Leon Battista Alberti

 

Momo o del principe

 

Proemio

 

Il principe e l'artefice delle cose, il Dio ottimo e massimo, mentre distribuì tutte le qualità più ammirevoli alle sue creature in modo tale che a ciascuna singolarmente toccasse almeno un segno delle più alte lodi divine, volle riservare a sé ‑ è chiaro, lo si tocca con mano! ‑ il privilegio di essere l'unico e solo interamente fornito degli attributi d'una divinità totale. Diede infatti forza agli astri, splendore al cielo, alla terra bellezza, ragione ed immortalità alle anime, distribuendo tutte le meraviglie di questa sorta alle singole cose quasi una per una, e in quanto a sé, volle esser l'unico dotato in tutti i suoi aspetti di quella perfezione che non ha pari. E proprio questa qualità, se non andiamo errati, va ritenuta la prima in un ente divino: essere senza concorrenza unico e solo.

Da ciò deriva che tutte le rarità, cioè quelle cose che non hanno la minima somiglianza con tutte le altre, per antica opinione degli uomini sono giudicate quasi divine. E così gli eventi mostruosi, i prodigi, le strane apparizioni e i fenomeni del genere, per il fatto di accadere raramente, venivano annoverati dagli antichi tra i segni della sacra presenza degli dèi. La natura poi, come si è potuto osservare a memoria d'uomo fino ad oggi, ha messo insieme l'immensità e la stranezza con la rarità, tanto che sembra incapace di concepire nulla di bello e di grandioso che non sia anche raro. È forse per questo che, se notiamo persone che spiccano per ingegno ed emergono dalla massa, in modo da essere, ciascuna secondo i suoi titoli di merito, fuori del comune e quindi rare, le definiamo divine e le facciamo oggetto di ammirazione ed onori assai simili a quelli divini, spinti dall'insegnamento della natura. Per questa via, senza dubbio, ci rendiamo conto che tutte le rarità hanno un che di divino in quanto tendono ad essere considerate uniche e fuori dell'ordinario, ben distinte dall'ammasso numeroso di tutte le altre cose.

Potrei indicare un gran numero di cose apprezzate per il semplice motivo d'essere uniche; lasciando stare tutto il resto, quante argomentazioni degli antichi scrittori sarebbero apprezzate se dessero l'impressione di banalità, di luoghi comuni? Al contrario, quale non verrà letta con grandissimo piacere e ammirazione se sarà riconosciuta non dico come un'idea messa da parte e respinta da tutti gli altri scrittori, ma almeno poco letta in precedenza e poco approfondita, al punto che riterrei dovere dello scrittore non mettersi a scrivere nulla che non risulti ignoto e imprevisto ai suoi futuri lettori?

Alla luce di queste considerazioni, non mi sfugge certo quanto sia difficile, quasi impossibile tirar fuori qualcosa che non sia già stato trattato ed escogitato da parecchi in un così gran numero di scrittori. Antico è il proverbio: "Nulla è detto che non sia già detto". Perciò ritengo che andrà giudicato appartenente ad una rara categoria di uomini chiunque sarà capace di proporre argomenti nuovi, mai toccati prima e fuori del senso comune e delle aspettative del pubblico. Gli starà molto vicino chi saprà affrontare contenuti noti, fors'anche molto diffusi, in uno stile in certo qual modo nuovo e imprevedibile. Pertanto, se si troverà uno scrittore che predisponga e orienti i lettori al gusto d'una vita migliore col rigore delle scelte espressive, la dignità, la varietà e l'eleganza degli argomenti, e al tempo stesso riesca a divertirli e intrattenerli con invenzioni brillanti e piacevoli (non ce ne sono stati ancora molti fra i latini, che abbiano raggiunto un tale risultato), penso che non lo si debba certo mettere nel mucchio degli scrittori triviali.

Come vorrei avere tanto ingegno, quant'è stata l'applicazione diligente con cui ho puntato a questo solo obiettivo, difficile senza dubbio! Probabilmente, infatti, sarei allora riuscito a comprendere meglio che quello che stavo trattando è anch'esso, a suo modo, un genere filosofico tutt'altro che di second'ordine; ed ho imparato dal mio stesso lavoro quanta fatica bisogna metterci se si vuol essere a qualunque costo originali, mantenendo però il decoro e la serietà: poiché lo scrittore che si assume il compito di trattare argomenti molto seri senza mai abbandonare una forma divertente e piacevole, dignitosa ed elevata per quanto insolita, ci troverà più lavoro e difficoltà di quanto non pensi chi non l'ha provato. Eppure ce ne sono di quelli che, protesi come sono alla ricerca di quell'originalità di cui discorriamo, per quanto esprimano concetti della massima banalità, tuttavia riescono a presentarli con una certa maschera di serietà, tanto da essere ritenuti degni dei giudizi più favorevoli.

Io, diversamente, mi sono dato da fare perché i lettori si divertissero, e d'altra parte si accorgessero di essere guidati all'approfondimento di concetti utili e per nulla spregevoli. Quanto sia riuscito nello scopo, lo giudicherai tu a lettura ultimata: e se avrai l'impressione che la mia comica piacevolezza sia riuscita, quasi un condimento, a rendere più leggero e gradevole un argomento della massima gravità, leggerai, se non mi sbaglio, con maggior diletto.

Non sarà però fuor di luogo chiarire l'impostazione del mio lavoro, sia perché ne risulti più agevole la comprensione, sia per giustificarmi di aver introdotto personaggi divini, prendendomi in una narrazione in prosa quella licenza che si concede ai poeti. Mi sono reso conto, infatti, che gli scrittori antichi hanno ragionato in modo da lasciar intendere sotto i nomi degli dèi quelle inclinazioni dell'animo che ci spingono a questo o a quell'altro comportamento. È per questo motivo che hanno introdotto Plutone, Venere, Marte e il cieco Cupido e, per converso, Pallade, Giove, Ercole e divinità dello stesso tipo: i primi simboleggiano le rovinose attrattive della cupidigia e del piacere, la furia delle passioni esagitate, gli altri la forza intellettuale e la fermezza nelle decisioni; per effetto di queste inclinazioni gli animi s'imbevono di virtù e si lasciano guidare dalla ragione, oppure fanno cattivo uso di se stessi, compiendo e meditando azioni malvage e sconsiderate. Essendo, dunque, perpetuo e difficile a comporsi il contrasto tra queste passioni negli animi umani, niente di strano che gli dèi siano proprio come li hanno messi in scena Omero, Pindaro, Sofocle e i migliori poeti. Ma sarà altro il luogo per trattare questi argomenti, se mi capiterà di scrivere sul sacro e le divinità.

Io dunque, a imitazione dei poeti, mettendomi a scrivere sul principe, che come l'anima razionale governa l'intero corpo dello Stato, mi sono servito degli dèi, indicando per mezzo di essi, con una forma particolare d'ironia, gli uomini passionali, gli iracondi, i gaudenti, gli ignoranti, i superficiali e pieni di sospetti, e per contro le persone serie, mature, coerenti, attive, sollecite e perbene: come si comportano di fronte alla varietà degli eventi, a seconda di quale dei due modelli di vita hanno preso a seguire; quali valori positivi o negativi, quale stabilità politica o eversione ne derivano per la prosperità, dignità e autorevolezza dello Stato. Così in questi quattro libri, se l'amore per il mio lavoro non m'inganna, troverai non poche idee riguardanti la formazione dell'ottimo principe, e inoltre si presenterà anche una discreta serie di osservazioni rivelatrici sul carattere di coloro che al principe fanno seguito; però ho deliberatamente tralasciato gli adulatori, di cui le corti principesche sono stipate: hanno trattato esaurientemente l'argomento i poeti antichi, i comici in particolare. Sono talmente lontano dalle caratteristiche dell'adulatore che a volte mi espongo alle critiche perché tralascio le lodi di chi se le merita davvero, perfino nelle circostanze dovute, pur di non dare l'impressione a me stesso d'aver voluto imitare in alcun modo quel genere di persone che detesto profondamente: ed è una mancanza che mi si può far rilevare anche in questa occasione, verso di te. Chi è, infatti, che non si mette a fare il lecchino quando scrive un proemio, facendo gran mostra di plauso verso il dedicatario, per adornare e abbellire di elogi, magari fittizi, l'argomento, secondo una norma codificata dalla tradizione? Io ti ho presentato un'introduzione senza fronzoli, non ho passato in rassegna nessuna delle tue qualità numerose quanto grandissime, ed ho fatto una cosa che chi conosce te e me non spregerà di certo. Tu infatti agisci per tuo conto in modo tale che la tua virtù si diffonderà con chiara fama per tutta l'opinione pubblica, conseguendo ampiamente il premio della gloria tra i posteri: in questo perciò non hai bisogno dell'appoggio altrui. Io, per quanto sta a me, osservando e facendo tesoro delle tue parole e azioni, preferisco abbracciarti con tutto il mio libro e raccomandarti agli appassionati di buone letture, perché abbiano un ottimo esempio da imitare, piuttosto che accarezzarti, per dir così, con superficiali parole di lode.

Ma basta così. Per il resto, quando mi leggerai nei momenti liberi, e la tua lettura procederà secondo il mio desiderio e le tue aspettative, mi rallegrerò assieme a te tutte le volte che ti capiterà di spassartela. Vorrei proprio che provassi anche ammirazione per le mie arguzie e invenzioni tutte le volte (non poche!) che ti verrà da ridere per le situazioni comiche di cui questa storia è stracolma. E allora leggi, soprattutto per divertirti, ma poi anche per mostrare benevola attenzione alle mie fatiche e alle mie veglie con tanto piacere. Auguri di felicità.


Libro primo

 

Mi meravigliavo ogni volta che mi capitava di notare, nel trascorrer la vita in mezzo a noi umili mortali, una qualche discordanza d'opinioni o incostanza nei giudizi: ma da quando ho preso ad osservare più accuratamente gli stessi dèi massimi, a cui è attribuita ogni lode di saggezza, ho smesso di stupire per le inezie umane. Ho infatti scoperto tra di loro una diversità di tendenze e di caratteri che ha quasi dell'incredibile. Alcuni si danno un contegno grave e severo, alcuni invece sono sempre pronti al riso, alcuni ancora, a loro volta, sono così differenti da tutti gli altri che a mala pena li si potrebbe credere del numero dei celesti. Per quanto tuttavia essi siano fatti a questo modo, con caratteri così discordanti, né tra gli uomini né tra gli dèi se ne può trovare nessuno di natura così singolare e stravagante che non se ne possa riscontrare un altro simile per molti aspetti, fatta eccezione per uno degli dèi, di nome Momo. Si parla di costui come di un tipo dotato di forte spirito di contraddizione, straordinariamente testardo, un gran criticone, rompiscatole, molesto quanto mai: ha imparato ad infastidire e irritare perfino i suoi familiari con le parole e coi fatti, ed è abituato a mettercela tutta perché nessuno che abbia a che fare con lui possa restare senza il volto accigliato e l'animo gonfio d'indignazione. Insomma, Momo è l'unico tra tutti gli dèi che ci prova gusto non solo ad avercela con gli altri uno per uno, ma anche ad essere detestato da tutti in modo incredibile. La tradizione vuole che per la sfrenata insolenza del suo linguaggio sia stato scacciato ed escluso, su richiesta e col consenso di tutti, dall'antico consesso degli dèi del cielo: ma era così potente, nell'inaudita malvagità del suo carattere e con i suoi sinistri artifici, che riuscì a spingere proprio sull'ultima spiaggia tutti gli dèi e tutto il cielo e perfino l'intera macchina dell'universo. Ho deciso di mettere per iscritto questa storia, perché possa servire ad una vita guidata dalla ragione; ma perché ciò si realizzi più agevolmente, si dovranno prima esaminare cause e modalità della cacciata in esilio di Momo; poi andremo avanti con il resto del racconto, pieno d'imprevisti e ricchissimo per la serietà degli argomenti importanti non meno che per la comicità delle situazioni spassose. Quando Giove ottimo massimo ebbe messo su questa sua opera meravigliosa, il mondo, desiderando che fosse abbellito al meglio in ogni sua componente, ordinò agli dèi che ciascuno secondo le sue possibilità aggiungesse a quella creazione qualcosa di elegante e di degno. I celesti obbedirono a gara all'ordine di Giove: e così tutti fecero cose diverse ‑ chi l'uomo, chi il bue, chi la casa - tutti ad uno ad uno, eccetto Momo, tirarono fuori qualcosa, dono gradito per Giove. Solo Momo, testardo e arrogante per natura, si vantava che da lui non si sarebbe cavato nulla, ed in mezzo alla comune frenesia degli altri per produrre qualcosa perseverava col massimo piacere nella sua ostinazione. Finalmente, dopo che moltissimi avevano tanto insistito perché avesse più rispetto e considerazione per il favore e l'autorità di Giove, non certo commosso dai loro ripetuti consigli, ma perché non riusciva più a sopportare la nausea per tutti quegli inviti, esortazioni e preghiere, accigliato come sempre esclamò: "Avete vinto, scocciatori! Vi darò soddisfazione piena!". E allora ne escogitò una degna di lui. Riempì il mondo di cimici, tignole, vesponi, calabroni, scarafaggi e animalacci schifosi del genere, simili a lui. In un primo momento, la cosa fu presa dagli dèi dal lato ridicolo, la si accettò come una trovata scherzosa; ma lui non poteva sopportare che non se ne sentissero indignati, e allora cominciò a vantarsi della sua bella impresa e a criticare con pignoleria i doni altrui, denigrandone gli autori: finì con l'attirarsi ogni giorno di più l'odio di tutti con le sue insolenze. Tra gli altri celebri artefici celesti godevano di particolare ammirazione per i doni che avevano escogitato Pallade per il bue, Minerva per la casa, Prometeo per l'uomo; vicinissima in graduatoria stava la dea Frode, che sembrava aver avuto una bellissima pensata concedendo agli esseri umani le attrattive femminili, l'arte della finzione, il riso e le lacrime. Mentre, quindi, tutti gli altri dèi portavano in palmo di mano costoro, solo Momo li criticava aspramente: diceva che, certo, il bue era un animale utile, abbastanza adatto ai lavori pesanti, però non aveva gli occhi messi al posto giusto sulla fronte: così, quando andava all'assalto con le corna in avanti, avendo gli occhi fissi a terra non era in grado di colpire il nemico nel punto che voleva: era stata proprio un'incapace la sua creatrice a non mettergli anche un solo occhio in alto, dalle parti delle corna! La casa, analogamente, diceva che non meritava per niente l'approvazione di cui la circondavano quegli incompetenti degli dèi, poiché di sotto non le era stato applicato un carro con cui poterla trasportare da un quartiere malfamato a una zona più tranquilla. Quanto all'uomo, affermava che era, sì, un qualche cosa di quasi divino: ma la bellezza estetica che si poteva ammirare in lui non era certo un'invenzione del suo creatore, ma era stata fatta a immagine e somiglianza degli dèi. E poi, nel farlo gli sembrava si fosse proceduto senza riflettere a ficcargli la mente nascosta dentro il petto, in mezzo ai precordi, mentre sarebbe stato opportuno sistemarla in alto sulla fronte, nel punto più scoperto del volto. Per il resto, secondo lui nessuna trovata ingegnosa era degna d'encomio quanto quella della dea Frode: lei, infatti, aveva scoperto il modo per mettere in un canto Giunone e diventare l'amante del re degli dèi: Giove, dongiovanni com'era, senza dubbio avrebbe concupito una fanciulla tenera e delicata, e così, mentre la sposa indignata per l'offesa avrebbe disdegnato il letto coniugale, la dea artefice del trucco si sarebbe conquistata le grazie di quel principe sempre a caccia di sottane; se Giunone se ne fosse accorta, se avesse voluto salvare per l'eternità il suo rapporto d'amore, si sarebbe risolta a far bandire la dea Frode dal consesso divino. Momo ripeteva in continuazione queste malignità sul conto di Frode, per quanto ne fosse pazzamente innamorato: ma, poiché in quel periodo ce l'aveva con lei per motivi di gelosia, l'attaccava sparlandone più del necessario; e allora la dea, stuzzicata da tutti quei pettegolezzi malevoli, decise di mettercela tutta per vendicarsi. Così, per rendere pan per focaccia al suo ingrato amante, fidando nelle sue arti fa finta di voler fare la pace con Momo: gli sta sempre appresso, scambia con lui discorsi interminabili, gli dà subito ragione in tutto quel che dice, fa tutto ciò che vuole lui. Si mette poi a rivelare all'amante, che c'è cascato, un sacco di assurde storielle spacciandole per grandi segreti, chiede ipocritamente consigli per le sue faccende e, mettendo insieme verità e invenzioni, si mette a fare infiniti pettegolezzi dei più contorti sul conto di questo e quel dio, allo scopo di stuzzicare quel petulante e farlo straparlare: insomma, non ne perdeva una pur di riuscire a combinargli qualche grosso casino al momento opportuno. Con questi trucchetti era riuscita a strappare molti discorsi compromettenti a quell'imprudente, e poi li andava a riferire a quelli che pensava se la sarebbero presa, con la speranza che, provocata l'insofferenza e l'odio di tanti contro il solo Momo, al momento decisivo avrebbe sferrato l'attacco finale con forze ben più valide. Per di più la dea Frode s'era data da fare affinché tutti i giorni venissero presentate a Giove continue lagnanze contro Momo per bocca di diversi postulanti e, per allontanare da sé qualunque sospetto di malizia, se capitava che si facessero in sua presenza discorsi sul pessimo carattere di Momo, fingeva, quasi per obbligo d'amante, di prenderne le difese, e con lunghi discorsi, per quanto freddini, proteggeva Momo dalle accuse e dalla condanna generale, dicendo che Momo in fondo non era cattivo, ma aveva uno spirito forse troppo anarcoide, e per questo pareva una malalingua più sfrenata di quanto non fosse veramente. A un certo punto alla dea, che teneva occhi ed orecchie ben aperti, si presentò un'occasione magnifica per sferrare il colpo. Gli dèi non avevano preso molto bene il fatto che fosse stata creata una seconda specie di divinità, gli uomini, e che questi fossero molto più beati dei celesti perché avevano l'aria, l'acqua, la casa, i fiori, il vino, il bue e tutte le altre fonti di piacere; allora Giove ottimo massimo, poiché avrebbe voluto rafforzare il suo potere col consenso degli abitatori del cielo, promise, per quanto stava a lui, di prendere i provvedimenti del caso, e dichiarò che avrebbe fatto in modo che in futuro nessuno dei celesti non avrebbe preferito esser dio piuttosto che uomo. E così infuse negli animi umani gli affanni e la paura, e mandò le malattie, la morte e il dolore. Poiché gli uomini a causa di questi malanni si erano ridotti ormai in una condizione molto peggiore che quella degli animali bruti, l'invidia degli dèi verso di loro non si spense soltanto, ma si tramutò in compassione. Occorre aggiungere che Giove, per guadagnarsi consensi, cominciò ad abbellire tutta quanta la sfera del cielo: dispose la collocazione delle dimore celesti e le adornò di molte statue diversissime, oro e diamanti ed ogni sorta di delizie in splendida abbondanza e varietà. Alla fine le regalò agli dèi Febo, Marte, Saturno suo padre, Mercurio, Venere e Diana e, per esercitare da allora in poi un potere assoluto piacevole e ben accetto agli abitatori del cielo restando libero da seccature, si mise a distribuire a chi gli parve uffici, incarichi elevati e posti di comando. E per prima cosa affidò l'alto commissariato per la rotazione dei corpi celesti e la direzione generale dei fuochi al dio Fato, il più efficiente e responsabile sul lavoro, un tipo sempre in attività, senza un minuto libero, che non trascura mai un particolare per pigrizia; uno che né raccomandazioni né bustarelle riescono a far deflettere dalla rigorosa osservanza delle norme che è radicata nel suo animo. Tutto questo, non senza aver fatto una pubblica dichiarazione nella quale affermò ripetutamente di avere un desiderio enorme di tempo libero, per cui voleva che delle prerogative del potere gli rimanesse soltanto quella di godere a suo piacimento, assieme agli altri dèi, di una gioia perfetta; gli sembrava, del resto, che fosse una giusta ricompensa ai suoi meriti verso gli dèi se gli fosse concesso, con la loro benevola approvazione, di trascorrere una vita libera da ogni sorta di preoccupazioni.

Poiché ho detto che la direzione generale dei fuochi era stata data al Fato, sarà bene che spieghi cosa siano mai questi fuochi e che importanza abbia averne il controllo. C'è tra gli dèi un fuoco sacro, eterno, che tra le altre sue proprietà straordinarie ha quella di brillare di fiamme perpetue alimentandosi da sé, senza bisogno di alcun'altra sostanza solida o liquida; e addirittura, rende immortali ed incorruttibili, fin tanto che vi sta unito, tutte le cose a cui si attacca. Se però si applicano fiamme prese da questo fuoco ad elementi terrestri, sia solidi che liquidi, questi si disgregano spontaneamente per ritornare di corsa alla loro sede originaria, a meno che non siano investiti da soffi continui in rapido movimento. C'è da aggiungere che lo stesso fuoco sacro si mantiene vivo solo tra i fili delle stoffe tessute dalla dea Virtù. Una fiammella attinta a questo fuoco sacro brilla in capo alla fronte di tutti gli dèi, ed ha il potere di lasciarli trasformare a loro arbitrio in tutte le forme che vogliono: la maggior parte dei massimi dèi l'hanno fatto, e qualcuno s'è tramutato in pioggia d'oro oppure in cigno, qualcun altro in un animale diverso, seguendo gli impulsi della passione amorosa. Quando Prometeo trafugò una scintilla di questo fuoco, fu esiliato ed incatenato al monte Caucaso per il sacrilegio commesso. Poiché, dunque, il fuoco era adatto al compimento di azioni tanto importanti, i celesti con il conferimento di un mandato speciale sui fuochi badarono a prevenire furti del genere da parte di qualche altro temerario.

Ma facciamola finita con i fuochi, e riprendiamo il filo del racconto. Quando Giove ebbe offerto quegli splendidi doni, i celesti affluivano a caterve di fronte a tanta generosità. Già l'intera folla degli immortali, dando prova di incredibile rapidità, s'era radunata a palazzo reale per ringraziare Giove: e lì si trovavano in competizione gli uni con gli altri nel cercare le più alte espressioni di lode con cui fare il loro dovere, mentre erano tutti d'accordo nell'affermare che l'ottimo principe Giove, nella sua saggezza, aveva preso provvedimenti improntati a sacri principi di giustizia in favore della comunità dei celesti. Solo Momo, scuro in viso, in atteggiamento scontroso, con un sopracciglio aggrottato, guardava storto tutti quelli che arrivavano di corsa per prendere parte alla festa di ringraziamento. Allora la dea traditrice, intenta soltanto a studiare il nemico, si accorse che Momo ce l'aveva con Giove. Perciò, tornata ai suoi artifizi, prepara quel che occorre alla bisogna: piazza dietro all'ara del banchetto lì vicino, alla quale per caso stava appoggiato Momo, la figlia del dio Tempo, Verina, e Proflua, un'amante di Giove che dicono abbia fatto da mamma alle ninfe, ed ordina loro di mettersi a sedere a terra e di nascondersi, fingendo di essere occupate da altre faccende: quei preparativi erano fatti nell'interesse di Giove, perciò dovevano eseguire con precisione il loro compito, ascoltare in silenzio tutto ciò che si diceva in quel luogo e prenderne nota. Messa a punto la trappola, la dea si avvicina all'amante sorridendo; si salutano, poi Frode, dopo esser stata zitta un pezzetto, a un tratto esclama inarcando le sopracciglia: "Cosa c'è, Momo mio? Ho l'impressione che anche tu, quanto ai meriti di Giove verso i celesti, la pensi diversamente da questa massa d'ingenui. Non sei d'accordo con me? Io non avrei il coraggio di confessare le mie impressioni a nessuno tranne che a te, che amo come gli occhi miei. Ma perché dovrei nascondermi con te, se capisco che mi ami come merito per la mia sincerità e fedeltà? Ah, poveri noi, che a costui… no, no, un'altra volta!… Ah, non metto in dubbio che siano belle le opere di Giove, anche se è ovvio che tutto quel che fa il principe degli dèi massimi non possa esser mai superato né eguagliato. Tu, con la tua saggezza, capisci cosa voglio dire meglio di quanto io possa spiegarlo". Così la dea; e Momo: "Stai proprio intuendo la verità; io però non ho ancor chiaro se queste cose siano l'opera di un principe folle o di un ambizioso". Allora la dea sorridendo: "Ma come può essere l'una delle due, visto che in lui non ci sono difetti, dico io, ma buon senso?". E Momo: "Tu chiami buon senso una cosa che ha tutta l'aria di pura follia? Che maniera equilibrata di procedere! Ti dico io come si fa, secondo me. Oh, come sarebbe governata meglio la comunità degli dèi, se le decisioni venissero meditate più seriamente! Non basta, infatti, che il principe provveda in vista del piacere del momento, senza valutare i pro e i contro anche di quel che verrà dopo, in modo da potersi mantenere non a spese degli altri, ma, come si dice, di tasca propria. Che pazzia gli è presa, al re degli dèi? Certo una volta era proprio contentissimo, Giove ottimo massimo, della creazione degli uomini, perché, dritti o storti che fossero i suoi scatti d'ira, aveva dei concorrenti da esporre alla nostra gelosia; ma poi, dacché ha ritenuto più saggio che le dimore celesti fossero aperte ai loro antichi abitatori piuttosto che ad una folla mortale di dèi a tempo determinato, ha voluto tenersi gli uomini laggiù per scaricare su di loro la sua rabbia tempestosa infierendo con terribile crudeltà. Perciò ha messo insieme in un solo mucchio i fulmini, i tuoni, le epidemie e la cosa più dura e insopportabile per i poveri animi umani: gli affanni, le paure e tutti i mali possibili e immaginabili. Dall'altra parte, se non ne possono più di lottare contro i mali, ha lasciato a quei poveracci, fortezza inespugnabile in cui scampare alla crudeltà del nemico, la morte; se invece hanno voglia di lottare, o Giove sconsiderato, non hai tolto agli omiciattoli la capacità di sopportazione, con cui possono vincerti, principe degli dèi, irato e armato quanto ti pare. Cos'è che potrei dire a proposito del ministero dei corpi celesti e dei fuochi, senza commiserazione per i guai che ormai incombono su di noi? Chi è così insensato, chi ha la mente tanto ottusa da non accorgersi, basta che ci faccia attenzione, che è inevitabile tu faccia una brutta fine, Giove, per colpa di nessun altro che te, traditore di te stesso? Non sei stato tu a concedere al Fato una simile pienezza di poteri assieme a margini di discrezionalità così ampi? E poi, se quelli che hanno ricevuto la guida delle stelle e dei pianeti non la smetteranno di desiderare sempre novità, com'è già loro abitudine, chi vuoi che non si renda conto che prima o dopo daranno ai celesti un altro re?".

"Eh?!" intervenne Frode "un re?". "Perché no?" disse Momo "Pensi forse che Giove sia altro che un dio, perché è il re degli dèi?". "Le tue ipotesi" disse Frode "mi sembrano proprio verosimili. Ma chi potrà mai ritenersi degno d'un potere così grande, anche se il destino ce lo spinge?". "Ridicola che sei!" fece Momo "Pensi che tutti gli dèi siano gente modesta e di poche ambizioni, al punto da credere che non se ne trovi nessuno che non si tirerebbe indietro di fronte all'occasione di andare al potere, qualora gli si presentasse?". "In effetti" disse Frode "per quanto io ti ritenga degno dei massimi onori, in un affare così grosso vedo un qualche cosa che potrebbe far tentennare anche te. Ma poi? E a me, che ruolo toccherà, se ti capiterà l'occasione di prendere il potere?". "Sarai per me" disse Momo "una seconda Giunone". Allora Frode scoppiò a piangere dicendo: "Ma uno che può fare tutto quel che gli garba non è certo costante nei sentimenti! Ti troverai un'altra innamorata, Momo; e Frode, che ti amerà senza speranza, ti verrà a noia". Continuarono per un pezzo a scambiarsi frasi del genere, finché Frode costrinse il suo amante a giurare sull'ara stessa che, qualora fosse diventato re degli dèi, avrebbe messo Frode al posto di Giunone. Poi, mentre fa ritorno trionfante nel consesso delle dèe, istruisce a puntino le testimoni Verina e Proflua sulle parole e il contegno da usare e il momento da scegliere per riferire a Giove tutto ciò che avevano ascoltato di nascosto vicino all'ara.

Tutto si svolge secondo il piano. Giove, turbato dal terribile sospetto che gli veniva affacciato di perdere il potere, divenne in segreto ancor più ostile verso Momo di quanto non lo fosse di già per causa altrui. Ora, scorgendo che razza di avversario dei suoi interessi gli prospettava quell'insinuazione, si dimostrò capace di vendicarsi aspramente delle offese. Tutte le cose si misero a tremare per l'ira di Giove: rimasero stupefatti i celesti. Si convoca in seduta straordinaria l'assemblea degli dèi: la dea Proflua, nutrice delle ninfe, e Verina, figlia di Tempo, ricevono l'ordine di testimoniare sulle parole che avevano inteso dire poc'anzi a Momo vicino all'ara. Il padre degli dèi e re degli uomini, Giove, intendeva fissare con la massima solennità un giorno per il processo, e proponeva di nominare una giuria che istruisse il dibattimento secondo le procedure legali. Ma a quel punto da tutti gli scranni si levò all'improvviso una sola acclamazione, a proclamare il pericolo pubblico Momo colpevole di lesa maestà. "In galera l'autore del delitto!". "In catene, al posto di Prometeo!". Momo, trepidante e prostrato da una simile cospirazione di avversari e da tanta animosità che si abbatteva tempestosamente contro di lui, decise di darsi alla fuga. Scappando a rapidi passi cercava di guadagnare il fiume celeste, l'Eridano, e lì procurarsi un'imbarcazione per raggiungere col favore della corrente le nostre regioni. Ma, mentre correva per sottrarsi agli inseguitori strepitanti, andò a finire prima che se ne accorgesse in una voragine dall'ampia apertura, che è chiamata il pozzo del cielo: di là, perduta la sacra benda, distintivo divino, andò a sbucare in territorio etrusco, come un secondo Tagete. Trovò una popolazione profondamente imbevuta di sentimento religioso: ricominciò allora a farla da protagonista e stabilì che il suo unico interesse sarebbe stato quello di far dimenticare, per vendicarsi, all'Etruria il rispetto per gli dèi, spingendola ad osservare e imitare quel che faceva lui. Così, non ce n'era uno dei grossi guai che fino ad allora avevano combinato gli dèi in questo o quell'angolo dell'universo, che sfuggisse alla memoria di Momo, il quale, da vero inquisitore, se li annotava tutti con la massima precisione. Aveva preso perciò l'aspetto di poeta, e andava raccontando alla folla, tra il serio e il faceto, tutte le storielle oscene che riguardavano gli dèi. A scuola, a teatro, per strada si sentivano raccontare gli adulteri, gli stupri, le tresche amorose di Giove; e venivano messe in piazza anche le incredibili mascalzonate di Febo, di Marte, di questo e quell'altro dio. Tra verità e invenzioni, insomma, andavano ogni giorno crescendo il numero e la risonanza delle porcherie che venivano rese di pubblico dominio, cosicché non c'era più dio, né maschio né femmina, che non fosse giudicato uno sporcaccione e un depravato. Successivamente, preso l'aspetto di un filosofo, con la sua barba incolta, l'aria minacciosa, le sopracciglia foltissime, un atteggiamento arrogante e presuntuoso, andava a tenere affollatissime conferenze nelle università, sostenendo la tesi che la potenza degli dèi non è nient'altro che un'invenzione senza senso, il parto sciocco di cervelli in preda alla superstizione; non esistono dèi, particolarmente di quelli che abbiano voglia di preoccuparsi dei problemi degli uomini; in conclusione, tutti gli esseri animati hanno un'unica divinità comune, la Natura, che ha il compito preciso di governare non solo gli uomini, ma anche bestie da soma, uccelli, pesci, tutti gli altri animali che, in quanto hanno tutti per comune istinto una maniera molto simile di muoversi, di provare sensazioni, di provvedere alla propria difesa e sopravvivenza, è bene siano diretti e governati tutti con criteri analoghi. Non si trova un'opera della Natura fatta così male che non abbia, fra tanta abbondanza di cose create, un aspetto che torni molto utile alle altre: pertanto tutte le cose create dalla Natura hanno una loro funzione ben precisa, buone o cattive che siano dal punto di vista umano, dal momento che di per se stesse non hanno alcuna potenza se la Natura si oppone e non le asseconda. Molte cose il pregiudizio comune prende per difetti, mentre non lo sono affatto; uno scherzo di Natura è la vita umana. Con questi ragionamenti Momo s'era conquistato parecchi seguaci, e già si cominciava a trascurare i sacrifici, le feste solenni stavano passando di moda e il rispetto per gli dèi diventava sempre meno diffuso tra gli uomini. Appena la notizia giunse ai celesti, accorsero tutti al palazzo di Giove. Si lamentano per la loro situazione, si chiedono aiuto a vicenda (come si fa nei casi d'emergenza), si aspettano ormai che non ci sarebbe stato più motivo di ritenersi dèi, una volta scomparsi tra gli uomini la fede e il timor di dio. Nel frattempo Momo non desisteva certo dal suo accanimento vendicativo, ed entrava in polemica serrata con tutte le correnti di pensiero. Da un pezzo i filosofi accorrevano in massa ai dibattiti tenuti dal dio, un po' per gelosia di mestiere, un po' per la smania di blaterare: gli si mettevano intorno, nelle prime e nelle ultime file, interrompevano, contestavano. Ma Momo, tenace, risoluto, sosteneva da solo l'attacco di tutti più con la prontezza nel replicare che con la forza dei suoi argomenti. Alcuni obiettavano che esiste un capo che governa l'universo; altri avanzavano la tesi della corrispondenza delle quantità, per cui al numero dei mortali doveva corrispondere un egual numero d'immortali; altri dimostravano l'esistenza di un'intelligenza pura, incontaminata dalla materialità corruttibile delle creature terrene e mortali, dalla quale le cose divine e umane traggono alimento e guida; altri asserivano che dev'essere considerata dio quella forza infusa a tutte le creature, che le fa muovere e di cui le anime umane sono una sorta di emanazione; e la contraddittorietà delle tesi creava tra i filosofi stessi un disaccordo non meno veemente dell'unità d'intenti con cui tutti quanti si contrapponevano polemicamente a Momo. Quest'ultimo, ostinato com'era in tutte le sue questioni, difendeva sempre più accanitamente la sua opinione, negava l'esistenza degli dèi, diceva che gli uomini si sbagliano se pensano che divinità diverse dalla Natura presiedano a tutto quel roteare d'orbite che vedono in cielo e che li impressiona tanto. La Natura, poi, adempie meccanicamente al suo compito innato nei confronti del genere umano, non ha mai bisogno del nostro intervento né può essere influenzata dalle nostre preghiere; in conclusione, è inutile aver timore di dèi che non esistono o che, se pure esistono, sono certo benigni per loro propria natura.

I celesti, scossi dal chiasso di quel dibattito, accorsero a osservare la situazione in un punto del cielo da cui era possibile udire con chiarezza i discorsi, e stavano con l'animo sospeso ad aspettare la conclusione della polemica, ora preoccupati per le repliche di Momo, ora sollevati dagli interventi dei filosofi. I filosofi infatti, ambiziosi com'erano di natura, presuntuosi e abituati ad incarognire nelle polemiche, tutti surriscaldati contro Momo gli stavano sempre più addosso, lo tormentavano senza esitare a sfotterlo: e così andò a finire a male parole. Alla fine, nell'infuriare della baruffa passarono a vie di fatto, prendendo a pugni e strapazzando di graffi e di morsi il viso di Momo che insisteva nel suo sproloquio. L'intervento di alcune personalità autorevoli riuscì a sedare il tumulto. Momo allora, invocando protezione e aiuto da costoro, andava mostrando il volto malconcio, con mezza barba strappata; infatti, mentre Momo circondato dalle mani dei nemici cercava una via di scampo e si faceva largo a forza di gomiti tutto agitato, un soldo di cacio di cinico gli si era avvinghiato al collo e gli aveva strappato la barba con un morso. Le autorità non potevano tollerare che, in loro presenza, si arrecasse un'offesa così grave a un uomo con tanto di barba, e si misero a cercare il colpevole; però era impossibile sentire il racconto dell'episodio con sufficiente chiarezza, in mezzo a quel casino di filosofi che urlavano accuse contro Momo; finalmente, ricostruita la vicenda, quando gli fu portato al cospetto il colpevole, quel cinico piccoletto così bravo a dar morsi, ed ebbero guardato il soggetto, malconcio e con gli occhi pesti per i pugni che aveva preso, che sforzandosi di parlare sputava con grandi scaracchi i peli della barba che si era mangiato, si misero a ridere e se ne andarono senza occuparsi più della faccenda.

I celesti pensarono che non avrebbe giovato di certo alla dignità divina se gli uomini imparavano ad alzare le mani contro un dio, per quanto farabutto e poco conosciuto. Prevedevano d'altra parte che se Momo avesse portato avanti la sua vendetta come aveva cominciato, con l'assenso delle masse ignoranti e credulone, di sicuro le tradizioni religiose e gli onori sacri dovuti agli dèi sarebbero ben presto caduti nel dimenticatoio. Alla riunione del senato che fu convocata per discutere il problema venivano avanzate due proposte. Una, che incontrava l'approvazione generale, era quella di mandare a restaurare la dignità e l'autorità dei celesti alcuni dèi che godessero di buona popolarità tra gli uomini, perché si adoperassero con qualunque sistema a ridar lustro e vigore agli antichi riti e al culto divino. Sulla seconda proposta ci si divideva, ma aveva dalla sua sostenitori autorevoli: era quella di richiamare Momo, il cui carattere era ben noto da un pezzo a tutti gli abitanti del cielo, visto che in seguito al suo esilio la comunità divina si stava tirando addosso molti più guai che tenendosi in casa quel parolaio pettegolo a cui nessuno avrebbe più dato retta; se poi ci provavano soddisfazione che Momo fosse punito, la peggior specie d'esilio era proprio stare in mezzo ai suoi, emarginato e antipatico a tutti. In conclusione, per decreto di Giove e del senato, la dea Virtù, in forza della maestà del suo aspetto e dell'enorme prestigio di cui godeva tra i mortali, viene inviata ai terrestri, con una sorta di incarico straordinario, col massimo dei poteri, e riceve il mandato di evitare che la comunità degli dèi avesse a subire ulteriori danni. Alla partenza della dea tutte le categorie divine si affollarono a darle commiato; a uno a uno i membri del senato celeste, secondo l'intimità dei rapporti che avevano con la partente, le facevano preoccupate raccomandazioni, la invitavano ad applicare qualunque strategia per la salvezza di tutti nel comune pericolo; consigliavano di fare in modo che fosse proprio lei, che rendeva possibile l'esistenza dei sacerdoti degli dèi, a salvaguardare col suo scrupoloso intervento la sacrosanta maestà degli immortali. E lei, facendo dichiarazioni programmatiche improntate a ottimismo pur in quella grave crisi divina, prese tempestivamente tutte le iniziative che quella drammatica congiuntura poteva consentire. La dea Virtù aveva quattro figli adolescenti, il fiore della gioventù celeste per bellezza, grazia, disinvoltura e bontà d'animo; la dea se li porta in viaggio con sé, elegantissimi, per conquistare grazie a loro, se non c'era altro mezzo, gli ospiti tradizionali degli dèi, cioè i mortali più autorevoli e gli eroi, che sapeva quanto siano attratti dalla bellezza. A che prezzo si volevano annullare i tentativi di Momo! Ecco dunque la dea avanzare in formazione quadrata: davanti andavano da una parte Trionfo, dall'altra Trofeo, i due figli maschi di Virtù, vestiti di pretesta; nel mezzo la madre Virtù, le due figlie, Lode e Posterità, seguivano la madre. La folla divina, formando un lungo corteo, accompagnò la dea in partenza fino al segnale del settimo miglio. A quel punto gli incaricati divini salirono sulla nube più candida, su cui scivolarono in giù per l'etere fino a posarsi a terra. In tutto il cielo gli dèi confessarono di sentirsi molto sollevati da questa partenza di Virtù: sostenevano che indubbiamente la dea, con l'appoggio di simili collaboratori, sarebbe riuscita a riparare i danni che gli attacchi di quel criminale maniaco di Momo avevano arrecato alla maestà dei celesti. Appena la dea toccò il suolo, che meraviglia! Che manifestazioni di giubilo dava la terra col suo aspetto! Non vi dico come si siano aperti al sorriso i venti, le fonti, i fiumi, i colli all'arrivo della dea! Aveste visto i fiori spuntare perfino dalla viva roccia, sorridere e inchinarsi in segno di venerazione al passaggio della dea, emanare i loro effluvi più delicati per rendere profumatissimo il suo cammino! Aveste visto gli uccelli canori svolazzarle d'intorno, facendo festa con le ali variopinte, per salutare col loro canto quegli ospiti divini! Che altro? Gli occhi di tutti i mortali eran fissi nell'ammirazione di quei volti divini. Molti lasciavano il lavoro e si mettevano ad andar dietro a quell'apparizione straordinaria per poterla ammirare più a lungo; alcuni mentre la seguivano erano stupefatti per la meraviglia, fino a rimanere quasi completamente bloccati. Sbucavano da tutti i lati, da strade e stradine, madri di famiglia, ragazze da maritare, persone anziane, gente di ogni età; nessuno ne sapeva nulla, eppure si chiedevano l'un l'altro in continuazione chi erano i nuovi arrivati e cos'erano venuti a fare. Il contegno della dea, che procedeva con maestosa lentezza facendo lievi cenni di saluto col volto disteso, ispirava fiducia e rispetto; essa percorse la via militare, passò davanti all'università e al teatro, alla fine andò a fermarsi dentro il tempio del Diritto pubblico umano.

Momo s'era accorto che c'erano dèe in circolazione; però, se da un lato preferiva sottrarsi alla loro vista per odio verso gli dèi e per la sua situazione fastidiosa, dall'altro si sentiva attratto a seguirle perché aveva visto da lontano Lode, la bellissima figlia di Virtù, e aveva cominciato a eccitarsi d'amore. Siccome stava sempre sul chi vive, si rendeva conto che le dèe erano state mandate proprio per lui, e diversi pensieri lo agitavano nell'intimo, facendolo stare in ansia. Gli venivano in mente i motivi per cui aveva contro gli dèi. Aveva provato a sue spese che gli uomini, tra i quali aveva cercato scampo, erano molto più violenti e selvaggi di quanto si possa ritenere; ricordava, d'altra parte, che gli dèi di solito si lasciano piegare dalle preghiere. Pensava che però non sarebbe stato vantaggioso, per un esule come lui, tentare un approccio con la delegazione divina senza accompagnarlo con grandi manifestazioni di sottomissione e umiltà, e Momo riteneva che mostrarsi in atteggiamento di supplice fosse una cosa completamente estranea al suo carattere, né sapeva trovare il modo per ordinare a se stesso di accantonare quel ruolo di brontolone attaccabrighe che s'era scelto da un pezzo e aveva mantenuto con una testardaggine senza fine. Temeva anche, però, che la sua ostinazione esasperasse la dea, di solito così dolce e disponibile; e capiva che era suo interesse non mettersi contro una da cui avrebbe potuto ottenere appoggio e consigli per la sua causa. A tutto questo ora si aggiungeva la cotta che s'era preso per Lode. Alla fine si decise a far visita alla dea; e, nello sforzo d'imporsi un autocontrollo, diceva così: "È proprio il caso che un disgraziato metta da parte la superbia, Momo; riserviamo la coerenza a migliore occasione; per salvare la faccia, sarà sufficiente recuperare a qualunque costo l'antica dignità, uscendo da questa situazione di merda. Non credere di sputtanarti se ti comporti come si deve. La persona accorta, infatti, si sa adattare alle circostanze, ed anche a Momo tornerà utile prepararsi a forza di salamelecchi e preghiere la via per conquistare posizioni migliori. Di' pure: non posso non esser Momo; non posso non essere quello che sono stato sempre, anarchico e testardo. Benissimo: resta così come vuoi nel profondo del cuore, purché tu sia capace di adattare il viso e il linguaggio alla necessità, simulando e dissimulando. Hai voglia di ridere per le situazioni assurde che si creeranno, con te in una parte brillante, e gli altri che se la bevono!".

Rimuginando così tra sé, Momo era arrivato vicino al tempio, dove osserva ammirato quanta folla vi si fosse radunata in così poco tempo, e che razza di spettacolo di varietà stessero allestendo. Il fatto è che, fra le ragazze divine, Lode era uno di quei tipetti molto frivoli, che lanciano certi sguardi provocanti, e già se n'era tirati dietro moltissimi con la voglia matta di lei, i quali, facendosi sotto a caterve, avevano quasi cinto d'assedio le dèe. E così tutti si mettevano in mostra per piacere alla ragazza; chi suonava uno strumento, cantava o ballava, chi si esibiva in esercizi ginnici, chi faceva ostentazione delle sue ricchezze: ciascuno, insomma, cercava di offrire il meglio di sé. Quella puttanella di Lode, senza che sua madre la riprendesse, si dava un gran daffare con tutte le arti di cui era capace per rendersi piacevole a tutti, specialmente a quelli che si facevano notare per la loro eleganza. Momo era scocciato d'essersi imbattuto in tutti quei rivali. Tuttavia, ansioso per il motivo che l'aveva spinto a venire, manda uno dalla taverna più vicina, per comunicare alla dea Virtù che c'era uno della sua gente, Momo, che aveva un gran desiderio di far loro una visita, se l'avessero gradita: temeva, infatti, di fare una figuraccia davanti alla folla, nel caso che fosse stato messo alla porta cercando d'incontrare la dea senza prima indagare per esser certo delle sue buone disposizioni verso di lui. Allora la dea Virtù esclamò: "Magari si fosse ricordato abbastanza di appartenere alla nostra gente! Non avrebbe combinato di certo tanti pasticci. Ma venga pure, se vuole".

Come gli furono riportate queste parole, Momo non sapeva bene in che senso intenderle, girava gli occhi, il viso, la mente stessa in tutte le direzioni. Finalmente arrivò tutto angosciato all'ingresso del tempio, dove poté profferire a stento un paio di parole per la coscienza della sua situazione: ma, visto che la dea gli faceva un'accoglienza molto benevola, tornò in sé e cominciò a dire qualcosa di più. Prese così a ricordare la loro antica amicizia, i favori che s'erano scambiati, i suoi sentimenti così affettuosi verso la dea; si lamentava dei suoi guai, chiedeva aiuto, si raccomandava in tutti i modi. La dea seppe cogliere perfettamente l'opportunità e, per risollevare l'animo dell'esule, diede quelle risposte che riteneva più adatte alla situazione. Gli ricordò, fra l'altro, che quando si ha a che fare con uno che è caduto in disgrazia è meglio che questi la smetta una buona volta di andarsi a cercare l'odio e l'antipatia di tutti: una lingua troppo svelta e sempre pronta a criticare blocca qualunque via d'uscita. Gli chiese di lasciar perdere la sua eccitazione e mettere un freno a quel caratteraccio: nella sua condizione, era proprio assurdo incaponirsi nel ricordo delle offese ricevute. Doveva rendersi conto che, più che colpire gli dèi, tutte le iniziative a cui metteva mano contro di loro si sarebbero probabilmente riversate sulla sua testa. Se considerava cos'aveva ottenuto con le sue arti e il suo vecchio modo di fare, non gli restava che dolersi perché le sue azioni erano scese quasi al punto che nemmeno chi avesse voluto dargli aiuto era in grado di farlo. Lei tuttavia, in nome dell'antica amicizia, non aveva mancato di adoperarsi per lui in pubblico come in privato perché i celesti non smettessero di pensare alla sua salvezza, e si sarebbe adoperata perché lo ricompensassero largamente, se avesse dimostrato di meritarlo. Ora Momo doveva capire che toccava a lui ripristinare negli animi umani la fede negli dèi e il sentimento religioso, che i suoi discorsi avevano messo in pericolo e fatto quasi precipitare. Momo, colpito da improvviso benessere, si mise a promettere qualunque cosa e ad offrire garanzie d'ogni sorta, giurando che tutto era dovuto da parte sua a dèi che lo trattavano così bene.

Nel frattempo i personaggi più in vista e le signore dell'alta società (tra cui c'è chi ritiene vi fossero Ercole, il padre Libero figlio di Semele, Medio Fidio, i fratelli Tindaridi e poi Matuta figlia di Cadmo, Carmenta, Cerere e altre personalità di quel livello), spinta di lato la massa e tolto di mezzo con essa anche Momo, fecero il loro ingresso nel tempio per rendere omaggio alla dea. Avevano cominciato col chiedere di voler cortesemente confermare che erano di stirpe divina, come l'abito e il portamento lasciavano immaginare, e la invitavano con insistenza ad accettare ospitalità nelle loro case, quando Momo, tutto pieno di speranze e ringalluzzito per la presenza delle dèe, cominciò ad agitarsi un po' troppo. E così non la finiva più di dare suggerimenti e far critiche, sempre in mezzo ai piedi, finché tutti quanti, con le tasche piene per le arie che si dava quel grandissimo presuntuoso, non lo buttarono fuori dal tempio.

Infuriato per quella mancanza di rispetto inattesa, Momo dava in escandescenze; intrufolatosi in mezzo al popolino, gridava così: "Dovremo sopportare in eterno, o cittadini, l'insensatezza di questi signoroni, continuando a subire simili ingiustizie? Passi che abbiano tante ricchezze ‑ gli vadano in malora, gli pigliasse un accidente! Passi che stiano più in alto di noi poveracci rubando a tutto spiano, finché la sorte glielo permette, e che detestino la gente perbene come noi, perché disapproviamo le loro porcherie; risplendano pure di gemme e d'oro, stiano impregnati di profumo, si diano pure alla pazza gioia e alla lussuria sfrenata: noi con gli abiti consumati, tutti sporchi di sudore, ce la passeremo sempre male per la loro bella faccia? Sopporteremo sempre la loro intollerabile insolenza? È mai possibile che un valoroso, perché è ridotto in povertà, non riesca a incontrarsi con dei connazionali, suoi parenti per giunta, se costoro non lo permettono? Che indescrivibile disastro per la nostra libertà collettiva, che sfacelo! Ci disperdono, ci fanno sloggiare come gli pare con la loro prepotenza. E noi, di fronte a una provocazione così violenta, non difenderemo valorosamente la nostra dignità? Noi che siamo così numerosi, non ci metteremo mai insieme per respingere la straordinaria sfrontatezza di pochi? Vergogna di questa ripugnante sottomissione! Dimostrate adesso che siamo liberi cittadini anche noi! Avanti, valorosi, dimostrate che non ne potete più degli oppressori. Fate vedere una volta per tutte che siete capaci di tutelare i vostri diritti, di difendere la libertà anche a costo di preferire la morte alla sottomissione. Avanti, cittadini, l'arroganza sfrontata va repressa con la forza: chi si ritiene un vero cittadino degno della libertà segua il liberatore. All'armi, uomini, all'armi!

