendono né risposta né novella alcuna. Per la qual cosa el cuore, che, come altrove abbiamo detto, solo di questi pensieri si nutriva e viveva, con lo essemplo de' pensieri da me si parte, e piangendo mi lascia sanza lui misero e sconsolato e vassene ancora lui alla donna mia. Né io nelli miei pianti mi dolevo se non della mia sorte e destino mio averso, che non m'aveva fatto sì agile e pronto che potessi insieme col cuore e co' pensieri transferirmi alla donna mia.

 

E perché abbiamo molte volte fatto menzione di questa fuga e partenza del cuore e della transformazione d'esso e del fuggire della vita, pare necessario verificare come questo sia, mostrando massimamente qualche volta che 'l cuore e la vita si parta, e pure in me resti vita, come mostra il sonetto antecedente nell'ultimo suo verso. E però diremo nella anima nostra essere tre potenzie, o vogliamo dire tre spezie di vita: la prima, per la quale viviamo solamente, nutriànci e cresciamo sanza alcuno senso e nel modo che vivono gli albori e l'erbe, che si chiama «vegetativa»; l'altra, per la quale veggiamo, odoriamo e usiamo li altri sensi come fanno gli animali bruti, che per questo si chiama «sensitiva»; la terza, per la quale intendiamo sopra li sensi e con ragione aproviamo che una cosa sia meglio che un'altra, discorrendo nelle cagioni delle cose, che si chiama «razionale»: la quale è comune con li angioli, et è quella parte di noi che si dice essere inmortale, perché le due prime si vede che mancono e muoiono. Adunque chi s'innamora, di queste tre potenzie ne transforma dua nella cosa amata, cioè la sensitiva e la razionale, perché tutte le forze dello intelletto e quello che per mezzo de' sensi si conosce, si dà in potestà della cosa amata, et ella al suo modo ne dispone e governa; e così segue necessariamente, perché, sottomettendosi la libertà dello arbitrio volontariamente, che è principio in noi d'ogni operazione, bisogna tutte le operazione seguino el principio, sanza el quale non si farebbono. Resta adunque solamente in chi ama quella parte della vita per la quale solamente viviamo, come abbiamo detto, a guisa delle piante; e così si verifica el partire della vita e del cuore, cioè della razionale e sensitiva potenzia, sanza che manchi la vita, restando la potenzia vegetativa nello amante.

 

 

 

XXXVII

 

 

Lasso!, io non veggo più quelli occhi santi,

de' miei dolenti pace e vero obietto;

e perché quel ch'io veggo altro ho in dispetto,

Amor piatoso e miei copre di pianti.                                           4

 

Le lacrime, che cascan giù davanti,

destano il cor, di fuor bagnando il petto;

il cor domanda Amor qual duro affetto

fa così gli occhi madidi e roranti.                                                 8

 

Amor gliel dice. Allor pietà gli viene

degli occhi, e manda alla umida mia faccia,

sospirando, una nebbia di martìri.                                             11

 

O dolcissimo Sole, o sol mio bene

móstrati alquanto e questa nebbia caccia:

non han più gli occhi pianti o il cor sospiri!                                14

 

Non pare conveniente dire molte cose nella exposizione del presente sonetto, essendo molto simile d'argumento alli dua precedenti, né volendo denotare altro che la miseria dello stato amoroso quando accade la privazione per absenzia della cosa amata. E perché per tre vie si sfocano comunemente le passione amorose quando procedono da absenzia, cioè lacrime, sospiri e pensieri, con qualche indulgenzia credo si replichi molte volte queste medesime cose, ancora che in diversi modi; perché, se questa passione e spesse volte accade nelli amanti e non ha altri rimedii, bisogna spesse volte le medesime cose replicare. Mostra adunque il presente sonetto che, essendo privati gli occhi miei de' dolcissimi occhi della donna mia, solo e vero loro obbietto e riposo, avevano in dispetto tutte l'altre cose che vedevano.

