CANZONI A BALLO

Lorenzo de' Medici

 

I

Benché io rida, balli e canti,
e sì lieto paia in vista,
l'alma è pure afflitta e trista,
e sta sempre in doglia e in pianti.

Tanto tempo io ho seguìto
un mio sol gentil signore:
tanto li son drieto gito,
sì come ha voluto Amore:
hogli dato l'alma e il core,
stato son fedel suggetto;
or, non già per mio difetto,
son tra' più infelici amanti.

Io non ne do colpa alcuna
a chi è tutto il mio bene;
sol la mia aspra fortuna
è cagion di tante pene:
da lei ogni mio mal viene;
ma facci quel che la vuole:
non andrò drieto a parole,
ma terrò nel cor diamanti.

II

Non mi dolgo di te, né di me stessi,
ché so mi aiuteresti, stu potessi.

Dolgomi ben della fortuna mia,
che impedisce la tua e la mia voglia:
dolgomi dell'invidia e gelosia,
che di dolcezza tal mi priva e spoglia;
e della mia disgrazia, che par voglia
che tanta pena e tanto male avessi.

Dolgomi e dorrò sempre del sospetto,
quale interrompe i dolci pensier' miei:
dolgomi, perché veggo n'hai dispetto,
ché so vorresti quel che anch'io vorrei.
Questo già mai pensato non arei,
che gelosia tanto mal mi facessi.

Sia maladetto chi mi to' il mio bene
e chi guerra mi fa sanza cagione;
e la cagione onde tanto mal viene,
e chi ha tanta poca discrezione:
sia maladetto chi ci s'interpone,
e chi vorre' che 'l mio mal non avessi.

Ma sì costante e fermo è il mio amore
(e così di te credo, o donna bella),
che forza non arà pena o dolore
o gelosia, che dal mio cor divella
il ben ch'io t'ho voluto, o chiara stella:
ma tuo sarò, ché per signor t'elessi.

Donna, io ti priego che tu sia costante,
e lascia fare e dire, e tempo aspetta:
ché ancor sarai col tuo fedele amante,
sì come Amor vorrà, lieta e soletta:
di tanto strazio ancor vedrai vendetta,
se già Morte i disegni non rompessi.

III

Vivo contento e stommi lieto in pace,
perché così al mio caro signor piace.

Vuol ch'io sia lieto più che alcuno amante
la donna mia e 'l mio gentil signore,
e cacciate ha le pene tutte quante,
né vuol ch'io senta più pianto o dolore:
e di tanta dolcezza ha pieno il core,
ch'è per morir in mezzo alla sua pace.

Non fece Amor alcun mai tanto lieto,
quanto son io, e d'allegrezza pieno;
e s'io il tenessi nel mio cor secreto,
per la troppa dolcezza verre' meno.
Non fu già mai il ciel lieto e sereno,
quanto il cor a cui troppo il suo ben piace. - - Fuggan da me tutti i sospiri e ' pianti,
fugga dal core ogni maninconia;
felice e lieto par fra li altri amanti,
ché così vuol la bella donna mia:
la qual, poich'è verso il mio cor sì pia,
la vita per servirla sol mi piace.

S'io non temessi che la ria Fortuna,
forse invidiosa a mia troppa dolcezza,
color mutassi e diventassi bruna,
sare' certo la mia troppa allegrezza:
poiché la fonte d'ogni gentilezza
mi fa contento stare in tanta pace.

IV

Con tuo promesse e tuo false parole,
con falsi risi e con vago sembiante,
donna, menato hai il tuo fedel amante,
sanz'altro fare; onde m'incresce e duole.

Io ho perduto drieto a tua bellezza
già tanti passi per quella speranza,
la qual mi die' la tua gran gentilezza
e la beltà, che qualunque altra avanza:
fida'mi in lei e nella mia costanza,
ma insino a qui non ho se non parole.

Di tempo in tempo già tenuto m'hai
tanto, ch'io posso annoverar molt'anni;
ed aspettavo pur di tanti guai
ristorar mi volessi e tanti affanni;
e conosco or che mi dileggi e inganni:
la fede mia non vuol da te parole.

Donna, stu m'ami, come già m'hai detto,
fa' ch'io ne veggia qualche esperienzia:
deh! non mi tener più in cotanto aspetto,
ché forse non arò poi pazienzia:
se vuoi usare in verso me clemenzia,
non indugiare e non mi dar parole.