Questo fu il discorso di Momo. Intanto i cittadini che gli stavano attorno, poiché è difetto congenito del popolo esser sempre pronto a correr dietro a tutti i propugnatori di rinnovamento sociale e a buttarsi a capofitto nelle manifestazioni sediziose, avevano cominciato a fremere d'indignazione e si raccoglievano da tutte le parti per far casino, lanciando slogan di denuncia contro l'azione provocatoria dei signori. Quando la dea se ne accorse, si portò all'ingresso del tempio e, chiamato da parte quello che aveva dato inizio all'agitazione, Momo, riuscì a sedare facilmente quel principio di sommossa della massa che strepitava, con la sola espressione del volto ed i gesti, in atteggiamento di regale maestà; poi, rivolta a Momo, disse: "È così, Momo, che stavi incominciando a fare quello che mi avevi promesso poco fa? Stavi eccitando quella folla incontrollabile a un'impresa mostruosa per mettere me e queste ragazze in mezzo al pericolo del ferro, del fuoco e delle armi, perché noi dèe ritornassimo dai celesti cosparse del sangue di morti e feriti che ci sarebbero caduti addosso? Vorremmo che d'ora in poi Momo ragionasse con più senno". "Io" rispose Momo "desolato per la mia situazione, oppresso da tante contrarietà, fra cui la mancanza di rispetto di questi mortali, non posso evitare di lasciarmi andare alla disperazione, per poco che faccia caso alle mie disgrazie. Toccherà a te, Virtù, decidere una cosa: io dovrò ricambiare in eterno offese oppure buone azioni?". "Vieni qua" disse la dea. "Vorrei ti convincessi che io non mancherò mai di preoccuparmi per il tuo bene. E perché tu esegua il tuo compito con speranze e prospettive più solide, dammi la mano, guarda cosa ti prometto: se tu col tuo comportamento tra gli uomini sarai capace (e credo proprio lo sia) di acquistarti benemerenze presso gli dèi, ti assicuro che non avrai nessun motivo di pentirti del tuo impegno. Del resto, ho buone ragioni per garantire per te: conosco il tuo carattere, Momo, e so bene che, se ti sei proprio deciso a fare qualcosa che ti procuri la salvezza e sia gradito agli dèi, lo farai senz'altro secondo le tue intenzioni. Ora tu datti da fare e dimostrati degno dell'antico favore degli dèi: la ricompensa sarà molto superiore alle mie promesse".

A queste parole, Momo non sapeva dove battere la testa, e non aveva che lacrime da dare in cambio di quei buoni consigli. Un altro fatto commosse poi la dea: una vecchietta rattrappita per l'età, mezza morta per la paura di quel che stava succedendo, si avvicinò tutta tremante, senza fiato, e disse sottovoce: "Ehi, tu! Certo non sai che rischio stai correndo. Scappa via di qua, disgraziato, sfuggi all'attacco preparato contro di te. Ho visto uno dei signori togliersi dal fianco un pugnale e consegnarlo a un suo servo con l'ordine di ucciderti al più presto, perché sei un pericolo per l'ordine pubblico". La dea, temendo che venisse commesso davanti a lei un atto di violenza così infame, avvolse il velo che la ricopriva intorno alla testa di Momo, al posto del sacro copricapo che lui aveva perso cadendo nel pozzo mentre scappava dal cielo, e disse: "E allora tu potrai trasformarti in tutte le figure che vuoi, e sfuggire a tutti gli attacchi; se poi, com'è tuo dovere, saprai operare nell'interesse degli dèi, ti garantisco che le tue buone azioni ti procureranno grandi motivi di gioia". La dea si rivolse poi ai signori e disse che aveva deciso di passare la notte nel tempio, e solo lì; però, se fossero ritornati l'indomani mattina, avrebbe voluto discutere con loro di affari della massima importanza. Infine, congedati i visitatori, fece mettere subito delle pesanti doppie porte di bronzo al tempio, per stare più al sicuro, con tutte le entrate sbarrate, da eventuali oltraggi di qualche temerario sporcaccione.

Momo, visto che le sue sciagurate imprese davano buoni risultati al di là di ogni aspettativa, recuperando grazie ai successi lo spirito di una volta, si era dato anima e corpo a meditare qualche altro misfatto dei suoi. Fu così che inventò un modo di far danno proprio originale e imprevedibile, grazie al quale poteva fare la figura di aver agito in modo retto e pio, mentre in realtà metteva sottosopra ogni cosa senza riguardi, e in cambio della sua mala pensata gli sarebbero giunti i ringraziamenti proprio di quelli che ne avrebbero pagato le conseguenze.

C'era una ragazza, una sorella di Tersite, famosa nell'intera città per la sua bruttezza fuori del comune. Costei era andata in campagna per curarsi l'itterizia che l'affliggeva. Mutatosi in lei, Momo si mescola a tutte le altre fanciulle che si erano riversate proprio allora nei crocicchi e per le stradine: faceva una bellissima impressione, con quel viso che non era più brutto e anemico come prima, ma era diventato come per miracolo tutto rubicondo e attraente nel suo splendore, e accarezzandosi con le mani i bei capelli biondi altrettanto diversi dal solito. Tutte le ragazze erano prese d'invidia, e domandavano come aveva fatto una del sangue di Tersite, la fanciulla meno attraente di tutte, a diventare tutt'a un tratto così prosperosa. Momo, con la faccia più amabile di questo mondo, rispose: "Venite qua, tesorucci, ragazze mie, e state attente, se potete, a ciò che vi sto per dire, vi può essere utilissimo e piacevole. V'insegnerò in che modo anche voi potrete diventare così belle. Anzi, sarete tanto più belle di me in quanto ciascuna di voi per sé sola è molto più formosa e attraente di me. Se gli dèi che m'han fatto un dono tanto magnifico non mi avessero ordinato di comportarmi così, forse ‑ se vi posso confessare il mio peccato ‑ avrei potuto tenermi tutta per me questa gioia nel profondo del cuore, e andar fiera del mio trionfo in mezzo alle ragazze: ma obbedisco di buon grado agli dèi del cielo. Tu Venere, tu Bacco e tu, Aurora dorata, assistetemi con la vostra protezione mentre io, secondo il vostro comando santo e pio, rendo partecipi di una grazia così straordinaria questi miei cari tesori di ragazze".

A queste parole di Momo, non è facile dire quanto si dimostrarono desiderose di ascoltare e imparare le ragazze. Allora Momo cominciò a tirar fuori una storia inventata di sana pianta, condita di paroloni, pressappoco alla maniera che segue.

In campagna al mattino presto, verso l'alba, s'era addormentata, stanca e distrutta dopo una notte passata in bianco per i suoi problemi, e aveva sognato di stare a discutere quegli stessi problemi con la sua balia morta. Il suo guaio era questo: se la prendeva aspramente con la sorte perché si rendeva conto che una ragazza come lei, non certo da buttare per le doti del carattere, doveva essere per forza sgradevole a chiunque, evitata e messa in disparte per un solo motivo soprattutto, la bruttezza del colorito. Ma la vecchia balia diceva nel sogno: "Smettila di consumarti a piangere, anima mia! Ti darò io il mezzo per diventare bellissima. Fai un voto agli dèi, a Venere, a Bacco e all'Aurora, e vai a mettere alle loro statue sull'altare corone di fiori appena colti che tu stessa intreccerai, perché ti diano una mano a diventare graziosa: gli dèi, memori e gratissimi dell'omaggio, ti daranno qualunque cosa tu chieda".

Recitando questo discorso della balia, Momo era ormai riuscito a colmare di speranze e desideri il cuore delle ragazze. Vedendole così eccitate, le guardò in faccia ad una ad una e proseguì il suo discorso facendo le mossette più carine: "Così disse la mia balia" fece. "Ed io appena sveglia ho fatto il voto a mani giunte, con tutta la fede che mi veniva dal sogno. Ci credereste? La prospettiva allettante mi ha dato subito la sensazione di essere più in forma. Per non farla lunga, mi sono assopita di nuovo, e in sogno la dea Aurora mi ha insegnato a truccarmi con la resina e la biacca, a passarmi la pomice, a far la tintura di croco e di nitro ai capelli. Perciò credo che noi ragazze siamo due volte fortunate, perché con queste arti possiamo imitare quanto ci pare il volto divino di Aurora, e anche perché se ci sono problemi che ci angosciano abbiamo spalancata una via per chiedere soccorso agli dèi immortali di lassù e tenerceli buoni. Per questa via possiamo chiedere ai celesti pace e protezione; per questa, col volere e il consenso divino, possiamo mantenere coi celesti una specie di filo diretto, facilissimo da usare. Andate dunque, ragazze, e non abbiate paura di chiedere agli dèi coi vostri voti tutto ciò che vi pare".

Raccontata questa storiella, Momo adornò con molta grazia questa e quella ragazza, e le istruì per benino quasi tutte nell'arte di truccarsi. Chiese però che prendessero l'abitudine di farlo di nascosto, per evitare che anche gli uomini si concedessero assieme a loro una simile sciccheria, o che in casa lo venissero a sapere le matrigne noiose, sempre pronte a brontolare. Così parlò Momo, poi se ne andò, e ripensando tra sé a quel che aveva combinato stava quasi impazzendo dalla gioia. "È proprio come dicono" faceva, "tutte le cose sono soggette ai capricci del destino! Chi avrebbe mai potuto immaginare che la mia situazione sarebbe cambiata da così a così in questo modo? Fino a poco fa ero un esule sommerso dalle sciagure, odiato e sbeffeggiato da uomini e dèi; ora, di colpo, eccomi passare da una condizione disperata a uno spasso simile: non ho ragione di ballare dalla gioia? Non so ancora bene se devo rallegrarmi di più perché, richiamato dall'esilio, sto per recuperare l'antica dignità, oppure perché m'è saltato in mente un sistema per rivalermi che più spassoso di così non si può: bisogna proprio frequentare gli esseri umani se ci si vuol far le ossa a tutte le astuzie, gli inganni e le truffe. Che razza di animali a due zampe, gli uomini! Alla larga! Eppure, di questo duro esilio c'è una cosa che mi sta bene: esser diventato, con la furbizia e con l'inganno, un autentico esperto nel trasformismo e nell'arte di filar via per la tangente, simulando e dissimulando. Di certo non avrei mai acquistato queste tecniche vantaggiose e utilissime restandomene lì in mezzo agli dèi, tra i piaceri della lussuria e il dolce far niente. Ora che ho dovuto passare i miei guai, Frode, cos'altro posso temere da te? Ah, se avessi immaginato, nel mio antico benessere, che effetto fa doversi scontrare tutti i giorni coi guai, non mi avresti fatto bandire, Frode traditrice, con le tue arti sleali! Ma se torno fra gli dèi… Lasciamo perdere! Una cosa è certa: nessuno riuscirà a ingannare Momo, ora che si è messo bene in testa che tutti quanti possono comportarsi da farabutti. Torniamo al punto; la faccenda sta in questi termini: qui in mezzo agli uomini, dovendo sopportare scontri e difficoltà, s'impara la strategia per condurre a buon esito imprese grandiose ed illustri. Per esempio, chi potrà lodare quanto merita la trovata che ho escogitato per prendermi la rivincita? Non mi sono dimostrato architetto elegante di ogni malizia? Sono sicurissimo delle conseguenze della mia azione: l'uomo imparerà a rompere le scatole agli dèi con i suoi voti: conosco la sua petulanza, so bene che faccia tosta si ritrova, quant'è arrogante e temerario. Non c'è bene altissimo e divino che non ritenga gli sia dovuto. Su cosa non si lancerà coi suoi voti? Avrà desideri senza senso, ambizioni presuntuose, chiederà senza ritegno, si convincerà che non gli si può dir di no, che tutto gli dev'essere offerto senza neanche domandarlo. Andrà a finire che un solo omiciattolo qualunque farà stancare tutti quanti gli dèi con l'impertinenza delle sue richieste. Quegli allegri compagnoni, che hanno deciso di passare l'eternità nell'ozio e nella quiete nelle loro splendide dimore celesti, se vorranno darsi qualche pensiero di questa faccenda dei voti, sarà bene che si mettano all'opera anima e corpo, e la smettano di spassarsela come gli scemi coi loro Ganimedi, le loro Veneri, i loro Amori. C'è di più: se cominceranno a fare concessioni ai mortali, il lavoro aumenterà di giorno in giorno per quei pigroni buoni a nulla. Se invece non se ne daranno pensiero per pigrizia e indifferenza, è finita: non contano più nulla; senza chi ubbidisce, hai voglia di comandare! Se gli dèi non avessero chi sottomette il suo cuore alla venerazione della loro divina maestà, che valore vuoi che avrebbe stare lassù? Per di più gli dèi sono ambiziosi più del dovuto, e incredibilmente avidi della deferenza e dell'adulazione delle masse, ma al tempo stesso amano prendersela comoda, da veri fannulloni; per loro, che stanno immersi fino al collo nel nettare e nell'ambrosia, una faccenda strana e imprevista come questa sarà come una sveglia improvvisa, e così nessuno saprà che decisioni prendere per i fatti suoi, né escogiterà soluzioni utili al problema comune. Saranno più le baruffe che le discussioni sensate. Si vedrà allora quanto vale il mio operato. Infatti, per come conosco il loro solito modo di fare, posso prevedere che nel fuoco della discussione nasceranno tra loro odio e rancori. Non c'è dubbio che la furia di quelle tempeste si rovescerà in gran parte su di me, ma io, per giustificarmi e farla franca dai loro attacchi di bile, potrò sempre dire d'aver agito in buona fede, nell'interesse della loro sacra autorità, per quanto mi permetteva il mio buon senso privo di contorsioni, e non si poteva certo addossare a me, che anzi, nei miei limiti, avevo fatto tutto a fin di bene, la colpa per le conseguenze imprevedibili della faccenda. E poi, in fondo… Giove è pure andato in sollucchero per certe contadine rozze: ora che son diventate più carine per merito mio, non gli si scalderà il sangue? E ti saluto Giunone!".

Mentre prospettava tra sé un tale scenario, saltò in mente a Momo di mettere mano a un'altra spaventosa impresa, odiosa, rovinosa e abominevole per gli dèi celesti e infernali e per tutto il genere umano. Vale la pena di raccontare come da un futile motivo ‑ se lo si può definire così ‑ abbia potuto sortire un male così disastroso e degno di esecrazione. E poi lo stesso misfatto, per l'originalità della trovata, contiene elementi adatti a suscitare il piacere dei lettori.

S'è già detto che Momo aveva preso una cotta per Lode, una delle figlie di Virtù. Si era dunque risolto a non lasciar nulla d'intentato per conquistarla. Andava girovagando perciò intorno al tempio chiuso, scrutando attentamente tutte le vie d'ingresso, che cercò di forzare a più riprese; ma quando ebbe compreso che tutti i suoi tentativi sarebbero andati a vuoto contro quelle porte sprangate, aveva cambiato direzione ai suoi passi e ai pensieri, come a togliere l'assedio appena iniziato. Ma, mentre si allontanava, si fermò a guardare ancora una volta verso il tempio, e alzando lo sguardo di nuovo con un sospiro a questo e a quel punto scorse una finestra sul retro, dimenticata aperta per caso: decise di servirsene per cogliere il frutto della sua passione, di nascosto o con la forza. Trasportare una scala in quel luogo pubblico fin troppo frequentato, oltre che difficile e arduo, era tutt'altro che sicuro. Perciò, appeso alla finestra con lo sguardo, si rigirava tra mille pensieri, prendeva mille risoluzioni, pronto a tutto, poi però ogni cosa l'impauriva; tutto eccitato dalla voglia, ondeggiava tra speranza e timore. Tornato poi in sé, si ricordò dei poteri che aveva grazie al velo datogli dalla dea Virtù, allora si fece coraggio e cercò di attaccarsi con tutta la forza delle braccia e delle gambe al muro del tempio reso scabroso dagli anni, tendendo in su le braccia più che poteva e piantando le unghie e la barba nelle giunture fra le pietre, finché, trasformato in edera, strisciò in alto fin sulla finestra. Da quel punto poteva vedere Lode, che, guarda caso, era la sola ancora sveglia, mentre sua madre e i fratelli si erano addormentati, intenta a rifarsi l'acconciatura ai capelli davanti alla pietra levigata del tempio, come fosse uno specchio. Incapace di controllarsi per la passione amorosa, eccitato a qualsiasi audacia, non sa che combinare, che altro decidere se non aspettare acquattato in silenzio l'occasione del colpo d'amore. Perciò, distendendosi pian piano per il muro, stava appeso con le braccia allargate, l'animo in ansia; difficile dire quanto fosse insofferente di quella pausa e di sé, in quella posizione d'attesa. Essendo ora più vicino alla ragazza, ardeva più violentemente del fuoco d'amore; d'altra parte, agghiacciava e rabbrividiva per la gran paura. Ora si sentiva pronto all'assalto, ora si tratteneva al minimo segnale sospetto; ancora una volta si eccitava all'azione temeraria, e ancora una volta esitava al momento cruciale, e non poteva evitar di tremare con tutte le foglie ad ogni sussulto del cuore impaurito nel pieno della tensione.

La dea fanciulla, appena il lieve rumore delle fronde agitate richiamò la sua attenzione, vi fissò gli occhi sopra. Poi, visti i rami dell'edera che pendevano e le foglie che s'agitavano come a farle festa, smise per un po' d'arricciarsi i capelli e, con la sua solita leggerezza, volle farsi una corona con uno di quei rami verdeggianti. Che dire a questo punto dell'audacia di Momo? Mentre la ragazza cercava di toccarlo, la afferrò e la strinse con tutta la forza delle braccia, e tenendo occhi ed orecchie ben aperti nel timore che si svegliassero gli dèi, e andasse quindi a vuoto il suo tentativo, riuscì a strappare la vittoria. Si ritrasse poi sul bordo della finestra, fermandosi lì per un pezzo a contemplare, vittorioso e rilassato, l'amore suo.

Ma guardate a che punto arriva la sfacciataggine. Alcuni volgarissimi vagabondi, gente del popolino, di quelli che pensano che non avere nessun rispetto né per gli dèi né per gli uomini sia il sistema di vita migliore e più comodo, si arrampicavano in gruppo su per quella stessa edera con l'intenzione di violare e profanare il tempio, e afferrati qua e là dei ramoscelli vi si appoggiavano con forza, cercando di entrare per la finestra. Il risultato fu che Momo, come se l'avessero tirato per i capelli, fu trascinato in giù a precipizio assieme a un pezzo di muro fatiscente per la vecchiaia. Momo non sopportò quell'insulto. Così, mutatosi in torrente, trascinò quei vagabondi svergognati in una fogna puzzolente e ve li sommerse.

La dea Virtù, svegliata dal primo strillo di sua figlia che si dibatteva, grazie alla sua intelligenza e alla sua presenza di spirito prese la migliore delle decisioni possibili in una circostanza del genere, che ha incontrato fino ad oggi l'approvazione di tutte le persone colte ed esperte della vita. Poiché non c'era modo di cancellare l'accaduto, si trattenne dal gridare, per non renderlo di pubblico dominio a vergogna sua e della famiglia, evitando che in aggiunta all'oltraggio ricevuto da una sua figliola ulteriori atti ostili si rovesciassero contro i suoi cari. Così, di fronte all'iniquità del frangente, ritenne preferibile stare in ascolto facendo finta di dormire, finché un'altra occasione non avesse permesso di riparare al malfatto. Rimane perciò china a osservare schifata, e aspetta in silenzio di vedere come va a finire. La ragazza, terrorizzata dall'inatteso colpaccio di Momo, aveva raccolto a stento lo spirito nonché i capelli; e quasi nel preciso momento in cui si accorse d'essere stata messa incinta da quella violenza carnale, e anzi sentiva già avvicinarsi le doglie, incredibile a dirsi, vide che il feto sbucava fuori con le sue sole forze; poi, quando lo raccolse e vide che aveva dato alla luce un mostro orribile e spaventoso, restò stupefatta e profondamente addolorata. Fra gli altri particolari raccapriccianti, il mostro (incredibile!) aveva tanti occhi, tante orecchie, tante lingue quant'erano le foglie dell'edera cresciute in corpo a suo padre. Dimostrava inoltre quella stessa frenesia di guardarsi intorno a cogliere il minimo movimento che aveva invaso suo padre durante la seduzione; e quel che sconcertava ancor più, era dotato d'una loquacità straordinaria fin troppo precoce: perfino al momento di nascere, infatti, aveva provato ad articolare parole.

La ragazza non poteva non detestare quel malanno che aveva partorito; cercò quindi di sopprimerlo in tutti i modi, ma senza successo. Quell'essere generato da un dio e da una dea resisteva, non essendo soggetto alla morte; non la finiva più di saltellare di qua e di là sfuggendo alle mani di sua madre, di strisciarle sul seno, d'infilarsi sotto le sue vesti; anzi, più colpi gli si davano, più gli crescevano la voce, il corpo e le forze. C'era lì vicino un sacro guanciale di piume d'airone: la ragazza sconvolta lo prese, e cercò con quello di schiacciare il mostro che non stava un attimo fermo, per soffocarlo. Ma il mostro, nella sua resistenza straordinaria, strappò con le unghie e coi denti il guanciale, tanto da sgusciare in mezzo alle piume. La ragazza continuava a sforzarsi di ficcarcelo dentro, così, se non riusciva ad uccidere il mostro, poteva almeno nasconderlo, togliendolo di sotto gli occhi ai parenti. A forza di provare, a un certo punto non ce la fece più.

La dea madre, dopo aver osservato per un pezzo la ragazza colpita da tanta disgrazia, diede un gemito. Poi, per soccorrere la figliola in un simile frangente, facendo finta di essersi svegliata proprio allora, si alzò e disse: "Lascia stare, ci penso io!" e, avvicinandosi a rapidi passi, schiacciò col piede destro il collo del mostro che si dibatteva. Il mostro, benché così intrappolato facesse fatica a respirare, continuava a tirar fuori parole con incredibile faccia tosta, e non la finiva più di spifferare tutto ciò che si poteva vedere, anzi, riferiva tutto quello che aveva visto e sentito mettendo insieme talvolta il vero e il falso. Giurava che Trionfo e Trofeo non erano figli di Virtù, ma di Caso e Fortuna, e che uno dei due era scemo e l'altro deficiente. E strillava sfottendoli: "Viva Trofeo! Viva Trionfo! Ehi tu, Trofeo, perché non vai a piazzarti agli incroci, al solito tuo, per farti vedere dai ragazzini e dai passanti stanchi, che mugoli come fanno i muti?". Sosteneva poi che Lode aveva un occhio cisposo, e Posterità camminava coi piedi all'indietro. Poi, rivolto alla dea Virtù: "Quando Lode si pettina di fronte a te, il petto e il grembo ti si riempiono di sporcizia".

La dea Virtù, turbata dalla petulanza di un simile mostro, considerava che quasi tutti i grandi chiacchieroni hanno la caratteristica inveterata di lasciar perdere subito le storie vecchie, pur di averne di nuove per sproloquiare, e si ricordava che essi sono felicissimi delle voci dell'ultima ora, di qualunque provenienza, e di metter via le storie già note per afferrare materia di pettegolezzo più fresca. Allora la saggia dea esclamò: "Vattene alla malora, Fama, visto che non la fai mai finita di far chiacchiere, e cercati da un'altra parte altre favole da raccontare!". Così dicendo, buttò fuori il mostro per la stessa finestra dov'era passato Momo per fare il colpo. Fama allora, non appena le membra liberate glielo permisero, distese subito le braccia e cominciò ad agitarsi e a star sospesa su in aria svolazzando, poi imparò ad un tratto a volare a una velocità che non teme confronti, né con la luce e l'ombra, né con lo sguardo e nemmeno con la forza del pensiero. Si racconta che Fama sorvolò in un attimo solo le pianure di Maratona e di Leuttra, Salamina e le Termopili, Canne e il Trasimeno, le Forche Caudine, gli scogli di Scilla e i massi scagliati dal Ciclope, il bosco Idalio, Cadice sacra ad Ercole, Birsa e Tala, il polo d'Atlante e il luogo dove Aurora frena i bianchi cavalli di Febo, e poi quello dove il sole ribolle immerso nell'oceano glaciale: tutti questi luoghi, e molti altri ancora, ripeto, in un attimo solo! Per di più, con quella sua ardente passione di vedere, ascoltare e riferire, non c'era luogo, per quanto fuori mano, nascosto e coperto di nebbia, che la dea Fama non si mettesse ad osservare ed a spiare senza sosta per poi renderlo noto a tutti con instancabile precisione: solo lei poteva fare una faticaccia simile!

Momo, osservando quel malanno disgustoso che aveva fatto nascere, sulle prime aveva cominciato a sospettare che avrebbe avuto dei guai con gli dèi. Gli tornava in mente che razza di delitto aveva commesso nel tempio, violando ogni sacra norma divina e umana. Lo preoccupava anche il pensiero di essersi messo contro, con l'impudenza di quel delitto passionale, proprio la dea che rappresentava i suoi interessi tra i celesti, e temeva che grazie a tutta quella pubblicità fatta da Fama l'autorità e la maestà dei grandi dèi avrebbero acquistato popolarità in mezzo agli uomini, e quindi le masse credulone avrebbero preso l'abitudine di rispettare e venerare gli dèi. Aveva però anche motivi d'esser contento, perché si rendeva conto che Fama si divertiva a passare in rassegna non solo le altrui azioni meritevoli, ma anche e soprattutto quelle disoneste, e aveva osservato come gli uomini abbiano la tendenza a scandalizzarsi per le azioni che non hanno tutta l'apparenza della correttezza più di quanto non li commuovano quelle giuste e pie; ricordava poi un'altra caratteristica degli uomini: sospettano sempre di chi esprime giudizi positivi, anche se è una persona seria, e invece danno il massimo credito ai denigratori più superficiali; hanno meno piacere ad ascoltare il racconto di azioni encomiabili, di quanto gliene procurino le calunnie degli sciagurati; fanno passare per buona e con tanto di prove qualsiasi calunnia, mentre hanno sempre qualcosa da togliere ai giudizi positivi, per sminuirne il valore. Oltre tutto, davanti al più piccolo neo, al minimo sospetto di colpa non hanno più la minima considerazione per la meravigliosa e divina bellezza dell'animo, dell'intelligenza, del carattere umano e della sua onorabilità. Alla luce di queste considerazioni, Momo era sicuro che le chiacchiere di Fama avrebbero danneggiato seriamente la reputazione divina tra i mortali, dato che non c'è quasi nessun dio che non si ritrovi in casa qualche buon motivo di vergogna. Del resto, per la faccenda della ragazza violentata nel tempio, pensava che non sarebbe stato difficile giustificarsi davanti a Giove per uno come lui, che ammetteva d'aver agito in preda alla passione d'amore, imitando, com'era evidente, il padre degli uomini e re degli dèi.

Queste erano le elucubrazioni di Momo. Da un'altra parte, intanto, la dea Fortuna, ostile a Virtù perché aspirava da un pezzo al ministero degli affari umani e non aveva mandato giù il fatto che le avessero preferito la dea Virtù, faceva tutti i preparativi per dar fastidio alla rivale. Perciò, osservando quel che succedeva tra i mortali, si rese conto di che razza di mostro terribile fosse apparso sulla terra; e siccome aveva un gusto matto di farsela con i mostri, e poi aveva preso il partito di mandare a monte con ogni mezzo le iniziative della dea Virtù, scese tutta contenta sulla terra col desiderio d'incontrare Fama e per cercar l'occasione di sferrare i suoi attacchi. Ma ecco che gliene capitò una proprio carina: s'imbatté infatti in Ercole, l'ardito sfidante di tutti i mostri, che con la clava in mano andava in cerca di Fama senza badare a fatiche. Allora stette un po' a riflettere sul da farsi. C'erano molte buone ragioni per essere in ansia, soprattutto una: sentiva Fama schiamazzare per tutto il cielo, mettendo in piazza azioni e decisioni degli dèi. Una di quelle storie diceva che era arrivata la dea Fortuna a intralciare i piani di Virtù, mentre Virtù aveva fatto accendere sull'altare un fuoco con la fiamma divina, grazie al quale fosse aperta agli uomini la via del cielo. Per quanto chiacchiere del genere la preoccupassero, la dea Fortuna era tuttavia felice che l'eco solenne del suo nome risuonasse per tutti i monti e le valli della terra; le dava ulteriore piacere l'aspetto deforme del mostro, con quella sua incredibile ostentazione di stranezze in tutti i particolari del corpo: perciò, pur detestando tutto quello spettegolare a vuoto, desiderava che il mostro rimanesse sano e salvo. Poi, quand'ebbe concluso che in fondo anche Ercole era per certi aspetti assai simile a un mostro, non si trattenne dal corrergli incontro e abbracciarlo. "Cos'è questa storia" disse "che tu, armato di un tronco di quercia massiccio e pesante, affronti tanta fatica tentando un'azione dura e difficile contro la prole di un dio? Sei così poco osservatore da non accorgerti che è di stirpe divina una che sta sospesa nell'aria leggera, mostrando simili capacità oratorie e tali poteri? Ti ricordo che è più probabile che un mortale acquisti l'immortalità, che un immortale soccomba a un mortale qualunque. Ora stai bene a sentire, ti dico io come dovrai fare, nell'interesse di tutt'e due. Ti insegnerò un sistema facile per intrufolarti nella schiera degli dèi senza bisogno del fuoco che Virtù ha fatto mettere sull'altare. Fai così: impugna la sola scorza di questa clava, per diminuirne il peso ed essere più spedito, e nasconditi nell'ombra in mezzo a quest'erba tenera; fatti vedere da lì che agiti la scorza, e mettiti a ululare, a muggire, a fare un sacco di versi. La dea, curiosa com'è di conoscer qualunque cosa, arriverà di corsa; allora tu afferrala d'un balzo e portala via; ed io, per evitare che, una volta prigioniera, si divincoli e fugga, intreccio nei tuoi capelli questo filo d'oro: darà più forza ai tuoi muscoli e saldezza al cuore. Però stai bene attento a non farti scappar di mano la scorza, se non vuoi fare una figuraccia, qualora la dea riesca a rubartela e a volar via!".

L'azione riuscì ad Ercole proprio secondo il piano. Quando Momo vide che Ercole veniva trasportato in alto, avvinghiato stretto al collo del mostro, fu preso da un turbamento indescrivibile. All'inizio, pensando che un uomo non ce la poteva fare a reggere il gran peso della clava e quello del suo stesso corpo, si mise a incitare la dea sua figlia a portarsi più in alto che poteva quel nemico temerario, in modo che si andasse a fracassare precipitando. Come poi lo vide sempre più in alto, le urlava in continuazione di scuoterlo per farlo cadere. Alla fine, quando si rese conto che Ercole era ormai arrivato in cielo, fino alla reggia di Marte, e che vi si era fermato nel cortile, per la stanchezza o perché aveva mollato la presa di proposito, cominciò a strapparsi i capelli dal dolore, a graffiarsi il viso, a percuotersi il petto e a darsi del disgraziato con gli strilli più acuti, dicendo: "È la fine per te, Momo, è la fine! Non avevo abbastanza nemici tra i celesti, ci mancava pure questo, uno di quelli che hanno messo in mano a un servo il pugnale per uccidermi, che ora è assunto in cielo per responsabilità mia! Mi par già di vedere costui, che a forza di adulare, leccare e vantarsi (tutte tecniche abituali per gli uomini) in capo a tre giorni otterrà da un principe senza alcuna malizia come Giove di occupare un posto di potere in mezzo ai capi degli dèi, proprio lui che quaggiù è andato a servizio da una donnetta! Pazzo scatenato che sono, che cosa m'e saltato in mente? Perché ho attirato su di me attacchi destinati ad altri? Perché a rischio della testa, senza mezzi di difesa, esule, odiato, antipatico come sono, mi sono andato a cercare altri avversari? Che me ne fregava? Non potevo starmene zitto a guardare la lotta tra Ercole mortale e la mia figliola immortale, Fama? Tu, Momo, proprio tu hai spalancato ai mortali la via al cielo con la tua incapacità di controllare la rabbia, tu hai innalzato in cielo un nemico! Un saggio, nella vita, non dovrebbe aver mai il voltastomaco. Si dovrebbero ingoiare le offese degli uomini, ma per la nostra insofferenza va a finire che bocconi che potrebbero passar lisci s'ingrossano fino a diventare un gran tormento, proprio perché non li sappiamo mandar giù. Ora ragioni, Momo, ora fai della filosofia a buon mercato. Ecco che i mortali arrivano in cielo, e tu stai in esilio, Momo, te ne stai scacciato ed escluso in esilio. Che m'importa di non essere mortale, se mi tocca piangere ogni giorno nuove disgrazie? O morte, dolce requie ai travagli, data in dono ai mortali dagli dèi!… Ma che sto dicendo? Sragiono al punto di non capire che felice sviluppo verrà alla mia situazione da quello che credevo un guaio? È proprio vero quel che dicono, quando si ha paura la gioia va a nascondersi. Non ti ricordi più, Momo, il carattere degli uomini, quanto sono vanitosi, facce toste, temerari? Quanti ce ne saranno di questi eroi, che non si sentano anch'essi degni del cielo? E così, non pochi di tutti questi verranno appresso ad imitare Ercole, escogitando sempre nuove insidie, con qualunque truffa, con qualunque raggiro, pensando che tutto gli è permesso. Ammettiamo che anch'essi, magari due soli, siano accolti nelle regioni dei celesti: oh, che uragani di discordie provocheranno! Mi sembra di veder già le schiere celesti in preda all'eversione per le male arti di questi spioni dalla calunnia facile. E anche qui tra i mortali, quante stragi m'immagino, quante città sconvolte, quanti futuri massacri! Finché sono infiammati gli uni contro gli altri nella smania di far come Ercole, finché questi si riscaldano per la conquista della Fama e quelli, invidiosi, per togliergli il posto, combatteranno a morte col ferro e col fuoco. Ora sì che mi sta bene essere immortale, ora non ho di che prendermela per l'esilio, dato che sto per vedere il mare pieno di cadaveri, le nazioni insanguinate, le stelle offuscate dal fumo delle città in fiamme, e tutto per un'unica ragione! Gioisci, Momo!".

Così pensò Momo e, tanto per cominciare a gettare in mezzo agli uomini il seme di questi disastri, prende l'aspetto di Ercole e va a raccontare per filo e per segno ai cittadini autorevoli, che si erano riuniti a discutere problemi di grande importanza, come era diventato un dio, dando anche molti consigli pratici, finché li convince a fare come lui. Poi, appena li vede armati e pronti a passare all'azione, si trasforma in vento e svanisce; chiede poi alla figlia di giocare al suo posto, mostrandosi ora a questo ora a quell'altro dei signori. Intanto la dea Fortuna, ritenendo utile impedire che qualcun altro la precedesse a occupare le orecchie ancor libere di Giove parlando male di lei per quella storia di Ercole (sapeva bene quanto sia importante dar forma alle prime impressioni nell'animo di chiunque), si andò a presentare in gran fretta davanti a Giove, consigliandogli di prendere dal lato migliore quell'arrivo imprevisto di Ercole. Infatti non c'era argomento più brillante per mostrare ai mortali la maestà divina, perché ne avessero venerazione e timore, che quello d'insegnargli che un giorno anche loro potevano diventare dèi.

Nel frattempo la dea Fama, lasciato perdere Ercole, si era diretta verso la vicina sede di Giove, nella sua smania di curiosare. Gli dèi, atterriti dal suo aspetto tremendo e minaccioso, si agitarono per tutto il cielo, e quelli che poco prima avevano storto il naso per l'arrivo di Ercole, adesso pensavano non solo che era un grosso vantaggio che fosse arrivato, ma che avrebbe dovuto esser richiamato da laggiù se non ci fosse stato, anzi, sostenevano che era loro precipuo interesse combattere con alla testa proprio lui contro certi mostri straordinari e così spaventosi. Viene perciò consegnata ad Ercole la clava di ferro di Giove, opera di Vulcano, per scacciare con essa la Fama mostruosa che andava curiosando per tutti i recessi divini. Così armato Ercole muove allo scontro. Fama decise di non starsene certo lì ad aspettare un avversario così ben armato e gagliardo, e si lanciò a precipizio dalla sommità del cielo; nella sua caduta urlava con strilli acuti: "Quelli come me, nati da esseri divini, respinti dal cielo ancor prima che ci vedessero, sono cacciati senza colpa in basso, sulla terra dei mortali; e i peggiori criminali fra i mortali si fregiano di armi divine, e in cambio di tanti oltraggi ecco cosa ci tocca, che proprio chi ci ha colpito sia ammesso nel numero degli dèi".

Dicendo così, Fama in volo scopre i nuovi preparativi scellerati degli uomini; allora lascia perdere tutto il resto, come fosse ubriaca, e vola con gran sbatter d'ali da sua madre a raccontare a voce piena quello che aveva visto, strillando così: "Scappate via di qua, dèe! Scappate, ché certi donnaioli smaniosi, pronti a usare violenza, si avventano armati contro il tempio per impossessarsi con la forza delle proprietà celesti!". Le dèe, sconvolte da queste parole, e udite le grida degli armati furiosi, non certo avvezze a un simile trambusto, non sanno dove sbatter la testa; così dentro c'è trepidazione, mentre fuori, tutt'intorno alle porte del tempio, esplode la baraonda; perfino la dea Fama è stordita dal baccano. Ecco gli uomini armati che, infrante le serrature, fanno irruzione nel tempio, mentre gli dèi ragazzini in preda al terrore strillano in grembo alla madre. La madre Virtù grida di non tirarla per il vestito, e li invita a trasformarsi il più presto possibile in una cosa qualunque e a fuggire con lei. Ma quelli, ottusi e lenti per natura, e per di più terrorizzati alla vista degli uomini armati, restavano fermi. Allora la dea Virtù, indignata per la sfrontatezza dei mortali e l'inettitudine dei figlioli, augurò con la più solenne delle preghiere divine a quei buoni a nulla di non trovare più aperto alcun ingresso al cielo, e che non fosse loro concesso di tramutarsi in più d'una forma. Lanciate queste maledizioni, si trasformò in fulmine e volò via sfolgorante. Lode, figlia di Virtù, fece cadere il mantello e si trasformò in fumo sottile, lasciando accecati alcuni di quelli che cercavano di afferrarla.

Momo, alla vista di quel tremendo delitto degli uomini, non poté fare a meno di gemere per la sorte di quei tre dèi abbandonati nel tempio, commosso dall'analogia con le sue disgrazie. Entra quindi in fretta e furia nel tempio, sempre sotto forma di vento, e prega gli Dèi di trasformarsi in una cosa qualunque per conservare la libertà. Quelli gli chiesero se era il caso di trasformarsi in uomini per strappare le armi agli assalitori e menar strage del nemico; Momo rispose: "Eccome desidero che muoiano di quello stesso pugnale con cui mi volevano aggredire! Ma preferirei che diventaste qualsiasi cosa piuttosto che uomini, perché sulla terra niente ha una vita più dura dell'uomo! Anzi, non vi consiglio d'assumere l'aspetto di nessun essere animato, perché chi è entrato in un corpo mortale, oltre a tutti gli altri danni dovrà subire il peggiore: gli toccherà portar da sé il suo proprio carcere".

Così disse Momo. Trionfo rispose però che non voleva vivere senza aver relazione alcuna con un corpo, grazie al quale godere i piaceri. Così, trasformatosi in farfalla, volò via sgusciando con le ali veloci dalle mani degli uomini che cercavano di acchiapparlo ammirati. Trofeo invece, che era di grossa stazza, mutandosi in un masso enorme schiacciò alcuni di quelli che gli avevano messo le mani addosso. La giovane dea Posterità prese una decisione più consona alla sua dignità e alla necessità del momento: si trasformò in quella dea che è stata chiamata Eco. Gli uomini delusi per come era andata a finire, a forza di tirar di qua e di là nella baruffa il mantello strappato a Lode lo fecero in mille pezzetti, che si disputarono con accanimento.


Libro secondo

 

Gli sconvolgimenti provocati dall'esilio di Momo tra gli uomini sono stati fin qui l'argomento della nostra storia; ora è tempo di raccontare in che modo egli dalla sua condizione di esule tornò nelle grazie di Giove, e che razza di idee originali andò ad escogitare per creare casino, spingendo quasi all'ultima spiaggia uomini e dèi e l'intera macchina dell'universo. Varrà proprio la pena di leggere la varietà delle situazioni ambigue, l'originalità degli imprevisti, la frequente successione di avvenimenti notevoli: tanto che io stesso non so se sia più forte l'esitazione a proseguire il racconto per sfiducia nelle mie capacità, di fronte a tanta elevatezza e abbondanza di argomenti, o la voglia di scrivere attratto dal divertimento che la narrazione procura.

Si potrà dire che tutto quel che si è letto fin qui su Momo non è nemmeno paragonabile a quel che verrà dopo. Quando, dunque, le ragazze sospinte da Momo incominciarono a fare agli dèi richieste futili, da quattro soldi, gli dèi si divertivano di quei voti ridicoli, comportandosi come quei papà amorosi che, quando i bambini gli chiedono balbettando le caramelle o che so io, gliele danno con un bel sorriso: nella loro beata ingenuità, una pregava perché era grassottella, un'altra perché troppo magra, un'altra faceva una diversa richiesta per la sua bellezza, e gli dèi concedevano benevolmente cose così facili da ottenere, togliendo a questa ragazza quel che davano a quell'altra. L'usanza poi prese piede, tanto che, incontrando sempre la stessa disponibilità divina, anche padri di famiglia e persone di una certa età cominciarono a chiedere grazie; in un primo momento erano richieste ragionevoli, di quelle che si possono fare sulla pubblica piazza, come si suol dire, con l'approvazione di amici e non: erano perciò esaudite ben volentieri dagli dèi. Finì che poi anche re e Stati potentissimi presero l'abitudine di chieder grazie agli dèi.

Sulle prime tutta questa devozione degli uomini verso gli dèi fu così gradita ai celesti, pienamente soddisfatti per la nuova scoperta, che non trovavano occupazione più piacevole di quella di accogliere benevolmente i voti dei mortali. Si fece quindi un'inchiesta e, quando si seppe chi aveva avuto un'idea così bella, tutti tramutarono in misericordia e benevolenza il malanimo che avevano verso Momo. Viene allora approvata per acclamazione unanime una legge di revoca dell'esilio di Momo, piena di parole altisonanti, e due dèe, Pallade e Minerva, vengono delegate ad andare a prendere Momo per restituirgli col massimo degli onori il suo posto nella schiera celeste, in riconoscimento dei suoi altissimi meriti verso la schiatta divina; vien loro affidato, racchiuso in una coppa preziosa, il fuoco sacro degli dèi, per insignire della sua fiamma divina il copricapo del reduce. Pallade era riluttante ad andare tra gli uomini, perché aveva sentito dire che erano armati e coraggiosi: ma alla fine, convinta dall'ordine espresso di Giove e dall'incoraggiamento degli amici, prese la corazza e le armi e si decise a ubbidire. Su nel cielo la legge era stata appena approvata, quand'ecco che Fama accorre tutta ansiosa da Momo, facendo strider le ali e, poiché è sua caratteristica mescolare vero e falso e ingigantire con le parole ogni minima cosa, va a raccontare a suo padre che tra gli dèi c'è una gran baraonda, si preparano grossi movimenti e già alcuni dèi armati cominciano a venir giù dal cielo. Al sentir quella notizia Momo crolla, terribilmente agitato dalla consapevolezza dei suoi crimini. Lo tormentava il ricordo di aver usato violenza contro ambasciatori del re ottimo e massimo degli dèi immortali; pensava che tutto quanto il cielo ce l'avesse a morte con lui per quel delitto esecrando, e non si sentiva in grado di sostenere l'impeto di tanta animosità; si mette perciò a supplicare la figlia di ostacolare gli dèi in arrivo e tenerli a bada finché può, per dargli il tempo di decidere qualcosa e di nascondersi, caso mai fosse possibile cavarsela sparendo dalla circolazione. Fama vola a ubbidire al padre. È difficile dire quanti e quali turbamenti assalirono allora Momo. Si sentiva disposto a molte soluzioni, ma nessuna gli stava bene; le cercava tutte, senza escluderne nessuna, purché la immaginasse appena appena utile alla sua salvezza; d'altra parte non si sentiva sicuro di niente e in nessun posto, decideva una cosa e subito dopo se ne pentiva; non c'era figura in cui non desiderasse trasformarsi.

Il ritorno di Fama rinfrancò Momo da tanta angoscia; essa disse infatti: "Ti annuncio che avrai il pieno favore degli dèi, Momo! e, roba che non t'aspetti, offrono pace e indulgenza e vengono a portarti in dono la sacra fiammella divina". Sentita la notizia, ripensando alla sua vecchia ostilità con la dea Frode temeva che gli si stesse tendendo un tranello per farlo fuori; comunque, poiché non aveva un posto dove nascondersi (non poteva nemmeno farlo, dato che gli dèi del cielo vedono tutto), e poi perché non ne poteva più neanche di se stesso, aveva fretta di buttarsi incontro a qualunque cosa gli si parasse davanti. Decise perciò di prendere l'iniziativa e di nascondere del tutto con abile dissimulazione l'abbattimento del suo animo e i suoi veri sentimenti, avanzando a testa alta e con un'aria distesa. Andò allora incontro alle delegate e, dopo uno scambio di convenevoli, le loro parole e la loro espressione lo resero proprio convinto che lo si richiamava, al di là di ogni speranza, dalla sua difficile situazione al godimento celeste, e veniva riammesso al suo antico livello di dignità dopo le lunghe tenebre della disgrazia. Fuori di sé per la gioia improvvisa, non trovava parole adatte a esprimere il suo piacere ma, quasi in delirio per la contentezza, cominciava a dire un sacco di cose avventate senza star tanto a rifletterci, e nel mezzo gliene scappò una grossa: "È così che, Momo, come si dice sulla terra, tutti dall'esilio arrivano al potere?".

A queste parole di Momo Pallade ‑ le donne, si sa, son sempre disposte a pensar male e a intendere nel senso peggiore, sempre pronte a far danno ‑ fece delle considerazioni ben più profonde di quanto non lasciasse trapelare alcun segno esteriore. Riflettendo in silenzio nel profondo del cuore sull'indole disonesta di Momo, pensava che non era affatto conveniente agli interessi di Giove e dei celesti dare ampia facoltà di gestire affari della massima importanza a uno sciagurato come quello, memore senza dubbio dell'antica offesa e dispostissimo a ogni sorta di audacia, nella sua inveterata abitudine al male. I ragionamenti che faceva la spinsero infine a porsi questo problema: "Noi dèi abbiamo resistito a stento a questo progenitore di mostri finché era indebolito dall'esilio e abbattuto dalle disgrazie. E ora ce la faremo a resistergli senza correre rischi, ora che è nel pieno dei suoi poteri, rafforzato dalle concessioni dei celesti? C'è una bella differenza tra tener sotto controllo la furia di Momo facendogli balenare la prospettiva del premio divino, e provocare l'occasione per sovreccitare ancor più un tipo sempre pronto al delitto! Chi, dopo aver subito ingiustizie, l'esilio per giunta, chi vuoi che non desideri che gli si offra l'occasione per rivalersi? E chi è che, desideroso di rivalersi, non metterebbe mano a qualunque cosa, quando gliene abbiano messo di fronte la speranza e la possibilità?".

Spinta da queste riflessioni, Pallade, per definire più agevolmente la questione insieme alla collega, ordina a Momo di andarsi a preparare al fonte d'Elicona, per togliersi di dosso tutta quella sporcizia e far ritorno in aspetto più dignitoso a rendere omaggio al re degli dèi. Mandato via Momo, le dèe discussero un pezzo tra loro e conclusero che era competenza di Giove stabilire quanto convenisse alla comunità divina che Momo tenesse un posto di prestigio fra i celesti, dotato della sacra fiammella, senza aver prima indagato a fondo per sapere cosa passava per la testa a quello stravagante incontrollabile.

Mentre è solo che si lava, Momo pensa così tra sé: "Una volta a buon diritto stavo sulle scatole a tutti per quel personaggio tosto e tristo che m'ero scelto, con quell'andatura impettita, l'aspetto truculento e spaventoso, vestito come un selvaggio, con la barba e i capelli ispidi e incolti; con quell'aria da fanatico fin troppo accigliato, chiuso in un silenzio ostinato o sempre pronto a punzecchiare e far battute pesanti, facevo paura proprio a tutti quanti. Ma ora mi pare giunto il momento di entrare in un altro personaggio, più confacente alla mia nuova condizione. Quale personaggio, Momo? Senz'altro uno che si mostra simpatico, mite e cordiale. Sarà bene che impari ad essere alla mano con tutti e accondiscendente, a ricevere di buon umore le persone, intrattenerle amabilmente, farle andar via contente, E tu, Momo, potrai far cose che contrastano a fondo con la tua natura? Certo che potrò, se voglio. E com'è possibile che lo voglia? Perché no? Attratto dalla speranza, spinto dalla forza delle cose e dai vantaggi che si prospettano, potrò ben modellare me stesso e adattarmi a quel che sarà utile. Vai avanti, Momo: otterrai da te stesso tutto quel che vuoi, e sarai capace di realizzare nel modo più brillante tutto ciò che non ti sarai precluso da solo. E poi? Perderemo per questo l'abitudine innata e inveterata di colpire? Neanche per sogno; però la terremo sotto controllo con un comportamento discreto, e conserveremo l'antica animosità contro gli avversari con un nuovo sistema per colpire di sorpresa. Penso, insomma, che gli uomini d'affari e chi ha un'intensa vita di relazione debbano comportarsi in questo modo: non dimenticare mai nel profondo del cuore le offese ricevute, senza lasciar trapelare il rancore in nessun caso, e adattarsi scrupolosamente alle circostanze, simulando e dissimulando; e, nel far tutto questo, non distrarsi un attimo, star sempre alle vedette, pronti ad afferrare i sentimenti di ciascuno, le sue ambizioni, i suoi pensieri, le intenzioni che ha, cosa si sta mettendo a fare, con chi è intrallazzato, di cosa ha bisogno, chi sono i suoi amici e i suoi nemici, quali sono le sue opinioni, le sue preferenze, le probabilità di successo negli affari e la linea di condotta che porta avanti. Dall'altra parte, devono saper nascondere le proprie ambizioni e i desideri con l'abile arte di fingere; sempre vigili, sempre all'erta, siano sempre pronti a non lasciarsi scappar l'occasione di farsi valere, quando gli si offre; devono aver sempre il pieno controllo di se stessi e non aver mai pietà per gli avversari, se non quando si vuol colpire più forte, alla stregua d'arieti, che prendono la rincorsa da lontano per caricare con più violenza; infierire sul nemico con le azioni più che con le parole, coi fatti più che con manifestazioni di aperta ostilità; tener ben coperta l'animosità interiore sotto un'apparenza amichevole e melliflua; pensare che i discorsi di ognuno possono essere tutti indistintamente pieni d'insidie; non credere a nessuno, ma far vista di credere a tutti; non aver riguardi per nessuno, ma abituarsi ad approvare e adulare chiunque in pubblico. Chi si mostrerà carrozzato in questo modo avrà fama di persona a posto, sarà apprezzato dagli intellettuali, tutti lo rispetteranno e cercheranno di compiacerlo, soprattutto quando si accorgeranno che conosce a puntino tutti i fatti loro, come se li avesse schedati; al contrario, se uno si lascia un po' andare, se lascia fare ai petulanti, se sopporta i rompiscatole, va a finire che se ne approfittano e diventano ogni giorno più sfacciati grazie alla sua pazienza, e che magari certi ubriaconi arroganti si sentiranno in qualche modo autorizzati a tormentarlo. C'è altro da aggiungere? In definitiva, una sola è la cosa che serve ricordare sempre e comunque: colorare bene e abilmente tutto quanto con le tinte fittizie dell'onestà e dell'incapacità di far male; conseguiremo brillantemente l'obiettivo se ci abitueremo a modellare perfettamente le parole, il viso e tutto quanto l'aspetto esteriore in modo da sembrare molto simili a quelli che sono ritenuti buoni e inoffensivi, per quanto siamo profondamente diversi da loro. Che ottima cosa saper celare e avvolgere nella nebbia i propri sentimenti con l'esperienza nell'arte colorita e ingannevole della simulazione!