 

Amore, mosso dalla pietà della miseria degli occhi, gli ricopriva di pianti, acciò che, occupati dalle lacrime, almanco fussino liberi dalla visione dell'altre cose che davano loro dispetto: perché gli occhi abondanti di lacrime difficilmente veggono. Cascando adunque queste lacrime sopra quella parte del petto, sotto la quale dentro è posto il cuore, destorono el cuore, sentendo el petto di fuora essere offeso pel cascare delle lacrime: e per questo si mostra l'abundanzia del pianto; dal quale desto el cuore, cioè svegliato quasi, d'uno dolce pensiero che prima lo teneva occupato, dalla nuova offensione delle lacrime, quasi come uno che dorma da una nuova e orrida voce, domanda Amore, che era presente, per che cagione piangono così forte gli occhi. E narrandogli Amore la cagione del pianto, bisogna gli dica che la pietà che hanno mossa in lui li miei miseri occhi ha fatto che lui subministra loro queste lacrime, acciò che, essendo gli occhi privati della donna loro e avendo in dispetto ogni altra cosa, se non può rendere loro la disiderata visione, almanco gli aiuti di fugire quello che hanno in odio. Perché due rimedii si truovano nella miseria, cioè el fare, d'uno misero, felice (e questo è il più perfetto) o veramente levarli la miseria, cioè il male, sanza darli il bene: come sarebbe in uno mendico e d'ogni cosa necessitoso, che chi gli levassi la necessità di quelle cose sanza le quali non può fare e solamente gliele dessi a·ssufficienzia, trarrebbe questo tale della miseria e d'uno grandissimo male, che è la necessità d'ogni cosa; ma chi lo facessi ricchissimo e abundante d'ogni cosa, non solo leverebbe il male della miseria, ma gli darebbe il bene, faccendolo ricchissimo. Fece adunque Amore agli occhi questo effetto, dando loro l'infimo grado del bene, levando loro quella cosa che gli offendeva, cioè la visione dell'altre cose, essendo in essi due cagione di dolore, cioè il desiderio di vedere la donna mia, come prima felicità e ultimo bene loro, e il timore della offesa procedente dalla visione dell'altre cose. El cuore, sentendo la cagione de' pianti, mosso dalla medesima compassione che mosse Amore, aiuta la occecazione degli occhi, cominciata per le lacrime, con gran numero di sospiri, e oppone la nebbia de' sospiri agli occhi, acciò che, agiunti alle lacrime, più possino difendere gli occhi e levarli la visione dell'altre cose. E naturalmente è detto «nebbia de' sospiri» che ascende e monta alla faccia, perché il sospiro porta seco una certa aria più vaporosa e grossa, a guisa quasi di fumo e di nebbia; e naturalmente vanno in sù verso gli occhi, ove gli manda l'impeto che nasce dell'ultima parte del petto. Ma perché tutti questi rimedii non bastavano a tanta miseria, perché il perdere la visione dell'altre cose non era sola e vera beatitudine degli occhi, tutti li disiderii del cuore mio si volsono a pregare gli occhi della donna mia che alquanto si mostrassino e dalli miei si facessino vedere. Et essendo le lacrime simile all'acqua che piove, e li sospiri alla nebbia, come al dissipare la nebbia e acqua non c'è più efficace virtù che quella del sole, così nessuno rimedio migliore si poteva trovare a levare le lacrime e sospiri che il lume degli occhi della donna mia. Al quale, come a unico remedio, si ricorre, pregandolo (come abbiamo detto) che si mostri, perché quando indugiassi o per alquanto tempo celassi la sua luce e virtù, gli occhi si tornerebbono nella maggiore miseria, perché non solamente sarebbono privati di questo sole, vera beatitudine loro, ma sarebbono forzati a vedere le altre cose, che abbiamo dette essere a·lloro sommamente in dispetto; conciosiacosa che le lacrime e i sospiri non potevano lungamente occupare la loro veduta, perché pareva impossibile il fonte delle lacrime non ristagnassi e seccassi, e la sede e luogo de' sospiri ne avessi tanta copia, che non fussi qualche volta per mancare questa pietosa subministrazione.