Questo tenermi come m'hai tenuto
pensa, donna, che l'è la morte mia.
Il tuo indugiare è pur tempo perduto:
poiché tu sai quel che 'l mio cor disia,
deh! fatti alquanto più benigna e pia;
tra'mi d'impaccio, e non mi dar parole.

Va', canzonetta, e priega il mio signore
che non mi tenga più in dubbio sospeso;
di' che mi mostri una volta il suo core,
e s'è perduto il tempo ch'io ho speso:
come io arò il suo pensiero inteso,
prendo partito, e non vo' più parole.

V

Prenda pietà ciascun della mia doglia,
giovane donne, e sia chiunche si voglia.

Sempre servito io ho con pura fede
una la qual credea fussi pietosa
e che dovessi aver di me merzede,
e non, com'è, altera e disdegnosa:
or m'ho perduto il tempo ed ogni cosa,
ché s'è rivolta come al vento foglia.

Oh, lasso a me!, ch'io non credetti mai
ch'e suoi occhi leggiadri e rilucenti
fusser cagione a me di tanti guai,
di tanti pianti e di tanti lamenti:
ah! crudo Amore, or come gliel consenti?
Di tanta crudeltà suo core spoglia.

Oh, lasso a me!, questo non è quel merto
ch'io aspettava di mia fede intera;
questo non è quel che mi fu offerto;
questo ne' patti nostri, Amor, non era:
folle è colui che in tua promessa spera,
e sotto quella vive in pianti e in doglia.

Cantato in parte v'ho la doglia mia,
che vi debba aver mosso âver pietate;
e quanto afflitta la mia vita sia,
perché di me compassione abbiate:
e priego Amor che più felici siate,
e vi contenti d'ogni vostra voglia.

VI

So con altri ti diletti,
né di me udir vuo' nulla:
tu hai il torto inver, fanciulla,
se 'l mio amor tu non accetti.

Certamente tu hai il torto
non accettare il mio core;
dammi almen qualche conforto,
non sprezzar così il mio amore;
perché m'è troppo dolore
pensar ch'altri abbi diletto,
io ti sia così in dispetto:
per disutil tu mi metti.

Forse ancor se mi provassi,
donna, e' ti verre' disio
di far ch'altri non mi passi:
piacere'ti l'amor mio,
e sarei il buono e 'l bello io;
donna, deh!, non mi spregiare,
ch'io saprei così ben fare,
come quel ch'è tra li eletti.

Tu hai il torto a non mi udire,
ché ascoltar si vuol ciascuno;
tu non sai quel ch'io vo' dire,
e son pur me' duo che uno.
Scusami s'io t'importuno:
ché, se tu ne farai pruova
(io so quanto il servir giova),
non vorrai che più aspetti.

Donna, il dico per tuo bene
se tu vuoi esser stimata,
ch'altri stimi si conviene:
chi non ama, non è amata.
Chi non ode una imbasciata
certo ell'è troppo crudele;
io son pure un tuo fedele;
il torto hai, se non m'accetti.

VII

Chi tempo aspetta, assai tempo si strugge
e 'l tempo non aspetta, ma via fugge.

La bella gioventù già mai non torna,
né 'l tempo perso già mai riede indrieto,
però chi ha 'l bel tempo e pur soggiorna,
non arà mai al mondo tempo lieto;
ma l'animo gentile e ben discreto
dispensa il tempo, mentre che via fugge.

Oh quante cose in gioventù si prezza!
Quanto son belli i fiori in primavera!
Ma, quando vien la disutil vecchiezza
e che altro che mal più non si spera,
conosce il perso dì quando è già sera
quel che 'l tempo aspettando pur si strugge.

Io credo che non sia maggior dolore
che del tempo perduto a sua cagione:
questo è quel mal che affligge e passa il core,
questo è quel mal che si piange a ragione;
questo a ciascun debbe essere uno sprone
di usare il tempo ben, che vola e fugge.

Però, donne gentil, giovani adorni,
che vi state a cantare in questo loco,
spendete lietamente i vostri giorni,
ché giovinezza passa a poco a poco:
io ve ne priego per quel dolce foco
che ciascun cor gentile incende e strugge.

VIII

Io priego Iddio che tutti i ma' parlanti
facci star sempre in gran dolori e pianti.

E priego voi, o gentil' donne e belle,
che non facciate stima di parole;
però che chi tien conto di novelle,
d'ogni piacer privare alfin si suole;
onestamente e liete star si vuole,
vivere in gioie ed in piaceri e in canti.