Così Momo. Intanto Pallade e Minerva avevano deciso di lasciare alla libera scelta di Giove la decisione se si dovesse concedere o meno il sacro distintivo divino a un tipo ribelle e facinoroso come Momo. Per il momento, comunque, si mettono a parlare con l'esule con la massima amabilità, lo rinsaldano nelle sue speranze e gli consigliano di accettare l'insegna divina dalle mani del sommo re degli dèi piuttosto che da quelle di suoi delegati. Momo non si sottrae ad alcuna condizione pur di sfuggire ai terrestri, ed entra all'istante nel ruolo che si era imposto recitando brillantemente e con diligenza la sua parte con le ambasciatrici: simulando così ingenuità e bontà d'animo, si mette a piangere, e dichiara a capo chino di saper bene che valore abbia essere reintegrato nell'onore per mano del re degli dèi ottimo e massimo; ammette di sentirsi indegno di un premio così grande, comunque ce l'avrebbe messa tutta per dimostrare a Giove e agli altri dèi che lui non era affatto immemore e ingrato del beneficio ricevuto; pensava proprio di farcela, dal momento che aveva fermamente deciso di andare molto al di là delle aspettative delle persone buone con il suo comportamento retto, e sperava di sventare tutti i tentativi d'attacco degli invidiosi e dei suoi avversari con la pazienza e con tutte quelle buone qualità che inducono a sentimenti amichevoli e benigni; addomesticato dalla lunga disgrazia, prostrato dalle sventure, egli aveva imparato a sopportare le avversità e a rimanere calmo e rassegnato se qualche contrarietà veniva a intralciare i suoi progetti e i suoi desideri: ecco perché era diventato capace, senza più doverselo imporre, di non raccogliere le provocazioni e di dimenticare del tutto le offese ricevute; la sua massima aspirazione, insomma, era che gli venisse concessa l'opportunità di obbedire ossequiosamente ai buoni consigli di persone migliori di lui.

Dopo questa copiosa ed elegante dissertazione Momo, ormai vecchia puttana, aggiunse sospirando col volto compunto: "Ma che stiamo facendo? Andatevene, dèe, degne del cielo, tornate alla vostra beatitudine e lasciate questo sventurato, infelicissimo esule nell'abiezione e nello squallore; lasciatemi vivere nel dolore e nella solitudine e sopportare la sventura che mi opprime e mi distrugge, perché è così grande che non si può aggiungere nient'altro alla mia infelicità". Le dèe allora, mosse a pietà, lo consolarono a lungo; poi si misero Momo nel mezzo e se lo portarono in cielo. Quando Momo giunse al cospetto di Giove, continuando a far la parte del lecchino, abbracciò le ginocchia del re e chiese perdono e clemenza con parole ben misurate, ma non fu accolto da Giove con la benevolenza che avrebbe desiderato. Il fatto è che Giove era gonfio di rabbia nei confronti di Febo, quindi era preso dal problema di rimproverare Febo più che da quello di ricevere gli omaggi di Momo. Ma il povero Momo, all'oscuro del fatto, si abbatté completamente, pensando che si mettesse male fin dall'inizio; non sapendo a che santo votarsi, credeva di essere stato trascinato come un imputato davanti alla corte il giorno del processo, e cominciava a prepararsi la difesa per salvare la pelle, cercando il genere di discorso con cui scrollarsi di dosso la colpa per i suoi crimini, e ad abbozzare dentro di sé gli argomenti pietosi e strappalacrime coi quali rabbonire Giove. In questo frattempo torna Mercurio, che era stato mandato da Giove a indagare, e riferisce che Febo si sarebbe presentato in persona di lì a poco: non era come volevano insinuare le calunnie dei suoi nemici, che si fosse fatto trattenere dalle grazie di Aurora, né che non avesse voluto fare il suo dovere per superbia, ma gli era piombata addosso una massa enorme di voti, e questo gli aveva impedito di salire secondo la tradizione al castello reale di Giove per porgere i dovuti omaggi al re, come fanno gli dèi tutti i giorni. Allora Giove si rasserenò; poi disse, rivolto a Momo: "Questi tuoi voti, Momo, ci sommergeranno, se non ci si dà una regolata!"; poi rimase zitto per un po'. Questa frase di Giove fece subito sorgere nella mente di Momo l'ipotesi di aver provocato un certo scompiglio coi suoi voti, e ciò fece tanto piacere a quel tipo così smanioso di novità che non poté fare a meno di dimenticare la sua tristezza e manifestare la gioia che gli nasceva dentro. Si agitava tutto per lo splendido esito tanto desiderato delle sue trame, e diceva tra sé: "Mi vada pure a finir male, basta che abbia combinato qualche danno quassù, come mi sembra!".

Giove, intanto, si rivolse a Minerva e a Pallade: "Perché non avete riportato assieme a voi anche Virtù? Che fine ha fatto? Cosa sta combinando?". Le dèe allora risposero che esse, secondo la prassi istituzionale delle delegazioni, nel corso della loro missione avevano badato solo ed esclusivamente al loro specifico incarico, e che avevano avuto anche troppo da fare andando in cerca del solo Momo, perché questi se ne stava nascosto in luoghi solitari e desolati, come fanno i poveracci caduti in disgrazia. Allora Giove passò a domandare a Momo se avesse visto Virtù sulla terra. A questo punto Momo, preso dal dubbio atroce che quella domanda alludesse alla porcheria che aveva combinato, sbiancò in viso e ammutolì; ma si riprese subito e, con l'aria distesa di uno sicuro del fatto suo, disse sorridendo: "Non sai di già, eccellentissimo principe degli dèi, quel che succede ogni giorno sulla terra?". E Giove: "Lascia perdere quello che so io, rispondi alla domanda!". Allora Momo riprese a tentennare e a spaventarsi, non sapendo di preciso a che mirassero quelle parole, ma, sollecitato ancora una volta da Giove a rispondere, ripreso il controllo di sé, tornò all'arte della dissimulazione, che aveva cominciato così brillantemente a esercitare, e disse: "Mercurio, che è il più sveglio di tutti, se lo conosco bene, sa di certo dove si trova quella lì, lui che a buon diritto è innamorato fedele di Virtù, la più bella fra le dèe; e tu, Mercurio, quanto tempo lascerai che il tuo dolce amore ti manchi?". Allora Mercurio si mise a ridere e assicurò che lui, Giove e tutti gli altri dèi erano stati così presi da quell'unico problema dei voti che non gli era stato possibile badare a nient'altro, occupatissimi com'erano; pensava che aveva fatto benissimo la dea a tenersi lontano dalla seccatura di tante pratiche da sbrigare. Quel discorso rinfrancò ancora una volta Momo, che fu preso di nuovo da una gioia incredibile; poi, vedendo che la dea Virtù non era lì in mezzo a Giove e agli dèi, da quel gran figlio di puttana che era diventato si dispone totalmente alla finzione, con abile scelta del tono della voce, dell'espressione e dei gesti, e rifà il racconto delle sue peripezie che abbiamo seguito in precedenza, ma in maniera tale che, mentre tirava fuori le porcherie degli uomini, si sarebbe detto che volesse soprattutto difendere la loro causa e strappare il perdono per i loro errori. Comincia a raccontare prendendola molto alla lontana, poi, come se non l'avesse fatto apposta, ma sospinto dal filo stesso della narrazione, racconta in che modo alcuni signori avessero fatto irruzione nel tempio, gli dèi ragazzini terrorizzati dalla baraonda fossero rimasti indietro rispetto alla madre e si fossero salvati dalla temeraria insolenza di quella masnada di criminali mutandosi in varie forme. Aggiunge proprio a questo punto che anche lui aveva subito pesantissimi oltraggi, ed era riuscito a fuggire dopo aver perduto mezza barba. E così, proprio con questa maniera di raccontare, non trascurò nessun particolare che potesse servire a suscitare odio contro gli uomini, e ci mise tutta la sua forza di persuasione oratoria perché gli dèi si convincessero che quella era stata un'autentica infamia. A sentire il racconto di Momo, Giove e gli altri dèi lì presenti si erano naturalmente commossi, soprattutto per l'indegna disgrazia toccata alla dea Virtù; d'altra parte, non potevano trattenersi dallo sghignazzare apprendendo le ridicole disavventure di Momo. Quando li vide cotti a puntino, Momo esclamò: "Starà a voi giudicare quanto sia grande il mio buon senso a proposito di ciò che sto per dire: dal canto mio, posso garantire che è la scrupolosità della mia coscienza che mi spinge a fare questo discorso. Vedo bene, o Giove fondatore del mondo, che hai sistemato proprio al posto giusto, nella maniera più brillante, tutto quanto può servire alla bellezza e all'ornamento del tuo regno, ma forse, per quel che m'è lecito osservare, una cosa ti manca: non hai nessuno che ti informi delle cose che succedono tra i mortali, e quella gente, credi a me, non va affatto sottovalutata". Quand'ebbe detto queste parole, Giove, un po' soprappensiero, fece un cenno d'assenso e affermò che avrebbe voluto provvedere a quest'unica carenza, ma purtroppo nella schiera così numerosa dei suoi non c'era nessuno, secondo lui, abbastanza ben disposto e capace a cui affidare la missione. "Ma sì che c'è" intervenne Momo "qualcuno a cui affidare con tutte le garanzie di sicurezza questo incarico, e non ne troveresti un altro più abile e adatto! C'è mia figlia Fama, la più sveglia di tutti, e, cosa che fa proprio al caso, velocissima a piedi e in volo come nient'altro; e poi lei è così affezionata a me, mi rispetta tanto che ti posso garantire una cosa, in cambio del beneficio che mi fai: lei porterà a termine rapidamente e con la massima fedeltà e precisione tutto quel che tu le ordinerai, soprattutto se è cosa che riguarda me". Giove ringraziò Momo per il suggerimento e l'impegno assunto. E allora Momo disse: "Devo chiederti una grazia, Giove clementissimo, se si deve ritener grazia e non piuttosto obbligo una cosa del genere verso un supplice sventurato come me: caso mai venga fuori che lei è il frutto di qualche mia colpa amorosa, metti sull'altro piatto della bilancia i dolori che ho passato quando mi hanno strappato la barba!". Scoppiarono a ridere e, appresa tutta la storia, si mostrarono indulgenti.

L'arrivo di Giunone su tutte le furie interruppe queste risate; infatti, mentre si facevano quei discorsi al cospetto di Giove, Pallade e Minerva si erano allontanate dalla compagnia ed erano andate a ossequiare Giunone; memori del fatto che Giunone ce l'aveva con Momo e degli insulti che lui le aveva lanciato in passato, spiegarono alla dea per quale ragione non avevano più restituito a Momo il fuoco sacro che tenevano nella coppa preziosa. Giunone lodò il loro operato, poi si precipitò da Giove a testa alta, senza poter trattenere la rabbia, con gli occhi torvi, e disse che gli voleva parlare subito di una cosa molto importante, perciò fece allontanare i presenti e cominciò: "Per quale ragione, dico io, marito, ti vedo diventare ogni giorno più superficiale anche nelle faccende più serie? Ti sei scocciato di esser Giove, ti vergogni di esser ritenuto un re e di poter fare tutto quel che ti pare, visto che ti sei tirato addosso uno bell'e pronto a contenderti il potere? Cosa diavolo ti ha spinto ad apprezzare quel farabutto intrigante, che ha provocato una cosa che ti ripugna? Onorerai i nemici, perfino i più abietti, e permetterai che i tuoi cari siano trattati peggio di tutti, per quanto te ne frega? Ordini che si portino in cielo, anche senza che lo vogliano, banditi esiliati, gente che ne ha combinate di tutti i colori contro gli dèi, e respingi me, la tua Giunone, e le mie preghiere! Tu hai regalato a chi ti pareva palazzi d'oro, porte, tetti, scalinate d'oro, colonne d'oro, architravi d'oro, pareti affrescate e adorne d'oro e diamanti, mettendo completamente da parte tua moglie. Quelli là abitano i più splendidi palazzi; e chi sono, poi? Mercurio, il buffone degli dèi, quell'ubriacone di Marte e quella gran puttana di Venere. Ah Giunone infelice, Giunone che tu neanche vedi! O me sventurata, sono esclusa dalla beneficenza di mio marito! E casa mia per giunta, quella casa dove abitavo respinta, abbellita solo della sua immacolata purezza, tu, marito carissimo, l'hai riempita di quella schifezza di voti disgustosi: son proprio degna della mia perenne fedeltà e costanza verso di te, se mi scarichi addosso questa spazzatura! Ma sia pure permesso al re degli dèi ornare chi gli pare, e gli piaccia accogliere presso di sé il pericolo pubblico, questo Momo nefasto e scellerato, e metterlo a arte del potere, dimenticando se stesso e i suoi cari; permetta pure che le stanze di sua moglie siano insozzate da uno scolo di voti, al punto che perfino i cavalli di Febo si rifiutano di entrarci, schifati dalla puzza! A me però non va più di stare a lamentarmi a vuoto delle pesanti offese ricevute davanti a uno che si ostina a fregarsene; ti ho rotto le scatole abbastanza, Giove, ne ho abbastanza di frustrazioni. A che serve chiedere in eterno quel che viene sempre negato, a meno che uno abbia la smania di aggiungere continuamente qualche altra angoscia all'antico dolore? Non pregherò più, non continuerò di certo a dare un peso a me stessa col troppo pregare, diventando così per te oggetto di spasso, visto che non consideri niente la mia situazione impossibile e dici di no a tutte le mie preghiere. Tu continua ancora a dir di no e a fregartene di quello che sarebbe tuo dovere concedere spontaneamente. Ma forza, rispondi se ne hai la faccia: visto che hai fatto tanto per i comodi degli altri, anche quelli d'infimo rango, non sarebbe stato opportuno provvedere anche al fatto che non era giusto che tua moglie avesse una casa più indecente rispetto a tutta la massa del popolino celeste? Quanto costava a Giove ottimo massimo elargire a sua moglie che lo pregava in lacrime quello che hai concesso di tua iniziativa perfino ai più miserabili? E se avessi avuto pretese più alte? Infatti non ti chiedevo nulla di più che di permettermi di usare le sole offerte d'oro dei mortali per abbellire il mio palazzo; non riuscirò mai a ottenere una cosa come questa, io che sono tua moglie, per quanto ti preghi e ti supplichi da tanto tempo? Marito mio, sarai sempre cattivo con Giunone? E se nel mio interesse non riesco a piegarti in mio favore, almeno, marito mio, permettimi di darti un consiglio nell'interesse tuo: guarda attentamente chi accogli, a chi dai credito, a chi affidi te stesso, le sorti e l'autorità del tuo potere: per poco che avrai conosciuto questo Momo, ripenserai tante volte a quel che ti ho detto".

Così disse Giunone, poi, dopo essersi asciugata con un velo delicato un paio di lacrimucce, manifestò a Giove i suoi timori sui sentimenti di Momo verso di lui, e impiegò tutta l'arte oratoria di cui era capace per insinuargli dentro i pungenti aculei del sospetto; subito dopo riportò il discorso sulla richiesta delle offerte. E Giove le rispose: "Dovrei dire anch'io per quale ragione, moglie, non mi capita mai di non vederti arrabbiata! Mi dispiace per te e le tue preoccupazioni, che, per quanto molto lievi, vedo che sono più che sufficienti a metterti in agitazione. Che diavolo fai, Giunone? Andrai sempre in cerca di nuovi pretesti per tormentarmi? Di che cosa mi dovrei giustificare? Hai detto che vuoi avere le offerte d'oro per fabbricare. Non ti basta questo nostro palazzo dove vivi nel massimo splendore, che vuoi costruirtene di nuovi? Ma prenditela vinta, moglie, prenditi pure le offerte d'oro, prendi da questo ostinato strafottente quel che comandi! Tu però non continuare a impormi questa tua regola di mandare sempre all'aria quel che io vorrei fosse fatto. Metti via queste diffidenze ‑ preferisco chiamarle così, anziché gelosie ‑ e d'ora in poi aspettati qualcosa di più da Giove! Io, infatti, non mi sono dimenticato d'esser Giove al punto di non riflettere sul da farsi prima di metterlo in atto, e anzi sto a considerare che cosa mi conviene in modo da non dovermi mai pentire di una mia decisione. Sono i superficiali e gli irriflessivi, piuttosto, che si lasciano distogliere dai loro propositi a ogni leggero sospetto (e di sospetti è piena ogni cosa). Questo non vuol dire, tuttavia, che io non sia disposto ad accettare i tuoi consigli, ma non ne posso proprio più di dover essere assillato in qualunque modo da ambigue delazioni. E tu, Giunone, non guardar storto Giove quando ti dà buoni consigli; una cosa vorrei ottenere da te, e te l'ho chiesta in eterno senza risultati: prima impara a ubbidire, Giunone, poi esamina pure e critica le decisioni e gli atti di chi comanda. Nel frattempo, Giunone, moglie mia, ottieni pure quel che desideri, Giove lo vuole, Giove te lo dà".

Così disse Giove, e volle sembrare più infervorato nella questione di quanto non fosse, sia per respingere la veemenza della moglie sia per esprimere meglio la sua ira contro Pallade per non avere eseguito il suo ordine durante la missione; anzi, alzò tanto la voce a questo proposito da farsi sentire bene dalla cerchia degli dèi che stavano a una certa distanza. Mandata via Giunone, se ne stava in silenzio rimuginando tra sé sul conto della moglie; tutti gli altri dèi erano ammutoliti, sbigottiti per il malumore del re. Ma il caso volle che Giove e con lui tutti gli dèi fossero mossi al riso dal modo di fare inatteso di Momo. Mentre Giunone aveva con Giove il battibecco che abbiamo visto, Momo aveva domandato a Mercurio com'era possibile che i voti avessero impedito a Febo di andare a rendere omaggio a Giove. Mercurio gli aveva risposto così: "C'erano tanti motivi per non prendere in considerazione i voti degli uomini, in particolare il fatto che erano pieni di sciocchezze: e infatti non li si prendeva in considerazione. Proprio per questo Giove e tutti gli altri dèi avevano deciso di farne piazza pulita, eliminandoli dalle nostre dimore celesti. Per non dir altro, tra i voti ce n'erano di quelli di gente che voleva messo a posto il naso storto, gli occhi gonfi, un ascesso, e anzi si era arrivati al punto veramente insopportabile che avevano il coraggio di far voto agli dèi perché avevano smarrito un ago o un fuso. Ma questo non era ancora niente; la cosa peggiore è che avevano riempito tutte le corti del cielo di quelle porcherie puzzolenti e nauseabonde di cui la maggior parte dei voti era infarcita: odio, paura, rabbia, dolore, tutto il marciume e la corruzione che si attaccano in fondo al cuore umano. I celesti erano disgustati e inorriditi soprattutto dal fatto che saltavano fuori perfino voti fatti per ottenere la morte violenta di genitori, fratelli, figli e soprattutto mariti. Devo dirti la più odiosa? Avevano anche il coraggio di far voti per chiedere la distruzione e lo sterminio d'intere città e nazioni! Si dibatté a lungo, divisi in due schieramenti, se tutte quante le offerte votive dovessero essere respinte e mandate via dal cielo; alla fine prevalse il parere di chi suggeriva di trattenere le offerte d'oro. Il guaio è che a questo punto, anche dopo il rifiuto delle offerte, i mortali, ormai abituati a fare un sacco di richieste coi voti, non la finiscono più di ammassare voti su voti, per quanto non vengano esauditi, quindi con quell'ammasso incredibile di voti ingolfano l'atmosfera, viene ostruito il passaggio a Febo, il cortile di Giunone ne è interamente cosparso, perfino gli dèi stessi son pronti a scendere in lotta a causa dei voti. Perciò tu, Momo, con questa tua trovata, dai del filo da torcere a tutto il cielo e a tutti i celesti!".

A sentir questo discorso di Mercurio Momo nella sua gioia non poté trattenere una fragorosa risata, che fece voltare tutti verso di lui. Quando gli chiesero cosa diavolo ci trovasse da ridere, recuperò subito, da vero camaleonte, e disse: "Rido di cuore, Mercurio, perché dicevi che i mortali vi chiedevano coi loro voti di rimettergli in sesto quelle facce brutte e mal lavorate. Bisognerebbe allora che tutti voi dèi foste mastri artigiani per queste ragazze, se per aggiustarne una sola come vorrebbe lei non c'è abilità artistica che basti! Guarda che bei musi si portano da casa!". Allora Giove scoppiò a ridere, divertito più che dalle battute di Momo dal suo modo di muoversi come un buffone (ce l'aveva proprio messa tutta a rendersi ridicolo); poi invitò a cena gli dèi lì presenti, Momo in particolare, avendo voglia di ridere ancora. Riderai di Giove e di Momo, lettore, e resterai ammirato: non è facile dire, infatti, quanto sia stato bravo Momo in quella cena a fare il buffone tra una portata e l'altra nella sorpresa generale, raccontando un sacco di guai che gli erano capitati durante il suo esilio, divertenti e istruttivi. Raccontò anche di aver voluto provare tutti i sistemi di vita degli uomini e le loro professioni, per adagiarsi tranquillo in quello più comodo, quando l'avesse scoperto; si era applicato in ciascuno di essi per riuscire a diventarne un esperto, unendo una scrupolosa preparazione all'esperienza e alla pratica, però non ne aveva imparato nessuno in modo tale da sembrare abbastanza ferrato ai suoi stessi occhi, anzi aveva scoperto che è tipico di ogni disciplina che più cose utili s'imparano in teoria e nella pratica, più ci si accorge che ne restano da imparare. Era arrivato alla conclusione che tutte quelle maniere di vivere che godono altissima reputazione tra gli uomini sono molto meno utili e meno adatte al bene e beato vivere di quanto pretendano i consueti ragionamenti dei saggi; per cominciare dalle più importanti e conclamate, gli era parsa molto conveniente in un primo momento la carriera militare, soprattutto perché è per mezzo di essa che le classi dirigenti si formano, conquistano posizioni di potere, conseguono il premio della fama tra i posteri. Oltretutto, il pensiero di essere immune da pericoli grazie alla sua immortalità lo spingeva a vedere nella vita militare la strada più adatta a lui: era stato perciò un soldato, aveva dato prova di valore, era arrivato infine a comandare un esercito, aveva schierato truppe, diretto le manovre navali, aveva visto le iscrizioni trionfali delle sue numerose vittorie ricevere spesso il plauso e i festeggiamenti dei cittadini; ben presto però aveva detestato la vita del campo, gli stendardi, le armi, le trombe, tutto lo strepito fragoroso dei guerrieri: e questo non per sazietà, per una forma di nausea dei ripetuti successi, ma per un motivo giusto e retto, da vera persona sensata: infatti in tutto ciò che è collegato con la vita militare non riusciva a trovar niente che avesse l'aria dell'equilibrio, che non fosse l'esatto contrario della giustizia; in tutta quella moltitudine di uomini armati non vedeva il minimo senso di umanità e pietà, tutto era trascinato alla convenienza personale, alla considerazione ambiziosa del proprio momentaneo vantaggio, passando per ogni sorta di violenza ed empietà; i premi non erano sicuro appannaggio dei valorosi, ma dipendevano tutti dalle opinioni di una massa incompetente; le azioni e i piani erano giudicati in base al successo, e le ricompense non venivano attribuite al valore, ma all'audacia temeraria. Per non parlare dei pericoli e delle fatiche che bisognava affrontare, al sole in mezzo alla polvere, di notte sotto la pioggia a cielo scoperto; e poi c'era da farsela in mezzo a gente disposta a rimetterci il sangue e la vita, avida del sangue altrui, corrotta, senza religione, di una crudeltà spaventosa; in fondo alla canaglia degli sciagurati, dei criminali banditi dalla patria per i delitti commessi; in mezzo alla rovina, al fragore, al fumo e alla cenere dei templi che crollano! Momo, insomma, assicurava che in tutta la vita militare non aveva trovato niente che gli piacesse almeno un po', a parte il fatto che qualche volta manipoli e battaglioni in preda a esaltato furore si lanciavano a passo di carica verso lo scontro armato: era davvero uno spettacolo vedere quella mostruosa, pestilenziale concentrazione di esseri umani in corsa verso la morte, nello strazio di sé e dei loro simili, farsi a pezzi con le proprie mani! Momo aveva poi desiderato anche diventare re, in quanto giudicava il potere regio il più vicino alla maestà divina, e aveva dato un grande valore, una volta, al fatto di essere temuto e rispettato da una folla sempre a sua disposizione, pronta ad ossequiarlo e a pendere dalle sue labbra, e così pure di vivere in splendidi palazzi, incedere in mezzo agli onori, dare feste e banchetti sontuosi. All'inizio temeva che gli sarebbe stato molto difficile raggiungere quella meta, poiché vedeva che molti si erano battuti invano per conquistarla, a prezzo di enormi fatiche e a rischio della vita, ma ben pochi c'erano riusciti; poi però aveva osservato che erano aperte due vie al principato, brevi e niente affatto difficili: una, basata su lotte di parte e cospirazioni, si percorre a forza di saccheggi, vessazioni, distruzioni, abbattendo qualsiasi ostacolo si frapponga al proprio cammino; l'altra via al potere, invece, procede in linea retta da una preparazione ad alto livello, dall'osservanza dei buoni costumi e dall'ornamento delle virtù; essa richiede la capacità di diventare, e mostrarsi a tutti, una persona ritenuta degna di rispetto e devozione, la sola a cui rivolgersi nei momenti difficili, alle cui decisioni e al cui parere tutti si abituino a dare il massimo rilievo. Sulla terra, infatti, non c'è animale più riluttante alla sottomissione dell'uomo; eppure non se ne può immaginare uno più incline dell'uomo stesso alla mansuetudine e all'arrendevolezza. Momo sapeva però che esercitare il potere non è certo da tutti: se gli animali privi di senno e le fiere selvagge sono retti da un istinto naturale che li tiene a freno sotto una precisa forma di disciplina, perché non dovremmo riuscire a governare con metodi razionali l'uomo, incline per natura alla solidarietà e al controllo imposti da una vita di relazione, dal momento che ubbidisce spontaneamente, come si può vedere, senza bisogno di coercizione a chi sa dare ordini giusti e retti? Affermava però che il potere, una volta ottenuto o conquistato, è una cosa che senza dubbio logora chi ce l'ha. Cosa c'è nella vita, infatti, di più duro e faticoso di una posizione in cui, quando la si è raggiunta, bisogna trascurare i propri interessi e occuparsi di quelli degli altri, riservare da soli la propria attività e le proprie energie alla sicurezza della pace e della tranquillità di molti? A queste osservazioni Momo aggiungeva anche che le cariche pubbliche vanno tutte incontro al gravissimo inconveniente che, se le si esercita da soli, non si è mai all'altezza, se invece ci si serve di collaboratori la cosa si presenta estremamente rischiosa; comunque, essere superficiali nell'esercizio del proprio ufficio, oltre che vergogna e disonore, arreca anche disastrose conseguenze. In conclusione, se si considera con una certa attenzione ciò che va sotto il nome di potere ci si rende conto che si tratta di una sorta di pubblica schiavitù a faccende che è meglio evitare, decisamente intollerabile. Quanto al resto, Momo aveva deciso in partenza di lasciar perdere tutte le attività economiche e finanziarie, perché l'abbondanza e la pratica dell'accumulazione generano sazietà e noia, e poi, se si è spinti dall'avidità a desiderare più del necessario, possono anche portare a una forma di ansia gretta e meschina. Per concludere, diceva di non aver trovato alcun genere di vita che valesse la pena di scegliere e desiderare in tutti i suoi aspetti, tranne quello di coloro che vanno in giro a chiedere l'elemosina, i cosiddetti vagabondi. Si mise allora a dimostrare con molto spirito e ricchezza di argomenti che questo è davvero l'unico sistema di vita agevole, chiaramente vantaggioso, privo di disagi, ricco di libertà e di piacere; e sosteneva tra l'altro: "Dicono i geometri che tutto quel che c'è da sapere nella loro professione lo conosce altrettanto bene un principiante che un esperto, una volta che l'ha imparato. Succede pressappoco la stessa cosa nell'arte del vagabondaggio: nello stesso breve spazio di tempo in cui la si apprende, eccola già bell'e nota e assimilata. C'è una sola differenza: chi vuol fare il geometra ha bisogno di un altro geometra che gli insegni il mestiere, invece il vagabondaggio si apprende senza bisogno di alcun maestro. Ogni altra forma di professionalità richiede periodi d'istruzione, la fatica del tirocinio, esercizio continuo, una rigorosa programmazione, e poi sono necessari sussidi didattici e altri strumenti di lavoro di cui questa sola arte non ha affatto bisogno. Quest'arte sola si regge con sufficienti garanzie sulla completa indifferenza per tutte quelle cose che si ritengono indispensabili nelle altre arti, e sulla loro mancanza. Non c'è bisogno di mezzi di trasporto, di una nave o di una bottega; non si deve aver paura dei mangiapane a tradimento, delle rapine, della congiuntura sfavorevole. Non c'è da investire nessun capitale tranne la povertà e la faccia tosta nel chiedere, e tutto il lavoro da fare per perdere i propri beni e chiedere quelli degli altri consiste solo nel volerlo. Inoltre il vagabondo mangia alle spalle degli altri, occupa il suo tempo come gli pare e piace, chiede liberamente, non ha problemi a dire di no, prende da tutti, perché anche i poveretti offrono volentieri, e le persone agiate non si tirano indietro. Che dire poi della loro libertà, della loro maniera di vivere anarchica? Ridono, lanciano accuse, fanno critiche, blaterano quanto gli pare senza mai doverne pagare le conseguenze. Il fondamento essenziale del loro potere sta proprio nel fatto che gli altri ritengono un disonore mettersi a disputare con un vagabondo e considerano una colpa alzare le mani su uno che non ha mezzi per difendersi. Poter fare quello che si vuole senza nessuno che stia a censurare le tue parole e le tue azioni: ecco un sostegno e un valido mezzo di conservazione del potere! Non concederò neppure ai re il vantaggio di potersi servire delle ricchezze meglio dei vagabondi: sono dei vagabondi i teatri, dei vagabondi i portici, dei vagabondi qualunque luogo pubblico! Gli altri non avrebbero il coraggio di mettersi a sedere sulla piazza o di parlare con la voce un po' alterata e, temendo le occhiatacce dei benpensanti, si comportano in pubblico sempre secondo le buone norme, senza mai seguire le loro inclinazioni istintive. E tu invece, vagabondo, ti sdrai in mezzo alla piazza, alzi la voce liberamente, fai tutto quello che ti va assecondando i tuoi desideri. Nei tempi duri gli altri stanno a consumarsi in silenzio tutti mesti, tu canti e balli. Se al potere c'è un principe cattivo gli altri fuggono a peregrinare in esilio, tu frequenti le feste di corte. Il nemico vincitore imperversa: tu solo del tuo popolo non hai paura a stargli di fronte. E quel che ciascuno ha messo insieme dopo grandi fatiche, rischiando anche la pelle, tu glielo chiedi come fossero primizie a te dovute. Un'altra particolarità molto conveniente è che nessuno ha invidia di chi vive in questo modo, e anche tu non hai invidia per nessuno, in quanto non vedi negli altri niente che tu non possa facilmente ottenere, se vuoi. Inoltre la condizione del vagabondo si adatta così facilmente a qualsiasi altra professione che dovunque egli abbia messo mano ci fa una bellissima figura, il che non si verifica certo per le altre categorie d'uomini: infatti si accusa di superficialità chi cambia sempre mestiere, e ogni volta che lo fa ha un bello spreco di energie. Penso che non si debba dare ascolto a chi va dicendo che la maniera di vivere dei vagabondi presenta un sacco d'inconvenienti. Posso affermare in base alla mia esperienza che in tutte le altre professioni mi sono imbattuto in un gran numero di difficoltà e di fastidi di cui avrei fatto a meno volentieri. Infatti a qualunque attività sono strettamente connessi molti aspetti pesanti e fastidiosi, che bisogna tuttavia sopportare se la si vuol esercitare; invece solo nell'arte e nella disciplina (chiamiamola così!) del vagabondaggio non ho mai trovato nessuna cosa che non mi piacesse in tutto e per tutto. Tu vedi i vagabondi vestiti leggeri a cielo scoperto, coricati sulla dura terra, e li disprezzi, li guardi schifato come fa la maggioranza. Bada però che non siano i vagabondi a disprezzare te e tutti gli altri. Tu ti dai un sacco da fare per gli altri, il vagabondo non muove un dito per te né per gli altri, quel che fa lo fa per sé. C'è proprio bisogno di dire quanto siano degne d'un uomo sciocco e insensato certe cose che la maggioranza ammira, come la toga, la porpora, l'oro, la mitra e roba del genere? Chi non si metterebbe a ridere a vederti camminare tutto impacciato dall'intrico dei vestiti che ti pesano addosso, per piacere agli occhi altrui? Questo il vagabondo non lo fa, perciò ride. E tu, se sei una persona di buon senso, non cercherai di non essere infastidito dal peso dei vestiti, non ti rifiuterai di aver le membra oppresse e soffocate pur di seguire la moda, per sembrare più ricco ed elegante? Usiamo i vestiti per coprirci, non per metterci in mostra! Chi ha vestiti per ripararsi dalla pioggia e dal freddo è ben messo quanto basta all'utilità pratica e al naturale decoro. Il vagabondo si corica per terra: embè? Quando si ha sonno, si dorme forse con gli occhi meno chiusi sul nudo pavimento che in mezzo alle coperte? La natura ha dato le piume ai cigni perché si coprissero, non per farne letti raffinati: se si avesse un sonno profondo quanto il materasso su cui ci si corica, non c'è dubbio che si dormirebbe moltissimo e bene. Con l'abitudine, il posto per riposare che la natura ci concede diventa ogni giorno più soffice e più salutare, e se mancano le comodità il sonno farà da cuscino agli uomini stanchi.

Se un vagabondo si mette a fare un discorso, anche se dice le stesse cose del primo oratore ingualdrappato che capita, chi avrà mai un pubblico più fitto? Chi ascolteranno con più attenzione? Quali perorazioni desteranno una commozione più grande? Chi susciterà approvazioni più calorose durante l'intero discorso? Grande è l'autorità di questa categoria d'uomini nei frangenti più gravi, nessun'altra ne ha di più. Non capita spesso di vedere che le cose che dice un vagabondo ubriaco in preda al delirio vengono accolte come vaticini e le si applica anche a questioni molto serie, come se fossero responsi di un oracolo? Su questo, comunque, torneremo magari un'altra volta; riprendo a parlare di me. Sai che valore aveva il fatto che io mantenessi sempre lo stesso equilibrio, senza agitarmi in un senso o nell'altro, nelle situazioni difficili? È una qualità che tu desideri, Giove, principe degli dèi, se hai buon senso, e che vorresti ardentemente conquistare. Cos'altro serve di più a godere la tranquillità, a dar prova di grandezza e a fare onore alla propria autorità, che avere un equilibrio che permetta di non cambiar mai linea di condotta, qualunque cosa accada? Arrivavano gravi notizie, accolte con orrore da tutti gli altri terribilmente impauriti: liquidi mai visti sgorgavano dalla dura roccia, s'erano accese fiamme in mezzo alle sorgenti, le montagne avevano preso a cozzare tra loro. La massa era attonita, le classi dirigenti in trepidazione, ogni cosa in preda al panico e all'ansia per quel che sarebbe avvenuto. Alcuni si mobilitavano per la salute pubblica, altri erano presi dalla smania di conservare i propri privilegi, agitati dalla speranza e dal timore. Momo invece, privo di angosce, dormiva tranquillo comunque si rigirasse, non avendo niente da sperare o da temere; e tra una pennichella e l'altra soleva dire così: 'Cosa vuoi che sia, Momo, e a te che importa di cose come queste, non avendo niente da perdere?'. Si parlava di fatti prodigiosi: alcuni avevano cavalcato su una strada tracciata sul mare; altri avevano fatto passare una flotta per monti e foreste; altri avevano scavato le montagne e avevano guidato i loro carri tra le rocce fino in fondo alle viscere della terra, altri avevano dato la scalata al cielo su di un'immensa catasta, altri ancora avevano strappato al mare fiumi e laghi prosciugandoli, e avevano racchiuso distese d'acqua dentro l'arida terra. Tutti erano pieni di meraviglia e di stupore di fronte a questi fenomeni, invece Momo diceva sempre così: 'Anche in questo caso, Momo, niente che ti riguardi'. Si diceva che i più ricchi e potenti re della terra si attaccavano tra loro con eserciti sterminati, il cielo era coperto di frecce, i corsi d'acqua erano ostruiti dai cadaveri, il mare si alzava per il sangue dei caduti. A sentire queste notizie tutti gli altri ondeggiavano in preda a vari sentimenti, secondo i loro interessi e le loro passioni di parte; solo Momo continuava a dire: 'Anche questo, Momo, non ti riguarda'. Si vedevano terreni in fiamme, devastazioni, saccheggi, si sentiva il lamento dei caduti, il fragore dei tetti che crollavano, le urla di chi era stato colpito dalla disgrazia; si esitava, si trepidava, si correva da tutte le parti; grida, fracasso, confusione in tutte le strade e gl'incroci; ma Momo sbadigliava, sdraiato a sognar donne nude, e non chiedeva nemmeno cosa significasse tutto quel baccano, se non qualche volta, con indifferenza e anche un po' di fastidio. Se poi qualcuno si metteva e deplorare davanti a lui sconvolgimenti così grandi e tempestosi, Momo diceva strofinandosi una gamba: 'Nemmeno ora c'è niente che ti possa preoccupare, Momo; dormi!'. Che altro infine? Per prendermi gioco di tutta questa gente in preda a tanta agitazione, quando li vedevo, raccolti in cerchio con le teste che si toccavano, macchinare qualcosa in gran serietà, correvo subito lì, mi piazzavo vicino, mi rivolgevo a loro chiedendo in continuazione di fare la carità a un poverello; quelli si arrabbiavano, io ero felice di fare l'importuno; quelli si scaldavano a rimproverare la mia antipatica buffoneria fuori luogo, e Momo rideva!".

Così raccontava Momo tra le risa di tutto quanto il cielo, ma Giove, quando ne ebbe abbastanza di ridere, interruppe il racconto di quelle spiritosaggini: "Ehi, Momo! Succede anche ai vagabondi d'invidiarsi l'uno con l'altro, come dicono che fanno i vasai ed i fabbri?". E Momo: "Ma chi dovrebbe invidiare uno che fa ostentazione della sua miseria?". Giove allora: "Se non sbaglio, chiunque potrebbe invidiare uno che è tanto miserabile, e vorrà sembrare degno di compassione anche lui. Se non è così, devo ammettere che questo tuo vagabondaggio non è solo privo d'inconvenienti, come dicevi tu, ma straordinariamente indicato per raggiungere la tranquillità e il massimo della felicità, al punto che lo preferirei alla beatitudine di noialtri dèi. Oh che grandissimo malanno l'invidia! Oh l'invidia, che grandissimo malanno!". Momo rispose: "Mi spingi ad accusare me stesso, Giove ottimo e massimo! Ne sentirai una bella. C'era tra i filosofi un raro esemplare di fannullone, uno che, se l'avessi visto, l'avresti senz'altro creduto il primo sciagurato di questo mondo: si faceva notare particolarmente, in mezzo ai vagabondi, per com'era combinato. Ora te lo descrivo bene: aveva la faccia schiacciata, il mento rugoso, la pelle screpolata, tutta pustole, che gli calava giù dalle guance come a un bue, il viso nero come il carbone, gli occhi gonfi e sporgenti all'infuori, uno pesto e l'altro mezzo cisposo, tutt'e due insieme storti e strabici; aveva un naso così grosso da far pensare a un naso ambulante. Camminava con la testa curva, inclinata sulla spalla sinistra, il collo allungato e ripiegato: avresti detto che non guardava il suolo con gli occhi, ma con un orecchio; una scapola gli si gonfiava in una gobba pesante; l'andatura era a passi lunghi e larghi, lentissima, eppure barcollava a ogni pie' sospinto per le gambe fiacche, come se una lunga malattia gli avesse rammollito le articolazioni. Non parliamo poi del vestito e di quel che si portava appresso, le bisacce tutte rattoppate, il tabarro antenato di tutti i tabarri, dove avevano fatto il nido mille topi con le doglie del parto; portava appesi a una spalla un sacchetto, un paniere e un vaso da notte zozzi e puzzolenti da morire. Devo ammettere di aver forse invidiato qualche volta quest'uomo, non perché era così conciato, ma perché mi accorgevo che a tanta gente sembrava degno di pietà, mentre si meritava odio più che pietà. Un'altra cosa che mi dava fastidio era vedere fin troppi vagabondi a passeggio in piazza. Però l'unica cosa del vagabondaggio che non riuscivo a mandar giù era quando i ragazzini scatenavano contro di me certi cagnetti latranti che si lanciavano coi denti in fuori sui miei calcagni scoperti. So che non è facile farvi capire quanto siano molesti quei monellacci, ma se fastidi del genere capitassero agli dèi massimi, non riuscirebbero a trovare nulla di più spiacevole in tutto l'universo. Comunque sorvoliamo, e torniamo al punto. Tra i mortali, dunque, non si può trovare una maniera di vivere più comoda di quella dei vagabondi, se è vero, com'è vero, che è facile e fornita di tutto, nessuna disgrazia li può colpire, nessuna cattiveria può portargli via qualcosa, non ci si può trovare nessun motivo per lamentarsi". "Sciocco che sei stato" intervenne Giove "a lasciare tante belle cose per salire tra i celesti! Cosa vai a raccontare, Momo, che non hanno potuto nulla contro di te sulla terra cose che fanno un gran danno quassù tra noi! Dove non arriva la cattiveria?". A questo punto Momo si mise a giurare che non era mai stato così poco toccato da preoccupazioni come quand'era un vagabondo, e che nel far quella vita non aveva mai avuto dolori se non una volta sola, per una storia futile in sé, ma che meritava comunque d'esser raccontata. Gli era capitato d'imbattersi in uno schiavetto uscito fresco fresco dall'ergastolo, che colpiva col bastone un asino che tirava calci e non ne voleva sapere di camminare. All'inizio era scoppiato a ridere di uno che montava su tutte le furie a quel modo, ma poi gli era tornato in mente quanti debiti hanno i poveracci con gli animali da soma: caso mai non ce ne fossero, andrebbe a finire che i ricchi si farebbero portare in spalla dai poveri. Allora, indignato, aveva incominciato a rimproverarlo così: "Selvaggio con due zampe, pecorone, la vuoi smettere di fare il matto? Non ti rendi conto di quanta riconoscenza si debba a questa razza d'animali, che se non ci fossero, tu e i tuoi pari portereste sacchi e bagagli al posto delle bestie da soma?". Questo aveva detto Momo; ma quello là, bestione com'era, lasciò perdere l'asino e si diresse contro chi lo rimproverava, dicendo: "E allora perché non le prendi tu al posto dell'asino?", e con lo stesso bastone con cui aveva battuto l'asino riempì Momo di botte. C'erano per fortuna alcune brave persone, che riuscirono a bloccare lo schiavo coi loro rimproveri, ed espressero a Momo il loro rammarico per l'accaduto; ma lui aveva risposto che se l'era andata a cercare, perché, dopo aver raggiunto l'indifferenza per le più grandi tribolazioni degli uomini, si era lasciato commuovere dai guai di un asino.

Giove, conquistato dalla parlantina brillante di Momo, gli disse che poteva sentirsi di casa nel suo palazzo, cosa che lui si mise subito a fare, in forza del comando di Giove. Guardate un po' adesso che potenza ha il favore di un principe verso qualcuno, la faccia che gli fa: non appena gli dèi videro Momo, il pericolo pubblico del cielo, emarginato, guardato di traverso, antipaticissimo a tutti, diventato caro al principe e suo intimo, cominciarono subito a pensar bene di lui, a ritenerlo degno di ricevere le loro profferte d'amicizia, il loro rispettoso ossequio: e così gli dèi uno per uno facevano a gara nel far visita a Momo, nel rendergli omaggio, nel cercare di compiacerlo in tutti i modi con le parole e coi fatti.

A tutto questo movimento prendevano parte insieme a quasi tutti gli altri anche Pallade, la dea mascolina (se si può dir così), e Minerva, onore e luce di tutte le arti; varrà la pena a questo punto seguire il comportamento di Pallade e Minerva, per riconoscere anche tra gli dèi la natura delle donne. Esse infatti erano indotte a riflettere per benino sulla loro posizione pubblica e privata dal fatto che un principe beatissimo come Giove, a cui non rimaneva altro desiderio che di godere una gioia eterna, si divertisse della buffoneria di Momo; tutt'altro che ignare del potere che hanno sull'animo di ciascuno certe paroline infamanti buttate lì al momento opportuno ‑ soprattutto da parte di chi gode di libero accesso presso di te, libero o impegnato che tu sia, erano già da un po' vivamente preoccupate e, ricordando che Momo aveva subito da loro un'offesa recente a proposito del fuoco, avevano validi motivi per temere che quell'attivo frequentatore della corte stesse preparando qualche tiro con la sua assidua presenza così divertente. Ma, siccome erano femmine, ragionarono da femmine, senza il minimo senso dell'opportunità. Minerva, infatti, si mise a parlare con Momo con l'arte oratoria di cui era esperta, facendogli così conoscere tutta la faccenda del fuoco sacro, di cui lui era all'oscuro, mentre cercava di convincerlo che non c'era stata mancanza da parte sua, allo scopo di defraudare Momo di un simile dono divino, e gli chiarì i motivi della mancata consegna affermando che non le sarebbe mai passato per la testa di impedire in qualunque modo a Momo, così benemerito verso di lei e la schiatta divina, di tornare col massimo onore tra gli dèi, secondo l'espressa volontà di Giove; ma ammetteva il suo errore, non aveva avuto il coraggio di contraddire le richieste in tal senso di una dea armata e prepotente come Pallade; non c'era da stupirsi, del resto, che Pallade ci avesse provato, visti i debiti di riconoscenza che aveva con la dea Frode, c'era anzi da guardare con una certa indulgenza al fatto che due dèe, accomunate dalla stessa passione, si fossero date aiuto a vicenda nel tentativo di non accrescere la gloria di un avversario. Lo pregò infine di non prendersela con lei, ma di mettere alla prova in futuro le sue buone intenzioni verso di lui, piuttosto che averla in antipatia senza motivo.