 

 

 

XXXVIII

 

Io torno a voi, o chiare luci e belle

al dolce lume, alla beltà infinita,

onde ogni cor gentile al mondo ha vita,

come dal sole il lume l'altre stelle.                                               4

 

Vengo con passi lenti a mirar quelle,

pien di varii pensier': che alcun ne invita

pure a speranza, da altri sbigottita

l'alma teme d'intenderne novelle.                                                 8

 

Dicemi in questo Amor: – Nel tuo cor mira:

vedra' vi scritte l'ultime parole

che udisti in mia presenzia, et io le scrissi.                                 11

 

Ciascuno altro pensier, disdegno et ira

tolto ho da·llei, e in quel bel petto sole

restan le fiamme che io per te vi missi. –                                   14

 

Grandissima miseria è quella d'alcuno, el quale si afflige per disiderio d'una cosa, la quale poi quando è di conseguirla in grandissima speranza, non manca però della sua prima miseria, dubitando, conseguendola, ancora restare misero. E perché questo spesse volte adviene negli accidenti amorosi, si può chiamare la vita degli amanti sopra tutte l'altre misera, poiché e avendo e non avendo quello che vuole, non muta mai la sua infelice sorte, ancora che si mutino le cagioni della miseria. Questo affetto exprime el presente sonetto. Perché, essendo stato, come abbiamo detto di sopra, per qualche tempo distante dalla donna mia con molta afflizzione, et essendo già in cammino per tornare al suo tanto desiderato aspetto e vicino alla visione de' sua belli occhi, come se fussi quasi presente a·lloro dirizzo le parole, mostrando che io torno a rivedere la dolcezza del loro lume e la loro infinita bellezza, dalla quale ogni cuore gentile ha da riconoscere la vita, come le stelle del cielo riconoscono la cagione del lume loro dallo splendore del sole. E a provare questa verità, che la vita delli gentili cuori proceda da questa infinita bellezza, bisogna presuporre la bellezza essere sanza fine: e però sarebbe non solo la maggiore bellezza, ma quanta bellezza può essere, perché ogni cosa infinita è tale; et essendo una medesima cosa somma bellezza e somma bontà e somma verità, secondo Platone, nella vera bellezza di necessità è la bontà e verità, in modo annesse che·ll'una con l'altra si converte. E intendendosi per li cuori gentili gli animi elevati (secondo che abbiamo detto) e perfetti, bisogna sia vero che ogni gentile cuore viva d'infinita bellezza, perché el bello, buono e vero sono obietto e fine d'ogni ragionevole desiderio, dando vita a quelli che gli appetiscono: perché chi si parte dal bello, dal buono e dal vero si può dire non vivere, perché fuora di queste perfezzioni non si dice essere cosa alcuna. Adunque, come il sole co'raggi suoi fa risplendere le stelle sanza diminuzione della sua luce, così questa somma bellezza infonde come raggi, ne' gentili cuori, della sua grazia, cioè uno lume spirituale, per lo quale vivono e spiritualmente relucono. E se bene la materia di che parlano e versi nostri non è di tanta perfezzione, pure gli errori amorosi fanno credere potere essere in altri quello che in sé medesimo si trova; e però, vivendo io della luce di quelli belli occhi, la loro bellezza mi pareva sì maravigliosa, che pensavo a ciascuno doversi egualmente piacere sì come a me: onde affirmavo di tutti gli altri quello che in me sentivo.

 

Tornando adunque a questa infinita bellezza, sanza la quale miserrimo mi giudicavo, et essendo pieno di varii pensieri, e tanto più in me confuso quanto più me apressavo ad essa, grande infelicità si debbe reputare la mia, poiché in quel bene che io cercavo dubitavo di male. La varietà e confusione de' pensieri era che una parte d'essi mi persuadeva che troverrei la donna mia piena d'amore, di pietà e di dolcezza, un'altra parte mi sbigottiva persuadendomi el contrario; in modo che in me medesimo dubitavo d'intendere le vere novelle, per la molestia che arebbe portato al cuore quando avessi inteso essere cacciato al tutto della grazia della donna mia. Questo faceva alentare e passi miei, et era potentissima cagione, poiché, desiderando io sopra ogni cosa gli occhi della donna mia, ritardavo il passo per vederla. Soccorse Amore a questa mia durissima perplessità, perché uno amoroso pensiero mi redusse a memoria alcune parole che mi aveva detto la mia donna, partendo da essa, tutte piene di speranza, affermando che in ogni luogo e tempo sarei sempre pieno della sua grazia, acertandomi della fede e constanzia sua; le quali parole mi scolpì drento al cuore Amore con le mani sue. Questa dolce memoria mi fece prestare fede a quello più che subiunge Amore, mostrando ogni altro pensiero, ogni sdegno e ira avere tratto del cuore della donna mia, né restare altro desiderio o altro fuoco che quello vi aveva messo Amore per mia satisfazione e felicità. Pieno adunque di questa speranza, si può presumere che io accelerai e passi (ancora che il sonetto di questo non faccia menzione), perché mancava el sospetto onde procedeva la prima lentezza de' passi miei.