Deh! lasciam dire a chi vorrà mal dire,
e non guardiamo al lor tristo parlare:
allegre si vuol vivere e morire,
mentre che in giovinezza abbiamo a stare;
e chi vorrà di noi mal favellare,
il cor per troppa invidia se gli schianti.

Canzona, truova ciascheduno amante
e le donne leggiadre alte e gentile:
ricorda lor che ciascun sia costante
al suo amor coll'animo virile;
perché il temer parole è così vile,
né fu usanza mai de' veri amanti.

IX

Crudel Fortuna, a che condotto m'hai?
Peggio non mi puo' far che quel che fai.

Tu ti mostrasti già felice e bella,
tu mi mostrasti il tuo volto sereno;
dicesti a me che volevi esser quella,
la qual facessi ogni mio disio pieno,
poi ti mutasti in meno ch'un baleno,
e mi facesti pien d'affanni e guai.

Promettestimi già che un bel Sole
fare' per sempre la mia vita lieta;
e nel principio dolci atti e parole
di speranza facean l'alma quieta:
e m'hai dimostro alfin che un cor di prieta
amato io ho, e dileggiato m'hai.

Io non credevo al tuo falso sembiante,
e ben ti conoscevo in altre cose;
ma de' begli occhi lo splendor prestante
e le fattezze sì belle e vezzose,
fecion che l'alma mia speranza pose
in tue promesse: e morte n'acquistai.

Tu m'accendesti al core una speranza,
che mi facea veder quel che non era:
lasso!, io credetti che maggior leanza
regnassi in te: dunque folle è chi spera;
perché ho veduto poi in qual maniera
schernito al tutto e dileggiato m'hai.

Va', canzonetta; e pregherai colei,
la qual può farmi vivere e morire,
che alfin vogli esaudire i prieghi miei;
digli che m'apra un tratto il suo disire.
E, s'ella vuol le mie ragioni udire,
Fortuna più crudel non fia già mai.

X

Amor, poi ch'io lasciai tuo gentil regno,
la vita mia è sol dispetto e sdegno.

Poi che la donna mia per sua durezza
mostrò d'avere a sdegno il mio servire,
la vita mia sanza la sua bellezza
vita stata non è, ma un morire.
Amor libero e sciolto lasciomm'ire:
d'allora in qua ebbi la vita a sdegno.

Amar non puossi chi non ama altrui;
non ha amante chi non sente amore;
e, se in un tempo innamorato fui,
non conoscevo ancor il mio errore;
ma, come se n'accorse poi il mio core,
non volse con Amor pigliare sdegno.

A mal mio grado mi parti' da quella
ch'io più amavo che la vita mia;
e da poi in qua mia vita meschinella
è stata sempre, e così sempre fia:
d'Amor mi dolgo e di Fortuna ria,
ché l'uno e l'altra mostra avermi a sdegno.

Vorrebbe pure il mio cor ritornare
al foco ardente, alla fiamma amorosa,
ché in questo modo omai non può più stare.
Se qualche donna ci fussi pietosa,
che accetti questa vita lacrimosa,
a lei mi do: ogni altra cosa ho a sdegno.

XI

Écci egli alcuna in questa compagnia,
ch'abbi il mio core o sappi ove si sia?

E' si partì da una donna bella,
per suo durezza, quale amava molto,
e, nel tornare a me, nuova fiammella
l'accese, e quasi in tutto me l'ha tolto;
Amor me lo rendea libero e sciolto;
ma, non so come, fu preso tra via.

Li occhi leggiadri e di pietate adorni
d'una donna gentil me l'han furato;
né credo che già mai a me ritorni,
tanto le sue bellezze l'han legato:
io l'ho già mille volte richiamato,
ma lui di star con lei brama e disia.

Donne gentili, chi di voi mel tiene,
gli usi qualche pietà, qualche merzede;
e, poiché a voi liberamente viene,
con pietà sia pagata la sua fede:
già mai si partirà da voi, se vede
che li sie fatta buona compagnia.

XII

Donne belle, io ho cercato
lungo tempo del mio core.
Ringraziato sie tu, Amore,
ch'io l'ho pure alfin trovato.

Egli è forse in questo ballo
chi il mio cor furato avia:
hallo seco, e sempre arallo,
mentre fia la vita mia;
ella è sì benigna e pia,
ch'ell'arà sempre il mio core.
Ringraziato sie tu, Amore,
ch'io l'ho pure alfin trovato.