Momo si sentì prendere da una rabbia feroce, ma, risoluto a simulare e dissimulare in ogni occasione, si liberò di Minerva con poche parole blande e moderate, assicurandole, fra l'altro, di non voler raccogliere assolutamente l'offesa, soprattutto per non andarsi a cercare quel fastidio che di solito accompagna il desiderio ansioso di prendersi la rivincita; si augurava che da allora in poi i suoi nemici e denigratori avessero sentimenti più buoni, e se poi non avessero smesso di attaccarlo, lui comunque avrebbe ritenuto suo preciso dovere mostrarsi tollerante con gli avversari, facendo così vedere a tutti com'era diventato buono e caro il povero Momo dopo tante disgrazie. Ricevuta questa risposta, Minerva se ne andò, ma era quasi appena uscita dal palazzo quando Pallade, spinta dagli stessi presentimenti, spuntò davanti a Momo e cercò di convincerlo che erano state le astuzie di Minerva a trascinarla a non comportarsi bene con lui: era enormemente pentita di questa mancanza e chiedeva perdono. Continuando a dissimulare, Momo si comportò con Pallade non diversamente da prima con Minerva; si sentiva però bruciare talmente di dolore e di rabbia che tratteneva a stento le lacrime. Il dolore di Momo fu sollevato dall'arrivo di Temi, messaggero degli dèi, che era venuto per ordine di Giove a invitare Momo al banchetto per la festa di Ercole. Giove infatti desiderava rendere piacevolissima con l'umorismo di Momo anche la cena di Ercole, come parecchie altre precedenti. Ma andò a finire in modo molto diverso dalle sue intenzioni: durante la cena, infatti, i commensali si scambiavano un sacco di battute, ed Ercole in particolare raccontò alcune barzellette, quando a un certo punto fu chiesto a Momo di raccontare quella vecchia storia di come fosse scappato via in mezzo ai filosofi con la barba strappata. Momo, vedendoli pronti a ridere alle sue spalle, perse la pazienza; non poteva sopportare che non fosse bastato, a Giove e agli dèi, ascoltare quella storia un paio di volte, riassunta in breve, ma la volevano sentire di nuovo, in un banchetto a cui partecipava il fior fiore delle autorità divine, per spassarsela con Momo come fosse una pietanza anche lui, il piatto forte della serata! Così, lui che fin'allora con la sua disponibilità si era prestato ad essere il passatempo di tutte le categorie di dèi, adesso considerava una grave mancanza di rispetto il fatto che lo invitassero non per rendergli onore, ma per farsi quattro risate. Inoltre, da un po' aveva fatto indossare al suo animo una personalità nuova, messa via la precedente: da quando si era reso conto, infatti, di essere portato in palmo di mano dalla massa degli dèi per via del favore del principe, montato dal successo (capita così!), aveva cominciato a nutrire ambizioni più alte e, lasciato da parte quel suo modo di fare simpatico, si era messo a poco a poco sulla via della massima austerità, per sembrar degno di credito agli occhi di Giove, e di prestigio a quelli degli altri celesti. Per questa ragione, offeso dalla faccia tosta dei commensali, di Ercole soprattutto, diede una magnifica lezione a quegli insolenti per mezzo di una trovata veramente ingegnosa. Dichiarò di aver sempre fatto volentieri tutto ciò che riteneva gradito agli dèi, e che anche in quell'occasione non gli sembrava un fastidio far contente, anche a prezzo di un certo dolore, persone che lo trattavano tanto bene, per quanto avrebbe preferito cancellare completamente dal suo animo il ricordo triste del suo periodo nero piuttosto che riaprire tante volte la ferita. Ma al racconto delle sue sventure era strettamente intrecciato un motivo di gratitudine per il beneficio ricevuto dal re degli dèi, il ricordo del quale gli procurava senza dubbio una gioia; anzi, quel beneficio ricevuto sarebbe rimasto eternamente impresso nel suo cuore, e lui non avrebbe mai mancato di fare il possibile per ricambiarlo. La pena dell'esilio non gli era mai riuscita dura e pesante al punto di perdere la convinzione che si dovesse tenere una buona condotta verso la stirpe degli dèi del cielo, e il rimorso per la colpa commessa aveva lenito il dolore della punizione; perciò aveva potuto sopportare con moderazione, costanza e forza d'animo tutti i guai che ogni giorno gli toccava subire, ma non era facile dire da quanti cumuli di avversità era stato sommerso: la cosa che lo affliggeva più di ogni altra era il fatto che non gli si presentava nessuna occasione di dimostrare, senza danni per gli dèi, come fosse diventato buono Momo attraverso qualche buona azione. In qualunque occasione pensasse di dare il meglio di sé, qualunque cosa gli stesse particolarmente a cuore, ecco che andava a sbattere contro l'ostilità di un numero spropositato di rivali, aspri e accaniti oltre ogni limite. Proprio dalle caratteristiche e dallo stile di vita di costoro voleva iniziare il suo discorso; poi avrebbe parlato un po' delle loro enormi scelleratezze, scegliendo solo i più significativi degli innumerevoli delitti che avevano commesso. Esisteva sulla terra una categoria di persone che, a vederle camminare con gli occhi fissi a terra, col viso e le movenze atteggiati al rispetto della morale tradizionale con una precisione da professionisti della scena, se ne avrebbe senz'altro venerazione; se però si osservano più da vicino le loro abituali inclinazioni, e si vede come son pronti a buttarsi a pesce su qualunque azione immorale, si hanno buoni motivi per detestarli. Costoro pretendevano di esser chiamati gli osservatori dell'universo, e, in relazione a tale qualifica, avevano ingegni in sé tutt'altro che tardi e ottusi, ma il cumulo delle loro vergognose sconcezze aveva del tutto offuscato la luce di quelle eccellenti qualità (se proprio le possedevano); avevano fatto del loro titolo e della semplicità del tenore di vita non una scelta esistenziale, ma un mezzo per conquistarsi una superficiale aureola di gloria e la pubblicità di una fama immeritata presso tutti quelli che non li conoscevano a fondo; la loro presunzione era talmente assurda e sfrenata che sostenevano di conoscere a perfezione l'essenza di tutte le cose. Al principio correvano tra loro due tesi a proposito degli dèi, ma in seguito tirarono fuori le idee più svariate, da respingere in blocco non tanto per il numero quanto per il carattere delirante delle posizioni in contrasto: non era però ancora abbastanza chiaro quale di tutte quelle tesi meritasse il più alto disprezzo. Alcuni infatti negavano completamente l'esistenza degli dèi, e sostenevano che l'universo era il prodotto del caso, in seguito a quell'unione fortuita delle particelle infinitesimali che permea di sé tutte le cose, e non la costruzione eseguita dalla mano degli dèi; altri non credevano all'esistenza degli dèi (se ci avessero creduto, avrebbero vissuto in un altro modo!) ma volevano che la maggioranza ci credesse, per il loro interesse, per essere onorati, per rafforzare con la paura degli dèi le loro posizioni di potere e garantirne la stabilità; e completavano il loro ragionamento con una serie di vuote invenzioni, per far credere di essere essi stessi gli intermediari degli dèi e di intrattenere frequenti rapporti con le ninfe, con le divinità locali e con gli dèi maggiori. Con tutti costoro Momo aveva ingaggiato una battaglia estenuante su diversi fronti, una volta per dimostrare l'esistenza degli dèi, un'altra per chiarire che non era certo caratteristica degli dèi farsi complici e responsabili dei delitti di uomini scellerati. Per la sua maniera di partecipare alla battaglia, la forza stessa della sua causa lo rendeva eloquente, e la stessa verità razionale gli prestava facilmente assistenza e difesa nel parlare; però, se i suoi discorsi contro i filosofi erano stati abbastanza abili e adatti a tutelare l'interesse degli dèi, per quanto riguardava la causa della sua salvezza personale, e dei gravi rischi cui andava incontro, non si era saputo dimostrare un avvocato difensore altrettanto capace. La passione con cui si era messo al servizio della causa divina, l'impegno a cui si sentiva obbligato gli avevano giocato un brutto scherzo: era stato oggetto di pesanti invidie, e aveva eccitato contro di sé l'astiosità delle persone più presuntuose e sfrenate che ci siano, gente disposta a sopportare qualunque cosa pur di non dare a vedere di essersi arresa alla saggezza e al buon senso di chicchessia. C'era poi una terza categoria di persone, di raffinata formazione culturale, ma eccessivamente avida di elogi e di gloria, che non ambiva a meritarsi la rinomanza postuma impegnandosi in imprese valorose o con la rettitudine dei pensieri e delle azioni, ma a guadagnarsi una fama immortale con l'arte di fare discussioni puramente accademiche. Costoro avevano l'abitudine di frequentare i dibattiti pubblici, senza mai assumere una posizione precisa e coerente, specialmente rispetto ad interlocutori che apparissero piuttosto preparati, ma cercavano, ricorrendo di volta in volta a nuovi sistemi d'adulazione, di accattivarsi le simpatie dell'uditorio e attirare su di sé l'ammirazione del pubblico, non tanto nel tentativo di guidare al bene sentimenti e opinioni della massa, quanto modificando di giorno in giorno le proprie posizioni per adattarle agli orientamenti della massa stessa, senza darsi il minimo pensiero se fosse vera o falsa, giusta o ingiusta la tesi che stavano difendendo, ma sforzandosi in tutti i modi di far vedere che, nel sostenere proprio quella, avevano avuto il sopravvento sulle opinioni degli altri nel corso della polemica. A Momo succedeva talvolta di lasciarsi trascinare dalla magnificenza e dall'impeto della loro oratoria, tanto da non trovare argomenti per ribattere: erano potenti quelli là, con l'abbondanza delle loro parole, erano potenti con la loro erudizione e la loro esperienza, al punto che non c'era nulla che non potessero ottenere, quando lo avessero voluto, o con la loro eloquenza o col prestigio da poco conquistato. Durante la disputa sugli dèi, un uomo appartenente a questa categoria fece il seguente intervento: "Io non sono il tipo, egregi signori, che oserebbe affermare che gli dèi non esistono e che il cielo gira a vuoto, soprattutto in forza del fatto che la credenza negli dèi è radicata nell'animo umano; tuttavia, se non vado errato, non c'è nemmeno uno di voi che oserebbe affermare che esistono in base a una prova sicura e inoppugnabile. Qualche volta però mi capita di domandarmi per quale motivo definiamo 'padri' e 'clementissimi' gli dèi celesti. Mi rivolgo alla vostra benevola cortesia perché prestiate la massima attenzione a quel che dirò adesso: non vi spiacerà, se non m'inganno, ascoltare un mio contributo nuovo e originale a una discussione così importante. Immaginate che siano qui presenti quei nostri antichissimi progenitori che riteniamo molto vicini agli dèi, e che essi, considerata l'infelicità della condizione umana a cui siamo destinati, facciano questa domanda a Giove, padre degli uomini e re degli dèi, in nome dell'affetto paterno non ancora affievolito dal tempo: 'Dovremmo credere, o padre Giove, che sia stato un atto di grande generosità averci voluto strappare in qualsiasi modo tutte le cose che gli uomini considerano desiderabili? Chi mai potrebbe sopportare con animo sereno da qualunque padre, per quanto adirato contro i suoi figli scapestrati, che egli permetta che tocchi in sorte una vita peggiore di quella degli animali bruti proprio a coloro che vorrebbe tenersi cari? Lasciamo stare la forza, la velocità, l'acutezza dei sensi, tutte cose in cui le bestie danno molti punti a noi uomini; ai cervi e alle cornacchie voi dèi avete concesso tanti anni di vita, mentre avete voluto che gli uomini cominciassero a sentirsi invecchiare e indebolire fin dal momento della nascita, e piombassero nella morte nel bel mezzo dei loro sforzi di far qualcosa, prima ancora di sentirsi stabilmente vivi - proprio gli uomini, per i quali era così importante una concessione come quella, per di più nel precipuo interesse dei celesti, visto che sono gli uomini che istituiscono templi, sacrifici e feste magnifiche, e che onorano le cerimonie religiose e ogni manifestazione del sacro. Ma sia pure la morte, per decisione divina, una via d'uscita dalle tribolazioni, sia pure la morte il migliore dei beni perché sottrae ai mali! Io sarei più disposto a credere che la morte non è un male se vedessi che gli dèi se la sono accaparrata, e non disprezzerei il dono, se ci fosse dato da chi non è all'origine di tanti mali. Invece, perché mai i celesti hanno preso possesso di quasi tutte le altre cose che possono presentare aspetti piacevoli, e hanno tenuto ben lontana da loro la morte? Di tutte le cose buone, qual è quella che i celesti non hanno rivendicato per sé e non si sono assegnata? Gli dèi si son portati su nel cielo i nostri Ganimedi, le nostre navicelle, le nostre corone, le lire, le fiaccole, i turiboli, le coppe, togliendoci tutto quel che trovarono di bello, leggiadro e sontuoso; han portato in cielo leprotti, cagnolini, cavalli, aquile, sparvieri, orse, delfini, balene! Non sto adesso a lamentarmi perché si prendono diletto delle cose nostre, delle meraviglie carpite quaggiù, ma non posso nemmeno approvarlo; la cosa che mi dispiace è che quegli esseri beati di lassù non si commuovano per le nostre disgrazie, e, considerando che ci sono padri, chi sarebbe capace di sopportare senza dolore e turbamento il trattamento così cattivo che essi ci riservano? Chi potrebbe sopportare che noi, creature divine, siamo destinati a una sorte peggiore di quella delle creature degli animali? Se è vero che noi siamo i figli e loro i padri, come sarebbe stato giusto renderci partecipi di quel loro immenso potere! Loro invece hanno scacciato i figli dalle dimore paterne, riempiendo il cielo di belve; hanno voluto escludere gli uomini, e hanno riempito il cielo di esseri strani. E allora che valore dovremmo dare al fatto di non essere stati creati idre o ippocentauri, anziché uomini? Eppure c'è chi va sostenendo che gli dèi hanno messo a disposizione degli uomini un mucchio di cose utili, piacevoli e belle: le messi, i frutti, l'oro, le pietre preziose e così via. Sarebbe bene allora considerare attentamente tra noi, a questo proposito, se non sia vero quel che si suol dire, che se uno asserisse che gli dèi hanno fatto quelle cose per darci delle illusioni, per deludere le nostre speranze e i nostri progetti, forse non avrebbe tutti i torti! Quanti sono infatti, e chi, che non desiderano cose del genere, secondo il volere divino, quanti quelli che riescono a ottenerle senza l'opposizione divina, quanti quelli che riescono a godersele dopo averle ottenute? Ma, ammesso che abbiano creato quelle cose nell'interesse degli uomini: di quali uomini, c'è da chiedersi, dei buoni o dei cattivi? Se mi si rispondesse che hanno pensato per i buoni, dovrei domandare allora perché quei beni non vengono assegnati ai buoni e tolti ai malvagi. Perché mai portano via ai più buoni quegli stessi beni che concedono ai peggiori criminali? Ma guarda! Hanno dato agli onesti il senso della giustizia, così questi si sforzano di procurarsi lo stretto necessario ingegnandosi in mezzo a veglie e fatiche, mentre hanno elargito a piene mani anche il superfluo agli ingiusti, agli sfacciati, perfino a chi disprezza gli dèi. Ma perché io dovrei dissuadere certa gente dal bestemmiare gli dèi, quando mi accorgo che essi hanno scaricato una tale quantità di mali sull'intero genere umano che, se qualche volta concedessero una pausa alla loro furia, avrebbero il desiderio di non averlo mai potuto fare? O stirpe dei mortali invisa agli dèi! Infatti, oltre alle cose insopportabili che abbiamo già visto, gli dèi ci hanno dato anche il dolore, la febbre, le malattie, gli angosciosi affanni interiori, le tempeste e i terribili tormenti del cuore e dell'anima! Poveri mortali sommersi dai travagli nella miseria più cupa! I celesti ci tormentano tanto, ci colmano tanto di mali che non si può mai essere senza disgrazie, e in tanta assiduità di situazioni dolorose c'è sempre un nuovo motivo per soffrire che si leva minaccioso su di noi, per cui all'uomo tocca vivere in perpetua afflizione, e nessuna ora di tutta la nostra vita può mai essere uguale alla precedente. Chi di voi, egregi signori, ha la sensazione che sia rimasto per lui un minimo di comodità, a parte quelle cose senza le quali non potremmo nemmeno esistere? Non c'è motivo di ritenere che la luce, l'acqua, il nutrimento eccetera siano stati creati a vantaggio nostro più che degli altri esseri viventi; l'uso della parola e un sistema di vita che ci permette di collegarci più strettamente l'un l'altro ce li siamo inventati da noi, sotto la spinta della necessità; e chi di voi non sa che tutti gli altri beni strappati a noi sono stati regalati a esseri privi di ragione? Quindi, una volta di più maltrattati, noi miseri mortali! Cosa abbiamo fatto per dover tirare avanti una vita infelice, sommersi da sventure e difficoltà, mentre ci è stato sottratto tutto quanto poteva tornare piacevole e comodo? Ma siano pure degni del cielo, quegli dèi, si godano giustamente i beni più grandi: noi uomini, nati per l'infelicità, non ci tireremo indietro di fronte al cumulo dei mali. Però, a chi di voi resta oscura l'idea che può farsi una persona qualunque dell'intera schiatta divina? Non è il caso di esporre quel che ne penso io, stabilirete voi su quali punti della questione si può concordare, giacché si dice che alcuni di noi sono saliti ad aumentare il numero degli dèi. Uno che si è tirato fuori dalla mandria degli uomini per essere cooptato tra i beatissimi padroni del mondo, dico io, non vorrà essere oggetto di onore e venerazione, ritenendosi degno di un rango, di una sede e di un'autorità simili? Nel caso che poi conoscesse perfettamente la strada per risalire tra i celesti, gli sarebbe più facile diventare qualunque altra cosa che un abitante del cielo. Le circostanze casuali, la necessità, ma soprattutto la disonestà e la stoltezza degli uomini hanno dato numerose occasioni ad alcuni dei sommi dèi di essere innalzati, anche senza volerlo, a una tale altezza da domandarsi stupiti come sia potuto accadere. Come sarebbe più facile aver rapporti con loro se si sapessero comportare da dèi secondo la loro dignità! Se un omiciattolo qualunque mostrasse di saper amministrare gli affari come si comporta di solito la maggioranza dei grandi dèi, verrebbe giustamente preso a legnate. Ma come si può pensare che siano dèi questi qua che mostrano tanta sonnacchiosa indifferenza di fronte ai problemi degli uomini? Oppure si giudicheranno degni del benché minimo culto religioso questi che, come si può vedere, rendono onore solo ai mostri? Mi aspetto già la risposta: che c'è di strano se essi, abituati a troppa libertà, fanno pazzie, e se, accorgendosi di potere tutto ciò che vogliono, vogliono tutto ciò che possono e, in definitiva, pensano che ciò che vogliono sia lecito? Sia dunque lecito agli dèi disprezzare le esigenze degli uomini, e rotolarsi in mezzo ai banchetti assieme a Ganimede, immergersi nel nettare e nell'ambrosia. Non sarà lecito anche a noi commuoverci di fronte a tanta infelicità? Non ci sarà lecito pensare che gli dèi di lassù o non hanno alcun pensiero degli uomini o, se ne hanno uno, è di odio? E a che serve chiedere con tante preghiere supplichevoli la clemenza di dèi che hanno altro a cui pensare, o che ci ricambiano col male? Facciamola finita con la stupidaggine d'infastidire con cerimonie inconcludenti esseri che, occupati solo a godere, odiano chi è solerte e operoso! Smettiamola con questa nostra inutile fissazione di guadagnarci benemerenze presso esseri che non esistono o che, se esistono, nella loro astiosa ostilità son sempre pronti a rovesciare mali sugli uomini sventurati!"

Momo affermò che questo era stato il discorso di quel presuntuoso, e assicurò di essere rimasto talmente indignato a sentirne il tono provocatorio e sobillatore che si era trattenuto a stento dal mettergli le mani addosso per la rabbia; senza dubbio se fossero stati lì presenti di persona Giove ottimo massimo, l'essere più mite, e gli dèi così giusti e tolleranti, e avessero conosciuto direttamente la faccia di svergognato dell'oratore, la sua maniera insopportabile di gesticolare, l'enfasi ostentata delle sue parole, avrebbero deciso lì per lì di scaricare tutta la violenza del fulmine su quell'intera criminale congrega d'intellettuali, per portarsi via in una volta tutti i filosofi con tutte le loro università, i loro libri e le loro biblioteche. Lui aveva dovuto controllarsi, per le esigenze imposte dalla situazione, ma, per portare avanti il compito che si era assunto, non aveva potuto fare a meno di sbottare, rimproverando quei tipi che si mettevano a sproloquiare a quel modo intorno agli dèi, e avvertendoli che era meglio riflettere mille volte se non volevano farsi un'idea completamente stravolta di esseri dai quali avevano ricevuto tante grazie divine, e sbagliare nel comportarsi così verso di loro; era meglio stare bene attenti, se non volevano, mentre stavano a negare l'esistenza degli dèi, accorgersi di quanto è forte la loro presenza e come sanno distinguere bene i giusti e gli ingiusti, gli onesti e i disonesti; aveva augurato loro, infine, di avere verso i celesti una disposizione d'animo che li tenesse lontani da grossi guai.

A questo punto quei presuntuosi, che tutto potevano tollerare con moderazione, ma non di dare a vedere di arrendersi alla saggezza e al buon senso di chicchessia, avevano trovato l'accordo ed erano saltati su tutti quanti all'attacco contro di lui, esagitati dal furore e dallo sdegno per gli avvertimenti di Momo, che odiavano a morte da tempo, avendo dovuto cedergli in molti dibattiti; gli fecero allora quella violenza che lui aveva raccontato molto spesso in altre occasioni; Momo però pregava Giove ottimo massimo ed i massimi dèi di non prendersela per quella manifestazione di sciocchezza umana, ma di coltivare piuttosto intenzioni degne di loro, inclinate a una benevola indulgenza, e di continuare a far del bene ai mortali, mettendo in secondo piano gli inconvenienti e le mancanze di rispetto che lui aveva subito.

Mentre faceva questo racconto a voce bassa e accorata, triste in viso, Momo si sentiva soddisfatto soprattutto perché si rendeva conto chiaramente che tutti gli dèi, Giove in particolare, erano scossi dalla sottile abilità del suo discorso. Vedeva infatti che Giove era ammutolito e batteva nervosamente le dita di nascosto sulla tavola imbandita, perciò esultava di gioia dentro di sé. Ercole intuì la cosa e disse sorridendo: "Mi faccio forte di quello che hai detto, caro Momo, perché tu non te la prenda se anch'io desidero in qualche modo che la causa degli uomini non sia del tutto abbandonata davanti a Giove"; poi, rivolto a Giove: "Bisogna certo essere indulgenti, o Giove, con gli uomini per un errore, soprattutto se si tien conto che si sono ingannati nei riguardi di Momo che non conoscevano affatto, mentre anche qui tra gli dèi Momo si comporta in modo tale che non è facile conoscerlo, e potrebbe sembrare del tutto diverso da quel che è. Ma bisogna anche stare attenti a che nessuno la sappia troppo lunga, volendo procurare inconvenienti e danni agli altri, o sia più abile nell'arte di ingannare di quanto non si convenga alle persone buone, quelle che hanno una faccia sola! Quanto sia potente l'eloquenza degli uomini si può capire chiaramente proprio da Momo, che è tornato al cielo dalle università umane preparatissimo nella scienza squisita e ricercata della persuasione. Ma è evidente quali impressioni debba aver Giove ottimo e massimo sul discorso di Momo e sull'intera questione; cosa invece gli tocchi decidere, lo vedranno altri. Però tu, Momo, vorrei che riflettessi su una cosa: ti pare che un banchetto sia il luogo e l'occasione adatta per metterti a discutere di cose così poco amene, come se stessi sostenendo una causa per un delitto di sangue? Dove volevi arrivare, Momo? A suscitare intolleranza per i filosofi e le persone di cultura, oppure a provocare gli dèi coi tuoi discorsi ironici? Ma noi, o dèi del cielo, commossi dall'orazione così ampia e accurata di Momo, cosa faremo? Ci faremo sfuggire proprio quel che è necessario ricordare, cioè che da che mondo è mondo ci sono sempre state diversità di opinioni, varietà di passioni di parte e dispute a vuoto? Ma di' un po' tu, Momo, il più austero degli dèi: vorrai negare che a questi circoli di intellettuali contro i quali ti sei scagliato con tanta acrimonia si è sempre collegata una continua ricerca del vero e del bene? Vorrai negare che si deve all'influsso dei filosofi se il genere umano non è all'oscuro di sé e del proprio destino? Non verrò certo meno alla mia funzione, Momo, se replico alla tua provocazione. Quando mai s'è visto sulla terra uno tanto presuntuoso da credersi degno della grandezza e della maestà dei grandissimi dèi? Chi non si riterrebbe quasi indegno di tanti beni ricevuti dagli dèi? Chi sarà così insensato, così sconvolto dalla follia da non ammettere con sicurezza che sono stati concessi agli uomini per somma grazia divina, anzi derivano direttamente dalla mente e dalla ragione divina tutti i beni più luminosi ed elevati, il pensiero, la ragione, l'intelligenza, la memoria e altri che sarebbe lungo elencare? Le persone colte, educate nelle università e nelle biblioteche, non in mezzo a vagabondi e ubriaconi, hanno operato in modo che gli uomini riconoscessero chiaramente tutti questi beni, coi loro discorsi, i loro saggi consigli, la loro capacità di persuadere, facendo vedere cos'è giusto, cos'è conveniente, cos'è necessario, senza andare in cerca del successo, senza ridere degli afflitti o irritare i rattristati; gli intellettuali, ripeto, con i loro ragionamenti accuratamente meditati ed argomentati hanno permesso che fosse reso onore agli dèi, si osservassero le cerimonie religiose e si avesse rispetto per i sentimenti di devozione e per la virtù. E hanno agito così per rendere migliori gli altri, non per procurarsi una gloria inconsistente: ma ammettiamo pure che essi si siano assunti il peso di affrontare lunghe veglie, fatiche, tanti argomenti difficili ed ardui con tutta quella diligente attenzione per impulso del desiderio di gloria: chi fra tutti gli dèi potrebbe prendersela con loro per questo, tranne te solo, Momo? Chi fra tutti gli dèi tranne te solo, Momo, non ammetterebbe che si sono comportati lodevolmente? Chi tranne te solo, Momo, non direbbe che li si deve ringraziare, amare, aiutare e difendere? Non è nostro dovere, o dèi del cielo, dare un caloroso appoggio a persone che venerano e rispettano gli dèi, chiunque esse siano, provvedere alla loro salvezza, sostenere la loro causa e tutti i loro interessi? E Momo, col suo grande attaccamento alla causa divina, vorrebbe odiare proprio costoro, ai quali si devono tante cose degne e ben accette, grazie ai quali siamo creduti dèi e venerati, per giunta con il consenso celeste e senza provocare reazioni! È questo l'impegno appassionato con cui hai imparato a servire gli interessi degli dèi, Momo, se con tutti i tuoi giri di parole cerchi di esporre all'odio dei celesti proprio chi laggiù sulla terra s'è dato tanto da fare per mettere in piedi il culto, la venerazione, le preghiere verso noi dèi? Se tu non lo sai, Momo, i filosofi, ripeto, i filosofi sono gli unici esseri umani dai quali gli dèi abbiano ricevuto ‑ e non possono metterlo in dubbio - il migliore sostegno all'affermazione solenne della loro maestà e del loro potere, e a costoro i celesti sono debitori di ogni atto di giustizia, come sono pronti a riconoscere. E i celesti amano quella consorteria di studiosi, Momo; ben più di quanto non desiderino mandarla a fondo spinti dalle tue parole, desiderano che essi non siano i più infelici, ed è giusto così, in quanto costoro col metodo razionale hanno ottenuto l'effetto che non esiste un uomo che non senta ed ammetta la forza e la sacra potenza degli dèi, e non si adegui a una vita ispirata ai principi morali. Non vorrei però che tu, Giove, credessi che il nostro amico Momo, il dio più simpatico, ce l'abbia col genere umano al punto di odiarlo, forse perché ha fatto arrivare in mezzo ai celesti qualcuno di origine mortale. E io, dio di fresca nomina, posso ben dirlo: devo moltissimo a Momo per aver dato ordine a sua figlia di tirarmi su da voi. Devo elogiarti, Momo ‑ se intendo bene la tua disposizione d'animo riguardo ai mortali ‑ perché consigli Giove di tener conto della propria clemenza più che degli oltraggi altrui, se si deve prendere per oltraggio un'azione commessa da uomini precipitosi. Perciò, se non mi sbaglio, Momo intendeva dire questo: una volta che sei andato in collera con gli stolti, è tuo dovere mostrare ogni amorosa beneficenza ai saggi e ai benemeriti degli dèi. Quando Giove vorrà agire così, celesti ottimi, chi amerà, chi esalterà, chi giudicherà degni del cielo? Quelli che creano sempre scompiglio, incapaci di pensare o di far niente in modo sereno e tranquillo, o piuttosto coloro ai quali un sistema di vita saldamente regolato dalla virtù, e non dalla disonestà degli scapestrati, ha mostrato la via d'accesso alla grazia e alla benevolenza di Giove e degli dèi? Colui che si è applicato con passione, diligenza, operosità, fatiche e pericoli a moltissime ricerche, e molte verità ha scoperto, senza trascurare un solo particolare, su ciò che è utile ai bisogni vitali, al bene e beato vivere e alla serena tranquillità, su ciò che porta alla conservazione, al miglioramento e al prestigio nelle faccende pubbliche e private, su tutto quanto può servire alla conoscenza divina, al timor di dio e al rispetto della religione!".

Questo discorso di Ercole a Momo fu troncato, e gli animi già preparati a prender parte alla polemica furono distratti dal frastuono che si udì improvvisamente venire dall'entrata del cielo. Tutti, posati i calici, corsero a vedere di che si trattava, e con gran meraviglia si videro di fronte un enorme arco di trionfo di tutti i colori. L'aveva tirato su Giunone, rivestendolo con l'oro fuso delle offerte votive; la struttura della costruzione e le decorazioni erano talmente notevoli che i migliori architetti del cielo avevano negato la possibilità della sua realizzazione, e tutti i pittori e i cesellatori dovevano ammettere che le foro capacità tecniche erano state superate in quelle opere di rivestimento. Guardando in un'altra direzione, gli dèi dovettero poi domandarsi con meraviglia ancor più grande che significava quella folla laggiù di dèi massimi che sbraitavano tra loro e correvano sul sentiero di guerra in direzione della reggia del cielo. Stavano perciò in sospeso, con gli occhi in una direzione e le orecchie nell'altra, l'animo in ansia da tutt'e due i lati. Li scosse ancor più il fatto che erano appena arrivati sul posto quando quell'immensa costruzione per cui era stato buttato tanto materiale prezioso vacillò e cadde: il rumore fragoroso andò a ripercuotersi sulla volta del cielo e questa, siccome è di bronzo, lo fece riecheggiare con un immenso boato, per cui gli intenditori di musica, con parola derivante dal tintinnio metallico che risuona da una cassa armonica, diedero il nome di Tinide a quell'opera fragile ed effimera di Giunone, perché ne restasse memoria tra i posteri; essa però fu comunemente chiamata in seguito Iride per la corruzione del termine. Giove e gli altri celesti, dal canto loro, ebbero l'ennesima occasione di osservare quanto siano sconsiderati e del tutto inetti i ragionamenti e le intenzioni delle donne in qualunque faccenda; e poco dopo in seguito a quel fatto poterono vedere con chiarezza che le iniziative delle donne hanno sempre la tendenza a provocare motivi di discordia e di litigio. Infatti, anche se gli dèi appena arrivati di corsa avevano già qualche ragione di non essere precisamente unanimi e concordi, quella trovata originale di Giunone non aveva fatto altro che eccitare l'animosità e le tensioni, riportando a galla le vecchie rivalità. Quando ebbero esposto a Giove le loro ragioni, questi si rivolse ad Ercole, dicendo con animo fortemente turbato: "Ecco quanto costa esser principi! Perché gli uomini si lamentano di non aver mai un'ora uguale all'altra e che tutto gli va storto? Anche noi, dèi e principi dell'universo, non riusciremo mai a concludere una sola cena senza seccature! Con che cosa me la devo prendere? Con le ambizioni fuori luogo e i folli desideri di questi qua, o piuttosto con la mia negligente arrendevolezza, grazie alla quale, oltre a pensare che tutto gli sia permesso per mezzo mio, a volte gli salta anche il ticchio di farneticare un po' troppo? Preferirei essere tutto quello che vuoi piuttosto che un principe, fin tanto che i tuoi sudditi, per i cui interessi perdi il sonno, cercando la loro tranquillità, mettendo in secondo piano le fatiche che fai, non si ricordano mai dei benefici ricevuti né dei loro doveri verso di te, e non la smettono un istante di rompere le scatole con richieste futili e ogni sorta di raccomandazioni insistenti! Sempre, scocciatura che non siete altro, sempre vi ostinerete a cercare nuovi pretesti per venire a litigare davanti a me? Quante volte ho appianato i vostri diverbi, trattenendovi dalle male parole e dalle legnate, e vi ho fatto rinsavire! Quante volte ho dovuto sedare questi casini che combiniamo! Una volta Vulcano ce l'aveva con Teti (son tutte storie vecchie, le vostre!) perché offuscava e cancellava del tutto la luce e lo splendore della sua dignità. Diana e gli dèi Silvani ce l'avevano con Vulcano perché attaccando con la sua furia selvaggia devastava le loro dimore amene e appartate. Con questi ce l'aveva Eolo, perché spezzavano le ali e strappavano le piume a Zefiro, a Noto, agli Austri, agli Aquiloni e a tutti gli altri suoi compagni di battaglia per andarle a mettere ai mostri scolpiti sulle navi. Nettuno ce l'aveva con Eolo perché agitava ogni cosa, sconvolgendo fino in fondo la calma e l'uniformità delle sue regioni. Teti a sua volta se la prendeva con Nettuno per l'empia ospitalità che le aveva dato, violando addirittura il fiore puro e illibato della sua verginità. Anche adesso è saltata fuori nuova materia di litigi e rancori: Nettuno accusa Giunone di aver scaricato per sfregio sopra il suo altare la spazzatura dei voti e il materiale di scarto della costruzione. Cerere non vuole che vengano buttati sul suo terreno; e anche Vulcano dice di non aver spazio per poterseli tenere nelle sue officine; e le lamentele, il malcontento e i litigi di questa gente senza il senso del limite vengono portati tutti davanti a me! Io do ascolto con la massima pazienza a questi farneticanti, ed essi non la finiscono di approfittarne, senza nessun riguardo. Che razza di faccia tosta è questa? Non la finirete mai di stuzzicarvi a vicenda con i vostri pettegolezzi, e di rompermi le scatole in continuazione? Va bene che vi mettete a fare i matti proprio a causa della mia pazienza, ma dovreste vergognarvi una buona volta di avere di me un'idea così sfacciatamente bassa! Non è il colmo della faccia tosta voler scaricare sullo stomaco del principe tutto ciò che non si sopporta di tenersi appresso? Non vogliono che i voti degli uomini siano messi a casa loro: non c'è altro posto dove metterli: allora si corre da me e si chiede che li porti via io di qua e di là! Che significa? Che altro è se non pretendere di andare a scaricare nella sala da pranzo reale tutto quel che non gli piace, gli sembra una porcheria e non vogliono prendersi, con tutto quello spazio vuoto che hanno a disposizione! Povero me, se dovessi acconsentire a questi svergognati; disgraziato che sono, se mi tocca comandare su gente che non ha alcun rispetto per il principe, nessun senso della misura e della decenza! Io credevo che, avendo messo tutto a posto con gran precisione, e distribuiti i posti di potere in base alla dignità, sarei rimasto finalmente libero soprattutto da queste seccature. E ora non solo i celesti, ma (cosa ci tocca sopportare!) pure gli ometti ci si mettono, per ostacolare i progetti di Giove ottimo massimo, principe dell'universo e re degli dèi. Ma perché mi devo arrabbiare con questa singolare sciagura vivente, per non dir uomini? È chiaro che è tutta colpa della mia disponibilità: desiderando accontentare tutti di mia iniziativa, ho finito per autorizzare l'arroganza di tutti verso di me. Avevo dato ai mortali molto di più di quanto gli fosse lecito sperare, proprio per addolcire quella loro incorreggibile testa dura con l'ammirazione per le nostre grazie divine, cercando di spingerli a giudicarci bene a forza di benefici. All'inizio gli avevo dato la primavera, così dolce e profumata, con tutta quell'abbondanza inesauribile di fiori! E quelli espressero il desiderio che io portassi a maturazione i frutti che quei fiori promettevano; allora gli ho dato pure l'estate, facendo lavorare a pieno regime gli operai delle fonderie di Vulcano per far salire la linfa dal fondo delle radici fino ai rami e alle gemme, e far crescere i frutti. Che succede allora? Ormai satolli al punto giusto di tanta bella frutta, mi chiesero di far tornare la primavera. E io ho acconsentito anche a questo capriccio: ho messo insieme le fiammelle necessarie alla riproduzione di ogni specie di pianta e le ho racchiuse dentro le gemme come in scrigni, alimentandole col caldo soffio vitale, perché si conservassero fino a primavera. Ma quei mascalzoni di mortali, immemori di tutti i favori che gli avevo fatto, ingrati, senza dignità, sempre con la voglia di cambiare, incontentabili, mentre non hanno cosa chiedere e cosa aspettarsi di più da parte mia, mentre io gli concedo di mia iniziativa cose che non oserebbero neanche sperare se avessero un po' più di discrezione, ecco che, in cambio di tutta la beneficenza ricevuta, non hanno altro da dare che puro e semplice odio! Imprecano un po' per il caldo, un po' per il freddo, un po' per il vento, e se la prendono con noi per tutto quello che non gli sta bene; non si peritano di affermare che noi facciamo cose che non farebbero neppure i pazzi scatenati! Fanno bene a prendersela con noi, visto che ci ostiniamo a beneficare gente che meriterebbe le si sguinzagliassero dietro le Erinni infuriate. Certo che la follia li sta facendo agitare anche troppo, se si son messi in testa di essere gli eredi degli dèi e pretendono una fetta di potere! C'è follia più grande di andare allo sbaraglio dietro tutti i capricci, farsi trascinare dalla presunzione, avere ambizioni indegne e senza limiti, non sapersi accontentare dei beni che si hanno e lamentarsi perché gli altri raggiungono premi che essi si rifiuterebbero di prendere per la loro maledetta infingardaggine? E si lamentano del breve tempo che gli è dato da vivere, loro che sprecano tanto tempo standosene in panciolle, e nella vecchiaia marciscono senza far nulla! Vanno dicendo che malattie e disgrazie le mandano gli dèi. Che cosa si dovrebbe dire, se l'uomo è la massima delle disgrazie per il suo simile, se una peste è l'uomo per l'uomo? Tu, uomo, tu, con la tua sfrenata ingordigia, con l'intemperanza delle tue voglie hai ottenuto di esser tormentato dal dolore, di languire per le malattie, di rovinarti completamente perché non sai sopportare te stesso! Sono molto addolorato per la stoltezza degli uomini, vorrei tanto che fossero più capaci di controllarsi. Ma cosa posso fare, cosa devo cercare? Chi sarebbe capace di trovare una soluzione, quando caterve di scocciatori gli stanno sempre attorno? Chi è fatto di ferro, e così ben piantato a resistere agli assalti dei seccatori da riuscire a sopportare a lungo questa situazione? Una volta ci rompono le scatole portandoci davanti i loro litigi, un'altra volta veniamo sommersi dai voti, o meglio dalle imprecazioni. Non si troverà mai il sistema per liberarsi di tutte queste scocciature? Per forza si dovrà trovare. E come? Il mondo che hanno a disposizione non gli piace. Questa situazione è pesante e insopportabile. E allora inventeremo una nuova maniera di vivere: ci sarà da metter su un altro mondo. Va bene, va bene, sarà fatto, agli ordini!".

Tutti gli dèi erano ammutoliti allo scoppio d'ira di Giove. Momo, invece, esultava a vedere che razza di casino era riuscito a combinare agli dèi e agli uomini; si sentiva molto fiero di essersi saputo prendere una rivincita colpendo in modo così originale, e intendeva andare avanti con quello spasso. Però, per continuare a dissimulare, fece una faccia buona buona e disse con un sorriso: "Ascoltami, per favore, Giove, e considera, se non ti spiace, se quel che dirò adesso fa al caso tuo. Mi par di capire che la cosa che ti irrita di più è la sfacciataggine umana, e hai proprio ragione. Chi potrebbe sopportare a lungo le loro assurdità, infatti, a parte te? Succede anche a me di chiedermi spesso per quale strano motivo sei così poco accetto a questi omuncoli ingrati, che non ti meritano, soprattutto per la tua disponibilità e la tua bontà. Considera però se è proprio il caso di addossarti la fatica di tirar su un altro mondo per liberarti delle lamentele di quegli ingrati; considera se ti conviene voler mettere a posto la pazzia degli uomini con un'impresa di tanta mole. Comunque, rifletterai tu sull'intera questione, col tuo grande buon senso. Se arriverai alla conclusione di castigare per bene gli omuncoli per la loro temeraria insolenza, so io cosa si deve fare, anziché imbarcarsi in una simile impresa edilizia. Quelli là vantano un'origine divina per il solo fatto di avere, a differenza degli altri animali, il volto eretto a guardare le stelle; pensano così che sia affar loro sapere quello che fa o quello che pensa ogni singolo dio del cielo. Per di più si prendono il gusto di criticare parole e azioni dei celesti, e non hanno alcun ritegno a sottoporre a una forma di censura la moralità degli dèi. Se darai retta a me, Giove, gli ordinerai di camminare sulle mani, a testa in giù e piedi all'aria, così si distingueranno da tutti gli altri quadrupedi e, dovendole usare per andare a spasso, terranno le mani lontane da furti, saccheggi, incendi dolosi, avvelenamenti, assassini e peculati e da tutti gli altri tremendi delitti per loro abituali. Ma no, cambio parere. Conosco quelle teste: in capo a tre giorni impareranno a rubare anche coi piedi, ad attaccare coi piedi, a commettere coi piedi qualunque crimine; e allora penso che la miglior cosa in assoluto sia raddoppiargli le femminelle! Che terribile punizione, che gran varietà di supplizi senza sosta dovranno provare! La donna è carnefice dell'animo, fuoco di affanni, incendio di follia, peste, rovina e disastro di qualunque vita serena. Ma no, no: se penso agli interessi degli dèi celesti, devo cambiare di nuovo parere: infatti, se aggiungi una donna soltanto al genere umano, quella lì combinerà tanti guai, provocherà tanti disastri e tante tempeste che sicuramente, oltre a rimanere sconvolta e distrutta tutta la terra, per colpa sua vacillerebbero anche le fondamenta del cielo, scosse alla base!".

Allora Giove disse a Momo ammiccando: "E com'è, Momo, fai il buffone anche quando si parla di cose serie?". Momo rispose: "Hai ragione, smetto subito di farti divertire colle mie parole e passo a quel che ci preme. Tu, principe dell'universo, dimmi una cosa ‑ ti chiedo se la tua cortesia me lo permette: ho un gran desiderio di venire a sapere se hai deciso di costruire un mondo nuovo per l'utile tuo, degli dèi o degli uomini. Quanto a me, penso proprio che non ti manca assolutamente nulla, dopo aver portato a termine una creazione così bella e perfetta; non vedo neanche il motivo, dopo che ci hai messo tutta la tua cura e tutte le forze del tuo ingegno per terminare questa, di voler cambiare qualcosa per rinnovarla, se non in peggio. Se invece è l'interesse del prossimo a spingerti in un'impresa del genere, e hai deciso di regolarti sui gusti di quelli per cui ti stai mettendo all'opera, suggerirei di fare prima un sondaggio d'opinione tra loro, se non vuoi far cosa sgradita proprio a chi vorresti gratificare, sprecando così mezzi ed energie. Penso che la prima cosa da verificare sia se vogliono la rivoluzione, o solo le riforme; subito dopo si dovranno indagare le loro preferenze sul modello di mondo futuro. Frattanto si dovrà prendere un po' di tempo per la decisione definitiva, separando la fase di progettazione dalla realizzazione pratica. Del resto, ti resterà sempre la piena possibilità di rimproverare le loro sciocchezze, uomini o dèi che siano, e potrai sempre dargli le punizioni che ti sembreranno opportune. Il saggio non fa mai troppo in fretta quel che si può fare con calma e dopo averci riflettuto, e ogni azione per troppi aspetti prematura oltre ad andare in fumo può provocare guai. I voti, infine, li puoi mettere, se ti pare, sul bagnasciuga, là dove si separano il mare, la terra e l'aria. Se farai così, nessuno di questi qua potrà dire che gli stai mancando di rispetto, e si eliminerà una causa di ulteriori litigi, Oltre tutto, così i voti saranno completamente fuori dei piedi, tanto da poter dire che non sono da nessuna parte".

Giove si lasciò persuadere facilmente dal suggerimento di Momo, che incontrò la generale approvazione degli dèi. Ed è per questo che i voti sono sparpagliati in fondo alle spiagge; anzi, c'è chi dice che siano voti quelle ampolline da quattro soldi che si trovano lì, luccicanti come fossero di cristallo. Sistemato tutto in questo modo, gli dèi presero congedo da Giove. Allora la dea Frode, ripensando al discorso di Momo, non ebbe difficoltà ad intuirne la forte capacità di eccitare gli animi a qualunque sentimento, e comprese che quel Momo lì, con la straordinaria esperienza che aveva acquistato nell'arte dell'inganno, era diventato anche troppo potente nel fingere e sgusciare da tutti i lati. Decise perciò di guardarsi bene in futuro da avere motivi di rivalità con Momo e, per conciliarsi il favore del suo avversario, adopera ogni arte per fargli una faccia dolce, disponibile e amichevole. Momo, memore dell'antica offesa ricevuta da Frode, continua col massimo puntiglio a mettere in scena quel suo nuovo ruolo di persona seria. Non è il caso di raccontare nei particolari come tutti e due si comportarono da grandi artisti della simulazione, prendendosi in giro a vicenda; alla fine, capitò che la dea Frode in mezzo a tante smancerie domandasse a Momo cosa glien'era parso di quel po' po' di ricevimento messo su da Ercole, che aveva avuto il coraggio, unico fra tutti gli dèi, d'invitare a pranzo l'eccellentissimo principe dei celesti. Momo rispose: "Cosa credi, che Ercole non sia degno di passare avanti a Momo, e che tu te lo tenga tanto caro e mi metta da parte?". La dea allora: "Perché fai così, Momo? Io preferirei un altro a te, con cui da moltissimo tempo ho tanta intimità e tanto affetto? Ma sorvoliamo! Piuttosto dimmi una cosa, per favore: questo Ercole tu non l'hai conosciuto in mezzo agli uomini?". Momo rispose: "E va bene, continua come hai cominciato, corri dietro ogni giorno a nuovi amori: la dea Frode se lo può permettere. Ma devi proprio fare così? Devi proprio tormentare di gelosia quelli che ti amano più di se stessi? Ma ama pure il tuo Ercole, corri dietro ad Ercole, parla di Ercole, non guardare nemmeno Momo: mi vuoi anche prendere in giro?". Allora la dea si mise a fargli tante moine, dicendo fra l'altro: "Povera disgraziata che sono, se ti può venire in mente che io abbia voglia d'innamorati di questo genere! Per me i tipi come Ercole sono da tenere ben alla larga, montati come sono, con tutte le arie che si danno per i loro successi, arroganti, inopportuni, che pensano gli sia dovuto tutto a loro capriccio! Cosa dovrei aspettarmi da uno che ha avuto il coraggio di invitare in casa d'altri il principe degli dèi, con l'avallo incondizionato dei suoi colleghi divini? Come potrei star tranquilla dicendo qualche volta di no a un simile sfacciato, se caso mai mi concedessi a lui? Sarebbe una schiavitù, non un amore. Io non ho il buon senso di Marte, che permette a un farfallone come quest'ospite appena arrivato in cielo di far certe follie in casa sua!". Allora Momo colse al volo l'occasione di dare una scottatina ad Ercole col marchio dell'ignominia, dicendo: "Ercole non è certo il tipo che non sa imparare a comandare o a ubbidire, secondo le circostanze. Non è poi così prepotente da farmi credere che tu lo detesti". Disse allora la dea: "È vero che Ercole ha dovuto imparare a ubbidire? Veramente l'avevo sentito dire, ma mi pareva una malignità". E Momo con un sorriso: "Cos'è che avevi sentito dire?". Frode allora: "Vuoi farmi far la pettegola, interrogandomi con tanto garbo: ma sono innamorata, e non mi costa niente accontentare il mio innamorato. Avevo sentito dire che Ercole, sì, proprio lui, è andato a servizio sulla terra. È vero, Momo mio, quello che dicono? Perché stai zitto?". Allora Momo, tutto agitato e con l'aria di chi non ne può più, esclamò: "Che credi, che io resista a lungo a farmi prendere per fesso da te? Ercole ha offerto un banchetto: che te ne frega? Ercole fa il magnifico: che te ne frega? Ami Ercole, ecco cosa ti frega tanto! Però non riuscirai a farmi montare in collera contro di te: ti amerò anche se non lo meriti, ti amerò anche se non lo vuoi". Con queste parole, e una faccia più che mai adatta a simulare la rabbia, se la squagliò. La dea guardandolo allontanarsi mormorava tra sé: "Addio, Momo! Ti hanno strappato la barba, ti hanno strapazzato per bene ma tu sei tornato dalla terra più fine di quando eri partito, con tutti i tuoi misteri! Addio, addio!".


Libro terzo

 

I precedenti libri han procurato diletto - almeno credo - per la varietà delle situazioni e la comicità di certi passi: ma in essi dovrebbe esserci anche qualche insegnamento utile per trovare un ordinato sistema di vita, come si è potuto vedere. I libri che restano non vanno assolutamente posposti ai precedenti per abbondanza di motivi comici e originalità di situazioni imprevedibili; e può darsi, se non m'inganno, che li si possa anche preferire ai precedenti, in quanto i fatti che essi comprendono sono a un livello più elevato. Vi potrai vedere, infatti, come la salvezza degli uomini, la maestà divina e il potere universale siano stati trascinati quasi all'ultima spiaggia, e proverai ammirazione a notare come in un argomento di estrema serietà come questo ci possa essere anche tanta comicità.

Ma riprendiamo il filo del racconto. Giove, dunque, aveva reso noto il suo progetto di mettere in piedi un altro mondo nell'interesse di uomini e dèi, e tutti gli dèi grandi e piccoli approvavano col massimo consenso questa decisione. Infatti, come succede di solito, ognuno guardava ai suoi interessi, interpretando la novità nel senso del proprio vantaggio personale: e quei celesti che magari erano di condizione più bassa o in genere estranei al palazzo si lasciavano prendere con facilità dalla speranza che tutto quel rinnovamento gli avrebbe fornito il mezzo e l'occasione di fare un bel salto di qualità; invece quelli che godevano di dignità più elevata pensavano che Giove non avrebbe certo potuto fare a meno della collaborazione delle massime autorità in un'operazione complessa come quella: si erano quindi proposti di trarre il massimo vantaggio dalla situazione per rafforzare la loro posizione. Di conseguenza, gli dèi minori erano sempre addosso a Giove, cercando con tutti i mezzi di convincerlo a mettere in esecuzione il progetto; ma anche i più autorevoli dèi appoggiavano con sufficiente convinzione quella causa, tacendo e facendo qualche cenno d'assenso: capivano benissimo quale strategia usare col principe, e la praticavano con abilità. Così si comportavano in modo da coprire con la dissimulazione le loro avide aspirazioni, ostentando indifferenza proprio per le cose a cui tenevano di più con qualche osservazione poco impegnativa, in modo che i loro consigli, quando erano richiesti, sembrassero rivolti al bene del principe e della collettività più che al loro tornaconto personale. Del resto, tra le più alte autorità divine c'erano anche dei personaggi accorti, i quali, o perché collaboravano al lavoro di Giove con serietà e integrità morale, o per il semplice fatto di ritenere cosa saggia in ogni occasione far previsioni meno ottimistiche di quanto non consenta l'apparenza, consigliarono Giove di pensarci su molte volte prima di accingersi a un'impresa di quella portata, per evitar d'incontrare, strada facendo, qualche intoppo che mandasse tutto all'aria, e di fare la massima attenzione, per non doversene poi pentire, soprattutto agli imprevisti che potevano saltar fuori all'improvviso, provocando risultati ben diversi dalle intenzioni; ma c'erano anche quelli che, pensando a mantenere i propri privilegi, avevano l'esclusiva preoccupazione di distogliere Giove dai suoi propositi di rinnovamento generale: per esempio Giunone, diventata appaltatrice per la grande affluenza di voti, era disposta ad accettare qualunque cosa, ma non certo lo sterminio dell'umanità, e alla sua posizione aderivano calorosamente, oltre ad Ercole, che era deputato alla salvezza degli uomini, Bacco, Venere, la dea Follia e numerosi altri dèi di questo genere, che erano particolarmente onorati dalla massa dei mortali. Anche Marte aveva deciso di mettere a disposizione di Giunone tutti i suoi mezzi per la causa della salvezza umana, poiché aveva progettato con l'architetto Ruggine la costruzione di un porticato di bronzo che avrebbe dovuto avere cento colonne di ferro perfettamente limate e rifinite, e tegole d'acciaio per copertura: dagli uomini, infatti, non solo riceveva ogni giorno materiale in abbondanza, proprio del tipo che gli serviva, ma si procurava anche calli e sudore con cui levigare il più possibile le colonne. Perciò questi dèi si davano un gran da fare a dissuadere Giove e a fargli mille raccomandazioni perché non passasse all'azione alla cieca.

Un simile sconvolgimento spingeva Momo a ragionare così fra sé: "È proprio come si suol dire, non esiste una gioia così grande che non sia piccola se non si ha con chi spartirla! Come sarebbe grande adesso la mia gioia se avessi qualcuno a cui manifestarla senza rischi! Come sono felice! Sono riuscito coi miei discorsi a spingere il principe in un'impresa di questa portata! Finora, però, gli ho dato solo una spintarella, ora è il momento di farcelo ruzzolare dentro. Ma cosa dico? Mi attirerò certo l'antipatia di molti! Embè? Ce l'abbiano con me quanto gli pare, purché io resti caro solo a questo qua! Finché Giove non mi respinge, finché mi accoglie con questa benevolenza avrò più sostenitori di quanti me ne servano. Chi non farebbe il matto, stando con un principe che è andato fuori di senno? Tanto peggio tanto meglio, dicono! E allora tu, Momo, ti metterai come tutti gli altri a consigliare cose che biasimeresti, se fossero già realizzate? Ma certo, come no! Mostrerò immediata approvazione a tutto ciò che mi sembrerà gradito al principe. Ma che dico? Fortunato che sono, ripeto, se con la mia tattica ho sistemato le cose in modo da sentirmi proprio il re dei celesti! Cosa non sarà più alla mia portata, ora che ho buttato il sasso in mezzo per far litigare i potenti col massimo accanimento, ed è molto probabile che dovranno ricorrere proprio alla mia mediazione? Bisogna che insista su questo punto. Infatti sarà molto conveniente che quelli di cui temi gli attacchi siano in disaccordo tra loro. Così, se alcuni di loro ti daranno addosso, cercherai rifugio dagli altri, e avrai tanti alleati quanti sono quelli alle cui posizioni avrai aderito. Comunque, mi saprò regolare secondo le circostanze. Per il momento ho bisogno di guadagnare ancora posizioni nel favore di Giove. Devo cercar di calmare tutta l'eccitazione che l'ha preso. Ehi! E se gli passassi quelle bellissime osservazioni sul potere che ho raccolto a suo tempo frequentando i filosofi, e ho buttato giù in rapidi appunti? Se le leggerà, egli stesso e la cura dei suoi affari ne trarranno di certo profitto!"