 

 

 

XXXIX

 

Quello amoroso e candido pallore

che in quel bel viso allor venir presunse,

fece all'altre bellezze, quando giunse,

come fa campo l'erba verde al fiore,                                           4

 

o come ciel seren col suo colore

distinguendo le stelle, ornato aggiunse;

né men bellezze in sé quel viso assunse,

che fiori in prati o in ciel lume e splendore.                                  8

 

Amore in mezzo della faccia pia

lieto e maraviglioso vidi allora,

così bella questa opra sua li parve.                                           11

 

Come il dolce pallor la vista mia

percosse e il lume de' belli occhi apparve,

fuggissi ogni virtù, né torna ancora.                                           14

 

Platone, filosofo excellentissimo, pone dua extremi, cioè scienzia e ignoranzia: la scienzia, quasi uno lume che ci mostra quello che è veramente e perfettamente, e la ignoranzia come una tenebrosa obscurità, la quale ci priva della cognizione di quelle cose che sono e resta solamente in quello che non è. E perché sempre tra gli extremi debba essere il mezzo, mette la oppinione tra·lla scienzia e ignoranzia, la quale, per essere qualche volta vera e qualche volta non vera, pare che in un certo modo participi qualche volta della scienzia, qualche volta della ignoranzia: non che possa essere mai scienzia, ancora che la oppinione sia vera, delle cose che sono, ma ignoranzia può bene essere quella oppinione di quello che non è. La scienzia comprende le cose che sono certe e chiare, la ignoranzia comprende nulla, la oppinione quelle che qualche volta sono, qualche volta non sono, e che possono essere e non essere. E per questa cagione la oppinione è sempre ansia e inquieta, perché, non si contentando l'animo nostro se non di quello che è vero, e non ne potendo avere la oppinione alcuna certezza, non si quieta, ma giudica le cose più presto per comparazione e respective, che secondo el vero. Come, verbi gratia io dirò: «El tale è un grande uomo», perché excede d'alquanto la grandezza di tre braccia, ove comunemente termina la statura degli uomini; e se gli uomini si trovassino grandi quattro braccia, quello che fussi tre braccia e mezzo sarebbe reputato piccolo. Chiamerassi tra gli Etiopi, di natura neri, «bianco», uno che sarà manco nero che gli altri, e tra questi occidentali uno «nero», che tra gli Etiopi sarebbe candidissimo. Dirai: «El tale è buono», che, secondo Davit profeta, «non est usque ad unum», ma chiamerassi «buono» respetto alla malizia degli altri. Tale è oggi ricchissimo a Vinegia, in Firenze o altrove, che con le medesime facultà al tempo della monarchia di Roma sarebbe suto mendico, a comparazione di molte altre maggiori ricchezze. E però diremo secondo la oppinione umana non potere essere scienzia d'alcuna cosa, ma giudicarsi il meglio essere quello che più s'accosta al bene, o vero che più si discosta del contrario suo. E se, per essemplo, a uno paressi molto più bella una perla quanto fussi più chiara e candida, cioè quanto più s'apressassi alla vera e perfetta bianchezza, la vorebbe vedere in un campo nero e in qualche colore obscuro, acciò che quella comparazione del contrario suo mostrassi la perla accostarsi