Donne belle, io v'ho da dire
come il mio cor ritrovai:
quand'io me 'l senti' fuggire,
in più luoghi ricercai;
poi duo begli occhi guardai,
dove ascoso era il mio core.
Ringraziato sie tu, Amore,
ch'io l'ho pure alfin trovato.

Che si viene a questa ladra,
che il mio cor m'ha così tolto?
Com'ell'è bella e leggiadra,
come porta amor nel volto!
Non sia mai il suo cor sciolto,
ma sempre arda col mio core.
Ringraziato sie tu, Amore,
ch'io l'ho pure alfin trovato.

Questa ladra, o Amor, lega,
o col furto insieme l'ardi:
non udir s'ella ti priega;
fa' che gli occhi non li guardi,
ma, se hai saette e dardi,
fa' vendetta del mio core.
Ringraziato sie tu, Amore,
ch'io l'ho pure alfin trovato.

XIII

Amore, se vuoi tornar drento al mio core,
fa' che torni pietà nel mio signore.

Tu sai perché da te mi son partito,
ch'altra cagion non fu se non durezza,
avendo io sempre una donna servito
che il mio servire e la mia fé non prezza.
Se vuoi ch'io torni âmar la sua bellezza,
fa' ch'ella sappi quanto è il tuo valore.

Fa' ch'ella ami il mio cor, che tanto l'ama;
deh!, fa' ch'ella conosca la mia fede;
un tratto sol risponda a chi la chiama:
fa' che drento al suo cor nasca merzede,
e vengali pietà, quand'ella vede
il fedel servo suo, che per lei more.

Se di pietà facessi un picciol segno,
se si rompessi ancor questo adamante,
bench'io non sia di tanta grazia degno,
più che mai sare' io forte e costante:
e' non fu mai al mondo alcuno amante,
il qual con tanta fé servissi Amore.

Priegoti bene, Amor: quel ch'esser deve
sie sanza indugio, perché il tempo vola:
tant'è il troppo aspettar molesto e grieve,
e 'l tempo ogni pietà ne porta e invola;
amato ho sempre ed amerò lei sola,
se lei pietate arà del mio dolore.

XIV

Non so che altro paradiso sia,
quando amor fussi sanza gelosia.

Quando amor fussi sanza alcun sospetto,
lieta saria la vita degli amanti,
e 'l cor pien di dolcezza e di diletto,
da non aver invidia in cielo a' santi.
Ma, lasso a me, cagion di quanti pianti
è questa maladetta gelosia!

Troppo sarebbe il cor contento e lieto,
poi ch'Amor fa contenta ogni mia voglia;
ma parmi tuttavia mi vegga drieto
un che 'l mio ben mi furi, e per sé il toglia:
questo pensiero il cor mi priva e spoglia
d'ogni dolcezza: ah trista gelosia!

Ma io ho tanta fede, o signor mio,
nella tua gentilezza o fedel core,
che questo caccia ogni sospetto rio,
e so che fia eterno il nostro amore:
degno me ne facesti, o car signore,
ond'io non ho sospetto o gelosia.

Tu non mi amasti per farmi morire;
tu hai sì gentil cor, però non puoi
il fedel servo tuo già mai tradire,
e farlo disperar so che non vuoi.
Il tuo bel viso par mi voglia dire
ch'io viva lieto e sanza gelosia.

XV

Io non so qual maggior dispetto sia,
che aspettar quel che 'l cor brama e disia.

Ogni ora a chi aspetta pare un anno,
e ogni brieve tempo è troppo lungo:
color che 'l pruovon, molto ben lo sanno.
Io son di quei che dicon: "Ora la giungo";
e, quando ben nascessi come il fungo,
mi par che troppo al mio bisogno stia.

Quel ch'io aspetto, e' me lo par vedere;
quel ch'io vorrei, e' me lo par sentire:
s'i' penso a quel ch'io spero presto avere,
parmi vederti lieta a me venire;
ma poi per doglia sono in sul morire,
ch'io veggio vana ogni speranza mia.

E il core a oncia a oncia si distrugge:
pure aspettando io mi consumo ed ardo;
e priego il tempo, che sì ratto fugge,
che sia al passar via più lento e tardo.
E, mentre che il passato indrieto guardo,
veggo il presente che se ne va via.