Così pensava Momo. E Giove? Siccome è vecchia e radicata abitudine di parecchi principi, per non dire di tutti, voler essere giudicati responsabili e coerenti più che esserlo per davvero, ecco che si mettono a fare cose che hanno poco a che vedere con l'esercizio onorato della virtù e molto con il flagello del vizio; è per questo che non danno il minimo peso al venir meno alle promesse fatte a chicchessia, e mancando di parola mostrano in tutta evidenza la loro slealtà, e con essa la loro leggerezza e incoerenza; ma se invece si sono messi in testa di danneggiare qualcuno, considerano degno della loro maestà e del bastone del comando assecondare il loro capriccio con la massima puntigliosità e coerenza; e in questo modo mostrano di preferire l'ostinazione in uno scatto di rabbia al tener fede ai patti. Anche Giove in quella circostanza non voleva dar l'impressione d'essersi scordato le antipatie e di non pensare più alle offese ricevute, vedendo che non riusciva a trovare un modello del nuovo mondo da realizzare che non gli sembrasse robaccia in confronto all'antico, e rendendosi conto che le sue competenze e capacità non erano all'altezza del programma che si era proposto, decise di approfittare dei consigli altrui. Cercava di afferrare al volo impressioni e idee degli esperti, in modo che, qualora saltasse fuori qualche osservazione azzeccata, lui non avrebbe avuto alcun obbligo nei confronti di chi l'aveva fatta, anzi, avrebbe potuto controbilanciare l'impopolarità dell'azione rinnovatrice con una trovata ad effetto. A questo scopo intratteneva con discorsi tortuosi ora l'uno ora l'altro dio fra quelli che giudicava più acuti (e in particolare Momo, l'unico che ritenesse veramente superiore a tutti gli altri in raffinatezza intellettuale) e intrecciava con loro lunghe conversazioni che erano in realtà solo un pretesto per adescarli a tirar fuori le loro impressioni. Non ne trovava nessuno di cui potesse lodare lo zelo, pochissimi davvero avevano un ingegno superiore alla media ed erano molto rari quelli che non si tenessero alla larga dalla fatica di pensare e dalla passione per la ricerca: tutti comunque si comportavano, com'era facile capire, in modo di dare a Giove l'impressione di saperla molto più lunga di quanto non fosse. Quasi tutti erano comunque del parere che si dovessero consultare i filosofi, di cui sulla terra si dice che sanno tutto; sulle importantissime questioni che erano in gioco, infatti, quelli avevano scritto volumi su volumi e avevano fatto continue, approfondite ricerche; non c'era problema da discutere di fronte a cui si tirassero indietro; con l'intelligenza e la cultura che avevano erano capaci di risolvere qualsiasi difficoltà, bastava che ci mettessero un po' di applicazione.

Giove, sentendo che i filosofi erano esaltati in quel modo dal cielo intero, fu preso da un indescrivibile desiderio di parlare personalmente con loro. Anzi, se non l'avesse trattenuto il timore di accumulare nuovi motivi d'invidia oltre ai vecchi, probabilmente avrebbe preso volentieri la decisione di cooptare le consorterie di filosofi tra gli dèi del cielo, per aumentare l'onore del parlamento divino con la luce emanante da tanti chiarissimi gentiluomini, e consolidare la sua posizione di preminenza grazie ai consigli del fior fiore dei saggi. Prevalse però la considerazione che lui non era certo abituato ad avere al suo fianco gente a cui c'era poco da comandare, anzi c'era da ubbidire, data la loro serietà veramente ragguardevole, e che bisogna circondarsi soprattutto di persone da cui ci si sente rispettati e temuti, non di tipi da trattare coi guanti. Egli inoltre respingeva quelli che gli potevano insegnare ad operare rettamente, mentre preferiva dare il suo favore a quelli che non respingevano mai i suoi ordini. Alla luce di questi ragionamenti, passava un sacco di tempo a riflettere su chi dei suoi mandare a consultare i filosofi: la sua ricerca gli fece toccar con mano quanto se la passasse male, visto che tra tanti suoi cortigiani non se ne poteva trovare uno a cui affidare un incarico così rappresentativo. Osservò con rammarico che tutti i suoi erano talmente rozzi e impreparati da essere completamente digiuni di studi superiori: non conoscevano una sola cosa degna dell'uomo, a parte quelle che avevano imparato con una lunga pratica di sottomissione: essere al loro posto a palazzo reale in grande eleganza, stare impalati vicino al principe, ricevere le visite tirando fuori un sacco di salamelecchi, raccontare storielle, leccare i piedi, intrattenere a vuoto; gli veniva quasi voglia di toglierseli di torno tutti quanti! Però riteneva tutt'altro che conveniente ai suoi scopi scegliere elementi nuovi di cui non conosceva bene la personalità. Quindi, per non doversi affidare alla discrezione altrui soprattutto in una faccenda come quella, che avrebbe voluto coprire col segreto di Stato, decise di metter via l'abbigliamento regale e di raggiungere da solo, in incognito, i filosofi, per consultarli, ma anche per poterli vedere da vicino. Prima però, volendo apprendere generalità, caratteristiche particolari e domicilio dei filosofi più importanti, s'intrattenne un pezzo con Momo e, gettando l'esca con lunghissime chiacchiere, riuscì a prendere all'amo qualche notizia utile. Nel corso di questa conversazione Momo tirò fuori dal petto i suoi blocchetti di appunti e li porse a Giove dicendo: "Per la fedeltà e l'amore che ti porto, Giove, ho ritenuto mio dovere dedicare un po' del mio impegno, nei limiti delle mie capacità, al successo della tua politica: ho tentato perciò di approfondire problemi che ritenevo riguardassero da vicino l'altezza del tuo potere. Tu, quando avrai tempo, potrai prender visione delle mie riflessioni in questi quaderni su cui le ho riportate, a patto che tu voglia accettare come pegno di fedeltà anche tutte quelle osservazioni che non ti convincono".

Giove prese i quaderni ma, congedato Momo, non li aprì nemmeno e li buttò in un angolo del suo studio senza badarci più di tanto; poi si preparò a partire, tutto pieno di eccitazione. Alla fine, però, dovette pentirsi amaramente d'aver fatto un simile pellegrinaggio: infatti, appena giunto sulla terra capitò nell'Accademia e vi trovò una quantità di strani personaggi che giravano di qua e di là perlustrando tutti gli angoli, come se stessero cercando un ladro che si era nascosto la notte. Vedendoli in preda a tanta agitazione Giove si stupì e rimase fermo all'ingresso dell'istituto. Ma poi, quando vide che tenevano tra le dita certe lucciolette a luce rossa e le usavano come lanterne nella penombra, attaccò a ridere, finché uno dei ricercatori non lo interruppe dicendo: "Ehi, bel tomo, sei venuto anche tu a cercare il nostro Giove dei filosofi!". "A cercare chi?" domandò Giove; e quelli subito: "Platone, il prodigio di natura! Siamo sicuri che si trova qui in istituto, ma non sappiamo dove trovarlo. Qualche volta abbiamo avuto la sensazione di sentire la sua voce, e a volte ci è parso anche di avere la sua faccia sotto gli occhi; ma lui, nisba! Un momento… Dov'è la tua lucciola?". A queste parole Giove cominciò a sospettare e a spaventarsi, pensando che quelli là, di cui s'era messo in testa che sapevano tutto, anche le cose più occulte, potevano svergognarlo con quella messinscena, rinfacciandogli di aver celato così male il sacro distintivo divino che si capiva chiaramente di essere di fronte a un dio, anche se non lo si poteva riconoscere abbastanza chiaramente. Perciò andò via di là, cominciando già a brontolare per l'idea di partire che gli era venuta. A un tratto, passando per un vicolo, notò in un cantuccio un tale che si rotolava dentro una botte puzzolente che era tutta un rottame, sbadigliando con la bocca a voragine; avvicinandosi a guardare con meraviglia l'uomo raggomitolato nella botte, gli fece casualmente ombra. Allora quel tipo chiuso là dentro gli fece certi occhiacci e lo apostrofò con una voce spaventosa: "Levati dai piedi, curioso che non sei altro! Visto che non mi puoi dare il sole, almeno non me lo togliere!". A questo punto Giove, irritato dalla scontrosità di quel rifiuto umano, si dimenticò per la rabbia della sua missione segreta ed esclamò: "Io ti posso dare il sole eterno e te lo posso togliere quando mi pare!". Appena quello ebbe sentito, tirò fuori la testa dalla botte come una tartaruga e cominciò a gridare: "Accorrete paesani, venite qua!", finché non si radunò di corsa un mucchio di operai; allora aggiunse: "Afferrate questo qua, è Giove! Fategli riempire di sole i vostri bassi e le vostre baracche!". Allora Giove, ricordando le disavventure di Momo e della dea Virtù, si aspettava qualsiasi colpo basso da quella massa di arroganti che lo circondava, e pensava che se la sarebbe cavata a buon mercato se avesse pagato la sua assurda decisione perdendo mezza barba e basta. Ma uno di quelli che si erano raccolti intorno, un padre di famiglia, gran brava persona, vedendolo atterrito e tutto tremante disse: "Forestiero, lascia perdere questo filosofo cinico che fa la vita che si merita, dato che ha deciso di non tenersi nient'altro che la possibilità di insultare e dar morsi a tutti". Ma Giove, appena seppe che quello lì era un filosofo, aggiunse naturalmente un nuovo motivo di sospetto alla fifa che aveva, pensando di essere stato riconosciuto di nuovo. Pensò quindi che fosse la cosa migliore filarsela di corsa alla larga da tutto quel popolino accalcato.

Mentre si allontanava, si accorse che in fondo a un avvallamento appena fuori le mura stava seduto un tale in mezzo a ripugnanti carogne di animali, forse cani forse topi, intento a squarciarle ad una ad una con un coltello da macellaio e a farle a pezzi. Siccome l'operazione gli era parsa stupefacente per un verso e ridicola per un altro, si avvicinò per rendersi conto meglio e si fermò vicino. Ma quell'uomo non era smosso per niente dall'arrivo di Giove; però ad un tratto, sentendo venire da una casa vicina il grido lamentoso di una donna che piangeva la morte del figlio, smise per un po' di sezionare animali e disse, guardando in faccia Giove con un sorriso: "Serve a molto volere l'impossibile?". Giove pensò che quella frase non si riferisse ‑ com'era in effetti ‑ alla donna, che forse avrebbe desiderato che suo figlio fosse immortale, ma a lui. Se ne andò dicendo: "Che malattia gli ha preso, agli uomini? Anche i pazzi si mettono a fare i filosofi!"; e ormai aveva deciso di tornarsene in cielo, a scanso di guai peggiori.

Uscendo dalla città, mentre passava a fianco di uno steccato che recingeva, con una siepe, il giardino di una casa, caso volle che gli sembrò di sentire dentro alcune persone che discutevano l'argomento dèi, e si scaldavano parecchio nella polemica. Si fermò. A un certo punto uno dei contendenti alzò di più la voce e attaccò a dire: "Perché vi siano chiare le mie opinioni, le espongo così: l'universo non è certo opera artigianale, né tanto meno si possono trovare architetti capaci di un lavoro così immenso; in effetti, questo mondo è immortale ed eterno, e siccome vi si possono osservare molti aspetti che sembrano porzioni di una sostanza divina, allora quest'intera costruzione in movimento è dio. Se c'è un solo dio in natura, mortale o immortale, chi sarebbe disposto ad obiettare che il mondo è destinato a finire? Forse crederà che un dio possa impazzire, o sarà pazzo lui, piuttosto, a pensare che un dio non voglia la conservazione di opere così grandi e perfette, ma la loro rovina?". Un altro obiettò: Io invece la penso così: nello spazio profondo infiniti mondi si formano e si logorano continuamente per effetto dell'aggregazione di particelle infinitesimali di materia". "Allora tu" intervenne un altro "escludi gli dèi? Bada che non stiano a sentire quanto sei empio: ogni cosa, infatti, è piena di divinità".

Sentendo queste ultime parole Giove rimase a bocca aperta e, data la sua fissazione, non la finiva più di chiedersi meravigliato da dove quella razza d'uomini avesse ricavato una tale chiaroveggenza da riconoscerlo per quanto si fosse nascosto accovacciandosi dietro la siepe di recinzione. "Non è possibile" disse "che io resti a lungo qui sulla terra senza danni": si diresse allora verso il cielo con la testa piena di una tale idea dei filosofi da farlo ardere dal desiderio di sapere quali conclusioni avrebbero tratto quei saggi a proposito del suo progetto: non aveva dubbi che quelli sapessero e potessero qualsiasi cosa, anche la più enigmatica e difficile, dopo che ne aveva avuto così chiara dimostrazione col fatto di averlo riconosciuto; e quell'idea era rafforzata dall'aver visto nell'Accademia, tra quegli uomini in cerca, alcuni personaggi dalla splendida barba, elegantemente vestiti e con la porpora sulle spalle, avanzare con passo quasi etereo, lo sguardo serenamente assorto, tanto che li riteneva degni di salire in cielo a tener lezioni agli dèi. Ma siccome voleva tenersi per sé la gloria dell'operazione come aveva deciso, e si rendeva conto che con la sua sola testa non ce l'avrebbe fatta, ebbe un'alzata d'ingegno. Fece venire Mercurio e gli ordinò di andar giù sulla terra a prendergli la dea Virtù: non stava bene, infatti, non aver messo a parte di una questione così importante una dea di tanto riguardo, la migliore di tutte. Mercurio rispose che non era facile rintracciare la dea, non tanto ben accetta agli dèi del cielo né a quelli dell'oltretomba, che probabilmente aveva fatto perdere le sue tracce proprio per questo motivo. Disse allora Giove: "Se non sbaglio la troverai in mezzo ai tuoi amici filosofi, che le si sono interamente dedicati". Mercurio rispose: "Non credere di poter trovare millantatori come quelli! Per fartela intendere, io stesso qualche volta ho chiesto a quelli là se avevano visto la dea, perché sono affezionato a Virtù; quelli giurano che lei è in grande intimità con loro, però, stringi stringi, non c'è mai". E Giove: "Tu comunque vai e domanda: bisogna fare così". Giove si comportava in questo modo perché sapeva quant'era curioso Mercurio, e come gli piaceva stringere continuamente nuove relazioni ospitali e nuovi rapporti d'affari; immaginava perciò che il dio linguacciuto, in mezzo alle chiacchiere che avrebbe fatto, com'era sua abitudine, sulle faccende divine che sapeva e anche su quelle che non sapeva, avrebbe potuto afferrare qualche informazione e gliel'avrebbe riferita, a tutto vantaggio dei suoi progetti.

Nel frattempo tra i celesti le passioni di parte e le rivalità tra le correnti erano degenerate al punto che tutto il cielo era diviso in non meno di tre schieramenti. Da una parte Giunone, che smaniava dalla voglia di costruire, metteva assieme con le buone o con le cattive un esercito, il più ampio possibile, di sostenitori, e lo teneva in riga con la parola d'ordine di difendere la salvezza degli uomini; dall'altra parte si formava spontaneamente uno squadrone di dèi di basso ceto e di tutti quelli che non se la passavano come avrebbero voluto: questi però coprivano lo smodato desiderio di mutamenti che li infiammava con la maschera della buona intenzione di far cosa gradita al principe degli dèi. Al centro dello schieramento stavano quelli che ritenevano grave e pericoloso mettersi alla testa di una massa indistinta e superficiale, ma non erano disposti a calar la testa di fronte ad un dio qualunque di bassa estrazione: essi si erano proposti di aspettare tranquillamente l'esito di quelle lotte, con l'intenzione di scegliersi al momento opportuno e in tutta sicurezza il partito in cui entrare di corsa, e muoversi in modo da spingere l'evolversi della situazione nel senso da loro desiderato. Tutti quanti insieme stavano appresso a Giove a chiedergli la medesima cosa, ma coi pretesti più svariati: c'era chi andava a congratularsi quando le cose marciavano secondo le sue aspettative, chi cercava d'intervenire in tempo se non andavano per il verso voluto, chi di afferrare al volo eventuali buone occasioni. La sostanza, però, era sempre quella: aspettavano che Giove si decidesse a comunicare le sue decisioni sul rinnovamento universale.

In questa situazione Giove, per togliersi di mezzo quella seccatura continua dei postulanti, fidando soprattutto nel buon esito della missione di Mercurio (era convinto di ottenere un successo sbalorditivo presentando a quella massa di dèi ignorantoni qualche splendida trovata dei filosofi), comunicò che alle prossime calende celesti avrebbe esposto in un pubblico discorso le sue decisioni, dando soddisfazione a tutte le categorie divine. Ma la speranza riposta in Mercurio lo deluse molto: arrivato sulla terra, infatti, Mercurio s'era tolto i calzari alati e si era diretto verso l'Accademia, ma nella stessa piazzetta dove sorge quella fabbrica di filosofi s'era imbattuto nel filosofo Socrate solo soletto: vedendoselo davanti scalzo e col vestito consumato, pensò che fosse un popolano qualunque, e quindi gli si presentò in tutto lo splendore del viso e della sua natura divina. "Ehi, buon uomo!" disse. "Dove sono quelle persone che fanno diventar gli uomini colti e buoni?". Socrate, che era uno di compagnia, veramente spassoso, osservando quel giovane forestiero di straordinaria bellezza, con quella sua abile maniera di discorrere che era per lui ormai istintiva cominciò a fargli partorire chiacchiere una dopo l'altra, finché venne a sapere che quello era Mercurio, e la ragione precisa per cui era venuto, e che cosa stessero preparando i celesti, tutto insomma. Nel frattempo arrivavano alla spicciolata gli allievi di Socrate, e quando Socrate vide che ce n'erano a sufficienza, lui per primo mise le mani addosso a Mercurio urlando: "Venite, amici cari! Acchiappate questo qui! Sarà un giovane di nobili sentimenti, ma è matto, matto da non credersi, matto come non se ne son visti mai! Che sciagura la condizione i umana! Quante vie per scombussolarci il cervello sa trovar la follia! Cosa c'è da commiserare in quelli che escono pazzi per amore, per l'odio, per le ambizioni e le voglie? Cosa c'è? Questo qui va dicendo in giro che è Mercurio e l'ha mandato Giove a cercare dov'è la dea Virtù raminga fuori del cielo, e che i celesti si preparano a distruggere l'universo per rimetterlo a nuovo! Che razza di follia è mai questa?". A sentire queste parole quelli che avevano afferrato Mercurio si sbellicavano dalle risa e non facevano molto caso a sorvegliarlo; allora Mercurio, che aveva piedi lesti, se la squagliò, e andò a finire, guarda caso, nel vicolo dove abitava Diogene dentro la botte. Allora si fermò, stanco per la corsa, in quel posto appartato dove non lo vedeva nessuno. Intanto un disgraziato figlio di mignotta, ubriaco per giunta, levò il bastone che si portava dietro contro la botte di Diogene ‑ già quasi alla fine, vecchia e fradicia com'era ‑ e la fracassò colpendola a tutta forza, dopo di che sparì di gran carriera. Diogene, incazzatissimo per quella provocazione, saltò fuori dalla botte scassata e, non vedendo nessun altro che Mercurio seduto, lo assalì brandendo lo stesso bastone che l'aveva colpito. Mercurio, atterrito da quell'inopinato assalto, gridava con tutta la sua voce: "Aiuto! Soccorso!" alla gente del quartiere, poi esclamò urlando, rivolto a Diogene che l'aveva picchiato: "Come ti permetti di fare una simile ingiustizia verso un uomo libero che non ti ha fatto niente?". Diogene ribatté: "Come ti permetti tu di lamentarti, se ti prendi da un servo quello che ti meriti? Tu, svergognato, tu, farabutto, sei stato tu ingiusto, che hai avuto il coraggio di stuzzicare uno che se ne stava per i fatti suoi, e gli hai distrutto la casa, l'hai strappato al suo focolare! Tua, sì, tua è questa intollerabile ingiustizia! In quel che ho fatto io non c'è ingiustizia, semmai c'è un errore, perché avevo mirato alla testa col bastone, non alla guancia!". Alle grida di Mercurio erano accorse un paio di persone che, appreso il fatto, lo invitarono a non prendersela troppo con un filosofo di quel genere. Poi si misero a rimproverare Diogene facendogli presente che non stava bene, per uno che si professava filosofo, non saper frenare la rabbia, e che era una colpa per lui non esser completamente privo di un difetto comunemente tanto biasimato; e poi non c'era cosa più vergognosa di un poveraccio senz'arte né parte che va fuori di senno per incapacità di sopportazione. Allora Diogene sbottò: "Ecco cosa mi tocca sentire! Si mettono a dar consigli proprio quelli che vorrebbero che io mi comportassi nei fatti miei come loro non si sanno comportare in quelli degli altri. Mi si ordina di sopportare con pazienza il mio dolore, quando non si riesce a mantenere un po' di controllo davanti a quello altrui!"

Mercurio, allontanandosi nero di bile, rimuginava così: "C'è da dar retta a chi sostiene che questo genere umano è pieno di saggezza perché maneggia tanta carta scritta, se alla prova dei fatti è una massa di forsennati? Mi domandavo come può essere che alla loro saggezza non sia unito un minimo d'amor proprio. Vanno in giro mezzi nudi, vivono in mezzo alla sporcizia, abitano nelle botti, soffrono il freddo e la fame. Chi li potrebbe sopportare, se loro stessi non si sopportano? Si privano di tutto ciò che gli altri desiderano. Ma non è una pazzia non volersi giovare di tutto quel che serve a vivere un po' più decentemente, al contrario di tutti gli altri mortali? Se credono di essere più saggi degli altri in una cosa del genere, questa è superbia, è una follia che mi fa pensare che essi commettano altrettanti errori anche in tutte le altre cose di cui si dichiarano grandi conoscitori. E se si rifiutano di esser simili agli altri uomini nei doveri della vita civile, vuol dire che una specie di brutalità selvaggia li ha invasati! Ma lasciamo al loro destino questi zozzoni, finché gli va di vivere in un modo così poco piacevole seguendo le loro odiose astruserie filosofiche!".

Fatti questi ragionamenti, tornò dai celesti, salutò Giove e disse ridacchiando: "Ero andato a spiare le intenzioni degli altri e ho trovato uno che mi ha strappato tutti i miei segreti!". Giove, vedendo Mercurio di ritorno così presto e con una guancia livida, gliene chiese conto e ragione; e non è facile dire se il racconto di quel viaggio gli procurò più piacere o dolore: piacere a sentire tutta quella storia spassosa, dolore a rendersi conto di essere sempre al punto di partenza. Quando ebbe parlato per un pezzo con Mercurio, che non la finiva più di lanciare ogni sorta d'improperi contro i filosofi, Giove disse: "Stai attento, questo tuo parlar troppo può essere un grosso errore, e forse per questo motivo quelli che tu criticavi te l'hanno fatta pagare come ti meritavi. So quel che dico: quelli là sanno un sacco di cose misteriose, più di quanto tu creda. E se si fossero accorti, con le loro doti di investigatori, che tu, Mercurio, hai la brutta abitudine di accusarli davanti a me, dicendo che sono dei ciarlatani?". Mercurio rimase piuttosto preoccupato a queste parole, e preferì cambiare aria. Allora Giove si mise a fare il punto della situazione e, in tanta penuria d'idee, si attaccò alla prima che gli venne in mente. Convoca a porte chiuse Apollo, l'unico di tutti gli dèi che riteneva molto saggio e molto affezionato a lui, e lo mette al corrente dello stato d'emergenza: non mancava molto alle calende fissate, e non aveva elementi per stendere il decreto da notificare all'assemblea generale degli dèi: insomma gli espone proprio tutto, tranne il viaggio suo e di Mercurio dai filosofi. Lo prega infine di prestare tutto l'appoggio possibile alla sua politica, giunta ormai quasi al punto critico. Apollo promette d'impegnarsi con tutto il suo zelo e la sua operosità nella difesa dell'autorità di un principe che era stato sempre così affettuoso con lui, nei limiti delle sue capacità di fronte a un'impresa così grossa; ma di sicuro non gli sarebbero mancati fedeltà e scrupolo, e non si sarebbe tirato indietro di fronte a fatiche, pericoli, difficoltà di ogni sorta pur di assicurare il successo a Giove. Lo invita poi a valutare se i suoi progetti si accordavano con certe idee che gli erano venute in mente. Infatti sulla terra c'è un tipo particolare di uomini, chiamati filosofi, parecchi dei quali si sono cimentati nel tentativo di ipotizzare nuovi modelli di mondo assolutamente originali; egli intendeva andarli a consultare, non avendo perplessità, in una situazione così incerta, a ricorrere alla competenza di tecnici dotati di una preparazione ad altissimo livello. Giove allora abbracciò Apollo e lo baciò, dicendo: "Ora sì che posso cominciare a respirare di sollievo grazie a te, Apollo! So come sei preciso e attivo: mi aspetto da te tutti gli interventi più opportuni a sostegno di questa causa. Vai, procedi pure, e io ti farò vedere che avrai lavorato per uno che si ricorda dei favori che gli fanno". Allora Apollo, preparandosi a partire, domandò: "Ti serve qualcos'altro? Non fare complimenti!". Giove rispose: "Be', sì veramente: tra i mortali c'è un certo Democrito, famoso perché taglia a pezzetti gli animali; se sia pazzo o sano di mente, i pareri sono discordi: c'è chi lo vuole un filosofo, chi uno strampalato. Io vorrei proprio assicurarmi del valore di quest'uomo". E Apollo: "Ma che importanza ha? Che c'entra col tuo problema principale, quello di rinnovare il mondo? Comunque, me la sbrigo subito: fai conto di saperlo già". Allora tirò fuori questi versetti dalla borsa dove conservava gli oracoli:

Qual messe o frutto dà la terra arata?

La gloria cos'è mai, se è gloria e basta?

Letti i versetti, esclamò: "Questo qui è il più stolto di tutti i mortali!". Giove ridacchiò e disse: "Per favore, tira fuori un altro oracolo e guarda se quello che ho nominato è un saggio o un dissennato". Apollo tirò fuori questi altri versetti:

Sapere avrei voluto quanto danno

fa un colpo sfortunato.

“Allora" disse "è proprio il più saggio di tutti!". A questo punto Giove esclamò, ridendo a crepapelle: "Che buffone! Cosa dovrei dire di questi tuoi oracoli che hanno il potere di trasformare di colpo Democrito da stolto a sapientissimo? Non potevi trovarne una diversa?". Apollo replicò: "Ma se è chiarissimo cosa vuol dire! Ora ti spiego: all'interrogazione di Apollo, a cui spetta illuminare il giorno, l'oracolo ha risposto dicendo che tipo è Democrito di giorno; invece poi a quella di Giove, a cui spetta tutto, tolto quel che ha distribuito agli altri, l'oracolo ha esposto, chiaro come l'acqua, com'è Democrito in tutto il resto del tempo: così, bisogna che ci convinciamo a questo punto che quell'uomo di notte brilla di saggezza, di giorno sragiona". Risero, poi Apollo andò via.

Giove, pieno di speranza, aspettava le calende con grande eccitazione. Quando queste arrivarono, gli dèi si radunarono a frotte, tutti contenti, nell'atrio della reggia, come facevano di solito in tali ricorrenze, e stavolta anche in attesa del suo discorso, però Apollo non si vedeva proprio: allora Giove era lì lì per crollare dallo sgomento. I Fati, che avevano il compito di badare ai fuochi sacri, si stavano già preparando a eseguire il cerimoniale. Dalla parte opposta c'era una folla fittissima di dèi che chiedevano a Giove di tenere quel famoso discorso che era il principale motivo per cui erano venuti. Lui non se la sentiva di affrontare un pubblico così ansioso, dato che non aveva preparato neanche qualche appunto, però pensava che non fosse conforme alla serietà di un principe, e nemmeno tanto conveniente, mettersi sotto i piedi il suo stesso decreto che fissava il discorso: si rendeva conto di come fosse importante per Giove non esser minimamente considerato volubile e incostante, e di quanto convenga ai governanti far quadrare tutti i loro conti, per così dire, se vogliono dormire fra due guanciali, sicuri d'aver preso decisioni giuste ed equilibrate. Quindi, per dar qualcosa da fare a quegli dèi impazienti, creando magari un po' di confusione, in modo da intrattenerli per un po' distraendoli da quella faccenda per lui così complicata, ordina ai Fati di dare inizio alla cerimonia: lui sarebbe arrivato subito e avrebbe pensato a sbrigare tutto il resto. Ecco dunque i Fati in alta uniforme, impettiti con una mano alle porte, passare in rassegna le file di dèi e di dèe che entravano, e ravvivare a tutti i celesti le fiammelle sacre che, come s'è detto, stanno alla sommità della loro testa in segno di divinità. Intanto Giove, mentre cerca di far passare il tempo chiuso in una stanza appartata, piomba in fondo alla depressione. Alla fine esce, più per far qualcosa che sapendo cosa fare, ed entra nel sacro parlamento. Allora, terminata la cerimonia rituale secondo le sacre tradizioni antiche, i parlamentari divini cominciano a rendere omaggio a Giove, e intanto si comincia a notare l'assenza di Apollo, in pratica l'unico assente fra tutte le più alte personalità: anzi, c'era chi iniziava a irritarsi per quella mancanza di riguardo. Giove non poteva giustificare l'assente, ma nemmeno sopportare con calma quelli che lo accusavano: perplesso più che mai, cercava di prender tempo in tutti i modi. Alla fine ebbe l'idea di nominare Momo presidente dell'assemblea, non perché lo ritenesse degno di tanto onore, ma per far vedere a certi dèi sfacciati e presuntuosi che lui aveva tutte le buone intenzioni di favorire quelli che imparavano a non pretendere di dare ordini, ma ad essere accondiscendenti e ossequiosi. Gli ordina allora di far entrare in sala le diverse classi di dèi, di far sedere tutti al loro posto e di farsi suo portavoce davanti all'adunanza, riferendo che Giove desiderava che le sue azioni e i suoi progetti incontrassero la massima approvazione generale, perciò aveva deciso di regolarsi secondo le preferenze di tutti, nessuno escluso, per quanto gli era possibile; di conseguenza, prima di manifestare la sua decisione voleva accertarsi se c'era qualcosa che essi intendevano conservare di quell'enorme massa che era il mondo, per trasferirla integralmente nella nuova realizzazione, o se preferivano buttar giù tutto quanto riducendolo ai minimi termini. Giove voleva che sull'intera questione si aprisse un dibattito franco ed aperto, in cui ciascuno avesse la massima libertà di esprimere le proprie opinioni su quello che riteneva più conveniente tanto nell'interesse personale quanto in quello generale: egli non sarebbe stato presente alla seduta per una scelta di opportunità, volendo evitare che gli dèi di condizione inferiore e quelli non avvezzi a parlare in pubblico s'intimidissero per la presenza del re e magari si sentissero impacciati a manifestare le proprie impressioni. Questa delega fu all'origine di grosse grane impreviste. Forse Momo, acuto e sveglio com'era, aveva il presentimento di quello che sarebbe accaduto, ma non aveva il coraggio d'infastidire Giove dandogli nuovamente consigli, dopo che gli aveva già prestato la sua consulenza per iscritto su quei famosi quaderni; tuttavia era convinto che si dovesse in qualunque modo toglier di testa a Giove quella sua smania di voler cambiare il mondo. Disse perciò: "Giove, potresti dirmi per cortesia se hai letto il manoscritto che hai avuto da me qualche giorno fa?". "Ne parliamo dopo", fece Giove "ora pensa alle cose urgenti". Giove non si ricordava nemmeno che gli fosse stato dato un manoscritto.

Momo trovò i parlamentari con una gran voglia di mettersi al lavoro, e talmente ben disposti per il desiderio di novità che quasi non credeva ai suoi occhi vedendoli mettersi in ordine e far silenzio così di buon grado; ma non appena cominciò a espletare il mandato di Giove esercitando le sue funzioni di presidente dell'assemblea, sentì subito che c'era stato un grosso cambiamento nello stato d'animo di tutti quanti, e non sarebbe stato possibile trovare altri motivi per aumentare il malumore impresso su quelle facce. È appena il caso di ricordare quanta invidia verso Momo e quante recriminazioni nei confronti di Giove furono suscitate da quella nomina, sia tra le personalità di prestigio sia tra gli dèi d'infimo grado: non ce n'era uno a cui la vista di Momo non provocasse fastidio e irritazione, non fossero moleste le sue parole, antipatico il suo modo di fare; l'odio contro Momo s'infiammava a tal punto che questi si sentiva gridare insulti sul muso, e dovunque girasse gli occhi vedeva gente che si metteva a fischiare e a far gestacci per provocarlo. Però tutti, per quanto eccitati al punto di trattenersi a stento dal fare a pezzi gli scranni per armarsi e assalire Momo, cercavano di controllare la loro rabbia per paura del sommo Giove.

Finalmente, su richiesta dell'assemblea, prese la parola per primo Saturno, con una voce così impacciata, parole così rade e movimenti così stanchi che il suo si sarebbe detto un tentativo di discorso più che un discorso: pochi riuscirono ad afferrare qualcosa di quel mormorio; alcuni comunque riferivano che Saturno aveva detto che si scusava se l'età avanzata non gli permetteva di parlare meglio, dato che aveva i fianchi e il petto rovinati, era senza fiato, la vecchiaia l'aveva rattrappito e gli aveva consumato le forze. Subito dopo prese la parola Cibele, la madre degli dèi: tentennò a lungo, deglutendo in continuazione come tutte le vecchie, e alla fine, dopo essersi osservata per un pezzo le unghie, disse: "In effetti, era proprio il caso di riflettere su problemi così gravi ed insoliti!". Il terzo intervento fu quello di Nettuno: questi divagò in lungo e in largo a forza di banalità e di luoghi comuni, parlando con voce stridula, con un tono sgradevole, quasi alla maniera di un attore tragico, e riuscì a dar la sensazione di aver discusso di tutto, tranne dell'argomento all'ordine del giorno. Venne poi il turno di Vulcano, il quale concentrò tutto il suo intervento sulla vibrante affermazione che era proprio ammirato di vedere nel novero degli dèi tanti elementi così ingegnosi che sapevano trattare con competenza e precisione i problemi per cui era stata convocata l'assemblea. Marte poi, quando toccò a lui, dichiarò che l'unica cosa che aveva da dire sull'argomento era che lui si sarebbe tenuto pronto a intervenire in qualsiasi momento sotto il comando supremo di Giove, e avrebbe prestato la sua opera nella distruzione totale del mondo. Il discorso di Plutone sembrò ispirato a una certa avidità: fece sapere, infatti, che lui disponeva di nuovi modelli di mondo davvero splendidi, ed era pronto a esibirli, se si fossero accordati sul prezzo, dato che aveva deciso di non concedere le sue prestazioni professionali senza la prospettiva di un guadagno. Ercole, ora che gli si presentava l'occasione di fare davanti a un'assemblea così numerosa e ricca di personalità di prestigio quel discorso di autocelebrazione che si era preparato da un pezzo, non se la lasciò certo sfuggire: esaltò con un sacco di paroloni le sue imprese, e promise grandi cose per l'avvenire; in conclusione, dichiarò di rimettersi al parere di Giove sull'intera faccenda. Venere fece ridere tutti: assicurava di aver escogitato certe novità che erano proprio capolavori, però un piccolo particolare era di grosso impedimento: comunque avrebbe consultato lo specchio, il migliore dei maestri. Diana s'impegnò a reperire un architetto bravissimo: però i professionisti di quella categoria non erano disposti ad accettare le osservazioni degli incompetenti, volendo evitare che altri, tanto per dare l'impressione d'aver fatto qualcosa, rovinassero e deturpassero con interventi di modifica le loro elaborazioni artistiche. Più avveduta fu giudicata Giunone, che proponeva di fare parecchi mondi di forme svariate, fino ad esaurimento delle scorte. Quando arrivò infine il turno di Pallade, essa, recitando la parte concordata in precedenza con Giunone e gli altri compagni di fronda, dichiarò di dover necessariamente conferire con Giove in persona; a quel punto saltarono in piedi diversi dèi (ai quali il piano fraudolento che era stato preordinato assegnava questo compito) a protestare ad alta voce, criticando la superbia di Pallade, che riteneva una simile assemblea di personalità divine indegna di ricevere comunicazioni su progetti elaborati nel comune interesse; quella ribatté stizzita; allora molti, eccitati dalle passioni di parte, lasciarono i banchi e cominciarono a scambiarsi invettive, dando vita a una mischia schiamazzante. Momo, vedendo quella gazzarra e quella confusione tra i banchi, richiamava all'ordine ora l'uno ora l'altro con quella sua voce tonante che superava tutte le altre, gridando a tal punto che in mezzo a quell'assemblea così affollata si sentiva solo lui. Dopo aver fatto invano ripetuti tentativi di riportare la calma nell'assemblea, irritato da quella situazione indecorosa cominciò a trascendere, al punto che la rabbia gli fece perdere il controllo di quello che diceva: per esempio, disse che non avevano avuto torto i mortali a prescrivere, con una norma antichissima e solenne, l'interdizione perpetua delle donne dai pubblici uffici; e addirittura esclamò: "Quale tana d'ubriaconi si può paragonare a questo casino?". La frase, udita dall'intera assemblea, colpì gli animi già gonfi di rabbia di tutti, che del resto ce l'avevano con lui fin dall'inizio della seduta; ecco cosa dicevano: "Ah, è così? Momo con quella barbetta morsicata è stato richiamato dall'esilio per ergersi a nuovo censore, con nostra vergogna?".

La dea Frode, cogliendo un tale stato d'animo dell'assemblea, pensò di sfruttare la circostanza: ecco che va di corsa da Giunone e esorta con insistenza a tenere a freno quella belva scatenata che permetteva di offendere tutti così spudoratamente. Giunone già per conto suo aveva da un pezzo sufficienti motivi di antipatia contro Momo; adesso, istigata dalla dea Frode, si lasciò andare a un'azione senza precedenti. Buttò via il mantello ed esclamò: "Tutte da questa parte, signore! E tu, Ercole, afferra Momo e portalo subito qui: così comanda la sorella e la moglie di Giove!". Ercole non se lo fece dire due volte: afferrò Momo per la zazzera che gli copriva mezza fronte, e per quanto si dibattesse di qua e di là strillando, con la gran forza che aveva se lo rovesciò sul dorso e lo portò davanti a Giunone a testa in giù, col collo allungato, che pareva un pezzo di legno. Immediatamente moltissime dèe misero le mani addosso allo sventurato. Non entro nei particolari: per mano delle femmine Momo, da maschio che era, divenne uno che maschio non era più: gli strapparono completamente gli attributi e lo fecero precipitare nell'oceano. Subito dopo, con Giunone alla testa, corrono da Giove a presentare le loro lagnanze e a porgli un ultimatum: o relegava Momo, il pericolo pubblico numero uno, oppure doveva mandare in esilio la totalità delle dèe. Delle signore divine non potevano vivere tranquille in luoghi frequentati da quel maniaco mostruoso; perciò lo supplicavano (con qualche lacrima di contorno) di ascoltarle e di provvedere all'incolumità di tante persone care e affezionate a lui col castigo di un solo criminale, piuttosto che andarsi a cercare l'ostilità di tutto il cielo per favorire uno sciagurato.

Giove, per quanto non fosse molto contento per via del precedente più che del fatto in sé, decise tuttavia di fare la concessione richiestagli con tanto ardore e a furor di popolo. Infatti i movimenti di massa erano sempre stati un pericolo per lo Stato se non venivano repressi, e non c'era altro modo per reprimerli che fare concessioni. Sotto un certo aspetto, poi, non poteva proprio lamentarsi che fosse andata a finire così, soprattutto perché in questo modo si era liberato dell'angoscia che lo opprimeva, non avendo un discorso presentabile da fare all'assemblea in attesa. Allora fece un cenno col capo, e subito si calmò il cicaleccio di quelle femmine petulanti; poi sintetizzò in un breve discorso tutta la sua indignazione per l'indecorosa gazzarra: si disse molto più addolorato del fatto che una simile smania di rovinare Momo avesse preso tante persone a lui care, anche sue parenti, di quanto fosse intenzionato a rimproverarle: avrebbe preferito che non si fosse agito per impulso, senza riflettere, anche perché ci fosse la possibilità di tenere un dibattito sereno e pacato finché non fosse arrivato lui a comunicare le sue decisioni; dato che ciò non era possibile per la disgrazia di Momo, non volendo dire per l'intemperanza dei suoi cari, affermò di ritenere più opportuno non procedere, per il momento, secondo le precedenti decisioni: non aveva rimorsi a soprassedere, visto che gli animi delle autorità erano ancora sovreccitati; comunque molto presto avrebbe riferito al comitato ristretto degli dèi principali su tutte le soluzioni utili e necessarie allo Stato che fosse riuscito a trovare.

Quando quella folla di donne scatenate uscì finalmente dalla stanza, s'incontrò per combinazione con Apollo di ritorno dalla terra; appena lo videro, siccome lo ritenevano un indovino bravissimo a far previsioni sul futuro, pensarono che si fosse tenuto fuori di proposito da quella baraonda, non senza buoni motivi. Perciò dicevano, strizzandogli l'occhio: "Ah birbantone! Tu sì che ci sai fare! Come sei bravo a stare al mondo, evitando i pasticci!". Si formò allora una calca attorno ad Apollo, e restavano tutti in piedi a spingersi davanti all'ingresso, premuti in mezzo a quel viavai di persone. In quella confusione c'era anche la dea Notte, che ha una straordinaria passione per i furti, anzi, ha acquisito una tale abilità in quell'arte che potrebbe rubare perfino gli occhi ad Argo, se volesse. Appena essa vide la borsa rigonfia di oracoli che pendeva al fianco di Apollo l'afferrò con una destrezza tale che nessuno si accorse assolutamente del colpo. Intanto Apollo, salutando ora questo ora quello, apprese la cronaca dell'assemblea, e si rallegrò, a parte il resto, che tutto si fosse risolto a vantaggio di Giove. Entrò allora da Giove tutto allegro, ma inaspettatamente fu ricevuto con un'espressione più accigliata del normale. Giove chiese infatti, dopo aver mandato via tutti gli altri: "Perché cavolo sei tornato così tardi?". Apollo rispose: "Non ho avuto altro pensiero che eseguire con efficienza e rapidità i tuoi ordini. Però quei filosofi che ho avvicinato hanno una formazione mentale che non gli permette di esporre nessun concetto peregrino senza avvolgerlo in enormi giri di parole, quindi mi hanno trattenuto mio malgrado con divagazioni interminabili; pensavo tuttavia che si dovesse stare a sentirli, poiché cercavo di soddisfare con la massima precisione le tue aspettative. Certo però che sono tutti quanti dei parolai, escluso Socrate, senonché anche lui qualche volta si mette a divagare con certe domandine, e sembra puntare ad altro; tuttavia, comunque la si giri, a me è sempre parso una brava persona, l'ho proprio visto di buon occhio e ho infuso in lui quel tanto delle mie caratteristiche che basta ad evitare guai e disgrazie. Apprezzerò sempre l'animo disinteressato di quest'uomo, il suo autocontrollo, l'umanità, la simpatia, la serietà, l'integrità morale, assieme alla sua passione per la ricerca del vero e al suo culto della virtù. Una volta gli ho sentito fare una dissertazione splendida, veramente memorabile, nella quale ha dimostrato ampiamente la superiorità delle sue idee: quando me la sentirai esporre, credo che non ti peserà più il fatto che io mi sia attardato un po' ad ascoltarla attentamente, e forse ammetterai che non c'è ragionamento più adatto di questo per sistemare bene la tua politica. Se ti va di concentrarti nell'ascolto, te la riassumerò in poche parole". Allora Giove: "Sì, sì, parla: è sempre utile godere dei discorsi e delle massime dei saggi, anche quando non riguardano direttamente i problemi del momento". Apollo riprese: "Tra i filosofi ho trovato solo due persone dalle quali ho sentito fare discorsi davvero seri e perfettamente coerenti: Democrito e Socrate. Ti parlerò di Socrate, ma prima voglio raccontarti un aneddoto su Democrito che dovrebbe toglierti dal viso quest'insolita espressione preoccupata e restituirti il buonumore. Sentirai una storia divertente, ma anche molto profonda. Ho incontrato Democrito intento ad osservare un granchio pescato in un torrente lì vicino, con l'espressione attonita e gli occhi pieni di stupore, tanto che anch'io son rimasto stupito a vederlo così. Sono rimasto fermo lì per un po', poi ho cercato di rivolgergli la parola, ma lui non si destava mai da quel suo sonno ad occhi aperti (se è così che lo devo intendere). Ho pensato perciò che era meglio lasciar perdere quella statua di Democrito, per così dire, finché non si fosse svegliata da sola, piuttosto che star lì a sprecar tempo. Ho potuto così andare un po' in giro, e ho incontrato tanti altri filosofi, a caterve; e chi non criticherebbe le loro abitudini? Chi non detesterebbe quel genere di vita? Chi è in grado di comprendere e approvare i loro discorsi e le loro idee? Sono proprio oscuri, ambigui come nient'altro". Giove allora disse con un sorrisetto: "Come! Tu, Apollo, che sei il maestro nell'arte dell'interpretazione, non sei capace d'interpretare i discorsi di costoro?". Apollo rispose: "Ti devo confessare che qualunque altra cosa mi riesce più facile: quei ragionamenti sono così mutevoli e vaghi da un lato, così in contrapposizione, così in contraddizione dall'altro! Ma lasciamo perdere. La sostanza è che gli uomini di questo tipo non si trovano mai d'accordo su un solo ragionamento, ma si contraddicono tra loro in tutte le loro idee, mentre l'unica scemenza in cui vanno tutti d'accordo è che ognuno di loro è convinto che tutti gli altri uomini siano pazzi furiosi, tranne quelli che hanno il loro stesso tipo di vita, di abitudini, passioni, desideri, sentimenti, metodi e così via. Inoltre quel che piace ad uno non piace all'altro, quel che uno detesta gli altri non lo detestano, quel che commuove gli uni lascia indifferenti gli altri: e si offendono pure, per questo! Quindi, è difficile dire quante aspre polemiche siano scoppiate tra loro, perché ricorrono anche agli insulti e alla violenza, ogni volta che possono, pur di spingere tutti gli altri a seguire i loro principi; ti riuscirebbe difficile ammettere che una tale follia si annidi in uomini che han fatto della sapienza la loro professione!". Disse allora Giove: "Perché dovrei stupirmi se i filosofi vorrebbero far vivere gli altri a modo loro, se vedo continuamente anche persone del popolo chiedere agli dèi, come gli fa dire la testa, ora la pioggia, ora il sole, il vento e anche i fulmini, eccetera eccetera?". Rispose Apollo: "Non m'interessa cosa fanno gli altri. A proposito di costoro, di una cosa sono convinto: fin tanto che ciascuno di loro vorrebbe che il mondo andasse come vuole la sua follia, fin tanto che non hanno nessuna certezza stabilita, sono convinto, ripeto, che se vorrai dar retta alle loro assurdità dovresti metterti a creare un numero infinito di mondi che cambiano secondo come gli gira sul momento, oppure uscir pazzo per le continue proteste dei postulanti. Ma basta parlare di tutta questa razza di filosofi! Torno a Democrito. Mi avvicino di nuovo a lui e lo trovo intento a tagliare a pezzi quel granchio che stava osservando con tanto stupore, come avevo detto: con la testa china e lo sguardo concentrato, se lo andava studiando di dentro guardando attraverso le viscere, e faceva il conto dei nervi e degli ossicini. Lo saluto, ma quello, manco per il cavolo! Non posso fare a meno di ridere: sentirai che buffo, Giove! Mi è venuta un'idea: ho preso una cipolla dal campo vicino, l'ho divisa in due e mi son piazzato di fronte a lui, poi mi son messo a imitare tutti i gesti e i movimenti che faceva: lui corrugava il viso, e io pure; piegava la testa da un lato, e io pure; sporgeva in avanti certi occhioni, e io pure. Insomma, facevo di tutto per essere simile a lui, e c'ero riuscito quasi completamente: l'unica differenza era che Democrito aveva gli occhi asciutti, io invece li avevo pieni di lacrime per il fastidio che mi dava l'odore pungente della cipolla. Per non farla lunga, con quella trovata da buffone ho ottenuto lo scopo che non avevo potuto raggiungere facendo la persona seria, cioè riuscire a parlare con lui. Infatti mi osservò da capo a piedi ridacchiando, poi disse: 'Ehi tu, cosa fai lì che piangi?'. Allora io replicai, squadrandolo a mia volta: 'Tu piuttosto che fai? Che hai da ridere?'. Lui disse: 'Te l'ho chiesto prima io'. Rispondo: 'Ma io ti ho risposto per primo'. Allora, vedendo che la cosa poteva finire in lite, fece un gran sorriso e disse: 'E va bene, sei tu il più bravo! Allora io ti spiegherò cosa sto facendo. Da tempo dedico molto lavoro a sventrare gli animali (mi sembrava empio sezionare col ferro gli esseri umani) per scoprire il luogo dove ha sede il principale malanno degli esseri viventi, la collera, e capire così l'origine degli scatti, dei bollori, del fuoco che sconvolge la mente umana e distrugge ogni forma di razionalità: pensavo di trarre da tale scoperta molte conseguenze della massima utilità per la vita umana. Riuscivo a fare alcune osservazioni pienamente soddisfacenti riguardo alla maggior parte degli animali, ma per quel che concerne l'uomo non riuscivo a comprendere l'origine di quelle eccitazioni che portano alla follia. Ecco cosa ho scoperto: più o meno in mezzo al petto c'è un umore che, per effetto del soffio continuo delle fiammelle vitali, si riscalda e si riversa nel sangue in modo da formare singoli composti delle sue varie particelle; uno di questi composti scorre formando una schiuma quasi impercettibile alla superficie del sangue e va a confluire in un piccolo condotto che madre natura ha predisposto allo scopo. Questo liquido dalla struttura infiammabile ha la caratteristica di scaldarsi e andare in ebollizione ogni volta che si agita il cuore oppure un'infiammazione d'origine esterna si attacca in fondo alle viscere; allora le sue scintille penetrantissime, assottigliate dalla natura stessa del composto e spinte dall'alta temperatura, entrano in circolo velocissime e risalgono fino alla sede della ragione, la invadono completamente, ed esercitando una pressione violenta e disordinata fanno scoppiare l'incendio nelle parti più profonde del temperamento naturale, fino a sconvolgere del tutto la mente con i loro continui stimoli. Ho osservato chiaramente questo fenomeno negli altri animali; adesso però avevo deciso di dedicare un'indagine più accurata a questo animale che ho tra le mani, che mi sembrava particolarmente fornito di attributi naturali adatti a qualsiasi forma di duro combattimento. Ha la corazza, ha le tenaglie, madre natura ha provveduto a coprirlo interamente di scaglie; così, sapendo che le armi sono fragili e perfettamente inutili se non c'è l'impulso aggressivo, avevo motivo di ritenere che la natura lo avesse fornito anche di molte sostanze eccitanti per stimolarne l'aggressività: però non riesco a localizzarle, e la cosa che mi sconcerta di più è che non riesco nemmeno a trovare il cervello di questo animale, e la ragione non permette di pensare che questo solo essere vivente sia privo di cervello, infatti l'animale si muove, quindi è necessario che abbia un cervello da cui riceve forza vitale, dal momento che tutto il sistema nervoso si dirama proprio dal cervello. Come possa mancare di cervello questo qui, che ha la possibilità di fare tanti movimenti con la forza e la varietà delle sue membra, non riesco a comprenderlo'. Così parlò Democrito. Allora, per fargli vedere che anch'io ero capace di speculazioni astratte, saltai su a dire che stavo studiando la cipolla che avevo in mano per sapere se gli dèi avrebbero distrutto il mondo o l'avrebbero conservato in eterno. Quello esclamò: 'Che indovino da operetta che sei! Dove ti sei andato a cercare questa nuova maniera di prevedere il futuro?'. Rispondo: 'Ma se è una diretta conseguenza dei ragionamenti che fate voi quando vi mettete a sottilizzare, e dimostrate che il mondo è un'enorme cipolla!'. E lui: 'Questa è davvero carina, indagare in una sfera così piccola la sorte del mondo così grande! Ma che c'è? Cos'hai trovato di tanto sgradito in questo interno di cipolla, che ti fa piangere?'. Io: 'Vedi qua, nella cipolla tagliata, la lettera c e la lettera a? Non è evidente per te quello che vogliono dire?'. Lui: 'Come? Tu credi che la cipolla parli, come certuni dicono che il cielo canta?'. Io: 'Ma no! Ma se te lo mettono davanti agli occhi! Metti insieme la a e la c: o affonderà, dicono, o crollerà; separale: non dicono la stessa cosa, cioè che il crollo avverrà?. A questo punto quello scoppiò in una fragorosa risata: 'E allora' disse 'tu, benedetto figliolo, piangi la distruzione totale del mondo! Ma guardatelo! Dove pensi che gli dèi butteranno le macerie del mondo attuale, se hanno intenzione di distruggerlo?'. Sono rimasto senza parole di fronte a questa affermazione, che mi sembrava profonda e quanto mai attinente al nostro problema; e dicevo fra me: 'Tu sì che hai cervello, mentre avrei detto che ti mancava, quando lo andavi cercando nel granchio!'.