più alla vera bianchezza; e ancora che la prima intenzione sia questa bianchezza, vi mescola el colore nero, che gli è opposito, ingannandosi e parendogli che questo gli dia più forza, perché in fatto quella perla non è più bianca sul nero che fussi sul bianco. Quinci nasce la bellezza, che procede dalla varietà e distinzione delle cose, perché l'una per l'altra piglia forza e pare che più s'apressi alla sua perfezzione; pure, se·lla oppinione intendessi il vero, solamente quelle cose che sono più belle elegeremmo, sanza ammistione d'altre cose meno belle, e dove nella vita umana per somma bellezza comunemente cerchiamo la varietà, se intendessimo perfettamente, prima ad ogni altra cosa la fugiremmo. Tutto questo discorso è paruto necessario trattando nel presente sonetto della somma bellezza che venne nel viso della donna mia, per uno accidente che negli altri el più delle volte suole la bellezza ricoprire e spegnere, e in essa la multiplicò. Andavo adunque per una via assai solitaria, solo, pieno però d'amorosi pensieri; et essendo fuori d'ogni expettazione di potere in tal luogo vedere la donna mia, subito la scontrai, e già molto vicina m'era quando la vidi. Questa insperata visione e sùbito assalto degli occhi suoi a' miei fece in un tratto partire da me quasi ogni forza e 'l colore del viso; e, rimirando la faccia sua, mi parve similmente adorna d'uno amoroso e bellissimo pallore, non però di colore smorto, ma che pendessi in bianchezza. E di principio mi parve fussi suta grande presunzione di quel colore pallido ad essere venuto in sì bel viso; ma pensando poi meglio, vidi che aveva agiunto forza all'altre bellezze, come suole fare l'erba verde più belli e fiori e il cielo mostrare più chiaro le stelle distinguendole col colore e serenità sua; ancora che e fiori sieno più belli che·ll'erba, e le stelle più belle che il campo del cielo, l'erba faceva parere più belli e fiori, che se fussi tutto il prato fiori e non fussino campeggiati dal verde dell'erba; similmente il cielo delle stelle: per la forza non solamente della varietà, ma perché gli oppositi l'uno vicino all'altro pigliono maggiore forza e meglio si mostrono; né erono a me manco bellezze, in numero, quelle della donna mia, che sieno e fiori de' prati e le stelle del cielo. Erano adunque quelle bellezze in mezzo del pallido colore, come fiori in mezzo dell'erba e stelle in mezzo del colore del cielo. Tra tanti fiori era ancora, in mezzo di questo viso, Amore, bellissimo fiore, e tra tante stelle era similmente la stella d'Amore. Era Amore in un tempo medesimo lieto e maraviglioso, avendo fatto sì gentile e bella opera: lieto, perché era bellissima, e maraviglioso perché gran cosa era quella che aveva fatto e molto nuova, avendo agiunto tanto ornamento per mezzo di quello colore pallido, che, come abbiamo detto, gli altri visi suole turbare e fare brutti. Se ne era Amore pieno di maraviglia, che era suto auttore di sì bella opera, si può pensare che io ne restassi atonito e pieno di stupore, e che ogni mia virtù, superata dalla excessiva e nuova bellezza, per qualche tempo si partissi da me: che così credo sarebbe intervenuto a ciascuno che avessi avuto grazia di vederla, considerarla e amarla.