Donna, deh, pon' rimedio a questo male!
Tu non t'avvedi forse, poveretta,
che tu se' a te stessa micidiale,
ch'è maggior danno, sendo giovinetta.
Abbi compassion di chi aspetta,
e della tua bellezza e leggiadria!

XVI

Chi non è innamorato
esca di questo ballo,
ché faria fallo a stare in sì bel lato.

Se alcuno è qui, che non conosca amore,
parta di questo loco;
perch'esser non potria mai gentil core
chi non sente quel foco.
Se alcun ne sente poco,
sì le sue fiamme accenda,
che ognun lo intenda; e non sarà iscacciato.

Amor in mezzo a questo ballo stia,
e chi gli è servo intorno.
E, se alcuno ha sospetto o gelosia,
non facci qui soggiorno;
se non, che arebbe scorno.
Ognun ci s'innamori,
o esca fuori del loco tanto ornato.

Se alcuna per vergogna si ritiene
di non s'innamorare,
vergognerassi, s'ella pensa bene,
più tosto a non lo fare:
non è vergogna amare
chi di servirti agogna;
saria vergogna chi gli fussi ingrato.

Se alcuna ce ne fussi tanto vile
che lasci per paura,
pensi bene che un core alto e gentile
queste cose non cura.
Non ha dato Natura
tanta bellezza a voi,
acciò che poi sia il tempo male usato.

XVII

Come poss'io cantar con lieto core,
s'io non ho grazia più col mio signore?

Io vo' lasciare canti, balli e feste
a questi più felici e lieti amanti,
perché il mio cor d'un tal dolor si veste,
che a lui conviensi dolorosi pianti.
Chi è contento si rallegri e canti,
perch'io vo' pianger sempre a tutte l'ore.

Anch'io fui già contento, come volse
Amor, ché 'l mio signor m'amava forte;
ma la Fortuna invidiosa volse
in tristi pianti ogni mia lieta sorte.
Omè, che meglio sare' suta morte,
che aver sì poca grazia con Amore!

Un sol conforto il core sbigottito
consola e l'alma in tanto suo dispetto,
perch'io ho sempre il mio signor servito
con pura fede e sanza alcun difetto:
però, s'io muoio a torto, almeno aspetto
che, morto ch'io sarò, n'arà dolore.

XVIII

Io ho d'amar dolcezza il mio cor pieno,
come Amor vuole, e d'un dolce veneno.

Nessuno è più di me lieto e contento,
nessun merta maggior compassione;
la dolcezza e 'l dolor, che insieme sento,
di rider dammi e sospirar cagione:
non può intender sì dolce passione
chi non ha questo gentil foco in seno.

Quanto più ha il mio cor quel che disia,
quanto più è benigno il mio signore,
tanto s'accende più la voglia mia,
ché 'l mio ben più mi piace a tutte l'ore:
cresce la doglia mia, crescendo amore,
né può già mai per tempo venir meno.

Io non provai già mai piacere alcuno
sì dolce, com'è dolce la mia pena,
né martìr tanto acerbo e importuno,
come il piacer che alla morte mi mena;
ma morte fia d'ogni dolcezza piena,
poi che 'l martìre è sì dolce e ameno.

XIX

Io non mi vo' scusar s'io seguo Amore,
ché gli è usanza d'ogni gentil core.

Con chi sente quel foco, che sento io,
non convien fare alcuna escusazione,
ché 'l cor di questi è sì gentile e pio,
ch'io so che arà di me compassione;
con chi non ha sì dolce passione
scusa non fo, ché non ha gentil core.

Amore e onestà e gentilezza,
a chi misura ben, sono una cosa:
parmi perduta in tutto ogni bellezza
ch'è posta in donna altera e disdegnosa;
chi riprender mi può s'io son pietosa,
quanto onestà comporta e gentil core.

Riprenderammi chi ha sì dura mente,
che non conosce gli amorosi rai:
i' prego Amor che chi amor non sente
nol facci degno di sentirlo mai;
ma chi lo serve fedelmente assai,
ardali sempre col suo foco il core.

Sanza ragion riprendami chi vuole:
se non ha cor gentil, non ho paura;
il mio costante amor vane parole
mosse da invidia poco stima o cura;
disposta son, mentre la vita dura,
a seguir sempre sì gentile amore.

XX

Tienmi, Amor, sempre mai stretto e serrato,
poiché sì dolcemente m'hai legato.