Ora basta con Democrito, torniamo a Socrate, quell'uomo straordinario che merita ogni elogio. L'ho trovato in un laboratorio di calzature che faceva un sacco di domande a un artigiano, al solito suo: ma sono cose che non ci riguardano". Intervenne Giove: "Bel tipo d'uomo straordinario, come dici tu, uno che se la passa con i calzolai! Ma dimmi, Apollo, ti prego: cos'erano tutte queste domande di Socrate? Ho proprio voglia di sentire discorsi veramente suoi, non roba messa assieme da altri e attribuita a lui". "Quella volta, se ben ricordo, diceva così: 'Dimmi una cosa, artigiano: se decidessi di fare una scarpa di classe, non penseresti che ti sia necessario cuoio di prima qualità?'. 'Certo che lo penserei' rispose quello. E Socrate: 'Per un lavoro così prenderesti il primo cuoio che capita, oppure credi che sia meglio sceglierlo da un campionario?'. 'Sì che lo credo' rispose. Socrate aggiunse allora: 'E come fai a riconoscere la qualità del cuoio? Non ti metti davanti un qualche cosa che, tastando i vari tipi, ti è parso un cuoio particolarmente buono e adatto allo scopo, per poter scegliere attentamente il tuo mettendolo a confronto con questo, e vedere più chiaramente cos'ha di più o di meno ciascun altro tipo?'. 'Faccio così' rispose l'altro. E Socrate: 'Colui che ha fatto quel cuoio di prima qualità, c'è arrivato per caso o con un metodo, per farlo senza nessun difetto?'. 'Con un metodo' disse l'artigiano. 'E qual è stato il metodo' disse Socrate 'per affrontare quell'impegno? Forse quello che aveva imparato con l'esperienza, con la sua pratica nel lavorare il cuoio?'. 'Proprio quello' rispose l'artigiano. 'Forse' disse Socrate 'anche lui nell'approntare il cuoio ha fatto gli stessi confronti che faresti tu per sceglierlo, mettendosi a osservare insieme le parti ed il tutto, finché il cuoio da confezionare non corrispondeva punto per punto a quello che lui aveva in testa'. 'Proprio così' fece l'altro. E Socrate: 'E se non avesse mai visto lavorare il cuoio? Dove diavolo avrebbe preso quel modello ideale di cuoio di ottima qualità?'". A questo punto Giove, che aveva seguito con grande attenzione tutte queste domande, se ne uscì con una straordinaria esclamazione di entusiasmo per Socrate: "Che uomo meraviglioso! Oh, devo proprio dirlo un'altra volta: che uomo meraviglioso! Lasciamo stare che Socrate ti abbia riconosciuto, caro Apollo, per quanto ti fossi travestito; di lui oserei dire che sapeva chi eri, e per quali affari e con quali intenzioni eri venuto: insomma, sapeva proprio tutto. Il fatto è che i filosofi, per quanto risulta alla mia esperienza, hanno un'acutezza tutta particolare nell'indagare qualunque mistero, così grande in tutta la loro categoria da superare ogni immaginazione. So quel che dico, lo so perché ci sono passato! Ma guarda un po' come ti ha saputo servire a puntino, appena ti ha riconosciuto e si è reso conto di tutto! Capisco dove vuoi andare a parare coi tuoi doppi sensi, caro il mio Socrate! Vuoi dire che bisognerà rifare il mondo prendendo a modello questo qui, nella cui creazione ho tirato fuori ogni sorta di bellezze, oppure si dovrà procedere per tentativi, fino a quando il caso non ce ne metta davanti uno perfetto. Ma che altro ha detto, che altro?". Apollo rispose: "A quel punto l'artigiano ha detto di non saper rispondere alla domanda ed è rimasto zitto. Allora mi sono fatto avanti educatamente, e lui mi ha accolto nel modo più ospitale. Abbiamo parlato un pezzo, di cose su cui sarebbe lungo soffermarsi; per quanto ci riguarda più da vicino, ho trovato interessantissima soprattutto la sintesi che ha fatto a conclusione d'una serie di domande minute: diceva più o meno che questo mondo nel quale è contenuta ogni cosa è fatto evidentemente in modo tale che non esiste, all'infuori di esso, nient'altro che nessuno possa aggiungergli. Ma se non gli si può aggiungere niente, non gli si può nemmeno togliere niente, non lo si può nemmeno distruggere: come si può aggiungere qualcosa, infatti, a un mondo all'infuori del quale nulla può esistere? E come si fa a distruggere ciò che non è soggetto a disgregazione?". Intervenne Giove: "Questa però, comunque la si presenti, è un'osservazione trita e ritrita, per niente paragonabile a quella di poco fa sul calzolaio". Rispose Apollo: "Stai attento a sputare sentenze, Giove: potresti seguire i pregiudizi più che la verità. Non vorrei che l'eccessivo prestigio di cui gode quest'uomo ai tuoi occhi ti abbia fatto cadere in errore, e ti ci faccia restare: nessuna cosa quanto la simpatia, infatti, ha una gran forza di persuasione, e non ce n'è una capace di oscurare la verità più di quanto lo sia il prestigio. Pitagora ha ottenuto un tale prestigio che i suoi discepoli non facevano caso se quello che sosteneva fosse vero o falso, accettavano tutte le sue opinioni, non avevano il coraggio di contraddirne o metterne in dubbio nessuna, insomma, pretendevano che gli altri prendessero per buone e provate anche le affermazioni più assurde, al punto che anche quando andava dicendo di essere di ritorno dall'aldilà giuravano che diceva il vero". Giove allora: "Questo discorso capita a proposito: stavo appunto per domandarti se ti sei incontrato con qualcun altro dei filosofi più famosi, che so, Aristotele, Platone, lo stesso Pitagora eccetera. E allora? Ne hai ricavato qualche perla rara?". Apollo rispose: "Aristotele me lo son visto gesticolare davanti, dopo che aveva preso a pugni Parmenide e Melisso, non so che filosofo da quattro soldi: attaccava briga con tutti quelli che incontrava, e con un'aria di superiorità insopportabile e un'incredibile prepotenza non dava a nessuno la possibilità di esprimersi. Teofrasto l'ho visto accatastare tutti i suoi scritti per bruciarli. Di Platone qualcuno diceva che era molto lontano, in quel suo Stato invisibile che aveva fondato. Quanto a Pitagora, ho sentito dire che pochi giorni innanzi era stato riconosciuto in un gallo, e forse adesso lo si sarebbe potuto trovare in una gazza o in qualche pappagallo chiacchierone: lui infatti aveva l'abitudine di passare da un corpo all'altro". A questo punto Giove esclamò: "Oh, Apollo, come mi piacerebbe tenere in gabbia a casa mia un filosofo del genere! Come diventerei bravo a condurre gli affari di governo! Che ne pensi? Non c'è nessun modo di catturarlo?". Rispose Apollo: "Perché non dovrebbe farcela un cacciatore esperto, purché lo riconosca?". E Giove: "Qui sta il difficile, riconoscere l'intelligenza di un filosofo in un corpo senza valore". Apollo: "Ma no, è facile, basta stare attenti!". Giove: "Come, ti prego? Forse con le tue arti, con gli oracoli?". Apollo: "Faremmo meglio a mettere una taglia sul loro capo, ed essi si presenteranno da soli!". Giove: "No, preferisco provare a rintracciarli con le tue arti. Su, per piacere, cerca di vedere dove si trovano". Allora Apollo, volendo consultare in proposito i suoi oracoli, si accorse che la cinghietta era rotta e gli avevano portato via la borsa, e cominciò a strillare lamentandosi dell'infame delitto commesso ai suoi danni; e siccome si era intrattenuto anche troppo amichevolmente con Socrate, era persuaso che il furto l'avesse commesso proprio quell'imbonitore, e ci avrebbe giurato. Sarebbe lungo ripetere tutte le male parole che scaricò sul filosofo: lo chiamava scroccone e spasso per i meccanici. Diceva anche che aveva ragione Momo a dire che gli uomini sarebbero stati capaci di rubare pure coi piedi, in mancanza d'altri mezzi. Quando si fu scaricato un po', e la fece finita con le imprecazioni, Giove lo fissò negli occhi e disse: "Non sarebbe meglio, Apollo, se tu fossi il granchio di Democrito, vista la rabbia che ti ha preso? Il granchio è incapace di andare in collera, ma ha forza più che sufficiente per attaccare, con le armi di cui è dotato; a te invece, per quanto ti scaldi e perdi la tramontana, non rimane nessuna possibilità di rendere la pariglia. Che farai? Con chi te la prenderai? In che modo potrai punire i colpevoli, o colpire chi non c'entra? Che beni gli puoi portar via, se non possiedono nulla, e che mali puoi mandare a persone che non hanno affatto paura della povertà, del dolore eccetera?". Apollo replicò: "Com'è bravo a dar consigli, questo qua! Appena lo toccano vorrebbe far precipitare il mondo, e ordina di star calmo a me che ho perso un simile tesoro. E dire che io posso far morire gli uomini di caldo e di sete, Giove! Posso far morire gli uomini, ho detto!". Giove allora: "Certo che puoi fare qualunque danno, però non farai proprio nulla, visto che ormai non si potrà decidere più nulla in cielo senza che i mortali lo sappiano subito: i filosofi infatti, o con la loro abilità nello svelare i misteri o con l'aiuto dei tuoi oracoli potranno prevedere tutto quel che stiamo per fare e correre ai ripari con la loro immensa saggezza. È per questo che voglio vederti spegnere i tuoi ardori. Smettila di lamentarti ancora per questa disgrazia. Ritorna in te. Penseremo un'altra volta a punire come si deve questi furfanti, anche se io ritengo che tu abbia perso il tuo tesoro in un'altra circostanza". Apollo rispose: "Hai ragione, seguo il tuo consiglio; e poi c'è una cosa che mi conforta: per quanto essi siano in possesso degli oracoli, non riusciranno mai a scoprire il modo d'interpretarli. Io potrò rifare gli oracoli con poca fatica, ma addosso a loro gli oracoli faran piovere ansie ed angosce più che vantaggi".

Mentre tra i celesti accadevano i fatti narrati, il Caldo, la Fame, la Febbre e altri dèi del genere, avendo sentito che si preparava la fine del mondo, cominciarono subito a tormentare l'umanità per autoridursi il lavoro che ben presto avrebbero dovuto fare per uccidere tanti milioni di uomini, e si portarono via una grossa quantità di esseri viventi. Spinta da queste calamità, la razza umana, avendo compreso che gli dèi erano particolarmente sensibili alle offerte in oro, offrì loro in voto feste di straordinaria solennità, magnificamente contornate di ogni genere di spettacoli, senza badare a spese. Non vi dico che folla innumerevole di musicisti, commedianti, poeti si radunò da tutte le nazioni, fin dalle più remote regioni del globo. Misero insieme, per rendere più sontuosi il tempio, le cerimonie e i giochi, il meglio che ogni popolazione potesse offrire. E non voglio parlare di tutto il resto! Non posso però tralasciare, per la sua straordinaria grandezza, l'enorme tendone ricamato in oro che ricopriva di sopra e tutt'intorno il teatro del padiglione centrale della festa. Ai posti d'onore erano sistemate le statue dei massimi dèi; tutte quante splendevano di oro e diamanti sparsi intorno, ma superava in bellezza l'oro e i diamanti, quanto questi lo superavano in valore, il fatto che tutte acquistavano leggiadria dai fiori cosparsi d'intorno, tutte ricevevano gli effluvi più delicati ed erano cinte di ghirlande. Inoltre dipinti, tavolini d'alabastro e giochi di specchi riempivano la gente di meraviglia e di stupore; e perché non ci fosse neanche un angolino privo di cose belle da vedere, la statua di un eroe occupava ogni singolo intervallo tra le colonne, anche nei punti meno in vista. Di fronte a preparativi del genere, i celesti si rendevano conto della gran considerazione in cui li teneva l'umanità, e non potevano non sentirsene commossi. La conseguenza fu che anche coloro i quali per disciplina di partito, o nella speranza di trarne vantaggi, erano stati accaniti oppositori della causa degli uomini modificarono la loro posizione, un po' per un senso di pietà, un po' sotto la spinta di un'offerta così grande, abbandonando l'intransigenza rivoluzionaria di qualche tempo prima; e quelli che desideravano già prima la salvezza dell'umanità, che avevano in Ercole il loro leader, insistevano con Giove perché scegliesse di tenere obbligati con la concessione di grazie quegli uomini sempre più benemeriti, e non li punisse con la distruzione: nel primo caso, oltre che in popolarità c'era tutto da guadagnare in elogi, mentre nell'altro non solo non si prospettavano vantaggi, ma si correva il rischio di dar esca alle peggiori critiche; Ercole consigliava di valutare attentamente se voti come quelli, fatti con devozione non inferiore al sacrificio finanziario, corrispondevano alle calunnie di Momo, se erano, cioè, voti di gente che non credeva nell'esistenza degli dèi, o non erano piuttosto, al contrario, fatti da chi desiderava essere il più possibile caro e ben accetto agli dèi. Consigliava anche di ripensare bene al caratteraccio di Momo: sarebbe così arrivato a una conclusione, stabilendo se uno che aveva cercato di rendere gli dèi ostili e antipatici agli uomini, che lo odiavano, poteva lasciar nulla d'intentato pur di danneggiare gli uomini suoi nemici nei riguardi degli dèi, dai quali si sentiva bene accetto; che razza di odio Momo nutrisse verso i mortali era chiarissimo, del resto, fra i tanti esempi, dal fatto che quasi ancor prima di vederli aveva creato per dargli fastidio quegli animaletti schifosi che si riesce a stento a nominare senza ribrezzo; perciò i celesti dovevano considerare se era mai possibile che uno che le aveva provate tutte contro gli dèi, i quali si limitavano a rimproverarlo, fosse passato sopra a un'ingiuria come quella della barba presa a morsi. Infine Ercole, invocando la testimonianza dell'Ombra, figlia della Notte (cioè con la formula più solenne di giuramento divino), affermò che tutte le accuse lanciate quella sera a cena da Momo contro gli uomini erano, esse sì, infarcite di ogni sorta di falsità criminale, e che erano di Momo, non degli uomini, quelle bestemmie contro gli dèi di cui faceva frequente abuso parlando con i filosofi. Aggiunse poi la considerazione che gli dèi più saggi non riuscivano a capire quali fossero le intenzioni di Giove. Se con quell'idea di fare una rivoluzione voleva accontentare la maggioranza, o ottenere l'approvazione delle masse era l'unico premio che andava cercando col dispendio di tante energie, in ogni caso ci sarebbe sempre stato qualcuno non del tutto soddisfatto dei risultati, e non potevano certo mancare, soprattutto tra gli dèi d'alto rango, quelli che desiderano la stabilità più di quanto non abbiano il gusto del rinnovamento. E poi quei vecchi, bravissimi architetti che avevano portato a termine con tanta perizia il mondo attuale erano tutti vecchi decrepiti; quella categoria di tecnici escludeva del tutto la possibilità di una realizzazione più bella ed elegante e più durevole nel tempo rispetto a quella già fatta, che destava in ogni suo elemento la più alta ammirazione. Se poi si fosse voluto mettere alla prova degli architetti nuovi, si era già avuta sufficiente dimostrazione del loro valore nella costruzione dell'arco di Giunone, per non fare altri esempi: certo non aveva tutti i torti la gente a commentare che era stato costruito con l'unico scopo di crollare durante i lavori! Queste erano le argomentazioni di Ercole, che incontravano approvazione e consensi non solo da parte di Giunone, Bacco e Venere e tutti gli altri aderenti alla corrente di Giunone, i quali mostravano apertamente il loro caloroso sostegno, ma da parte di quasi tutta la comunità celeste. E così Giove, sulla base di queste esortazioni, poco fiducioso nella riuscita di un'impresa così ardua, e per di più allettato dalla magnificenza dei voti, non fece difficoltà a modificare le sue decisioni. E a quel punto afferrò ben volentieri l'occasione di scrollarsi di dosso l'impopolarità scaricandola su Momo, pur cercando di far passare per benigna concessione quel che lui stesso era già intenzionato a fare. Disse perciò: "Non c'è bisogno che vi ripeta, celesti, in che gran conto io ho sempre tenuto gli uomini, i vostri cari tesori; però sono gli uomini stessi, con la speranza ansiosa con cui presentano i loro voti, a dimostrare di non conoscere abbastanza bene le nostre disposizioni d'animo nei loro confronti. A chi ci si rivolge per chiedere aiuto con tanta fiduciosa speranza, quando ci si trova nei guai, se non a qualcuno a cui si sa di essere cari e raccomandati? Non vorrei che pensaste che sia stata una cosa facile per me far finta di non arrabbiarmi con chi era insofferente dello stato di cose attuale, o di non sapere a cosa mirassero i fautori della rivoluzione. Perciò, se considererete con una certa attenzione i problemi sul tappeto, non ho dubbi che approverete il mio operato, anzi direte che non si poteva far meglio di così. Lasciamo stare tutto il resto: che ve ne pare del fatto che io sia riuscito, stimolando un dibattito collettivo, a rendere lampante anche a parecchi che non ci avevano mai fatto caso che questo mondo, insomma, è così totalmente perfetto che non ci si può aggiungere proprio nient'altro? Devo quindi esser lieto d'aver fatto piazza pulita, per il futuro, di tutti gli eventuali reclami dei mascalzoni su questo argomento. Ma la cosa che mi spinge a complimentarmi vivamente con me stesso è che mi sono reso conto con la massima chiarezza di come molte persone possano avere un carattere ben diverso da quel che vogliono far credere. E prima di tutti il nostro Momo ha dato un magnifico esempio di cosa avesse intenzione di fare con le sue finzioni e dissimulazioni! Lo ammetto, il trasformismo di Momo, la sua abilità a raccontar balle mi avrebbero potuto far commettere l'imprudenza di raffreddare i miei sentimenti perfino per Giunone, che mi ama tanto: e questo soprattutto perché stavo cascando nella sua trappola, e lo credevo effettivamente abbattuto e trasformato dal peso delle sue disgrazie. Per di più, le sue esperienze di vita e i suoi rapporti con i filosofi gli davano l'aria di persona molto saggia, ed io pensavo che non fosse per niente disonesto, ma davvero ammirevole un ingegno passato per una raffinata formazione. Che c'è di strano, quindi, se nella mia imprudenza davo un certo credito a uno che avevo caro, ed era poi così multiforme ed astuto? Non sto a dirvi gli sforzi che ha fatto per convincermi, l'insistenza con cui cercava di spingermi a buttarmi a corpo morto in un'impresa rivoluzionaria! A me però tornava spesso in mente una bella massima di saggezza: certi tipi troppo istruiti sono meno onesti di quanto possa ammettersi. E certo, come si può vedere, non sono affatto spontanei e sinceri: in realtà sono ben diversi dalle apparenze esteriori, fanno un pessimo uso della loro eccezionale acutezza d'ingegno rivolgendola al male, e proprio quando si studiano di sembrare onesti e sinceri, ecco che ti colpiscono a tradimento. Non appena mi sono accorto che Momo era fatto così, continuavo a sopportare quel simpaticone che si voleva far credere e di cui recitava la parte, per poter penetrare più a fondo nell'intimo di quel tipo scaltro quanto subdolo; e intanto stavo in guardia, senza credere a nulla. Ma ora, comunque sia andata a finire, penso che abbiate fatto una cosa buona a liberarvi di quel seminatore di zizzania. Avrei preferito, l'ho già detto, che non ci fosse confusione, né sollevazioni di massa; passi, comunque, che Giunone sia ricorsa a qualunque mezzo pur di espellere dalla comunità divina quell'odiosissimo delinquente. Spetterà al nostro buon senso, visto che conosciamo l'indiavolata acrimonia di Momo, togliergli la possibilità di provocare ulteriori disastri per sconvolgere nuovamente la tranquillità degli dèi e la vita umana. Ecco cosa ho deciso in proposito: considerato che il criminale Momo, turbatore dell'ordine pubblico, odiato dagli dèi e dagli uomini, non è capace di tenere una condotta leale, ordinata, pacifica e tranquilla; che con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso opera al fine di danneggiare o rovinare completamente beni e persone, accanendosi in particolare contro gli interessi dei ceti privilegiati dal destino; che esercita senza sosta una funzione suscettibile di provocare gravi calamità e disgrazie a danno e rovina totale di tanti poveri innocenti; che organizza e sostiene associazioni a delinquere col concorso di elementi sovversivi, ribelli, senza religione e criminali incalliti; che esercita opera incessante d'istigazione al delitto; che con i suoi discorsi e le sue azioni dà luogo a trame atte a costituire una minaccia costante per l'ordine universale; che non tralascia occasione alcuna d'incrementare con nuovi comportamenti delittuosi il lungo elenco dei suoi crimini; allo scopo di impedirgli di danneggiare ulteriormente gli dèi ed opprimere e rovinare gli uomini, che godono della protezione divina, a suo completo arbitrio; decretiamo che sia relegato e incatenato a uno scoglio in modo che tutto il corpo, con la sola eccezione della testa, rimanga immerso nell'acqua per l'eternità".

A questo punto Giunone baciò Giove con un largo sorriso di gioia e disse: "Hai agito come si deve, marito mio. Ma c'è un particolare che vorrei aggiungere: vorrei che Momo, che si è scagliato con tanta petulanza, tanta faccia tosta, al di fuori di ogni rispetto per se stesso e per noi contro il sesso femminile, tu, da mezzo uomo qual è, lo rendessi femmina in tutto e per tutto". Giove acconsentì. Da allora in poi i celesti chiamarono Momo, bandito e mutilato per le note vicende, "humus": e così gli mutilarono anche il nome.


Libro quarto

 

Guarda a che punto arriva la disonestà malvagia: proprio quando si crede spenta la sua capacità di colpire, eccola rinascere più forte di prima. Momo, infatti, esiliato e attaccato allo scoglio creerà più turbamenti di prima, quand'era assolutamente libero di sfogare il suo furore. E adesso apprenderai in che modo per responsabilità sua l'autorità divina sia arrivata all'ultima spiaggia; il racconto comprenderà tanti di quei motivi divertenti, da far pensare che la parte precedente sia del tutto priva di comicità, in confronto.

Ormai, dunque, tutte quelle fiumane umane, per dir così, erano confluite nella città per via dei giochi e degli spettacoli. Squillavano le trombe sul sottofondo dei flauti, mentre nacchere, tamburelli, cornette e tutti gli strumenti battevano il ritmo. Anche la volta celeste risuonava delle note di quell'immensa armonia. In più c'era il mormorio intenso della gente, un intrecciarsi continuo di voci e rumori diversi; tutti quanti i celesti si bloccarono in ammirazione, attratti da quel suono insolito e fenomenale. Allora il dio Stupore, il più scemo di tutti, volendo intrufolarsi nelle grazie di Giove, come aveva fatto Momo, con qualche battuta di spirito, siccome era piuttosto ritardato e grossolano gli si avvicinò e disse con una voce da selvaggio: "Oh, capo! Son tanti gli uomini che rumoreggiano qui sotto, che se li scuoiassi tutti senza dubbio ne avresti da coprire il cielo intero!". E Giove: "Ma pensa quant'è profondo questo qui! Che succede, Stupore? Che cosa ti salta in mente? Però la tua idea è bellina davvero: siccome senti sempre freddo, ti sei preoccupato che il cielo, stando scoperto, si buschi il raffreddore". Gli dèi scoppiarono a ridere; poi si andarono a piazzare in tutte le posizioni migliori dal punto di vista panoramico e acustico per godersi lo spettacolo terrestre. Ecco in processione la nobiltà e le varie categorie cittadine, seguite da schiere di signore di tutte le età, compiere il rito di purificazione della città: si dà mano alle fiaccole, e una solenne luminaria risplende nel buio della notte. Le ragazze più belle sfilano sotto i portici ornandoli con la loro presenza, e rendono onore agli dèi con canti corali, danzando in corteo. I celesti erano ammutoliti di fronte a tanto spettacolo, e ognuno di loro rimaneva nel posto che si era scelto ad osservare con la massima attenzione a bocca spalancata. Nel frattempo, rispettando una tradizione che risaliva ai tempi della disgrazia di Prometeo, numerose divinità, in particolare quelle marittime, si erano avvicinate a Momo per rendergli omaggio e portare un po' di conforto al suo dolore: fecero così per esempio le Naiadi, le Napèe, le Driadi, le Forcidi e altre ninfe. Momo sollevò gli occhi quasi consumati dal pianto e vide brillare in alto nel cielo le fiammelle che avevano in testa gli dèi; chiese che senso avevano tutte quelle luci spuntate così di colpo nel cielo, e, appreso il motivo, per la rabbia di non poter assistere anche lui a uno spettacolo simile lasciò partire dal più profondo del petto, fra tanti lamenti, un sospiro così lungo che il vapore emesso, condensandosi, formò una nebbia cupa e fitta che rimase stabilmente sospesa attraverso tutta l'atmosfera. Alla vista del fenomeno Momo ebbe subito l'idea di combinarne qualcuna delle sue, e si mise a supplicare con tanta insistenza le divinità presenti, finché ottenne dalle ninfe venute a fargli visita che, siccome non avevano altra possibilità di fare qualcosa per lui, gli rendessero almeno una grossa cortesia per alleviare il suo dolore: dilatare il più possibile quella nebbia andandola a fissare alle cime dei monti, in modo da impedire a quegli dèi tanto astiosi e cattivi con lui di godersi lo spettacolo delle sue sofferenze. Le ninfe accondiscesero alle suppliche del povero Momo, e sudarono sette camicie per realizzare il suo desiderio: la conseguenza fu che, siccome per via di quel nebbione di mezzo non si poteva più vedere gli uomini che si recavano ai santuari degli dèi, alle cappelle e agli altari, ma si riusciva solo a sentirli, i celesti si esposero a un grosso rischio. Infatti, non contenti di sentir cantare i loro elogi con l'accompagnamento del flauto, ma desiderosi soprattutto di vedere, quasi fuori di sé, decisero di scender giù dal cielo per soddisfare da vicino le proprie voglie. E così andarono a prender posto sui tetti delle case umane. Solo Ercole, probabilmente per paura delle insidie degli invidiosi e di chi avrebbe voluto imitarlo e anche della difficoltà del ritorno alle dimore celesti, affermò che non era confacente alla maestà divina, e nemmeno tanto sicuro, che gli dèi si andassero a mescolare con la folla dei mortali. Egli, infatti, aveva ridotto a totale impotenza i mostri più grandi e spaventosi della terra, ma non era mai riuscito neanche a fronteggiare l'urto di una folla concorde nell'andare all'assalto alla cieca: la massa era facile a scaldarsi, di principi tutt'altro che saldi, capricciosa, passionale; era facile indurla a qualunque misfatto senza che riflettesse se fosse giusto o meno quel che il consenso della maggioranza reclamava; si sollevava selvaggiamente e passava all'attacco sfrenata, senza che potessero trattenerla o controllarla abbastanza i consigli ragionevoli delle persone di buon senso o gli ordini di chi cercava soluzioni positive; la massa impazzita non era nemmeno capace di non volere tutto ciò che era suo completo arbitrio; non si preoccupava se le sue iniziative fossero criminali e vergognose oppure no, pur di portarle a termine, e non smetteva di compiere atrocità se non per iniziarne di peggiori. Ma la cosa veramente strana era che gli uomini, presi singolarmente, erano quasi tutti assennati e conoscevano ciò che era giusto, ma appena si mettevano assieme, eccoli subito pronti a far pazzie e ad uscire immediatamente dalla buona strada.

Questi erano gli avvertimenti di Ercole; gli dèi però non stettero a sentirlo ed entrarono nel teatro. Giove per primo ammira le innumerevoli, enormi colonne di marmo pario, frammenti di montagne, opera gigantesca: era pieno di stupore nel vedere che erano state trasportate fin lì, o erette sul posto, così grandi e così numerose, e per quanto se le vedesse davanti non voleva ammettere che un'opera del genere fosse possibile, ma non la finiva più di osservare e lodare anche troppo, in preda alla meraviglia, dandosi dell'idiota e del ritardato in cuor suo perché non si era rivolto ai costruttori di un'opera così straordinaria, invece che ai filosofi, per pianificare il modello del mondo futuro. Gli era successo proprio quello che si sente dire: una volta che ci si è messi in testa che uno è competente in qualcosa, si è portati a credere che lo sia sempre, e che sia esperto in ogni campo. Così pensava Giove. Finalmente, al termine del rito di purificazione della città, gli uomini tornarono a frotte alle loro case per la cena e il riposo. A questo punto agli dèi venne il desiderio di assistere ai giochi e agli spettacoli teatrali in programma la mattina seguente. "E allora, che facciamo?" dicono tra loro "Dobbiamo tornarcene a casa, o ci fermiamo qui per vedere gli spettacoli?". La voglia di spettacoli ce l'avevano tutti, ma erano diverse le proposte su dove pernottare: in cielo, oppure nei templi? Alla fine prevalse l'idea di uno che, per disgrazia degli dèi, penso, suggerì che ognuno si trasformasse nella sua statua messa nel teatro, per evitare la fatica di un viaggio di andata e ritorno e per potersi riposare nei luoghi più confacenti alla loro dignità, senza il rischio di subire oltraggi. C'era una sola difficoltà: non sapevano proprio dove mettere al sicuro le statue tolte da lì. Mentre stanno a pensarci su, il dio Stupore, che era un tipo robusto e muscoloso, ne fa una delle sue: senza dir niente a nessuno di quello che ha in testa, si mise a correre in una maniera così sgraziata e sconnessa da far pensare che gli fosse venuto un attacco di furor bacchico, e poi cominciò a fare una cosa ridicola in sé, ma talmente adatta alla bisogna che tutti gli dèi l'approvarono subito e si comportarono allo stesso modo: si attaccò infatti alla sua statua sistemata nel teatro, chiamando con quel suo vocione tutti gli dèi più robusti perché lo aiutassero, e se la caricò sulle spalle. La statua era enorme e pesantissima, ma quando l'ebbe presa sul dorso la trasportò da solo e andò a sistemarla in un angolo buio di una caverna fuori mano, all'interno di una fitta foresta. Poi ritornò in teatro, madido di sudore, e si trasformò nella statua che aveva trasportato, occupandone il posto rimasto vuoto. Per quanto ridessero della cosa, anche gli altri pensarono di dover fare così: e quindi, seguendo l'esempio di Stupore, ciascuno nascose la sua statua nel posto che gli andò a genio, mentre Cupido, Mercurio e altri come loro, che potevano contare su ali e calzari alati, non si peritarono di lasciare le loro statue coricate sul cornicione che dominava il teatro.

Mentre gli dèi si erano sistemati in questo modo, ciascuno a suo piacimento, nel teatro, una situazione veramente buffa, senz'altro da raccontare, si verificò sia nella foresta dov'era la statua di Stupore, sia nel teatro. Enope, filosofo e commediante al tempo stesso, imbevuto della stessa scandalosa smania di parlar male degli dèi che aveva preso a suo tempo Momo, siccome aveva tagliato per il bosco nella fretta di partecipare allo spettacolo, fu catturato dai briganti i quali, dopo avergliene date un sacco e una sporta, lo condussero proprio dentro la grotta dov'era stata messa la statua del dio Stupore. Appena arrivati sul posto, i briganti si misero a discutere se era meglio strozzare il prigioniero o cavargli gli occhi e lasciarlo andare vivo. Enope, trovandosi in un frangente come quello, anche se fino a quel giorno aveva sostenuto con convinzione che gli dèi non esistono e il cielo è vuoto, ora che stava rischiando la pelle cominciò a pregare per la sua salvezza i massimi dèi, pronto a fare qualunque offerta. Intanto i briganti chiusero la discussione decidendo d'interrogarlo per vedere quanto poteva pagare di riscatto. Era una notte buia e senza vento: ecco che i briganti si procurano quel che serve per la tortura. Qualcuno intreccia una corda, altri strappano da un olmo certi rami nodosi, altri fanno sprizzare il fuoco da una pietra. Mentre erano intenti a queste occupazioni ne successe una bella. Appena le prime scintille fecero un po' di luce, i briganti ebbero l'impressione di vedere qualcosa dentro la grotta - e tutto potevano aspettarsi in un posto come quello, fuorché una statua; avvicinarono allora il fuoco per fare più luce, e avvertendo chiaramente una presenza divina ammutolirono, atterriti dall'imprevisto, e scapparono subito tra le urla, lasciando perdere il prigioniero. Avessi visto che scena! Fecero cadere le armi fuggendo che parevano ubriachi, e andarono a sbattere contro un orno che si trovò sulla loro strada; altri inciamparono nella corsa in una radice sporgente di quercia, mentre altri, inciampando a loro volta sui compagni a terra, ruzzolarono di qua e di là; poi, mentre cercavano di rimettersi in piedi, con la faccia pesta, sputando sangue e pezzi di dente, furono sbattuti di nuovo a terra dall'urto di quelli che li seguivano; altri invece alla vista del dio sembravano diventati anch'essi una statua di Stupore: sul momento restarono immobili, poi si sentirono mancare per lo spavento. Solo Enope riuscì a non perdere il controllo della situazione. Uscì dalla grotta e si risollevò a guardare quell'ammasso di gente caduta e ridotta allo stremo; poi disarmò uno di quelli, afferrò per i capelli un altro che era completamente annichilito dal terrore e lo rovesciò a terra legandolo con la stessa corda con cui i briganti volevano legare lui. Poi si mise quell'uomo davanti e se lo portò tutto contento in città, giurando in cuor suo di non pensare mai più che non esistono dèi la cui presenza egli aveva toccato con mano nell'ora del pericolo. Questa fu l'avventura di Enope nel bosco; poi, entrando in teatro, trovò ad aspettarlo i commedianti della sua compagnia, che stavano tenendo un comportamento non precisamente corretto verso di lui e verso gli dèi: imprecavano infatti per il suo lungo ritardo e bestemmiavano gli dèi massimi, che li costringevano a passare una notte in bianco. Questa fu la prima cosa che lo fece indignare, ma la cosa peggiore fu sorprendere in mezzo agli attori uno schiavo ubriaco fradicio in atteggiamento sconcio verso la statua di Giove. Ho un certo ritegno a proseguire, però è inevitabile. Vedendo l'ubriaco che pisciava, Enope, in nome dei suoi nuovi sentimenti religiosi, cercò di fargli paura rimproverandolo aspramente. Ma lo schiavo gli si rivoltò esclamando: "Ehilà! Sei tu, filosofo? Perché mi tratti così? Da dove ti son venuti di colpo tutti questi scrupoli? Hai sempre detto che gli dèi non esistono, e ora ti metti a ossequiare una statua fredda, delle immagini prive di realtà?"; e mentre diceva queste parole, non contento d'aver pisciato, si preparava anche a sgravarsi del peso intestinale. Allora Enope esclamò: "Farabutto! Non puoi trovarti un altro posto per fare le tue porcherie?". Quello schiavo selvaggio e ubriaco rispose: "Ma se voi filosofi dite che gli dèi sono dappertutto!". "Così" gridò Enope "tu manchi di rispetto agli dèi perfino in loro presenza, e fai pure dell'ironia!". E quello zoticone: "Ma che filosofo coltissimo! Pensi che sia un dio, e la chiami così, questa statua fredda e vuota messa su a forza di ferro e fuoco da qualche artigiano in modo da farla somigliare a stento a un uomo più che a un mostro? Dillo tu, testa di bronzo, con quanti colpi di martello e quanti soffi di mantice gli artigiani hanno sbozzato questo faccione duro! E magari tu stesso, Enope, non hai visto qualche giorno fa questa statua all'acquedotto pubblico, versare acqua ai facchini da quella coppa? Insomma, dovremmo venerare come fosse Giove questo pezzo di bronzo sconclusionato che non ha niente di buono, manodopera a parte? Ah, com'è ben detto quello che sento spesso recitare in teatro:

Chi fa nel bronzo o in marmo i sacri volti

non fa gli dèi: chi prega, sì, li fa".

Allora Enope, provocato da quel comportamento indecente e dalla sfacciataggine di quei discorsi, sbottò: "Va' in malora! Non vuoi proprio smetterla di declamare, per dire le tue bestemmie! Via di qua!". Ma lo sporcaccione, mentre Enope lo tirava via per il collo, mandò aria dallo stomaco con un rumore indecente e disse: "Via di qua tu, profano, che disturbi le mie sacre funzioni: non capisci che costoro gradiscono molto queste esalazioni rituali?". E tuonò di nuovo. Enope non ce la fece più: prese a pugni e calci l'ubriacone, lo rotolò nelle sue sporcizie e lo fece ruzzolare per la gradinata. L'ubriaco punito si mise allora a piagnucolare, continuando a buttar fuori indecenze con quella faccia livida di botte e tutta imbrattata: "Ti auguro che succeda anche a te la stessa cosa, dio per colpa del quale ho sopportato tutto questo, chiunque tu sia, visto che costui che ha sempre negato l'esistenza degli dèi mi ha maltrattato tanto per colpa tua, perché mi comportavo come lui".

Giove, che aveva visto tutto, considerava dentro di sé la situazione. "Si può credere che quello che è successo stanotte mi vada bene? Eppure costui non fa che il suo mestiere: che altro ci si può aspettare da un ubriacone o da un farabutto? E poi l'ha pagata cara: è stato più il sangue che ha buttato del vino che si era tracannato. Non è proprio il caso di privarsi del piacere dei giochi per una cosa del genere. I guitti facciano gli sporcaccioni quanto gli pare: basta che nessuno sappia che noi siamo nel teatro. Però, se se ne accorgono, come facciamo? Non mi pare che facesse così per dire quel filosofo, Enope, parlando di dèi qui presenti. Oh, ma basta, insomma, cosa può succedere? Alla fin fine, quanto meno saremo venerati di presenza dal popolo".

Subito dopo l'episodio appena narrato, i colleghi chiesero ad Enope perché si fosse portato dietro un uomo legato a quel modo, e come mai si fosse così inopinatamente votato all'ossequio della religione, mentre prima non credeva nell'esistenza degli dèi; quello allora raccontò per filo e per segno la sua avventura coi briganti; disse che però non era riuscito a riconoscere il dio che l'aveva soccorso, grazie al cui intervento se l'era cavata così bene, e quindi aveva un grandissimo desiderio di sapere chi dovesse ringraziare del beneficio ricevuto. Non gli era sembrato Giove, né Febo o Giunone, nessuno, insomma, degli dèi più famosi a cui sono dedicati i templi, ma un dio raro, uno che non s'incontra di frequente. Dissero allora i guitti: "Ma qui in teatro ci sono le statue di tutti gli dèi! Dai, passale tutte in rassegna, così potremo rendere omaggio a un dio tanto disponibile alle grazie, e invocarlo nostro patrono in caso di bisogno: infatti gli dèi più importanti non fanno più caso da un pezzo ai voti della povera gente". Detto fatto, accendono una fiaccola e cominciano ad esaminare le statue lì attorno guardandole in faccia una per una, finché non arrivano davanti a Stupore: appena lo vide, Enope piombò ginocchioni in preghiera e si prostrò al suolo in atto d'adorazione. Ma i guitti, vedendo la faccia di Stupore e il suo atteggiamento, scoppiarono a ridere per la sua bruttezza spaventosa: stava con la bocca spalancata, il labbro sporgente, gli occhi di fuori, le tempie incavate, le orecchie a sventola, insomma, aveva tutto l'aspetto di uno che non si ricorda nemmeno chi è. Più si studiavano il dio, più i commedianti della compagnia erano spinti a sghignazzare, dicendo: "Ecco il valoroso, ecco lo sgominatore dei banditi!". Allora Enope esclamò: "È proprio questo che rafforza le mie nuove convinzioni sugli dèi: da solo, timido e disarmato, con la sua sola presenza ha gettato lo scompiglio in una banda di uomini armati, audaci, pronti a qualunque crudeltà, e li ha ridotti all'impotenza!".

Il dio Stupore, sentendo quei discorsi su di lui, per quanto tardo e proprio duro di mente, non lo era al punto di essere insensibile agli elogi o ai commenti pesanti; e così rifletteva tra sé sulla condizione umana: "Come dovrei chiamare questo guaio che hanno gli uomini, che ridono di un dio presente e hanno rispetto e terrore della statua di uno che non c'è? Questo qui s'è messo in testa d'aver ricevuto una grazia e ha dimenticato completamente le sue profonde convinzioni contro gli dèi e l'insistenza con cui le sosteneva; questi altri, benché messi sull'avviso dal sole, dalla luna e da tutti gli altri segni evidenti dell'esistenza degli dèi, revocano in dubbio quel che essi stessi ammettono di potere, e dovere, credere. La mia statua di bronzo posta in un luogo profano ha avuto il potere di distogliere dalla loro crudeltà banditi sanguinari, far venire la paura degli dèi, convertire alla fede; ed io che sono un dio qui presente non riesco a rendere un po' più educate e rispettose verso gli dèi persone che fanno un lavoro collegato alle pratiche del culto religioso! Ma come faccio a distoglierli dalla loro empietà, se continuano a fare gli empi proprio contro di me?". Così meditava Stupore. Ma Enope, quand'ebbe adorato per un po' il suo dio protettore, non poteva certo starsene tranquillamente a veder trascurato a quel modo uno che gli aveva fatto la grazia: prese perciò un pezzo di ferro e si mise a grattare la ruggine che imbruttiva ulteriormente la faccia di Stupore. Il dio Stupore si sarebbe privato volentieri di quella fastidiosa grattata, ma, ritardato com'era, non sapeva come fare. D'altra parte, pensava di dover sopportare quell'uomo che cercava di fargli una cosa gradita, sia pure a sproposito; qualche volta, però, allargava la bocca di nascosto per evitare quella lima che passava e ripassava facendo un male cane. Gli dèi, ripensando alla sua sparata che si poteva coprire il cielo con la pelle degli uomini, avrebbero riso di cuore a vederlo mezzo spellato da un ometto, ma l'idea di poter subire danni ancora più gravi dagli uomini li rendeva propensi a pensare al rischio che correvano piuttosto che a ridere della stupidità altrui, e poi non potevano negare di avere anch'essi una buona dose di macchie di ruggine.

Questi fatti si verificavano dunque nel teatro; so che al benevolo lettore essi potrebbero apparire volgari, almeno in parte, ed estranei ai principi morali che ho sempre osservato nella mia attività di scrittore, guardandomi bene dal toccare nelle mie opere e nelle mie dichiarazioni argomenti meno seri e puri di quanto permettano la religione delle lettere e il rispetto per la religione. Però, se consideri quel che ho cercato di esprimere in questo brano, come del resto nel complesso dell'opera, ti rendi conto senz'altro che i principi dediti al piacere finiscono col fare porcherie molto più gravi di quelle che ho raccontato io: vorrei perciò che tenessi conto della mia coerenza con la scelta fatta all'inizio del presente lavoro, più che con la mia consueta disciplina intellettuale e morale. Ma forse ho detto più di quel che avrei voluto, per quanto sia sempre meno del necessario. Comunque, basta così; riprendo il racconto.

Mentre in teatro avvenivano cose di quel genere, nell'aldilà cominciarono ad accadere fatti nuovi, molto divertenti e soprattutto di enorme interesse. Caronte, infatti, aveva appreso dalle continue dicerie dei defunti che il mondo stava per essere totalmente distrutto, e che le Parche e le Ispiadi avevano già cominciato a sterminare intere famiglie, mentre tutto quanto andava tristemente in rovina nel terrore della distruzione imminente. Pertanto Caronte aveva deciso di andare a vedere questo mondo, prima che una creazione così grande e meravigliosa venisse distrutta, poiché non l'aveva mai visto in passato., e in futuro non avrebbe potuto più farlo; però aveva sentito dire che il percorso che conduceva dagli inferi alla terra degli uomini di lassù era molto rischioso, e sapeva bene come fosse noto e consentito solo a pochissimi. Non aveva quindi il coraggio di partire senza precauzioni, e in tutta la moltitudine dei defunti non gli riusciva di trovarne uno che si lasciasse convincere, con qualunque offerta, a ritornare nel posto da cui era fuggito molto volentieri, liberandosi del tetro carcere del corpo: anzi, per dissuaderlo da quell'intenzione parlavano diffusamente delle sventure umane e mettevano a confronto i mali dei vivi con la libertà dei morti; dicevano, per concludere, che era meglio sopportare qualunque guaio piuttosto che tornare ad affrontare le angosce umane. Il caso volle però che ci fosse tra i morti un certo Gelasto, un filosofo in complesso tutt'altro che banale, che però Caronte aveva lasciato da parte da molto tempo per il semplice motivo che era morto in estrema povertà e quindi non si era portato niente per pagare il costo dei traghetto. Caronte si mette d'accordo con lui che l'avrebbe trasportato gratis se quello gli avesse fatto da compagno e da guida nel suo viaggio sulla terra. Gelasto si assunse l'incarico, per quanto malvolentieri e senza sapere la strada. Del resto, che avrebbe potuto fare quel poveraccio, se non c'era possibilità di pagare? Doveva restar fermo in eterno in quel luogo, senza poter essere considerato né tra i vivi né tra i morti? È chiaro che era costretto ad affrontare qualunque evenienza, il noto e l'ignoto, le prove più dure, soprattutto perché non arrivava mai nessuno, né tra i suoi amici né tra le persone più ricche, a cui fosse possibile chiedere una mano d'aiuto: infatti a nessuno dei defunti è stato mai concesso di portarsi dalla terra più della moneta che serve a pagare il traghetto.

Così Caronte, facendo i preparativi per il viaggio, tirò in secco la barca e stette un pezzo a riflettere se non convenisse lasciarla da qualche parte dell'aldilà; infine, pensando che fosse la migliore soluzione, la capovolse e la sollevò mettendosela sopra la testa, in modo di stare al riparo di una sorta di tenda in miniatura, e si mise in cammino tenendo il remo in mano. La folla assiste ammirata alla partenza di quel vecchio ardimentoso e in pieno vigore a dispetto dell'età. Strada facendo, tra un discorso e l'altro Gelasto chiese a Caronte perché trasportava la barca in quel modo, e non aveva preferito lasciarla in secco sulla spiaggia. Caronte rispose: "Vuoi proprio che ti parli delle stramberie dei defunti? Non ce n'è uno che non vorrebbe farmi navigare ai suoi ordini! Anzi, proprio qualche giorno fa un mangione di cui non ricordo il nome mi ha strappato il remo e si è messo a dimenarsi che pareva un argonauta. Gli dico: 'Ma chi sei? In vita forse sei stato ammiraglio?'. 'No' risponde 'ma una volta nella nostra famiglia ci sono stati parecchi rematori'. Mi sono messo a ridere, sbalordito dalla scemenza, più che dalla sua faccia tosta, vedendolo partire in quarta senza esitazione per fare una cosa di cui non aveva la minima pratica. Allora uno dei defunti suoi compagni di viaggio mi fa: 'Non è vero, Caronte, questo qui e i suoi parenti non hanno mai visto il mare nemmeno in cartolina: montanari sono, se la son sempre fatta nelle cave di pietra a cui erano assegnati!'. Se questo ha avuto tanta faccia tosta, come pensi che si comporterebbero gli altri, se gli si offrisse l'occasione di cavarsi il gusto di traghettare o di fare una bravata, lasciando lì la barca?". Disse allora Gelasto: "Ma se essi si mettessero a fare così non per sfacciataggine o arroganza, ma per la voglia d'imparare?". Rispose Caronte: "Imparare nuovi mestieri qui all'inferno? Neanche per sogno! Degli sfrontati, ecco cosa sono. Ma come si può ammettere che il primo che passa voglia insegnare a remare a Caronte?". Intervenne Gelasto: "Il tuo discorso mi offre lo spunto per dire che io ho subito un'ingiustizia da parte tua, Caronte: tu hai traghettato un sacco di sfacciati o giù di lì, e hai rifiutato per tanto tempo me, che sono la negazione assoluta dell'arroganza e della mancanza di discrezione". Caronte rispose: "Dici di non esser stato petulante e indiscreto? E non è petulanza chiedere gratis le mie prestazioni? Non è indiscrezione incaponirsi a chiedere continuamente una cosa che è stata negata cento volte?". E Gelasto: "Io intendevo lamentarmi del mio guaio, Caronte, non chiedere le tue prestazioni, visto il tuo atteggiamento di chiusura inesorabile proprio verso di me, che non avevo più altre risorse se non le preghiere". Caronte rispose: "Avresti fatto meglio a impiccarti, prima di ridurti al punto di poter contare solo sulle preghiere!". "Ammetto" disse Gelasto "la mia poca prudenza, il motivo, però, forse non è proprio malvagio. Pensavo, infatti, che il mio primo dovere di filosofo fosse quello di tenermi completamente lontano dal denaro, fonte di tutte le preoccupazioni, come si dice in giro, e di votarmi interamente con assoluta dedizione e libertà d'animo allo studio e alla conoscenza dei problemi più complicati ed elevati". "Che idea bislacca!" esclamò allora Caronte "Sei ridicolo se ti limiti a crederci, ma se cerchi davvero di affrontare in piena libertà d'animo le cose più complicate, e la povertà soprattutto, allora sei matto da legare! Ammesso e non concesso che te la cavi senza fastidi, vuol dire che i problemi non sono complicati; ma se lo sono, richiederanno troppa applicazione perché tu possa permetterti di dire di non avere preoccupazioni. Dicono poi che il denaro è fonte di preoccupazioni: ma chi è che lo dice, ti domando? Le persone sagge, rispondi tu. Bell'idea di saggezza hanno i filosofi, se preferiscono tirare a campare in mezzo al freddo e alla fame, chiedendo l'elemosina, piuttosto che vivere nel benessere e nell'agiatezza! Eppure vivono, dirai tu. Ma questo non è vivere, Gelasto, è combattere coi guai: quando uno si riduce alla fame e al gelo, vuol dire che è proprio un poveraccio! Insomma, dove sta la vostra saggezza, in particolare per ciò che vi tocca direttamente, filosofi?". Gelasto rispose: "Chiedi dove sta la nostra saggezza? Ma noi sappiamo tutto, le cause e il moto degli astri, delle piogge, dei fulmini; conosciamo la terra, il cielo, il mare. Siamo noi gli inventori delle migliori teorie; i nostri consigli, validi quasi come leggi, prescrivono le regole di comportamento da seguire e il modo per migliorare le relazioni tra gli uomini". E Caronte: "Persone illustri e rispettabilissime, a quel che sento, se le loro azioni sono coerenti con le parole. Ma di' un po', voi in queste vostre leggi non stabilite anche che l'uomo sia d'aiuto all'altro uomo, ché ci si scambi rispetto e collaborazione?". Rispose Gelasto: "Per noi questo è il primo dei doveri". "E allora è un dovere" fece Caronte "sollevare dai fastidi chi ci sta al fianco, sollevarlo dalle seccature, aiutarlo in tutti i modi?". "È proprio come dici tu" rispose Gelasto. E Caronte: "Allora tu, visto che hai stabilito questa regola, aiutami a portare questa barca che pesa una tonnellata!". E Gelasto: "In questo caso, però, bisogna tener conto anche del tuo dovere! Perciò, Caronte, considera se non sia tutt'altro che doveroso pretendere di caricare un peso simile sulle spalle di un morto di fame, uno che ha tirato a campare a forza di elemosine". E Caronte: "Almeno il remo!". "Ma se hai detto" rispose Gelasto "che all'inferno non è possibile intraprendere nuovi mestieri! Nella mia vita ho imparato a maneggiare la penna, non il remo!".