 

 

 

XL

Lasso!, oramai non so più che far deggia,

quando io son là dove è mia donna bella:

se io miro l'una o l'altra chiara stella,

veggo la morte mia che in lor lampeggia;                                     4

 

se advien che io fugga e 'l mio soccorso chieggia

ora a questa bellezza et ora a quella,

ora a' modi, ora a sua dolce favella,

loco non truovo ove sicur mi veggia;                                           8

 

se io tocco la sua mano, ella m'ha privo

di vita, e tiensi in un bel fascio stretto

el core e i pensier' miei, pronti e felici.                                       11

 

Da tali e tanti dolci miei inimici

ho mille dolci offese, e ancora aspetto

sì dolce morte, che a pensar ne vivo.                                        14

 

Tutti gli affetti umani, sanza controversia, sono passione, e le cagioni che muovono gli affetti degli uomini sono due, la ira e la concupiscienzia: che, per essere passione molto diverse, secondo alcuni hanno diverso luogo e sede nel corpo nostro, perché la potenzia irascibile si genera nel cuore, la concupiscibile nel fegato, secondo alcuni altri amendue sono nel cuore. Che sieno diverse potenzie e differente, móstranlo gli affetti che procedono da queste cagione, de' quali una parte, cioè quelli che procedono dall'ira, il più delle volte sono molesti e duri all'animo nostro, quelli che nascono da concupiscienzia più spesso grati e dolci; et essendo tutti questi affetti, come abbiamo detto, passione, di necessità si conclude che ogni desiderio, ancora che sia per cosa dolce e grata, sia pure passione. Anzi, come abbiamo detto e nel principio, nella diffinizione d'amore, e nella exposizione del sonetto che comincia Ponete modo al pianto, occhi miei lassi, ogni appetito mostra la privazione di quello che s'appetisce: che è somma infelicità; e però, chi non può quietare lo appetito e frenarlo, vive in continua passione. E così in un tempo medesimo una medesima cosa si cerca e fugge, perché chi desidera assai quietare uno grande appetito ha assai desiderio, e chi non desidera quietarlo ha similmente lo appetito grande. Ma quello fa maggiore errore, che cerca quietare lo appetito d'una cosa pigliando rimedii e modi atti a multiplicarlo e accrescerne la inquietudine; come aveniva a me, che, pensando alla bellezza della donna mia, ne avevo grandissimo desiderio, e, credendo quietarlo, andavo per vederla, e, cominciando a veder li occhi, mi parevano sì belli occhi, che il desiderio pure cresceva: che era il contrario di quello volevo. Non trovando adunque la pace mia nelli occhi suoi, ma vedendo in essi rilucere e lampeggiare la morte mia, cioè Amore, fuggivo l'aspetto loro, credendo trovare la quiete, che non avevo trovato in essi, in qualcun' altra delle molte bellezze che apparivano nella donna mia. E però domandavo el mio soccorso, cioè la quiete predetta, quando ai suoi gentilissimi modi, considerandoli con grandissima attenzione, quando sentendo el suo dolcissimo parlare; e diversamente, secondo la multiplice diversità di tante bellezze naturali e ornamenti suoi, trovavo in effetto Amore armato e parato alla mia morte: perché, come è vero officio d'infinita bellezza accendere infinito desiderio, così diremo, a proporzione, d'ogni bellezza e desiderio. Desperato adunque della quiete mia dalle bellezze e ornamenti che continuamente vedevo con li occhi, pensavo quietarmi quando potessi toccare la sua mano candidissima; ma, ricordandomi ch'ella era stata quella che mi aveva tolto la vita e teneva il mio cuore e tutti li miei pensieri in sé stretti, ancora di questo mi disperai, perché, se li miei pensieri erano felici sendo in quella mano, era impossibile loro si partissino dalla felicità, ove sogliono correre tutte le cose. E io sanza pensieri non potevo quietarmi, perché li pensieri sono il principio d'ogni umana azzione, e perché procedono l'opere, né si può fare cosa che prima non si pensi; e però, mancando el pensiero, mancano l'opere. Non potendo adunque ottenere la mia salute, cioè la quiete del desiderio, anzi crescendo ogni ora più, la necessità mostrava che io dovessi sopportare queste offese dolcissime e che amassi sì dolci inimici come erano li occhi, le parole, e modi, la mano e l'altre bellezze della donna mia; e quali erano veramente dolci, perché gran dolcezza era considerare tanta bellezza, e veramente inimici, essendo cagione di multiplicare più el desiderio, cioè la passione. Godevomi adunque non solamente quella presente bellezza, ma ancora la speranza di molto più dolce morte, la quale dalli inimici già detti, per mezzo di sì dolce offese, con grandissimo desiderio aspettavo, perché, quanto maggiore erono le offese, cioè el desiderio di tanta bellezza, più dolce si faceva la morte. E però la speranza di questa morte mi empieva il cuore di tanta dolcezza, che il cuore già se ne nutriva e viveva: intendendo questa morte nella forma che abbiamo detto morire li amanti, quando tutti nella cosa amata si transformono, che non importa altro che lo adempiere il desiderio, che si adempie quando l'amante nello amato si transforma. E però questa morte non solamente è dolce, ma è quella dolcezza che puote avere l'umana concupiscienzia, e per questo da·mme, come unico remedio alla salute mia, era con grandissima dolcezza e desiderio aspettata, come vero fine di tutti li miei desiderii.

 

 

 

XLI

 

Non è soletta la mia donna bella

lunge dalli occhi miei dolenti e lassi:

Amor, Fede, Speranza sempre stassi

e tutti i miei pensieri ancor con quella.                                         4

 

Con questi duolsi sì dolce e favella,

che Amor pietoso oltre a misura fassi,

e in quei belli occhi che il dolor tien bassi

piange, obscurando l'una e l'altra stella.                                       8

 

Questo ridice un mio fido pensiero,

e se io non lo credessi, porta fede

della sua dolce e bella compagnia.                                            11

 

E se non pur che ad ora ad ora spero

li occhi veder che sempre il mio cor vede,

per la dolcezza e per pietà morria.                                            14

 