Intenda bene ogni amorosa donna
e ogni altro, che ha il cor costante e caldo:
tienmi legato a una sua colonna
Amor, ch'è d'alabastro terso e saldo,
nudo, misero a me!, come un ribaldo
e sanza compagnia sì m'ha lasciato.

Al collo stretta tienmi una catena
di madreperla questo mio signore,
tanto ch'io posso sospirare a pena,
sì serra alla colonna il petto e 'l core.
Le man' mi lego io stesso: oh che dolore
è a star sempre così incatenato!

Tienmi le gambe e ciascun piede avvolto
di duo catene, e son più grosse assai
d'un netto avorio, ch'è candido molto;
mi stringon sì, ch'io non mi scosto mai;
quel che segue di questo, Amor, tu il sai,
perché sei sempre alla presenzia stato.

XXI

In mezzo d'una valle è un boschetto
con una fonte piena di diletto.

Di questa fonte surgon sì dolci acque,
che chi ne gusta un tratto, altro non chiede:
io fui degno gustarne, e sì mi piacque,
ch'altro non penso poi, per la mia fede,
questa dolcezza ogni altro dolce eccede,
pur ch'altri sia a tanto bene eletto.

Già non voglio insegnarvi ov'ella sia,
ché qualche animal bruto non v'andassi;
son ben contento di mostrar la via,
onde, chi vuole andarvi, drizzi i passi.
Per duo cammini a questa fonte vassi,
chi non volessi far certo tragetto.

Vassi disopra per un gentil monte,
che quasi par di bianca neve pieno;
truovasi andando dritto verso il fonte
da ogni parte un monticello ameno,
e in mezzo d'essi un vago e dolce seno,
che adombra l'uno e l'altro bel poggetto.

Seguitando il cammin di mano in mano,
si passa per un vago monticello,
un'erta ch'è sì dolce, che par piano,
e 'l poggio è netto, rimunito e bello:
nascon poi duo vallette a piè di quello
e in mezzo a queste è il loco ch'io v'ho detto.

XXII

E' convien ti dica il vero
una volta, donna mia:
benché forse egli è pazzia,
pur saprai il mio pensiero.

Tu non sai pigliar partito:
tu vorresti e poi non vuoi;
poi ti torna l'appetito:
servir vuo'mi e non sai poi.
Questo giuoco già fra noi,
come sai, è stato un pezzo:
egli è pur cattivo vezzo
non fermare il suo pensiero.

Tu mi mandi una imbasciata
che mi tiene un pezzo lieto;
poi in un punto sei mutata:
ond'io resto tristo e cheto.
Tu non hai punto il discreto:
sciogli un tratto questo laccio:
trai e te e me d'impaccio,
ché gli è tempo, a dire il vero.

Tu hai pur tanto indugiato,
che se n'è avveduto ognuno;
prima, avendomi spacciato,
non se ne avvedeva alcuno.
Non guardar s'io t'importuno,
ch'io tel dico per tuo bene:
questo nuoce e a te e a mene,
non fermare il tuo pensiero.

Credo che tu sappi a punto
che chi quando può non vuole,
quando passa poi quel punto,
rade volte poter suole.
Facciam fatti e non parole,
come dee buona maestra.
Deh!, sta' meno alla finestra,
e conchiudi a dire il vero.

XXIII

Una donna avea disire
con un giovane parlare:
tanto seppe alfin ben fare,
che li die' quelle tre lire.

Su 'n un canto di cassone
gliel contò la prima volta,
ma vi fu tra lor quistione,
onde ch'ella a dir s'affolta:
«Una parte me n'hai tolta,
ma infin nulla arai tu fatto;
se non conti un altro tratto,
non potrai di qui partire».

E, perché la donna è avara,
non li satisfe' ancor questo:
la non fu scarica e chiara,
finché il giovane assai presto
non li dette ogni suo resto,
e gliel misse tutto in tasca;
allor sana come lasca
lo volea lasciar fuggire.

Ricordossi a mano a mano
che gli avea a dar l'usura:
sciolse al giovan di sua mano
la sua borsa assai sicura;
disse: «Gli è trista natura!
Non sta ritto, giusto e intero;
e' bisogna far pensiero
l'erta di nuovo salire».

Funne il giovane contento,
perché gli era ben fornito:
di danar vi dette drento
e pagolla in sul pulito;
poi volea pigliar partito,
ma la donna disse: «Aspetta»,
dodici uova con gran fretta
li die' ber, poi lasciollo ire.