Cammina cammina, tra una chiacchiera e l'altra giunsero all'estremo lembo del mondo, il cosiddetto orizzonte, in quel luogo dove ci si trova davanti a due porte, una di fronte all'altra, separate da uno spazio molto ampio, che dall'inferno aprono la strada una verso l'oceano, l'altra verso la terraferma; una è ornata d'intarsi d'avorio, l'altra invece, di corno, si apre su un basso sottopassaggio. Caronte, che di acqua in vita sua ne aveva vista a sazietà, preferì prendere la via di terra, ma si stancò per la forte pendenza, non essendo abituato agli strapazzi di un viaggio, e buttava fiumi di sudore; si fermarono allora a riposare sul primo praticello che trovarono. Caronte ha una sensibilità sviluppatissima, la sua vista, l'udito eccetera superano ogni immaginazione. Quindi, appena il profumo dei fiori sparsi nel prato raggiunse le sue narici, si mise subito a raccoglierli e a guardarseli con tanta gioia e meraviglia che non voleva esser portato via di là. Gelasto, infatti, gli ricordava che la strada ancora da fare era troppa per stare fermo a trastullarsi cogliendo fiori come i bambini: dovevano far cose ben più importanti, e poi gli uomini avevano tanti di quei fiori che ci camminavano sopra senza neanche accorgersene. Quello si decise a ubbidire alla sua guida, anche se non avrebbe potuto ricevere ordini più sgraditi. Per strada, poi, Caronte, vedendo che paesaggio piacevole e vario offriva la natura, i colli, le valli, le fonti, i corsi d'acqua, i laghi e così via, chiese a un certo punto a Gelasto da dove il mondo avesse attinto tutto quel lussureggiante splendore. E Gelasto, per dar prova della sua eloquenza filosofica, cominciò a sciorinargli la seguente dimostrazione dottrinale: "Per prima cosa è bene che tu sappia, Caronte, che in natura è impossibile l'esistenza, attuale o potenziale di qualcosa che sia privo di una causa. Col termine 'causa' intendiamo tutto ciò che provoca il moto o la quiete. Col concetto di 'quiete' indichiamo la cessazione del moto, mentre quello di 'moto' ci spiega come una cosa possa trasformarsi in un'altra. Bisognerebbe sapere anche che è stato l'intervento del moto a riversare le forme nella stabilità primigenia dell'universo, e a dare varietà alla disposizione al mutamento delle forme stesse; altri, invece, sono dell'idea che questo artificio della natura dipenda dalla congiunzione della sostanza con gli accidenti. Non vorrei però farla lunga a vuoto: è chiaro fin qui, Caronte?". Caronte rispose di non aver mai sentito esporre cose così semplici con paroloni così grandi, né idee più confuse in modo più ordinato. Allora Gelasto attaccò daccapo, ricominciando il discorso da un altro punto: colui che per primo si mise a fare qualcosa, prima si fissò bene in testa il risultato che avrebbe voluto ottenere, e chiamò "forma" appunto questa immagine che aveva concepito con precisione dentro di sé; subito dopo si procurò qualcos'altro, semplice o composto di più parti messe insieme, a cui applicare la forma quasi avvolgendogliela attorno, oppure per riempire per mezzo di esso la forma stessa, rendendola solida: questo qualcosa alla fine lo chiamò "materia". Ma non avrebbe potuto portare a termine l'opera senza ricorrere a un qualche sistema per mettere assieme facilmente, secondo il suo progetto, la materia e la forma: questo espediente lo definì "moto". A questo punto del discorso di Gelasto, Caronte lo interruppe: "Anch'io ho sentito dire che tutte le cose hanno avuto origine da una specie di reciproco, armonioso contrasto, e che si trasformano incessantemente per l'aggregazione e la disgregazione di particelle infinitesimali. Ma vuoi che ti dica quel che penso di te? Credevo che voi filosofi sapeste tutto, ma, a quanto vedo da te, non sapete niente, se non parlare in modo da non farvi capire nemmeno se discorrete delle cose più ovvie. Come vuoi che io ti creda così su due piedi se tu, che sostieni di sapere cosa avesse in testa il creatore originario delle cose, hai sicuramente dimenticato la strada di casa, come capita ai bambini? Infatti, se mi oriento bene, ci hai fatto fare un gran giro, e siamo tornati alle regioni del Tartaro! Ecco lì la nebbia oscura dello Stige; non senti venire il cupo brontolio e i lamenti dei colpevoli sottoposti ai supplizi?". Poi indicò un lupo e aggiunse: "Vedi laggiù quell'anima vagante?". Gelasto rispose ridendo: "Non ti devi stupire, Caronte, io questa strada non l'ho fatta più di una volta sola! Ma, perché tu ti raccapezzi, quello che ti è parso un urlo lamentoso è il suono di una tromba militare che viene di là, spinto dal vento, da un accampamento di uomini; se non sbaglio, stanno suonando il primo cambio della guardia. Quanto alla nebbia, mi sto chiedendo anch'io da dove ne salti fuori tanta, e mi meraviglio anche di te, che dici di veder qui altre anime di defunti oltre la mia". E Caronte: "Ehi, ma quello è di sicuro quel re! Ehilà, re…!". Gelasto disse: "Un lupo tu me lo chiami re? Quadrupedi del genere, per quanto danno facciano agli uomini, sono animali mortali, lontani anni luce dalla natura umana e dalle anime dei defunti". Il lupo, nel frattempo, aveva strappato gli intestini a un cadavere a forza di morsi e se ne stava fermo lì a divorarseli. Disse allora Caronte: "Devo proprio darti ragione: all'inferno non si mangia. Io avevo creduto che quell'animale fosse il re con cui l'araldo Peniplusio diede vita a un'interessante discussione, una volta, sulla mia nave; te la racconto al ritorno, se vuoi". Disse Gelasto: "D'accordo; ma tu dove hai mai visto o sentito dire che i re siano lupi?". E Caronte: "Ma che bravo filosofo, conosci il corso degli astri e non sai niente delle cose umane! Caronte il barcaiolo ora t'insegna a conoscer te stesso! Ti dirò quel che ricordo del discorso non di un filosofo (tutte le vostre grandi teorie si riducono a sottigliezze e giochi di parole), ma di un pittore. Lui sì che, a forza di osservare attentamente le forme del corpo, ha visto da solo più di tutti voi filosofi messi insieme, con tutte le vostre misurazioni e ricerche sul cielo. Stai attento: sentirai una cosa davvero fuori del comune. Ecco cosa diceva quel pittore: il creatore di un'opera così grande aveva fatto un'accurata selezione per scegliere la materia con cui fare l'uomo; chi dice fosse fango impastato col miele, chi cera riscaldata col calore delle mani: qualunque cosa sia stato, dicono che vi applicò due sigilli di bronzo, impressi uno sul petto, sul viso e su tutto ciò che si vede da questa parte, l'altro sulla nuca, la schiena, le natiche e via seguitando. Formò parecchi esemplari umani e mise da parte quelli difettosi e mal riusciti, soprattutto quelli leggeri e vuoti, per farne le femmine; distinse le femmine dai maschi togliendo alle une un pezzettino da dare in più agli altri. Con dell'altro fango, inoltre, e con sigilli di vario tipo fece numerosi altri esemplari di esseri animati. A lavoro ultimato, vedendo che alcuni uomini non erano sempre e comunque contenti della forma che avevano, stabilì che chi lo preferiva poteva assumere l'aspetto di qualunque altro animale gli fosse andato a genio. Indicò poi il suo palazzo, bene in vista sulla cima di una montagna, e li esortò a salirvi per la strada ripida e diritta che si vedeva, per andarsi a prendere tutti i beni in grande abbondanza; dovevano però stare tante volte attenti a non prendere strade diverse da quella: sembrava impervia all'inizio, ma andando avanti diventava quasi pianeggiante. Fatto questo discorso se ne andò; gli omuncoli cominciarono la salita, ma ben presto alcuni, nella loro stoltezza preferirono aver l'aspetto di buoi, asini, quadrupedi in genere, mentre altri, traviati dalle passioni, erano andati a perdersi per vie traverse. Allora, trovandosi bloccati in valloni scoscesi e rimbombanti, in mezzo a fitte macchie, di fronte all'impraticabilità dei luoghi si tramutarono in vari esseri mostruosi e tornarono sulla via principale, dove però furono respinti dai loro simili a causa del loro aspetto orrendo. Perciò, scoperto del fango simile a quello di cui erano fatti, si fecero delle maschere somiglianti ai volti degli altri e le indossarono; questo espediente di mascherarsi ha preso piede in seguito, al punto che si fatica a distinguere le facce finte da quelle vere, se non ci si mette a guardare attentamente attraverso i buchi della maschera sovrapposta: solo così i diversi aspetti mostruosi sono visibili agli osservatori. Queste maschere, chiamate 'finzioni', resistono fino alle acque di Acheronte, non di più, poiché quando si arriva a quel fiume va a finire che il vapore acqueo le scioglie: è per questo che nessuno è passato sull'altra riva senza perdere la maschera, venendo quindi scoperto". Gelasto chiese: "O Caronte, stai scherzando o parli sul serio?". "Altroché! Se con le barbe e le ciglia delle maschere ho intrecciato questa gomena, e ho la barca piena zeppa di quel fango!".

Mentre Caronte faceva questo discorso, si stavano ormai avvicinando al teatro. Egli allora fece delle domande a Gelasto, venendo così a sapere chi aveva messo su quella costruzione così grande e a quali scopi era destinata; quando capì che quello era un teatro, fatto per recitarvi delle storie, scoppiò a ridere a crepapelle per l'assurdità degli uomini, che avevano sprecato tante di quelle energie a distruggere i monti per mettersi poi a innalzare a loro volta una costruzione enorme. Imprecò poi contro la stoltezza delle autorità, le quali permettevano che in città si perdesse tanto tempo in spassi. Ma Enope, quel commediante filosofo di cui s'è già raccontata un'avventura ridicola, vedendo da lontano qualcuno arrivare con una barca in testa, pensò che si trattasse di un nuovo tipo di attori e allora si fece da parte con tutti i suoi compagni per spiare di nascosto se Caronte aveva intenzione di mettere in scena qualche spettacolo. Quando arrivarono nel mezzo del teatro, Gelasto domandò: "E allora, Caronte, che te ne pare?". Caronte rispose che secondo lui il teatro e tutte quelle splendide decorazioni non erano per niente paragonabili ai fiori che aveva colto nel prato. Ammise poi il suo stupore davanti al fatto che gli uomini danno più valore a cose che possono ottenere grazie al lavoro di una qualunque manovalanza che a quelle che sono incapaci perfino di sfiorare col pensiero. Disse: "Voi trascurate i fiori: dovremmo ammirare le pietre? Nel fiore tutto quanto concorre alla bellezza e alla grazia. In queste opere umane l'unica cosa veramente sorprendente è che si debba biasimare un tale assurdo spreco di energie. E poi vorrei sapere da te, filosofo, a chi sono utili queste cose, giacché dici che in questo posto vengono rappresentate molte storie che insegnano a viver bene. Agli adulti? Che sciocchezza mettersi ad ammaestrare chi ha già imparato con l'esperienza tutto ciò che è utile. Ai giovani? Che assurdità pretendere di dare dei precetti con le parole a chi non sta a sentire. Tanto varrebbe che mi dicessi che chiedono ai poeti, non ai filosofi le regole per vivere!". E Gelasto: "Come vuoi tu, Caronte: però quello che si ascolta con piacere dai poeti si afferra più facilmente, lo si assimila per bene e resta impresso. E se poi vedrai queste gradinate riempite da una folla di illustri personaggi non dirai più che è un'opera assurda, e non ti dispiacerà esserci anche tu. Sicuramente, come si dice, non è senza la volontà di un dio che si riuniscono in tanti, giacché l'esperienza t'insegna a venerare quando sono riuniti quelli che non valuteresti un fico secco, presi ad uno ad uno, e a restare in religioso silenzio davanti a loro". Allora Caronte, indicando l'una e l'altra statua divina, domandò: "Di', Gelasto, tu questi li valuti un fico secco presi singolarmente, e li venereresti se stessero tutti insieme?". Gelasto rispose con un sorrisetto: "Se fossi solo forse riderei, in presenza di molti altri li venererei".

Mentre stavano a guardare le statue, Caronte ebbe l'impressione di sentire qualcuno parlare sottovoce al riparo di un arco un po' appartato, e dire così: "Le battute di Gelasto son roba rimasticata, e di tutta la rappresentazione di costoro l'unica cosa valida, per me, è la maschera di Gelasto: certo gli somiglia come più non si può!". Caronte sentì poi altri dire che Gelasto in vita era stato molto colto e saggio, mentre altri sostenevano che era sciocco e faceva stramberie, soprattutto perché si lasciava offendere e subiva senza far rispettare se stesso e la propria dignità, per vigliaccheria. Non ritenevano valida quella sua scelta di perseverare in eterno a far del bene a tutti mentre molti lo provocavano e lo offendevano continuamente. Costoro avrebbero dovuto vedersela con Enope, il quale mostrava la sua forza respingendo e rintuzzando gli attacchi più che cercando di tener a freno l'arroganza dei provocatori con la troppa sopportazione. Quando anche Gelasto afferrò questi discorsi di Enope e riconobbe la sua voce, disse: "Caronte, voglio farti vedere quant'è valoroso questo smargiasso!". Detto fatto, balzò di corsa verso quei criticoni. Essi, alla vista del morto che si avvicinava, appena lo riconobbero rimasero stupefatti, mentre Enope non trovò di meglio che darsela subito a gambe, lasciando il suo prigioniero. Allora, tornando da Caronte, Gelasto disse: "Che te n'è parso del nostro grande campione, che appena ho mosso il piede ha voltato le spalle? Sono proprio stupito nel vedere quest'uomo che in vita era mio intimo amico fare certe critiche su di me e provare paura a vedermi, anziché gioia. Ma ora capisco che il suo modo di fare era una finzione, un prodotto di quell'artificio di mascherarsi che m'hai spiegato tu; una finzione, non la verità era la faccia amichevole che mi faceva, lui che certo non avrebbe messo tante volte a dura prova la mia pazienza quand'ero vivo, come non avrebbe attaccato il mio buon nome ora che son morto, se mi fosse stato amico davvero!". Stava parlando così, quand'ecco che un pesante macigno colpì la barca di Caronte provocando un gran rimbombo (l'aveva scagliato con tutta la sua forza quel selvaggio ubriaco di prima). Caronte, atterrito dal colpo, si mise a gridare facendo rintronare tutto il teatro. Gelasto, fremente di rabbia, si stava lanciando contro l'ubriaco, ma Caronte esclamò: "Lascia perdere, Gelasto, lascia perdere! Tu li attacchi con l'ombra, questi qua ci prendono a pietrate! Abbiamo girovagato abbastanza. Qui, a parte le assurdità e la cattiveria, non trovo niente che valga la pena di vedere, e la cosa migliore è detestare le assurdità e stare alla larga dalla cattiveria. Andiamocene!". Gelasto cercava di richiamare Caronte, questi se la filava saltellando tutto tremante. A quello spettacolo gli dèi lì nel teatro scoppiarono in una gran risata, che ebbe l'effetto di attirare su tutti loro un grosso guaio, assolutamente imprevedibile. Racconterò presto che cosa avvenne, prima però farò un resoconto dell'avventura capitata a Caronte, inattesa e veramente spassosa. Sentendo il riso delle statue, disse dunque Caronte: "Ridete quanto vi pare: io preferisco esser deriso che prenderle". Il fatto è che credeva che a ridere fossero stati quei rompiscatole dei commedianti, per quanto notasse con meraviglia l'enorme risonanza della risata divina. Ma Gelasto, che era pratico di teatro, si mise immediatamente a correre gridando: "Accidenti, Caronte! Accidenti, aspetta che arrivo!". Caronte si voltò a guardarlo, stupito per la sua fifa. "Che ti piglia?" disse "Ti han tirato una pietra?". E quello, quasi fuori di sé, tutto tremante: "Non hai sentito le statue?". "Che cosa?". "Si son messe a ridere!". "E allora?" fece Caronte "Volevi che piangessero, o è la fifa che ti fa credere che le statue hanno riso?". Gelasto, pallido di paura, non si reggeva più sulle gambe, così al primo incrocio che incontrò fuori città andando dietro a Caronte, si attaccò alla poppa capovolta della barca e disse: "Fermati, Caronte, per favore!". Quello rispose: "Non sopporto queste mascherate che fate sempre voialtri mortali! Tu non avevi paura dei sassi, e ora fai finta di essere terrorizzato per una risata; e poi tu insistevi tanto di non voler tornare qui sulla terra, ma ora bisogna strapparti a forza! Non ti ringrazio per niente d'avermi tolto il piacere di raccoglier fiori per portarmi in mezzo a liti e baruffe. Se c'è da aver paura non solo delle sassate, ma anche di questa risata delle statue, chi è che non se la squaglierebbe di qui? Ma tu fa' quel che ti pare, io me ne vado". Gelasto, colpito dai modi arcigni di quel vecchio intrattabile, disse allora: "Sei tu ora che ti metti a fare con me giochi di parole e sottigliezze, di cui dicevi sono esperti i filosofi, o Caronte!". Rispose Caronte: "È per questo che è così importante frequentare chi sa parlar bene: s'imparano tante cose dagli intellettuali!". Gelasto allora pensò per sé, e, non certo per togliere un peso a Caronte, ma per impedirgli di andarsene se avesse insistito a filarsela alla svelta lasciandolo indietro, disse: "È giusto che anch'io impari qualcosa da te. Va bene! Imparerò a maneggiare il remo". E Caronte: "Il remo qui in secco?". Ma l'altro afferrò il remo e si mise a dimenare le scapole, camminando carponi. "Era così Ercole con la clava!" diceva "E se in teatro avessi avuto questo remo, mascalzone d'un Enope, a cui ho fatto tanti piaceri, me l'avresti pagata! Ti avrei assalito come si assale un mostro, e te ne avrei date tante, dopo che ho sopportato pazientemente la tua disonestà e la tua cattiveria!". Intervenne allora Caronte: "Gelasto, stammi un po' attento: ne ho tanti di anni sulla breccia al punto del passaggio, e ne ho vista molta di gente colta ed esperta con cui ho discusso di questi problemi! Vorrei che sapessi una cosa: secondo il parere di tutte le persone più accorte, non bisogna sempre usar pazienza; la loro opinione è che c'è una regola da osservare in generale fra i mortali: niente in eccesso; solo di pazienza, però, nella vita bisogna averne o niente affatto o in eccesso. Probabilmente si trova più gente che rimpiange d'esser stata paziente che di non esserlo stata". Gelasto esclamò: "Che osservazione profonda! Lo vedo in base alla mia esperienza: posso dire d'essermi tirato addosso più fastidi con la mia pazienza di quanti non me n'abbia fatto incontrare l'intolleranza".

Tra una chiacchiera e l'altra erano ormai giunti al mare. Gelasto allora si fermò a guardarsi intorno esitante; Caronte, che cominciava a irritarsi, disse: "Ti blocchi anche qui?". Gelasto rispose: "Non ti arrabbiare, Caronte, mi sto dando da fare per tutti e due. Ti confesso che non sarò una buona guida in una così vasta distesa, senza strade tracciate né punti di riferimento". Caronte rispose: "Ho sentito dire che la via per l'inferno è facile: basta andare da quella parte dove non si vede e non si sente niente. E allora montiamo in barca e facciamo rotta in quella direzione!". Mentre navigano nel mare calmo, Caronte dice: "Vedi come me la cavo meglio non dando retta a voi filosofi? Se ti avessi dato ascolto, mi avresti sepolto con i tuoi dubbi; non ti ho dato retta, per questo navighiamo così bene. Ma tu perché hai finto di aver paura di questo mare, dopo aver visto l'Acheronte? Questo qui sembra più grande, te lo concedo, ma non può essere né più profondo né più burrascoso. Ehi, ma che razza di mostro è quello laggiù, che avanza solcando il mare nella nostra direzione? Che sia quello che ha procurato tanti disastri agli inferi, e dicono si aggiri per i mari? Come capita a proposito! Non sono mai riuscito a capire, infatti, che roba sia. Ed ecco che sta per passarci davanti, lo vedremo, e questo è un bene. Ora sì che son contento d'essere andato sulla terra! Eccolo qui, lo vedi?, lo Stato in navigazione!". Gelasto esclamò: "O Caronte! Che definizione appropriata hai trovato, chiamando 'Stato' una nave! Se volessi descriverla a modo, non potrei trovare espressione più chiara! Anche qui infatti, come in uno Stato, comanda la minoranza, la maggioranza è comandata e così impara a reggere il potere; le loro passioni, i loro progetti di carriera e di benessere cercano di adattarli a tutte le situazioni. Inoltre anche qui, come in uno Stato, la direzione generale è affidata a uno solo, o ad alcuni, o a molti; essi, se sanno tener conto del passato, prevedere il futuro e analizzare attentamente il presente, e se affrontano con razionalità e metodo tutti i problemi, senza cercar di stornare a loro favore, anziché nell'interesse generale, nessun bene, allora sono dei governanti, e tutto procede a meraviglia; se invece si accaparrano ogni cosa e mettono in secondo piano tutto quanto di fronte alle loro passioni, allora sono degli oppressori, e tutto va in rovina. Inoltre, se ascoltano i consigli degli esperti, se si mantengono sempre disponibili, se la loro efficienza è sincera e trovano l'unanimità nell'esecuzione delle decisioni, allora la situazione fila liscia e stabile; se invece sono in disaccordo, se si fanno pregare e si tirano indietro, ecco che lo Stato ne viene sconvolto ed entra in una grave crisi. Ehi, ma che stupidaggine stiamo facendo? Non abbiamo saputo tirarci fuori da un disastro imminente: siamo capitati davanti ai pirati!". Al sentire la parola pirati, Caronte si spaventò, perché aveva inteso più d'una volta che sono quanto di più terribile e crudele; eppure, nonostante i brividi di terrore, fece finta di nulla pur di continuare a punzecchiare Gelasto. Disse: "Quanti trucchi hai intenzione d'inventare, Gelasto, per interrompere il nostro ritorno all'inferno? Una volta ti trattiene l'incertezza sulla rotta, un'altra volta è scoprire il pericolo dei briganti che ti blocca! Che motivo hai di temerli, se non possono toglierti neanche la vita? Comunque, è meglio evitare questa seccatura: ti lascerò a terra". Detto fatto, diresse la barca verso la spiaggia, remando a tutta forza. Gelasto si accorse che Caronte s'era spaventato e disse allora ridendo: "Fai bene a squagliartela, Caronte! Se catturassero un vecchio lupo di mare come te, lo farebbero certo schiavo, mettendolo tra i loro sventurati rematori! E magari ti strapperebbero barbone e capelli per intrecciarci le funi, proprio come hai fatto tu!". Giunto che fu sulla spiaggia, Caronte s'imbatté negli abitanti del luogo, che, avendo visto i pirati mentre si trovavano nei bagni pubblici lì vicino, stavano tagliando la corda e gridavano ai due di stare alla larga da quei criminali ferocissimi e di salire sulle montagne. Caronte disse che non poteva abbandonare la sua barca, e non ce la faceva più a portarsela dietro: si era stancato da morire cercando di guadagnare la terraferma remando a più non posso. Andò allora a nascondere la barca in una palude nelle vicinanze, coprendola sotto il fango, poi si rintanò in mezzo alle canne più vicine. Gelasto, invece, salì fino ad un anfratto, dove si nascose in mezzo a un cespuglio.

Ed ecco tosto i pirati, già fatto il bottino, saltare di corsa giù dalla nave: entrano nello stabilimento e lì, per divertirsi, decidono di nominare tra loro un re dei crapuloni, con un sistema strano e originale. Fanno corona tutt'intorno, poi un topo viene lanciato in acqua: è nominato re quello che il topo nuotando tocca per primo. Con questa forma di estrazione a sorte, di tutta la ciurma uscì fuori come re un tipo davvero raccomandabile. Poi si danno tutti alla gioia più sfrenata, divertendosi un mondo a fare tutto ciò che si può fare nei bagni. A un certo punto un mozzo di cambusa, proprio il peggiore in quella ciurma senza freni, si proclamò re per burla anche lui in seguito a una cospirazione di uomini di fatica e mozzi suoi pari. Quello che era stato sorteggiato re per primo, di fronte alle insistenze della maggioranza, gli cedette spontaneamente il posto. Il gioco è tirato avanti per le lunghe, si ride per gli scherzi più strani in mezzo all'approvazione generale, in primo luogo del capo dei pirati, il quale incoraggia addirittura a continuare. Allora il nuovo re dice di volersi assicurare con un giuramento la fedeltà dei compagni di baldoria: ordina pertanto di mettere in mezzo a loro una scodella nera affumicata, sulla quale tutti, anche se non vogliono, devono giurare come su un altare, finché venne il turno anche del capo pirata: ma questi si rifiutò di giurare, perciò fu trascinato davanti al re e fu condannato, con decisione collegiale, in quanto renitente agli ordini; ora, la pena prevista per i renitenti era d'immergerli in acqua. Così anche lui, come tutti i ribelli, viene immerso nell'acqua, ma lo immergono in modo da farlo restar soffocato in quel nugolo di mani. Attendenti e amici del capo, sbigottiti per la fine dell'annegato e per l'impresa temeraria dei congiurati, son lì lì per perdere il controllo. Ma tutti quelli che stavano col re, esultanti per il successo, prendono immediatamente possesso della nave e del timone, proclamano che la loro azione ha dato a tutti la libertà e salpano a far festa dirigendosi al largo, scomparendo nella stessa direzione da cui erano arrivati.

Gelasto, che aveva seguito la fine del capo pirata dal suo punto di osservazione, corse subito a raccontare tutto a Caronte. Questi non aveva mai mostrato tanto interesse per un racconto: quindi, infangato e sozzo com'era da capo a piedi, si mise a saltellare di gioia, abbracciò Gelasto e lo riempì tutto di fanghiglia a forza di baci. "Ora tiro un bel respiro!" diceva "A chi poteva andar meglio? E chi avrebbe immaginato che quella testa pelata e piena di bitorzoli racchiudesse intenzioni del genere? A questo punto gli perdono volentieri tutti i danni che m'ha procurato: se eri qua, Gelasto, che risate avresti fatto!". "Avrei riso dei tuoi danni?" chiese Gelasto. "Perché no" rispose Caronte "se ci riderei sopra anch'io, mentre prima avrei pianto per la paura del pericolo? Devi sapere che un paio di quei mozzi erano venuti a cospirare qui, vicino a questo tronco di salice. E anch'io ero diventato quasi un altro tronco, me ne stavo immobile, impaurito dalla loro venuta; me ne stavo steso nel fango, tenendo su solo il volto, e cercavo di sentire cosa macchinavano. Riuscivo a stento ad afferrare le loro parole, comunque m'è parso che uno dicesse: 'Basta così. Sono d'accordo: lo faremo morire affogato'. A quel punto mi prende la fifa, perdo quasi la coscienza. Poi, messo a punto il piano, quelli lì prendono a buttare in mezzo al fitto canneto, proprio nella mia direzione, le interiora di un caprone sacrificato che si erano portati dietro col pretesto di doverle andare a gettare. Soprattutto quello splendido esemplare di re con la testa rasata tira con una forza che, se non mi schivavo, erano guai! Ho proprio desiderato avere ancora per elmo la barca, come prima in teatro. 'Ehi! Ehi!' dicevo 'Da queste parti i caproni danno testate anche da morti?". Così narrò Caronte, poi prese subito la barca, ed eccolo prendere il mare. Gelasto lo invitava a farsi un bagno, per non esser preso in giro all'inferno con tutto quel sudiciume addosso. Ma Caronte non volle, sostenendo che preferiva apparire il più sporco e miserabile all'inferno piuttosto che il più elegante sulla terra, pur di scampare a quelle belve terribili che sono gli uomini. Gelasto disse allora: "Ho capito cos'hai in mente! Vuoi tornare all'inferno in maschera pure tu!".

Questi i discorsi di Caronte e Gelasto. A un certo punto mentre si dirigevano al largo raccontandosi la storia dei pirati e del re narrata poc'anzi, Caronte si decise a esporre l'interessantissima discussione tra quel Peniplusio e il re, che aveva promesso di narrare al ritorno quando aveva visto il lupo Però un nuovo pericolo si mise di mezzo, impedendo la narrazione. Il mare, infatti, cominciò a gonfiarsi in gorghi turbinosi e ad ingrossarsi furiosamente, abbattendosi contro gli scogli; i naviganti avevano perso ogni speranza di salvezza, a meno che non fossero riusciti ad approdare alla scogliera più vicina, selvaggia e frastagliata. Riparano proprio là, dunque, e vi trovano, legato ben stretto, Momo, più curioso di conoscere la causa di una tempesta così violenta che addolorato per i suoi guai. La tempesta l'avevano provocata i venti in lite tra loro: stavano infatti discutendo violentemente, rinfacciandosi l'un l'altro la colpa del tremendo misfatto che avevano combinato nel teatro; si erano accalorati tanto, avevano provocato un tale trambusto che finirono per mescolare mare e cielo. Era successo che, al momento della fuga di Caronte dal teatro, la risata degli dèi aveva fatto rimbombare tutta quanta la terra, ed Eolo, richiamato dalla risata, volò via dalla sua grotta per vedere cosa stava accadendo. I venti chiusi nella grotta, stando con l'animo in tensione, le orecchie attente, ebbero l'impressione di sentire la voce della dea Fama che svolazzava in lungo e in largo facendo stridere l'ali, raccontando cos'era successo agli dèi e a Caronte. A quel punto, fu tale il desiderio di vedere gli dèi e gli spettacoli che s'impadronì dei venti, che questi, sbarazzandosi con la forza di catenacci, serramenti e ostacoli di ogni sorta, irruppero tutti in una volta in teatro con violenza selvaggia, talmente privi di controllo da rompere i legami e far rovinare, assieme a parte del muro, il telone steso sopra il teatro, e con esso anche le statue che alcuni celesti avevano depositato sul cornicione. La caduta del telone e delle statue non mancò di provocare un grosso danno agli dèi: alcuni furono sbattuti a terra, altri travolti, non ce ne fu uno che non riportasse qualche contusione. Per non parlare degli altri, Giove stesso rimase impastoiato nei legami del telone, cosicché finì col cadere a testa sotto e piedi all'aria, picchiando col naso. La statua di Cupido, piombando dall'alto, stava per schiacciare la dea Speranza, e comunque riuscì a staccarle completamente un'ala dalla spalla; la statua di Speranza a sua volta, quando si piegò il tendone si mise a traballare e colpì nel petto Cupido. Gli dèi, sbigottiti, non sapevano a che santo votarsi. Ma Giove superò se stesso, facendo l'unica cosa degna di un principe molto saggio, e rifletté su quel che dovessero fare i celesti di fronte all'emergenza. Gli venne il timore che gli uomini potessero pensare che tutto quell'apparato festivo non era stato gradito dagli dèi e quindi avrebbero tralasciato, in futuro, di darsi da fare per acquistare meriti di fronte agli dèi, nel caso che avessero trovato il teatro senza più statue. D'altra parte, aveva intenzione di sottrarre i suoi a quella baraonda tutt'altro che gradevole: pertanto dà gli ordini che gli sembrano necessari: ciascun dio doveva rimettere a posto la sua statua in teatro e poi andar via subito, per evitare che il fatto venisse risaputo ed essi fossero derisi dai mortali: era meglio per gli dèi sopportare qualsiasi inconveniente, piuttosto che rimetterci il prestigio e la reputazione. Tutti obbedirono a Giove, eccetto il dio Stupore, che era diventato pallido e duro come una pietra; però, quando si fece l'appello in cielo, non risultarono assenti solo Stupore e Speranza, che era rimasta, mutilata, sulla terra, ma anche Plutone e la dea Notte.

Sarà un vero spasso seguire le ragioni che li avevano trattenuti a terra, soprattutto per quanto riguarda Plutone. Caso volle che la dea Notte (per cominciare da lei) avesse nascosto la sua statua proprio sotto i medesimi gradini del teatro e proprio vicino a quella di Apollo e, siccome era cava, ci aveva ficcato dentro quella borsa piena d'oracoli trafugata ad Apollo come s'è detto, per evitare che se ne impadronisse a sua volta, approfittando della confusione, qualcuno tra la gran folla dei mortali, tra i quali aveva sentito dire che c'erano dei pericolosi rapinatori. Mentre, dunque, ci si dà un gran daffare per obbedire all'ordine di Giove, guarda caso, Apollo facendo leva col petto tirò su non la sua, ma la statua di Notte, facendo sì che la borsa gli scivolasse tra i piedi durante il trasporto. Però, occupato com'era, non si accorse della borsa. La dea Notte, in preda a uguale eccitazione in quell'operazione così confusa, si prese in collo quella statua che trovò. Ma poi, resasi conto dell'errore, pensando che Apollo si fosse portato via di proposito una statua non sua, se ne andò a piangere in grembo alla figlia per il rimorso del suo furto. La figlia di Notte è Ombra, e Apollo ne è così perdutamente innamorato che non è capace di andare da nessuna parte se non c 'è Ombra con lui. Quanto alla famosa borsa, se la trovò sotto i piedi Ambiguità, la dea più bugiarda che esista. Appreso il fatto, Apollo fu arso da una tale indignazione contro Notte che da allora in poi non seppe trovar di meglio che correr sempre all'inseguimento della sua odiata nemica: e lei si ripara nascondendosi in grembo ad Ombra. Plutone, dal canto suo, era rimasto intricato in quel gran viluppo di tende, finché il frastuono non richiamò lì alcuni magnacci che stavano a letto nei bordelli con le loro baldraccone. Essi, trovato Plutone, gli misero un cappio al collo e lo tirarono fuori, poi alcuni provarono a pestargli i piedi con dei sassi per verificare se fosse proprio d'oro massiccio come immaginavano, altri nello sforzo di strappargli gli occhi vitrei (pensavano fossero diamanti) glieli strapazzarono al punto da fargli schizzar fuori una pupilla, mentre l'altra gliela frantumarono del tutto. Plutone non stette a sopportare stoicamente il dolore e l'oltraggio, ma diede un gemito, poi gliela fece pagare a parecchi di quei magnacci del malanno: si buttò da una parte con tutto il suo enorme peso, schiacciando chi gli capitò, pestando e mutilando mani e piedi a questo e quello; da allora si dice che vada errando per il foro, privato della vista, abbandonato al suo destino da quegli sporcaccioni rapaci.

Cose del genere capitarono in teatro! E alla fine i venti, resisi conto d'aver causato tanti disastri, si guardarono in faccia tra loro e ammutolirono, il rimorso e la fifa li scombussolarono, poi presero a scambiarsi reciproche accuse di sventatezza incontrollata; non la finivano più, insomma, d'insultarsi con ira facendo un gran casino. Alla fine, nell'ardore della lite andarono a scegliersi per campo di battaglia il mare, e da questo aveva avuto origine quell'improvvisa tempesta di cui s'è detto. Spinti, dunque, da questa tempesta, Caronte e Gelasto approdarono a quello scoglio dove si trovava Momo strettamente legato, e lì ripresero conforto considerando i guai di Momo: credevano di trovarsi al culmine della disgrazia, dopo tanti rischi e fatiche, ma quando videro il viso di Momo che ce la faceva appena a respirare sotto la furia dell'oceano e tutto intriso di lacrime, la commiserazione per i guai altrui mitigò il loro dolore. E così gli chiesero chi era e perché mai si trovava lì a subire quell'atroce supplizio, promettendogli che, se potevano far qualcosa per lui, si sarebbero prestati senz'altro. Momo però rispose: "Poveri noi, che altro può fare un naufrago per un condannato, se non mettersi a piangere i suoi guai assieme a lui?". Ciò detto, scoppiò in un pianto dirotto, poi li pregò di tirarlo un po' su dall'acqua, visto che era proprio fatto a pezzi per l'uragano. Quando l'ebbero risollevato, subito Momo e Gelasto si riconobbero: infatti quando si trovava in mezzo agli uomini Momo aveva affrontato numerose discussioni con Gelasto su argomenti della massima profondità. Cominciarono perciò a rammentarsi a vicenda circostanze e discorsi, e a un certo punto Momo disse: "Quando facevo il filosofo in mezzo a voi, esule dal cielo per iniziativa della dea Frode, procedevo alla cieca, però nel cercar di risollevare la mia dignità di fronte alla gravissima ingiustizia subita sono stato sempre coerente nel voler apparire il più umile tra i mortali piuttosto che un dio tra i filosofi. Certo, ho fatto qualche concessione al mio immenso dolore e alla mia acredine più che giustificata; ben altre però ne ho fatte alla reputazione degli dèi, se è vero che ho potuto sopportare dagli omiciattoli, pur di non danneggiare la schiera celeste manifestando la mia vera identità, cose che nemmeno i miei avversari si sono sentiti di lasciarmi subire più a lungo. A far nascere la compassione per i miei guai, oppure a placare l'animosità di chi mi odiava, ha dato certo un grosso contributo quella mia incredibile capacità di sopportare le disgrazie. Sono stato perciò riammesso in cielo e, per darti un esempio del senso di giustizia di sua eccellenza Giove e degli dèi, i quali per non aver dato alcun altro fastidio che buone azioni e giusti consigli m'avevano mandato in esilio, mentre perché ho violentato una donna, dea e vergine per giunta, dentro al tempio, si son messi a ridere tutti quanti. Quello che era risalito tra i celesti era il vecchio Momo di sempre, però animato da nuovi propositi: e così io che ero avvezzo a collegare sempre le mie idee alla verità, i miei desideri al dovere, i discorsi e il viso ai principi di giustizia che sentivo nel cuore, dopo il mio ritorno ho imparato ad adattare le idee al pregiudizio fanatico, i desideri alla passione sfrenata, il viso, le parole e anche il cuore alla macchinazione d'insidie. Aggiungo una cosa sola: fin tanto che mi sono applicato a siffatte arti perverse in mezzo a quella conventicola di beati son rimasto caro al principe, approvato da tutti quanti, prestigioso di fronte a chiunque, oserei dire molto gradito perfino agli avversari. Quel che m'ha fatto piombare in disgrazia è aver pensato, dopo aver ricevuto tante manifestazioni d'onore, che fosse mio interesse lasciar perdere ormai i malvagi artifici e riassumere l'antica indipendenza, buttando da parte il lecchinaggio untuoso e servile. Sono perfettamente consapevole di quello che ho fatto, di come ho cercato di fare il bene degli dèi. Per non parlare di tutto il resto, ho avuto tanta sollecitudine per gli dèi da mettere insieme a prezzo di molte notti bianche per Giove, quando faceva progetti di rinnovamento totale, tutti quei vecchi ragionamenti sui compiti degli dèi e dei governanti su cui ero solito intrattenermi con te, Gelasto mio, e glieli ho consegnati, sintetizzati in un opuscolo, ma la mia disgrazia dimostra quanto valore lui gli abbia dato. Per quanto si può osservare, quella serie di consigli onesti ed utili non è piaciuta a Giove, gli è piaciuto invece relegarmi in questa condizione infelice. Voi adesso cos'è che riterrete degno di critiche più severe, la leggerezza con cui si trascurano gli affari di Stato o l'ingiustizia con cui ci se ne occupa? Consideri lui stesso quanto sia utile allo Stato questo modo di operare del principe. Nessuna persona onesta potrà dire che sia giusto, e non sappiamo ancora quanto andrà a finir bene per quelli che gioiscono della mia disgrazia, e nemmeno lui, che ricambia col male chi gli dà consigli retti mentre colma di beni chi trama azioni malvage, può avere abbastanza chiaro quanto durerà la sua fortuna procedendo per questa via. Ma pensino altri a queste cose, quelli che hanno ancora la possibilità di sperare: io devo pensare esclusivamente ad affrontare la mia triste condizione". Quando Momo finì il suo discorso, Gelasto gli rispose: "Ho tanta comprensione per te, mio caro Momo! Ma perché dovrei mettermi a raccontare le mie sventure? Tanto per consolare il tuo dolore, io, esule dalla patria, ho consumato gli anni più belli della vita in continue peregrinazioni, in mezzo a disgrazie senza fine; sempre in lotta col bisogno, eternamente tartassato dai torti non solo dei nemici, ma anche dei miei cari, ho dovuto affrontare il tradimento degli amici, la rapina dei parenti, le calunnie dei concorrenti e la spietatezza degli avversari; cercando di scampare agli assalti di un'avversa fortuna, sono andato a piombare nella completa rovina che mi si preparava. Scombussolato dai repentini cambiamenti di situazione, sepolto dalle sventure, schiacciato dal peso dell'ineluttabile, ho sopportato ogni cosa senza mai lasciarmi andare, sperando che gli dèi piissimi e il fato mi riservassero una sorte migliore di quella che m'è toccata. Eppure, come sarei stato felice se solo un esito migliore fosse stato la ricompensa per la mia applicazione allo studio di quelle discipline elevate alle quali mi son sempre dedicato! Ma spetta agli altri giudicare i miei risultati letterari. Questo di me posso affermare, di essermi dato da fare con tutta la mia capacità, la mia passione, la mia buona volontà per non dover mai rimpiangere i progressi che facevo di giorno in giorno. I risultati hanno deluso ogni aspettativa: da chi mi doveva sentimenti amichevoli m'è piovuto addosso malanimo, da chi c'era da aspettarsi un aiuto materiale oltraggi, là dove le persone buone prospettavano un esito buono i malvagi hanno risposto col male. Dirai: non t'è successo nulla di diverso da quel che suole accadere agli uomini, ed è bene che ti ricordi d'esser uomo. E allora, Momo, che dirai sentendo quello che è capitato a Caronte, a questo dio? Mentre, seguendo una sua decisione senza dubbio giusta e saggia, s'è messo d'impegno per non restare all'oscuro delle faccende umane, messo in fuga a sassate s'è nascosto in uno stagno, e alla fine, dopo aver corso i rischi peggiori sulla terra e in mare, per caso è arrivato a fatica qui da te; come andar via, che direzione prendere, dove trovare un punto fermo, non ha niente di certo, tanto che credo di dovermi felicitare con me stesso, anche in tutti questi guai, sia per aver compagni divini nel miei guai, sia perché vedo dèi, nati per un destino migliore, trovarsi in una sorte più infelice o quasi di quella in cui mi son trovato io. E anche per voi, Momo e Caronte, dovrebbe esser motivo di sollievo reciproco vedere che nessuno di voi due è al riparo delle disgrazie".

Al termine di quei discorsi commoventi sopraggiunse il dio Nettuno il quale, venuto a sapere dell'azione impudente dei venti, aveva dato ordine alle nuvole di tenerti fermi facendo pressione dall'alto fino a che lui non avesse fatto un rapido giro per rimproverare come si deve quei forsennati. E così, un po' coi rimproveri, un po' a colpi di tridente era riuscito a bloccare la loro furia scatenata riportando la calma in tutto il mare, dopo di che si era recato a far visita a Momo. Trovati lì Caronte e Gelasto, volle sapere come ci fossero arrivati; appresa la storia delle loro traversie, deplorò pesantemente la follia dei venti che con una sola azione sconsiderata avevano dato adito a tanti malanni: avevano mandato a monte gli spettacoli, sconvolto i mari, messo nei guai gli dèi. Poi, di fronte alle domande di Momo e Caronte, espose per filo e per segno quello che era capitato a Stupore, Giove, Plutone nonché a tutti gli altri dèi. Infine Nettuno disse: "Avete altre richieste da farmi? Ora che ho rimesso a posto l'oceano, dovrei tornare da Giove e dai celesti". Gelasto allora: "Se non ti spiace, Nettuno, vorrei tanto che tu convincessi Giove ottimo massimo, nell'interesse suo e degli uomini, a servirsi dell'opuscolo di Momo nella gestione degli affari di Stato: ci troverà un gran numero di spunti per tirarsi su e rinforzare nel migliore dei modi la sua posizione". Nettuno si disse scettico sulla possibilità che Giove si lasciasse prescrivere la linea da seguire da chicchessia: di un principe pieno di sé si può ammettere qualunque cosa, ma non che si lasci guidare, e non è tipo da accettar consigli quando vuol fare una cosa o da lasciarsi influenzare se non la vuol fare; in entrambi i casi aveva sempre fatto di testa sua, preferendo mettere in risalto le proprie capacità piuttosto che dare importanza a quelle altrui. Ciò detto, andò via. Anche Caronte se ne andò, e durante la navigazione disse: "O Gelasto, come dovrei definire una cosa come questa in un principe, in particolare Giove che ha fama di grande saggezza? Lasciamo perdere che sia un po' troppo dipendente dal piacere, che abusi del potere a danno di persone senza colpe, che preferisca il potere al mostrarsi degno del potere e che voglia mostrarsene degno più che esserlo davvero: son tutte cose che si possono anche tollerare. La cosa grave è senza dubbio un'altra, cioè che il principe abbia la caratteristica ineliminabile di non vedere di buon occhio chi dà buoni consigli e di non lasciarsi influenzare dai buoni consigli". Gelasto rispose: "Come vuoi che vadano le cose se quello, circondato da una folla di adulatori, si dimentica ogni giorno di più di poter sbagliare, e regola in base all'arbitrio le sue passioni, in base alle passioni l'esercizio delle sue funzioni, al punto che io non ho ancora ben chiaro se sia meglio essere un principe di tal sorta o un servo". Riprese Caronte: "Mi fai tornare in mente il racconto su Peniplusio che avevo iniziato prima della tempesta: una storia certo interessante, per quanto non riesca a trattenere il riso al pensiero di uno che affermava che una persona d'infima condizione come lui è da preferire al più grande dei re". Allora Gelasto: "Anch'io adesso mi chiedo com'è possibile nell'animo di ciascuno di noi che quando sopraggiunge la paura perdiamo tutto il gusto del piacere, e poi, passato il pericolo, il gusto del piacere ritorna subito. Tu, nel veder la tempesta, perché ti sei spaventato al punto non solo di lasciar perdere il racconto iniziato, ma anche di smarrire quasi la coscienza di te?". Rispose Caronte: "E come potevo comportarmi vedendomi gonfiare intorno e piombare addosso simili montagne d'acqua?". E Gelasto: "E va bene, montagne! E allora tu che mi rimproveravi perché avevo paura dei pirati e non ti davi pensiero di un mare ostile, di cosa ti sei spaventato? Proprio del mare, se non solo hai visto l'Acheronte, ma ci sei invecchiato? O di che altro? Un vecchio lupo di mare come te, Caronte, ha avuto paura del pericolo, pur essendo immortale?". Caronte rispose: "Lupo di mare e immortale quanto ti pare, una cosa era sicura, se facevamo la prova: o ingollarci tutta quell'acqua o finire annegati". E Gelasto: "Come vuoi tu, Caronte; ma continua, racconta quella discussione. Mi par proprio che sarà interessante". Caronte allora: "Sentirai una storia di enorme interesse, e mi fa piacere raccontarla ora che abbiamo imboccato questo fiume, se la rotta non m'inganna. Riconosco il solito odore dell'acqua e, se non mi sbaglio, quella lì è la caverna bassa dove dobbiamo passare noi. Qualche volta, nei momenti liberi, ho fatto un giretto da queste parti. E allora, visto che c'è da posare il remo possiamo lasciarci trasportare dalla corrente favorevole, mettiamoci comodi e concediamoci il piacere di questo racconto. Il re Megalofo e l'araldo Peniplusio, saliti assieme sulla mia barca, cominciarono subito a disputarsi il posto con battute simpaticissime; il primo affermava d'essere un principe, degno di qualsiasi onore, raccontando molte sue imprese valorose, mentre Peniplusio ribatteva così: 'Caronte, ti chiamo a giudice: vedi tu che differenze e che punti di contatto ci siano tra noi. Io sono stato uomo, e anche costui uomo - infatti tu non sei nato dal cielo, Megalofo, né io da un pezzo di legno. Lui è stato al pubblico servizio, e io pure. Di' che non è così, oppure dimmi che altro è il potere, Megalofo. Non è forse un impegno pubblico, in cui anche chi non ne ha voglia deve eseguire le prescrizioni di legge? Quindi siamo stati pari, tutt'e due eravamo soggetti alle leggi, e se le abbiamo rispettate abbiamo fatto il nostro dovere, tu come me: così siamo stati servi tutt'e due, alla pari. Siamo pari anche in altre cose, e se non lo siamo sono superiore io proprio in quelle in cui tu ritieni di sopravanzarmi. Tu credi d'aver avuto una posizione più fortunata: vediamo se è proprio così. Non parlo dei piaceri della vita e della realizzazione dei desideri e dei progetti, tutte cose per me molto più agevoli, vantaggiose e rapide che per te. Tralasciamo poi il fatto che tu eri odiato da molti, avevi paura di molti, mentre a me volevano tutti bene, non c'era uno di cui non potessi fidarmi. Tu per poter sopportare te stesso, per soddisfare pienamente le tue voglie avevi bisogno di molte cose, dovevi stare in guardia da tanti lati, avevi un sacco di perplessità, tutto era pieno di rischi; per me non c'era nessuno di questi ostacoli, anzi nel fare i fatti miei avevo a disposizione tanti mezzi da non poterli nemmeno usare tutti. A te mancava sempre qualcosa di cui avevi bisogno. Comunque, come ho detto, sorvoliamo su questo. Se hai accumulato ricchezze per te grazie al potere, hai fatto un pessimo esercizio delle tue funzioni, ti sei comportato non da governante ma da oppressore; se le hai procurate allo Stato ti sei comportato come si deve, però nemmeno quello è motivo di gloria per te, è titolo di merito non tuo, ma della totalità dei cittadini che le hanno prodotte conquistandole in guerra o facendo fruttare i loro beni. Dirai: con la mia efficienza ho dato lustro alla città e allo Stato, ho conservato pace e ordine con le mie leggi, col mio comando supremo ho procurato prestigio e prosperità ai miei cittadini. Però noi in tutto ciò che abbiamo fatto da soli abbiamo agito senza risultati, e quel che abbiamo fatto con l'attiva partecipazione di molti non vedo perché dovremmo attribuirlo a nostro merito. Ma proviamo a esaminare il contributo che hai dato tu e quello che ho dato io nelle cose che seguono: tu l'intera notte dormivi carico di vino oppure te la spassavi nella lussuria; io vegliavo al mio posto di guardia, proteggendo la città dagli incendi, i cittadini dal nemico e te stesso dalle insidie dei tuoi uomini. Tu proponevi le leggi, io le rendevo di pubblico dominio; quando tenevi un discorso, spesso il popolo ha schiamazzato per protesta, invece quando io divulgavo un ordine tutti stavano ad ascoltarmi con la massima attenzione. In guerra tu incitavi i soldati, ma il segnale lo davo io; i soldati obbedivano ai tuoi ordini, ma era al suono della mia tromba che muovevano all'assalto del nemico o battevano in ritirata. Per finire, a te davano ragione tutti quanti, a me non c'era uno che non obbedisse. Ma di cosa stiamo a discutere? Tu avresti dato tranquillità ai cittadini, se è a causa tua che in città ci sono stati così spesso polemiche e scontri armati, se le tue macchinazioni hanno riempito d'invidie, rivalità e ogni sorta di porcherie tutti gli affari pubblici e privati, il sacro e il profano? Perché vorresti elencare tutte le altre dissennate ostentazioni nella tua pratica di governo? Cos'hai da vantarti d'aver fatto costruire templi e teatri, non per rendere più bella la città, ma per avidità di gloria e per una vana rinomanza tra i posteri? E che valore potremo dare a queste tue leggi così ben scritte, che i disonesti non rispettano mentre gli onesti non ne avrebbero avuto bisogno? Però avrei potuto - dirai - perseguitare duramente i miei oppositori: chi ha più capacità e più mezzi di me in questo tipo di azioni malefiche? Tu certamente avresti potuto colpire questo o quel cittadino, ma non senza rischi, non senza tumulti e col concorso di molte persone; io, se avessi voluto, avrei potuto mandare in sfacelo l'intera città tacendo e dormendo. Ci sono altre due cose in cui ero molto avanti a te. Chi ti stava vicino ti definiva padrone assoluto di tutti i beni e di tutte le fortune; in questo io non avevo solo il potere di mandarli tutti in sfacelo, come ho già detto, ma anche quello che i beni e le fortune di tutti venivano amministrati esattamente come volevo io. Infatti in nessun tipo di affari, in nessun luogo pubblico o privato succedeva nulla senza che io lo volessi; per te c'era nulla dei tuoi beni e delle tue fortune che procedesse secondo le tue scelte? Avevi sempre desideri al di sopra delle possibilità; io di ogni cosa non volevo nulla di più dell'esistente, volevo che tutto fosse esattamente com'era e niente di più. Infine, se tu avessi perduto i tuoi beni ti saresti impiccato, io sarei scoppiato a ridere"'.