Come molte altre volte accadde, secondo abbiamo detto, ero assai dilungato dalli occhi della donna mia nel tempo che composi el presente sonetto; e, tra molti duri pensieri che facevano molestissima questa absenzia, uno maravigliosamente offendeva il cuore mio: e questo è che, considerando quante diverse passione generava in me la privazione dello aspetto suo, entrai in pensieri che quelle medesime cose dovessino similmente assai offendere lei. E però, al dolore che del mio proprio male sentivo, si aggiunse ancora questo, presentandosi al cuore mio la pietà e il dolore suo per essere sola e sanza me. E perché la natura e ogni buono medico, della natura imitatore, prima pone remedio a quello che principalmente e più offende la vita, li miei amorosi pensieri, sola medicina di questo dolcissimo male, prima pensorno el remedio a quello che più mi offendeva, cioè la pietà della solitudine della donna mia, mostrando in effetto che sola non era, ancora che fussi di lungi dalli occhi miei dolenti e lacrimosi, perché in compagnia sua era Amore, Speranza e Fede, e insieme tutti e miei pensieri. Non era adunque sola, ancora che in sua compagnia non fussi alcuna persona e fussi destituta dalla conversazione delli altri, come testifica la sentenzia di Catone, dicendo «mai essere meno solo che quando era solo», e chiamandosi ancora da Ieremia la città di Ierusalem «sola», ancora che fussi piena di popolo: perché la vera solitudine è essere destituto da quelle cose che piacciono. E dicesi uno essere «solo» in mezzo di molti inimici, perché, mancando il vero fine per che è ordinata una cosa, di necessità quella cosa non è più quella: come, per essemplo, chiamiamo uno uomo «razionale» perché è ordinato a·ffine della ragione, dal quale quando lui manca non si può più chiamare uomo. La società e compagnia delli uomini l'uno con l'altro dalla natura fu ordinata acciò che tutte le commodità necessarie alla vita umana, che non si possono trovare in un solo, si abbino da molti; e se questo è il fine della compagnia, ogni volta che fussi grandissimo numero per offendere uno, quella non si può chiamare «compagnia», anzi «inimicizia». Se adunque alla donna mia la conversa zione delli altri era molesta e solo li piaceva Amore, Speranza, Fede e·lli miei pensieri, sanza questi tra molti era in extrema solitudine, e con essi, quando fussi suta ne' deserti della arenosa Libia, si poteva chiamare accompagnata; e che non fussi sola, si dimostra ancora parlando lei e dolendosi con questa compagnia. Dolevasi adunque sì dolcemente, che Amore maravigliosamente si faceva pietoso di lei, e, constretto da questa compassione, nelli occhi suoi piangeva; e avendo detto che la sede d'Amore e il vero suo luogo era ne' suoi bellissimi occhi, di necessità in quelli occhi piangeva. E di questo pianto, e perché da loro medesimi, vinti dal dolore, bassi si stavano, alquanto si rimetteva lo splendore loro; non che li occhi per questa obscurazione ne diventassino manco belli, ma splendevano alli altrui occhi come suole il sole interponendosi qualche nube: dico, secondo pare alli occhi nostri, non che il sole perda parte alcuna della sua luce. E perché pareva cosa maravigliosa e quasi incredibile quanto è detto, bisognava fare autore di questo chi fussi suto presente, come era suto uno de' mia pensieri; el quale, essendovi tutti li miei pensieri, di necessità vi era ancora lui, perché, come dicemmo in principio, questo rimedio venne dai pensieri amorosi. E per confermazione di questa verità ne portò seco fede della compagnia sua, cioè delli altri pensieri, d'Amore, della Fede e della Speranza, veramente dolce e bella compagnia, perché altro bene non ha la vita umana, né maggior dolcezza. E se Amore e Fede erano veramente nella mia donna, di necessità vi era la compassione della absenzia mia, e il pensiero con questi testimoni, doveva essere creduto. Questo fido nunzio, con queste novelle, da un canto mi empié el cuore di dolcezza, pensando che non solo non era sola la mia donna, ma di sì bella compagnia accompagnata; da altra parte, sentendo pure che la donna mia si doleva e piangeva, mi accese il cuore di grandissima pietà: tanto che veramente per quella dolcezza e per la pietà sarei morto, se la Speranza non mi avessi soccorso di vedere presto li occhi suoi, e quali sempre vedeva el mio cuore. E perché li occhi del cuore sono e pensieri, si verifica che e pensieri sempre erano con la donna mia.