XXIV

Ragionavasi di sodo
un marito con la moglie:
«Stu non muti viso o voglie,
io non muterò mai modo».

La sua moglie si dolea
che faceva un certo giuoco,
che veder non lo potea;
e dicea: «Pur muta loco».
Il marito disse poco:
«Seguir vo' l'usanza mia;
nol vo' far per altra via,
se miglior ragion non odo».

«Tu ti se' male allevato;
hai apparato cattiva arte:
non è buono alcun mercato,
che non fa per ogni parte».
Il marito a questa parte:
«Tu ne se' cagion tu stessi,
ché, se miglior viso avessi,
non commetterei tal frodo».

La si dolse co' parenti,
ma doluto prima gli era
co' vicin': fe' gran lamenti
e dicea mattina e sera:
«Fàllo il tuo in tal maniera?
Non par mai che vi s'assetti,
che le lacrime non getti:
pensi ognun com'io ne godo!».

Disse: «Porta in sofferenza»
il marito; «e se t'avvezzi
aver meco pazienzia,
non vorrai che 'l modo sprezzi;
e dirai ti faccia vezzi;
se tu gusti il giuoco mio,
tu dirai quel che dico io:
che sia questo il proprio modo».

XXV

Figlia mia, per me non resta,
che tu sia bene allevata,
perché pai alla brigata
gentil, savia e ben modesta.

Quando giugni ove sia gente,
ove sia qualche ridotto,
fa' che stia allegramente,
non che pai abbi corrotto;
se ti vien qualche bel motto,
per non dir parola scorta,
fa' che a dirlo sia accorta,
da tua mente manifesta.

Se alcun ti guarda in viso,
chi ti guarda guarda bene:
l'occhio attento, e qualche riso
da cavare altrui di pene;
se un ti tocca mano o piène,
non mostrare averlo a male,
ché saria cosa bestiale
il voler guastar la festa.

Se alcun, che non sie avaro,
qualche cosa dar ti vuole,
mostra pure averlo caro
e in cenni e in parole;
ché villania parer suole
chi gli altrui don' non accetta;
non negar, fa' che prometta,
se di nulla se' richiesta.

Questo è il modo, o figlia mia,
a volermi fare onore;
fa' che a mente ben ti stia,
che tel metta ben nel core:
sappi prender tempo e l'ore
da far poi quel c'hai promesso:
non si torna a festa spesso;
passa il tempo e non s'arresta.

XXVI

«Io son suta consigliata
da te in modo, madre mia,
ch'io non credo alcuna sia,
più di me, lieta o beata.

Ieri un giovane gentile
mi si offerse innanzi al viso
con un atto dolce e umìle.
Cominciommi a guatar fiso;
femmi un certo ghigno o riso,
che dicea, sanza dir nulla:
"Più di me t'amo, fanciulla!".
Presto m'ebbe innamorata.

Destramente per la mano
poi mi prese accortamente,
che nessun, presso o lontano,
non se ne avvide niente;
la mia man, che la sua sente,
presto quella strinse e prese,
fece in modo, che palese
non fu alcun della brigata.

E' mi messe un piè in sul mio,
sì che impolverò la cotta;
poi mi disse aver disio
di parlar meco a cert'otta,
soli al buio e non in frotta;
io da prima non lo intesi,
poi pe' suoi cenni compresi,
e rimbeccai la ballata.

Disse mi volea parlare
di tal cose, ch'arei caro:
com'io lo stetti âscoltare,
non pote' far più riparo;
e risposi tutto chiaro:
"Trar ti vo' di questa noia;
io non vo' che per me muoia;
ecco io sono apparecchiata!".

Onde che stanotte venne
per un luogo molto strano;
s'egli avessi avuto penne,
era troppo a venir sano;
e ne venne a me pian piano,
dove io ero in sul mio letto.
S'io dicessi il gran diletto,
so da te sare' invidiata.

Tanto ci stemmo a quel modo,
che alfin fu contento e sazio;
mentre lo racconto, io godo;
pur mi parve un brieve spazio.
Madre mia, io ti ringrazio
del ricordo che mi desti,
perché mai cosa facesti,
che a me fussi più grata».

Donne mie, pigliate esemplo
da costei, che seppe fare:
ché, se 'l vero ben contemplo,
chi può far non de' tardare;
perché spesso l'indugiare
fa scoprir cose secrete:
fate, mentre che potete,
ch'altri poi non è lasciata.

XXVII

E' non c'è niun più bel giuoco,
né che più piacci a ciascuno,
ch'esser due e parer uno:
chi nol crede il pruovi un poco.

Chi non lo sapessi fare,
venga a me ch'io gliene insegni;
non bisogna adoperare
a impararlo molti ingegni,
pur che da natura vegni,
come avviene all'asinino,
che non è mai sì piccino,
che non sappi fare un poco.

Già ne vidi una che n'era
nel principio poco destra,
e poi la seconda sera
diventò buona maestra;
a un gambo di ginestra
l'insegnai la prima volta:
non mi fu fatica molta
a insegnarli sì bel giuoco.

E' bisogna sofferire,
lasciar far quel che t'è fatto,
e l'ingegno bene aprire,
chi imparar vuole ad un tratto;
non è niun sì sciocco e matto,
che, se 'l giuoco punto dura,
non l'insegni la natura,
ché s'impara a poco a poco.

Par da prima un po' fatica
fin che l'uomo siasi avvezzo;
non è alcun che poi non dica
contenta esserne da sezzo;
chi la danza mena un pezzo,
fin che vien quel ch'altri vuole,
nulla prima o poi li duole,
né vorre' far altro giuoco.

Un maestro c'è di scuola,
che bottega di ciò tiene:
chi avessi una figliuola,
che imparar volessi bene,
s'ella è sana delle rene,
saprà presto il giuoco bello;
fia come uno arrigobello,
come arà apparato un poco.

E' ci è bene un altro modo,
ma gli è più pericoloso,
e perciò io non lo lodo,
perché è troppo faticoso;
pur, se c'è niun voglioso,
venga a me, che son maestro:
far l'insegnerò sì destro,
che non guasterà mai il giuoco.

XXVIII

Tra Empoli e Pontolmo in quelle grotte,
andando a Pisa, mi giunse la notte.

Io mi credetti a Pontolmo fermare:
perch'e' pioveva, io nol potetti fare;
egli era buio, ond'ebbi a sdrucciolare
a Empoli in iscambio quella notte.

Dello scambiar non me ne maraviglio:
come sapete, è men d'un mezzo miglio;
e spesse volte simile error piglio,
come anche m'intervenne quella notte.

A Empoli il caval fermar si volse:
or udirete come ben gli accolse;
perdonatemi voi: il cul ci volse
l'ostessa, ove alloggiammo quella notte.

La non ci dette la sera altro a cena
ch'arista e lombi e di vitella schiena;
tagliato il dito avea, e per la pena
attese a succiar uova tutta notte.

Poi certe mele dinanzi ci misse,
e vuolmi ricordar che l'arrostisse;
per farci onore il tondo manomisse,
e altro non si bevve tutta notte.

Tal che, quando io farò questo viaggio,
di stare altrove in error più non caggio,
da poi che questa ostessa fa vantaggio,
ch'io non ebbi già mai la miglior notte.

XXIX

Donne e fanciulle, io mi fo coscienza
d'ogni mio fallo, e vo' far penitenza.

Io mi confesso a voi primieramente
ch'io sono stato al piacer negligente,
e molte cose ho lasciato pendente:
di questo prima io mi fo coscienza.

Io avea lungo tempo disiato
a una gentil donna aver parlato;
poi in sua presenzia fui ammutolato:
di questo ancora io mi fo coscienza.

Già in un altro loco mi trovai,
e un bel tratto per viltà lasciai;
e non ritornò poi quel tratto mai:
di questo ancora io mi fo coscienza.

Ah, quante volte me ne son pentito!
Presi una volta un più tristo partito,
ch'io pagai innanzi e poi non fui servito:
di questo ancora io mi fo coscienza.

Io mi ricordo ancor d'altri peccati,
ché per ir drieto a parole di frati
molti dolci piaceri ho già lasciati:
di questo ancora io mi fo coscienza.

Dolgomi ancor ch'io non ho conosciuto
la giovinezza e 'l buon tempo ch'i' ho avuto
se non or, quando gli è in tutto perduto:
di questo ancora io mi fo coscienza.

Dico «mia colpa», e ho molto dolore
di viltà, negligenzia e d'ogni errore;
ricordi o non ricordi, innanzi A4more
generalmente io mi fo coscienza.

E priego tutte voi che riguardiate
che simili peccati non facciate,
acciò che vecchie non ve ne pentiate,
e invan poi ne facciate coscienza.