Mentre agli inferi si verificava tutto ciò, Giove, nella solitudine della sua stanza, considerando tra sé i suoi guai e l'esito dei suoi progetti si rimproverava con un discorso di questo genere: "Cosa ti sei andato a cercare, padre degli uomini e re degli dèi? Chi era più felice di te? Per una serie di fastidi da poco e sopportabilissimi, quante fatiche, che rischi, che razza di disagi hai affrontato! Il giorno delle calende t'ha insegnato quanto hai saputo bastare a te stesso nel prendere le tue decisioni. Il naso mutilato sarà in eterno un ammonimento su quanto convenga respingere i buoni consigli e dar retta alle smanie degli sconsiderati. Ci scrollavamo di dosso con fastidio i voti di quegli stessi supplicanti di cui in seguito abbiamo dovuto subire la sfottente sconcezza. Dovevamo proprio aver vergogna d'esser beati, se per afferrare nuovi piaceri abbiamo dato un taglio all'antica dignità! Cercavamo di costruire un mondo nuovo, quasi provassimo fastidio di un'eterna serenità; con tutta la serenità che avevamo, cercavamo serenità, e andandone in cerca volevamo meritarcela. Che cosa abbiamo concluso? Abbiamo accolto in cielo tra gli dèi gente indegna, ed i benemeriti li abbiamo banditi o ce li siamo fatti scappare. Ma che sto facendo? L'ho pagata poco la follia commessa, se vado in cerca di altre torture per le amarezze e il ricordo spiacevole di tempi assai duri? Andate via, tristi affanni! Bisogna che trovi qualcosa da fare, se non voglio restare senza far nulla e lasciarmi prendere dai ricordi angosciosi. Lo so cosa fare: metteremo in ordine questo gabinetto dove regna la confusione". Si tolse allora il pastrano e i vestiti, cominciò a cambiare completamente la distribuzione delle poltrone e ripose in un posto più adatto parecchi libri buttati qua e là e tutti impolverati. Mentre metteva ordine gli capitò tra le mani l'opuscolo di Momo, della cui consegna a Giove s'è detto a suo tempo. Trovandolo, Giove non poté evitare di provare ancora turbamento, ripensano a se stesso e alle sue disavventure; alla fine si mise a leggere avidamente il manoscritto con una gioia e un dolore così grandi che non gli se ne poteva aggiungere neanche un po', tante erano le cose piacevoli e quelle spiacevoli che conteneva. Era piacevole ritrovarvi consigli ottimi, davvero necessari alla formazione e all'attività di un grande governante, tratti dalle dottrine dei filosofi; spiacevole aver potuto fare a meno per tanto tempo, per colpa della sua superficialità, di tanti insegnamenti così adatti a conseguire gloria e successo. Questo era il contenuto dell'opuscolo: dev'essere proprio del principe evitare di non far nulla come di fare ogni cosa; quello che fa non deve farlo da solo né con la partecipazione di tutti; deve evitare che qualcuno da solo abbia moltissimi mezzi, come che la maggioranza non abbia mezzi né possibilità. Deve far del bene ai buoni anche se non vogliono, non far male ai cattivi se non perché costretto. Giudicherà le persone dalle caratteristiche evidenti a pochi più che da quelle che si notano subito. Eviterà iniziative innovatrici, a meno che una situazione d'emergenza ce lo spinga per la tutela del decoro dello Stato oppure si aprano prospettive più che sicure d'incrementarne il prestigio. In pubblico darà dimostrazione di magnificenza, in privato si atterrà alla parsimonia. Combatterà contro i piaceri non meno che contro i nemici Procurerà tranquillità ai suoi, a sé gloria e popolarità con arti pacifiche piuttosto che con imprese belliche. Si adatterà ad accettare le suppliche e sopporterà con pazienza i comportamenti inopportuni dei più umili, così come pretenderà che chi sta più in basso di lui si adatti al suo aristocratico distacco.

L'opuscolo conteneva un gran numero di massime del genere, ma una fu l'idea migliore per reggere gli innumerevoli fastidi del potere: era quella di suddividere in tre mucchi la totalità delle cose, uno composto delle cose buone e desiderabili, uno delle cattive, e il terzo di quelle cose che di per sé non sono né buone né cattive. Questo tipo di divisione prescriveva che Operosità, Attenzione, Zelo, Diligenza, Perseveranza e gli altri dèi del genere attingessero in abbondanza al mucchio dei beni e, disponendosi per strade, portici, teatri, templi, piazze, insomma in tutti i luoghi pubblici, li offrissero spontaneamente a tutti quelli che incontravano, consegnandoli con piacere a chi li volesse. Dal canto loro Invidia, Vanagloria, Voluttà, Pigrizia, Ignavia e le altre dèe simili portassero in giro in grande abbondanza i mali e li regalassero spontaneamente a chi non li rifiutasse. Le cose che invece non sono né buone né cattive (per esempio quelle che son buone per chi le sa usar bene, cattive per chi le usa male, tra le quali si annoverano le ricchezze, gli onori e simili oggetti dei desideri umani) fossero lasciate tutte all'arbitrio di Fortuna, perché attingesse ad esse a piene mani e, scegliendo a capriccio quanto e a chi darle, le assegnasse.

 


Leonis Baptistae Alberti

 

Momus

 

 

 

Proemium

 

 

Principem opificemque rerum, optimum et maximum Deum, cum pleraque omnia admiratione dignissima ita distribuisset rebus a se procreatis ut singulis nota aliqua praestantissimarum divinarumque laudum obveniret, illud praesertim sibi servasse palam et in promptu est, ut voluerit unicus admodum solusque plena et integra esse divinitate accumulatissimus. Nam cum vim astris, nitorem caelo, orbi terrarum pulchritudinem, rationem vero atque immortalitatem animis et huiusmodi mirifica omnia rebus singulis quasi viritim impertiens adegisset, voluit ipse esse unus tota et integra confertus counitusque virtute, cui penitus parem non invenias. Quae res quidem omnium esse prima in divinitate, ni fallimur, censenda est, ut sit unice unus, unice solus.

Hinc fit ut rara omnia, quae a ceterorum similitudine segregentur, quasi divina esse vetere hominum opinione existimentur. Namque et monstra, portenta, ostentave et huiusmodi, quod rara evenerint, deorum religioni apud veteres adiudicabantur. Tum et natura rerum maxima et invisa quaeque ita cum raritate coniunxisse a vetere hominum memoria in hanc usque diem observatum est, ut elegans grandeque nihil effingere, nisi id quoque sit rarum, novisse videatur. Hinc fortassis illud est quod si quos praestare ingenio et prae ceteris eo a multitudine deflectere animadvertimus, ut sint illi quidem suo in laudis genere singulares ac perinde rari, hos divinos nuncupemus proximeque ad deos admiratione et honoribus prosequamur natura edocti. Qua nimirum intelligimus rara eo sapere omnia divinitatem, quo illuc tendant, ut unica atque egregie sola a ceterorumque caetu et numero segregata habeantur.

Possem et multa repetere nullam ob gratiam habita in pretio, nisi quod unica sint; quod, ut cetera omittam, quam multa sint apud veteres scriptores quae probentur, si esse vulgata et trita videantur? Aut quid erit illud quod non maxima cum voluptate admirationeque legatur, si erit eiusmodi ut a ceteris non dico neglectum et explosum, sed parum praevisum parumque perceptum intelligatur, ut scriptoris officium deputem nihil sibi ad scribendum desumere quod ipsum non sit iis qui legerint incognitum atque incogitatum?

Quae cum ita sint, non me tamen fugit quam difficillimum ac prope impossibile sit aliquid adducere in medium quod ipsum non a plerisque ex tam infinito scriptorum numero tractatum deprehensumque exstiterit. Vetus proverbium: nihil dictum quin prius dictum. Quare sic statuo, fore ut ex raro hominum genere putandus sit, quisquis ille fuerit, qui res novas, inauditas et praeter omnium opinionem et spem in medium attulerit. Proximus huic erit is, qui cognitas et communes fortassis res novo quodam et insperato scribendi genere tractarit. Itaque sic deputo, nam si dabitur quispiam olim qui cum legentes ad frugem vitae melioris instruat atque instituat dictorum gravitate rerumque dignitate varia et eleganti, idemque una risu illectet, iocis delectet, voluptate detineat (quod apud Latinos qui adhuc fecerint nondum satis exstitere) hunc profecto inter plebeios minime censendum esse.

Cuperem in me tantum esset ingenii, quantum in hac una re procul dubio difficili assequenda adhibui studii et diligentiae. Nam fortassis essem assecutus ut apertius intelligerem versari me in quodam philosophandi genere minime aspernando; et didici quidem ipsa ex re quantum industriae debeatur ubi te studeas esse quovis pacto dissimilem ceteris dignitate et gravitate servata. Sin vero a te susceperis ita scribere, ut in rebus gravissimis tractandis nusquam a risu iocoque discedas, cum insueto tum et digno et liberali profecto, illic plus laboris et difficultatis invenies quam inexperti opinantur. Etenim sunt qui dum huic uni, de qua loquimur, raritati intendunt, etsi ea dicant quae admodum vulgata et plebeia sunt, eadem tamen quadam severitatis sumpta persona ita proferunt, ut dignissimi laude habeantur.

Nos contra elaboravimus ut qui nos legant rideant, aliaque ex parte sentiant se versari in rerum pervestigatione atque explicatione utili et minime aspernanda. Id quantum assecuti simus tuum erit iudicium ubi nos legeris. Quod si senseris nostra hac scribendi comitate et festivitate maximam rerum severitatem quasi condimento aliquo redditam esse lepidiorem et suaviorem, leges, ni fallor, maiore cum voluptate.

Sed non erit ab re instituti nostri eo rationem explicare, quo cum operis comprehensio fiat clarior, tum me purgem cur deos introduxerim et quasi poetarum licentia in scribenda historia abusus sim. Nam veteres quidem scriptores ita philosophari solitos animadverti, ut deorum nominibus eas animi vires intelligi voluerint, quibus in hanc aut in alteram institutorum partem agamur. Ea de re Plutonem, Venerem, Martem et caecum Cupidinem et contra Palladem, Iovem, Herculem huiusmodique deos introduxere: quorum hi cupiditatum voluptatumque illecebras atque labem, concitatosque impetus ac furores, hi vero mentis robur consiliique vim significant, quibus animi aut virtute imbuuntur rationeque moderantur, aut interea de se male merentur, prava inconsiderataque agendo et meditando. Itaque cum sit in hominum animis perassidua difficilisque istorum concertatio, nimirum sunt dii quales esse et Homerus et Pindarus et Sophocles et optimi poetarum introduxere in scaenam. Sed de his alius erit tractandi locus, si quando de sacris et diis conscribemus.

Nos igitur, poetas imitati, cum de principe, qui veluti mens et animus universum reipublicae corpus moderatur, scribere adoriremur, deos suscepimus, quibus et cupidos et iracundos et voluptuosos, indoctos, leves suspiciososque, contra item graves, maturos, constantes, agentes, solertes, studiosos ac frugi notarem, quasi per ironiam, quales futuri sint in vitae cursu et rerum successu, dum aut hanc aut alteram vitam inierint; quid laudis aut vituperii, quid gloriae aut ignominiae, quid firmitatis in republica aut eversionis fortunae, dignitatis maiestatisque subsequatur; ut his quatuor libris, ni me laboris mei amor decipit, cum nonnulla comperias quae ad optimum principem formandum spectent, tum etiam non paucissima sese offerant quae ad dinoscendos mores pertinent eorum qui principem sectantur: ni forte illud desit, quod assentatorem, quo principum aulae refertae sunt, praetermiserim consulto. Nam illud quidem veteres poetae, praesertim comici, abunde explicarunt. Tum et a me tantum abest ut possim quae assentatoris sunt, ut interdum me redarguendum praebeam, qui emeritas et locis debitas dignissimorum laudes omittam, ne mihi ipse videar id genus hominum voluisse ulla ex parte imitari, quos penitus oderim: qui error nunc mihi habetur tecum. Nam quis est qui in prooemiis scribendis non blandiatur, non applaudere gestiat his ad quos scribat, ut fictis etiam collaudationibus vetere et praescripta prooemiorum lege rem ornare ad decus ducat? Ego nudum prooemium attuli, tuisque tantis tanquam maximis ex virtutibus nullam recensui, et feci quod qui te meque norunt non vituperabunt. Nam et tu ex te id agis ut tua sese virtus, fama et celebritate, per omnium aures et ora mirifice efferat posteritatisque fructum accumulatissime consequatur: ergo aliorum ope in ea re non indiges. Ego vero (quoad in me sit) tua et dicta et facta observans et colligens malo te totis voluminibus amplecti atque cupidis litterarum commendare, ut habeant quem egregie imitentur, quam levi (ut ita loquar) congratulatione permulcere.

Sed de his hactenus. Ceterum cum nos per otium legeris et tibi inter legendum res ex desiderio meo, tua pro expectatione, successerit, totiens congratulabimur quotiens incideris ut rideas. Et utinam tam saepe eveniat ut sales et inventorum formas admireris, quam non interraro dabitur ut rideas iocos et comitatem quibus haec historia refertissima est. Ergo lege vel maxime ut ipsum te recrees, proxime ut faveas et studiis et lucubrationibus nostris volens ac lubens. Sis felix.


Liber primus

 

 

Mirabar si quando apud nos humiles mortales in vita degenda pugnantem aliquam et inconstantem rationum iudiciorumque vigere opinionem intelligebam: sed cum superos ipsos maximos, quibus omnis sapientiae laus attributa est, caepi animo accuratius repetere, destiti hominum ineptias admirari. Nam apud eos repperi varia et prope incredibilia esse ingenia et mores: alios enim sese habere graves et severos, alios contra exstare leves et ridiculos, aliosque deinceps ita esse a ceteris dissimiles, ut vix esse ex caelicolarum numero possis credere. Qui tamen cum ita sint, cum longe moribus inter se dissideant, neminem tamen seu apud homines seu apud superos reperias ita singulari et perversa imbutum natura, cui non alium quempiam multa ex parte comperias similem praeter unum deorum, cui nomen Momo. Hunc enim ferunt ingenio esse praeditum praepostero, mirum in modum contumaci, naturaque esse obversatorem infestum, acrem, molestum, et didicisse quosque etiam familiares lacessere atque irritare dictisque factisque, et consuesse omne studium consumere ut ab se discedat nemo fronte non tristi et animo non penitus pleno indignatione. Denique omnium unus est Momus qui cum singulos odisse, tum et nullis non esse odio mirum in modum gaudeat. Hunc memoriae proditum est ob eius immodestam linguae procacitatem ab vetere deorum superum caetu et concilio omnium conspiratione et consensu deiectum exclusumque fuisse, sed inaudita pravitate ingenii et pessimis artibus tantum valuisse, ut potuerit superos omnes deos omneque caelum et universam denique orbis machinam in ultimum discrimen adducere. Hanc nos historiam, quod ad vitam cum ratione degendam faciat, litteris mandare instituimus. Id ut commodius fiat, repetenda prius est quaenam causa et modus extrudendi in exilium Momi fuerit; post id reliquam historiam omnium variam et non minus rerum dignarum maiestate quam iocorum venustate refertissimam subsequemur. Nam cum Iuppiter optimus maximus suum hoc mirificum opus, mundum, coaedificasset, et eum quidem esse quam ornatissimum omni ex parte cuperet, diis edixerat ut sua pro virili quisque in eam ipsam rem aliquid elegans dignumque conferret. Iovis dicto certatim paruere superi: idcirco alii alias res, alii hominem, alii bovem, alii domum, singulique praeter Momum aliquid muneris Iovi non ingratum in medium produxere. Solus Momus, innata contumacia insolescens, nihil ab se fore editum gloriabatur, et in tanto aliorum tanquam communi producendarum rerum studio sua in pervicacia summa cum voluptate perseverabat. Tandem cum plurimi maximopere ex eo expostulassent ut Iovis gratiam et auctoritatem modestius consultiusque coleret, non quod illorum suasionibus aut monitis moveretur, sed quod assiduas monitiones, hortationes precesque multorum nequiret sine stomacho diutius ferre, aspero, ut semper, supercilio, "Vincite" inquit "molesti: abunde quidem vobis satisfaciam". Inde igitur rem se dignam excogitavit. Universum enim terrarum orbem cimice, tinea, fuconibus, crabronibus, statanionibus et eiusmodi obscenis et sui similibus bestiolis refertissimum reddidit. Ea res primum apud caelicolas ridiculo haberi, ioco ludoque accipi. Ille indigne ferre quod non exsecrarentur, verum gloriari suo secum facto et passim aliorum munera improbare, munerum auctores vituperare: denique universorum odia dictis factisque in dies magis ac magis subire. Erat inter ceteros celebres opifices deos magna in admiratione suorum a se conditorum munerum Pallas quod bovem, Minerva quod domum, Prometheus quod hominem effecissent; proxime ad hos accedebat ut belle dea Fraus fecisse videretur quod muliebres mortalium adiecisset delitias, artesque fingendi risumque lacrimasque. Etenim hos praesertim cum ceteri dii laudibus extollerent, solus Momus vituperabat: aiebat enim utilem quidem esse bovem et ad fortitudinem aeque atque ad laborem satis comparatum, sed non suo decentique loco fronti fore oculos adactos, quo fiat ut cum pronis cornibus oppeteret, oculis ad terram destitutis, non destinato et praefinito loco liceat ferire hostem, et ineptam procul dubio fuisse artificem, quae non summa ad cornua vel unum saltem oculum imposuisset. Domum itidem asserebat nequicquam esse tantopere approbandam uti ab imperitis diis approbabatur, quandoquidem nullos currus subegisset, quo malo a vicino in pacatius solum posset trahi. At hominem quidem affirmabat quippiam esse prope divinum; sed, si qua in eo spectaretur formae dignitas, id non auctoris inventum, sed ab deorum esse ductum facie. In eoque opere illud tamen stulta videri commissum ratione, quod intra pectus mediisque in praecordiis homini mentem abdidisset, quam unam suprema ad supercilia propatulaque in sede vultus locasse oportuit. Ceterum apud se nullius probari aeque atque Fraudis deae ingenium: eam enim adinvenisse quo pacto, pulchra Iunone abdicata, sese pellicem deorum regi subigat; amatorem esse Iovem et facile delicatam ornatamque virginem appetiturum; futurum hinc ut irata ob eam iniuriam coniuge et thoros iugales dedignante, doli artifex dea mulierosi principis gratiam aucupetur; quod si sapiat Iuno, si suos amores integros perennesque velit, ex deorum caetu deam Fraudem sibi ducat exterminandam. Haec Momus dicere adversus Fraudem usurpabat, tametsi deam ipsam amabat perdite: sed quod suspicionibus amoris per id tempus dissidebat, criminose iracundeque magis iactabat quam esset par, ut iam tum hinc acerba istiusmodi lacessita iniuria dea suas omnes decreverit curas et cogitationes ad sui vindictam prosequendam exercere. Itaque, ut pulcherrime ingrato amanti pro meritis referret, suis freta artibus, in gratiam volens ac lubens cum Momo rediisse simulat: frequens ideo una esse, crebros cum illo trahere sermones, dicenti ultro omnia assentiri, petenti obsequi. Subinde credulo amanti futilia quaedam commentitiaque secreta aperire consiliumque suis in agendis rebus ficta fide poscere, ac modo veris modo falsis verbis unis atque item alteris diis inflexo diductoque sermone obtrectare ut procacem ad obloquendum illiceret; postremo nihil praetermittere quo illi esse in tempore nocua egregio aliquo malo posset. His artibus multa ab inconsulto et incaute confabulanti extorserat, quae quidem ad eos ipsos quos id gravate ferre arbitrabatur detulerat, ea spe ut, multorum in unum Momum invidia odiisque citatis, ad hostem obruendum impetu et manu firmiori attemperate irrumperet. Dederat praeterea operam Fraus dea ut per varios interpretes crebre in dies multorum adversus Momum querimoniae exporgerentur Iovi, et quo omnem ab se istius malivolentiae suspicionem amoveret, si quando de Momi nequitia se coram sermo habebatur, quasi pro amoris officio patrocinium praestare se assimulabat, et pluribus verbis, sed frigidula oratione Momum omnibus accusantibus et omnium sententiis damnatum defendebat, inquiens Momum quidem esse mente alioquin non pessima, sed animo fortassis immoderate libero: eaque re videri lingua esse dicaciori et intemperatiori quam sit. Interea totis oculis et auribus evigilanti deae accommodissima laedendi occasio oblata est. Nam aegre ferentibus diis novum alterum deorum genus, homines, procreatum esse, et eos quidem aura, fontibus, domo, floribus, vino, bove et huiusmodi delitiis multo ferme quam superos esse beatiores, Iuppiter optimus maximus, quod caelicolarum benivolentia suum sibi regnum vellet communire, quae suae fuere partes, huic se rei probe provisurum pollicitus est, et daturum se operam asseruit ut superum nullus posthac sit, quin se deum malit esse quam hominem. Ergo in hominum animos curas metumque iniecit, morbosque et mortem atque dolorem adegit. Quibus aerumnis cum iam adeo essent homines longe deteriori in sorte quam bruta animantia constituti, non modo deorum erga se invidiam extinsere, verum et sui misericordiam excitavere. Accessit ut gratificandi studio Iuppiter caelum ornare latissime aggressus sit: caeli enim domicilia constituit eaque multis variisque signis, auro ac gemmis, omnique denique copia delitiarum pulcherrime distinxit. Demum haec diis Phoebo, Marti, Saturno patri, Mercurio, Veneri, Dianaeque ultro elargitus est, et quo laetam dehinc et omnibus caelicolis gratam acceptissimamque suam tyrannidem curis vacuus ageret, munia, magistratus imperiaque in quos visum est impertitus distribuit. Et inprimis Fato deo, ad res curandas agendasque omnium solertissimo, semper agenti, nunquam otioso, nihil per ignaviam, per inertiam praetereunti, nihil precibus aut praemiis a vetere more, a legitimisque institutis deflectenti, volvendorum orbium curam summamque ignium potestatem legavit, concione habita, qua in concione illud iterum atque iterum affirmavit, sese otii esse cupidissimum, ac rerum quidem regni aliud nihil sibi esse relictum velle, quam ut una cum reliquis diis integra voluptate ex animi libidine frueretur. Suorum vero erga deos meritorum hoc satis sibi videri praemium, si per eorum mansuetudinem dabitur ut possit vitam degere curis vacuam atque liberam.

Hic locus admonet ut quando summam ignium potestatem Fato datam diximus, quinam ipsi ignes et quaenam sit ea potestas referam. Est apud superos sacer aeterno ab aevo ductus focus, cui quidem cum cetera, tum illud insit admirabile, ut nulla substituta materia nulloque liquore subfuso sese confovens perpetuis lucescat flammis: quin et huiusmodi est, ut quibus adhaeserit rebus, eas quoad una constiterit immortales incorruptibilesque reddat. Sed si ex eo foco sumptas flammas crassis liquentibusque rebus terrenis adegeris, sponte sua diffluent ad pristinamque sedem, ni assiduis flatibus celerique motu exagitentur, dilabentur. Accedit quod solis in villis mapparum quas dea Virtus contexuit sacer ipse ignis vigeat. Isthoc sacro ex foco hausta flammula ad summum frontis verticem quibusque deorum illucet, atque ea quidem in diis hanc habet vim, ut ea conspicui in quas velint rerum formas sese queant ex arbitrio vertere, quod ipsum plerique maximorum deorum effecere, alii in aureum imbrem cygnumve, alii aliud in animans sese, prout sua tulit libido, convertentes. Hoc ex foco cum Prometheus radium subripuisset, ob perpetratum sacrilegium ad Caucasum montem fixum relegarunt. Quae cum ita res sese haberet, cum is focus ad tantas res agendas esset commodus, cavere superi, magistratu ignium creato, ne huiusmodi furta posthac ullius audacia temeritateve possent perpetrari.

Haec de ignibus hactenus dicta sint, ad rem redeo. Itaque tantis ab Iove exhibitis donis caelicolae, pro insigni suscepta munificentia, ordinibus confluebant iamque universa immortalium multitudo incredibilem prae se alacritatem ferens ad regiam convenerat habitura gratias Iovi. Eoque loci quisque certatim maximis laudibus rem prosequi aggrediebatur: recte enim pieque optimum principem Iovem pro sua prudentia caelicolarum ordini providisse uno ore affirmabant. Solus Momus, vultu tristi, gestu moroso alteroque sublato supercilio, hunc atque hunc ad congratulandum properantem torvo obliquoque lumine despectabat. Sensit illico perfida dea, unicum erga inimicum intenta, Momum esse animo in Iovem subinfenso. Idcirco suas ad artes conversa quae opus facto sint parat: Temporis enim dei filiam Verinam, Iovisque pellicem Profluam, quam eandem nympharum esse alumnam praedicant, proximam post ad convivalem aram, ad quam fortassis adhaerebat Momus, collocat iubetque uti assideant humo et aliud inter se dissimulantes latitent. Iovis enim causa parari quae sic parentur: proinde rem sedulo exequantur et tacite quae illic dicentur auscultent atque adnotent. Compositis insidiis, dea vultu hilari ad amantem propius accedit; salutant mutuo sese; post id, cum paululum Fraus obticuisset, mox contracto supercilio "Et quidnam" inquit "mi Mome? Num et tu, ut videor videre, de Iovis in superos merito secus atque vulgus hoc imperitum sentis? Ne vero eadem una mecum de hisce rebus statues? Non ausim ea cuiquam profiteri quae sentio, ni forte uni tibi, quem aeque atque hosce oculos meos diligo. Verum quid me celem apud te, a quo me intelligam in amore ita accipi prope ut merita sum mea simplicitate et fide? Hei nos infelices, qui quidem huic... Sed de his alias. At pulchra esse opera Iovis non inficior, tametsi meminisse deceat quaeque princeps maximorum deorum aggrediatur ea esse omnia oportere ita, ut nihil supra et nihil aeque. Rectius pro tua prudentia tu quae dixisse velim intelligis, quam a me explicentur". Haec dea. Tum Momus "Profecto" inquit "sentis uti res est. Sed nondum satis apud me constat stultine sint ea principis opera magis an ambitiosi". Hic dea subridens: "Et quid tum" inquit "utrumque, illi forte si adsit non vitium, inquam, sed consilium?". Tum Momus "Consiliumne" inquit "tu id quod meram sapiat stultitiam nuncupas? En bene constitutam rerum agendarum rationem! Loquar quae me decere arbitrer. O quam commodius cum deorum republica ageretur, si maturius consilia pensitarentur! Neque enim sat est principem praesenti libidini prospexisse, ni et quae futura sint ita utramque in partem perpenderit atque adduxerit, ut non aliena posthac, sed sua praesertim sibi vivendum sit (ut aiunt) quadra. Vel quid hoc dementiae deorum regi incessit? Scilicet tum primum maiorem in modum gaudebat Iuppiter optimus maximus homines factos esse, ut haberet quos nobis superis, seu iure seu iniuria succensus, aemulos ad invidiam obiectaret; post, ubi antiquius duxit veteribus incolis quam adventitiae mortalium deorum multitudini superas patere sedes, illic homines habere sibi voluit, in quos suos irarum aestus ex animo profunderet, in quos ut immani saevitia grassaretur. Hinc fulgura, hinc tonitrua, hinc pestes et quod durius intolerabiliusque est miseris hominum animis, curas metusque et quaecumque excogitari fingique possint mala, ingessit atque in unum accumulavit. Alia ex parte, si certare adversus mala pigeat, miseris reliquit, quo se ex crudeli hoste munitissima tutissimaque recipiant in castra, mortem; sin vero certare iuvat, o inconsulte Iuppiter, qua te et iratum et armatum deorum principem superent, homunculis non ademisti patientiam! De orbium igniumque provincia quid est quod sine commiseratione iam iam nostrorum impendentium malorum referam? Quis tam vecors, tam obtusi exstat ingenii quin istuc mentem adhibens intelligat non defuturum ut nullis magis quam te auctore, o Iuppiter, tuique ipsius proditore pereas? Tune Fato tantam vim et potestatem agendarum rerum tanta cum volubilitate coniunctam dedisti? Quod si semper, ut caepere, novas res cupere et posse astrorum orbiumque ductores non desistent, quis hoc non perspicit futurum, ut olim quempiam alium superis daturi sint regem?". "Hen" inquit hic Fraus "regemne?". "Quidni?" inquit Momus "An tu Iovem alium esse quam deum reris, quod deorum sit rex?". "Mihi quod autumas" inquit Fraus "fit non iniuria verisimile. Verum et quisnam tanto imperio dignum se, etiam iubentibus fatis, deputet?". "O te ridiculam!" inquit Momus "Tamne esse deos omnes animis modicos et pusillos censes, ut non aliquem invenire credas, qui imperandi oblatam sortem non recuset?". "Te quidem" inquit Fraus "etsi maxima quaeque mereri deputem, tamen est aliquid tanta in re, quo te quoque posse commoveri arbitrer. Sed quidnam tum? Nos vero quanti voles esse apud te, si forte dabitur ut imperes?". "Mihi tu" inquit Momus "altera eris Iuno". Hic Fraus caepit collacrimari: "Atqui nimirum" inquit "cui prae libidine quae velit liceant, huic nihil diutius cordi est. Aliam tibi reperies amatam, Mome: tibi Fraus, quae te misere amet, erit fastidio". His et plerisque huiusmodi ultro citroque dictis, coegit Fraus iurare amantem, ipsa in ara, sese cum factus forte deorum fuerit rex Fraudem Iunonis loco habiturum. Post haec ad dearum caetum victrix rediens Verinam et Profluam arbitras bene et docte subornat quibus verbis, quo gestu, qua hora ad Iovem quicquid ad aram ex insidiis audissent referant.

Fiunt omnia ex sententia: atroci ergo ad se delata amittendi regni suspicione commotus Iuppiter, quod iam pridem aliorum causa esset, erga Momum occulte factus iratior. Nunc suis rationibus quantum coniectura prospiceret paratum adversarium intuens, sese acerbum iniuriarum vindicem exhibuit. Irato Iove omnia atque omnia contremuere: obstupuere superi. Cogitur frequens deorum senatus: iubentur Proflua dea, nympharum alumna, et Verina, Temporis filia, testificari quae a Momo dicta nuper ad aram subaudissent. Instituebat deum pater et hominum rex Iuppiter solemni more diem reo dici, constitutisque iudicibus audiri causam, legitimoque iudicio litem percenseri. Sed tum totis ab subselliis una omnium eademque repente oborta vox publicum odium Momum maiestatis teneri acclamavit: io, prehendendum sceleris obnoxium! Io, et Promethei loco vinciendum! Tanta inimicorum conspiratione tantisque in se unum insurgentibus irarum procellis Momus animis prostratus et trepidans fuga sibi consulendum statuit. Eridanum caeli fluvium citato gradu fugiens petebat, quo inde sumpto navigio secundis aquis ad nostras hominum regiones applicaret. Sed, dum ab insequentium strepitu sibi cavisse properat, in voraginem multo hiatu praeruptam, quae quidem caeli puteus dicitur, incautus corruit: illinc, amisso flamine deorum insigni, in solum etruscum quasi alter Tages irrupit. Eam gentem religioni maiorem in modum deditam offendit: suas idcirco primas suscepit partes idque sibi unum indixit fore negotium, vindictae gratia Etruriam ab deorum cultu ad se observandum imitandumque abducere. Itaque nullum erat uspiam deorum commissum flagitium in eam diem, cuius Momus diligentissimus exquisitor non meminisset codicibusque adnotasset. Ergo obscenas quasque superum fabulas, desumpta poetarum persona, seriove iocove ad multitudinem decantabat. Iovis audiebantur in scholis, in theatris, in triviis adulteria, stupra turpiaque amoris furta; tum et Phoebi et Martis et horum et item horum superum nefanda facinora vulgo asseverabantur. Denique veris falsa miscebantur et vulgatorum in dies scelerum numerus et fama multo excrescebat, ut iam deorum dearumque caput nullum non incestum flagitiisque perditum haberetur. Post id, philosophantis persona sumpta, ut erat barba promissa, torvo aspectu, hispido supercilio, truci nutu et gestu, ut ita loquar, fastuoso, per gymnasia non sine multorum corona concionabundus disceptabat deorum vim aliud nequicquam esse quam irritum et penitus frivolum superstitiosarum mentium commentum; nullos inveniri deos, praesertim qui hominum res curasse velint, vel tandem unum esse omnium animantium communem deum, Naturam, cuius quidem sint opus et opera non homines modo regere, verum et iumenta et alites et pisces et eiusmodi animantia, quae quidem consimili quadam et communi facta ratione ad motum, ad sensum, ad seseque tuendum atque curandum consimili oporteat via et modo regere atque gubernare; neque tam malum comperiri Naturae opus, cui non sit in tanto productarum rerum cumulo ad reliquorum usum et utilitatem accommodatissimus locus: fungi idcirco quaecumque a Natura procreata sint certo praescriptoque officio, seu bona illa quidem, seu mala pensentur ab hominibus, quandoquidem invita repugnanteque Natura eadem ipsa per se nihil possint. Multa pensari peccata opinione, quae peccata non sint; ludum esse Naturae hominum vitam. Itaque his dicendi rationibus plerosque mortalium moverat Momus ut iam intermitti sacrificia et solemnes antiquari cerimoniae deorumque cultus passim apud mortales deseri occiperent. Id ubi a superis cognitum est, fit ad Iovis regiam concursus. Actum de rebus suis queruntur, opem auxiliumque mutuo (ut fit in perditis rebus) alter ab altero exposcunt, iamque se prospicere affirmant, sublata apud homines opinione deorum et metu, nequicquam esse quod se amplius deos deputent. Interea Momus vindictas acrius prosequi, et omnium philosophantium scholas disputando incessere non desistebat. Disputanti deo iam tum seu invidia seu garriendi cupiditate catervae occurrebant philosophorum; etenim cominus eminusque circum astabant, interpellabant, vexabant. Momus vero acer, durus, omnium impetum magis pervicacia quam iustis viribus solus sustinebat. Alii praesidem moderatoremque rerum unum esse aliquem arguebant; alii paria paribus, et inmortalium numerum mortalium numero respondere suadebant; alii mentem quandam omni terrae crassitudine, omni corruptibilium mortaliumque rerum contagione et commercio vacuam liberamque, divinarum et humanarum esse rerum alumnam principemque demonstrabant; alii vim quandam infusam rebus, qua universa moveantur, cuiusve quasi radii quidam sint hominum animi, Deum putandum asserebant; neque magis inter se varietate sententiarum philosophi ipsi discrepabant, quam uno instituto omnes una adversus Momum sese infestos variis modis obiiciebant. Ille, ut erat in omni suscepta controversia pervicax, suam durius tueri sententiam, negare deos, ac demum falli homines, qui quidem ob istum, quem caelo spectent, conversionum ambitum moti, praesides deos ullos praeter Naturam putent. Naturam quidem ultro ac sponte suesse erga genus hominum innato et suo uti officio, eamque haud usquam egere nostris rebus, sed ne eam quidem nostris moveri precibus; ac demum frustra eos metui deos qui aut nulli sint, aut si sint nimirum suapte natura benefici sunt.

Disceptantium philosophorum tumultu perciti superi, unde a caelo exaudiri voces possent ad rem spectandam accursitarant suspensique animis disputationis eventum exspectabant, nunc Momi responsis tristes, nunc philosophorum vocibus laeti. Etenim philosophi adversus Momum concitati, natura ambitiosi, mente arrogantes, usu vehementes, uti erant, altercatores, pertinacius instabant, urgebant, neque interdum convitiis parcebant: hinc ad maledicta utrinque prorumpere. Postremo ardescente rixa pugnis, unguibus, dentibusve obstinatum garrientis Momi os obtundere lacerareque prosecuti sunt. Tumultum supervenientes nonnulli proceres sedavere. At Momus horum ipsorum fidem opemque implorans dimidia deperdita barba foedatos vultus ostentabat; eam enim, dum circum hostium manibus obvallatus oppressusque fugam meditaretur et cubito et umbone validus hunc atque hunc deturbasset, pusillus quidam cynicus trepidantis Momi ab collo pendens morsu barbam decerpserat. Proceres tantam barbato homini illatam iniuriam prae se moleste ferre, sceleris auctores quaeritare, sed circumstrepentium philosophorum vocibus Momum accusantium satis explicite exaudiri homo nemo narrans poterat. Tandem, tota intellecta historia, ubi pusillum eum cynicum demorsorem adductum reum conspicati sunt, et hominem accepto pugno commaceratis oculis obscenum et inter conandum loqui maximis screatibus demorsae vorataeque barbae pilos expuentem intuentur, mutuo risere atque re neglecta despectaque abiere.

Superis id ad maiestatem deorum conducere nequicquam visum est, ut discant homunculi in quemquam divorum tametsi consceleratissimum atque penitus incognitum inferre manus. Alia ex parte prospiciebant non defuturum quin propediem, Momo, ut caeperat, vindictam prosequente plebeque ignara et credula assentiente, prisci gentium ritus et iusta diis sacra labefactata obliterarentur. Coacto ea de re senatu deorum, duae proferebantur sententiae. Una erat, in quam quidem pedibus ibant cuncti, ut ad superum dignitatem auctoritatemque revocandam grati aliqui acceptique hominibus mitterentur, qui apud mortalium animos quovis argumento in integrum statas veteres cerimonias ac venerationem deorum restituerent atque refirmarent. Altera erat sententia, in qua variabatur, sed primarios habebat auctores, ut Momus, cuius iam tum mores caelicolis omnibus essent cogniti, revocaretur: plus enim detrimenti ex illius exilio divorum ordini redundaturum quam si garrulum blatteronem, cui nulli amplius credituri sint, domi continuerint; quod si Momi poena delectentur, esse quidem genus exilii deterrimum ita inter suos versari ut omnibus invisus atque infensus sit. Tandem ex Iovis senatusque decreto Virtus dea, quod et aspectus maiestate et apud mortales auctoritate plurimum valeret, ad terrarum incolas, veluti in provinciam, summa cum imperii potestate demittitur mandaturque ut provideat ne quid deorum respublica detrimenti patiatur. Dea proficiscente universi ordines comitandi gratia frequentes adfuere; tum et singuli senatores caelicolae, prout necessitudine aut familiaritate apud proficiscentem valebant, solliciti admonere, hortari rogareque ut quibus possit artibus communi in periculo publicam ad salutem advigilet detque operam ut cuius ope deorum flamines exstarent, eius cura et diligentia sacrosancta immortalium maiestas tueretur. Illa, optimam de se spem in tanto deorum discrimine pollicita, quantum ex tempore captari afflictis rebus consilii potuit, mature inivit. Quatuor deae Virtutis filii aderant adolescentes, formae venustate indolisque gratia et vultus proceritate morumque praestantia facile principes caelicolarum iuventutis; hos laute ornatos secum dea proficiscens ducit, per quos, sin aliter nequeat, deorum veteres hospites, proceres mortalium heroasque, quos esse pulchrorum amatores meminerat, moveat: tanti erat Momi conatus velle evertere! Eccam igitur deam quadrato reptantem agmine: hinc Triumphus, hinc Trophaeus duo Virtutis mares liberi praetextati praeibant; Virtus mater subinde media subsequitur; matrem deam binae item puellae filiae Laus atque Posteritas consequebantur. Deorum numerus ad septimum usque lapidem longo ordine confertim deam egredientem comitati sunt. At legati illic nubem candidissimam omnium conscenderunt, qua quidem per aethera proclive labentes ad terras delati devenerunt. Hac Virtutis profectione dii plurimum recreari toto caelo professi sunt: neque defuturum arguebant quin, tam praeclaris fulta coadiutoribus, dea violatam caelicolarum maiestatem ab impuri facinorosissimique Momi iniuriis esset vendicatura. Dea ut primum appulit ad terras, mirabile dictu quantum universa terrarum facies plausu laetitiaque gestiret! Sino quid aurae, quid fontes, quid flumina, quid colles adventu deae exhilarati sint. Videbas flores vel ipso praeduro ex silice erumpere praetereuntique deae late arridere et venerando acclinare, omnesque suavitatum delitias, ut odoratissimum id iter redderent, expromere. Vidisses et canoras alites prope advolitantes circum applaudere pictis alis, motuque vocis deos hospites consalutare.

Quid multa? Omnium mortalium oculi divinos ipsos ad vultus contuendos intenti haerebant. Multi spretis officinis tantum adventantium specimen diutius contemplaturi iterum atque iterum sectabantur; nonnulli inter sectandum prae admiratione obstupescebant, quoad prope attoniti redditi haerebant. Undique confluebant ex vicis, ex angiportibus et matres et nurus et senes et omnis aetas, et quinam hospites et quid sibi velint inscii mutuo ab insciis sciscitando fatigabantur. At dea, composito gradu et vultu, multa prae se ferens admixtam cum dignitate facilitatem, lento motu laetoque supercilio salutatrix per militarem viam ad gymnasium, inde ad theatrum, postremo in aedes Publici Iuris hominum subingressa constitit.

Senserat Momus advenisse deas, sed partim odio deorum taedioque rerum suarum e conspectu diffugiebat, partim, quod procul visam Laudem Virtutis filiam, omnium pulcherrimam, ardere incepisset, seductus sectabatur. Atque, ut erat ingenio suspiciosissimo, sua fuisse deas causa demissas interpretabatur, et curis plenus varia intimo pectore consilia volvebat. Veniebat in mentem quid sibi esset cum iratis divis causae. Senserat apud quod divertisset mortales molto <magis> quidem quam possis credere truces et truculentos; deos alia ex parte meminerat solere flecti precibus. At deorum legatum congredi haud putabat fore utile exuli, ni forte id multa fiat cum significatione animi penitus deiecti atque demissi, et supplicem praebere se Momus omnino ab suo instituto esse alienum statuebat, neque inveniebat quo pacto sibi ipse imperaret ut acris, austeri semperque infesti improperatoris personam poneret, quam quidem dudum susceptam aeterna pervicacia servasset. Alia ex parte metuebat ne deam ipsam, alioquin facilem et mitem, sibi exasperatam redderet sua contumacia, et convenire suis rationibus intelligebat hanc ab se fore non alienam, a qua aliquid opis consiliique sua in causa esset impetraturus. Accedebat eo novissimus erga Laudem initus amor. Tandem in hoc irrupit consilii, ut deam sibi conveniendam duceret. Itaque sese dictis castigans "Ponendi nimirum" inquit "sunt miseris, o Mome, fastus, servandaque rebus felicioribus gravitas; satis pro decore fiet, Mome, ubi te, quoquo id queas pacto, ex infimo abiectoque loco in pristinam dignitatem vendices. Neque tu hoc putato dedecere, cum agas ut quae agas deceant. Nam est quidem sapientis parere tempori, quin et assentando supplicandove conferet ad res maiores capessendas aditum parasse Momo. Dices: esse nequeo non Momus; nequeo non esse qui semper fuerim, liber et constans. Esto sane: ipsum te intus in animo habeto quem voles, dum vultu, fronte verbisque eum te simules atque dissimules quem usus poscat. Et tuam, qui tam belle id possis, et illius, qui id non recuset, rideto ineptias".

Huiusmodi secum versans Momus, cum propius accessisset ad templum, tam repente tantam illuc accursitasse multitudinem tamque varios illic ludorum conari apparatus demiratur. Namque inter divas puellas ingenio erat Laus levissimo et oculorum flagrantia propemodum immodesta, iamque ut se appeterent illexerat complurimos, quorum catervis circum adventantibus divae pene obsidebantur. Etenim alii fidibus, cantu, saltuve, alii palaestra, alii opum divitiarumque ostentatione, denique quisque qua plurimum posset polleretque re placere Laudi puellae adoriebatur. Lasciva Laus omnibus, ac praesertim iis qui lauta praestarent veste, amoenam offerre se quantis poterat artibus, matre non recusante, elaborabat.

Tantos Momus offendisse rivales aegre ferebat. Sed, qua de re advenisset sollicitus, quendam ex proxima taberna emittit, qui Virtuti deae nuntiet esse aliquem suae gentis, Momum, qui se non invitas percupiat adire: metuebat enim ne, si non tentata et cognita deae in se gratia adivisset exclusus multitudini ludibrio haberetur. At Virtus dea "Utinam" inquit "satis meminisset is quidem nostra se habitum esse ex gente! Non profecto sibi tantas commisisset rerum perturbationes. Verum accedat ut lubet".

His verbis Momus nuntiatis quam in partem acciperet non tenebat: oculis, vultu animisque se in omnes partes versabat. Tandem curarum plenus ad templi vestibulum adstitit, quo loci vix unum aut alterum pro sui conscientia verbum poterat proferre: sed ab dea perbenigne susceptus, ipsum se colligens, plura est orsus dicere. Etenim veterem caepit familiaritatem, mutua officia, summam erga deam benivolentiam commemorare, suas calamitates deplorare, opem orare, seque modis omnibus commendatum facere. Dea ut fractum exulis animum recrearet, quae ad rem pertinere arbitrabatur, mature et graviter pro loci temporisque ratione respondit. Inter quae non defuit illud, ut admoneret commodius cum profligato agi si desineret olim non usque se omnibus praebere infensum atque invisum; obesse rebus agendis nimium properam et proclivem ad detractandum loquacitatem. Rogare ut poneret animos concitatos, temperaret iracundiae: abhorrere quidem a suis temporibus ut iniuriarum tam obstinate meminerit. Eo mentem intendat, ut spectet quam quaeque in superos astruat, facilius ea quidem in sui caput sint ruitura quam superos affectura. Repetat ipse secum quid assecutus sit suis artibus et vetere vivendi more: dolendum quidem ad id pene redactas esse Momi rationes, ut qui velit opitulari nequeat. Sed tamen pro vetere gratia non defuisse cum publice, tum private Momi causa curasse ut superi Momi salutem non negligant, curaturamque ut benemerenti accumulatissime referant, modo suas esse partes Momus sentiat ut in animis hominum suis verbis labefactatam et pene convulsam deorum opinionem religionemque restituat. Momus insperato gaudio excitus cuncta polliceri, nihil non spondere, omnia ab se deberi diis magnifice de se meritis deierando insistit.

Interea proceres primariaeque matronae, inter quos sunt qui opinentur affuisse Herculem, Liberumque patrem natum Semele, Medium Fidium, fratresque Tindaridas atque item Matutam Cadmi filiam, Carmentam, Cereremque et istiusmodi, hi, plebe abacta et una protruso Momo, in templum deam consalutatum ingressi sunt. Cumque caepissent poscere ut bona venia liceret nosse essentne, quales aspectu et corporis habitu viderentur, ortae ex deorum genere, cumque rogare obsecrarique perseverarent ut privatim apud se hospitio diverterent, Momus, admodum spe plenus et dearum praesentia fretus, sese elatius agitare caeperat quam esset par. Etenim imperitare, obversari detrectareque non cessabat: at multitudo, insolentissimi unius huius arrogantiam contumaciamque fastidita, e templo extrusere.

Insperata iniuria commotus Momus, mediam inter plebem sese ingerens, huiusmodi dictis excandescebat: "Ne vero tantis lacessiti iniuriis, o cives, istorum procerum dementiam aeternum perferemus? Sint illi quidem, malam suam in rem, malumque in cruciatum, opum affluentia et praedarum cumulis nobis humilioribus, quoad eorum fata velint, superiores, nosque innocentes, quod eorum flagitia non probemus, oderint; fulgeant auro et gemmis, stent unguentis illibuti, dum et omnium libidinum sordibus delibuti et immersi degant: nos trita veste, sudore obsiti, semperne pessundabimur istorum impudentia? Semper intolerabilem istorum insolentiam perferemus? Non ergo licebit fortibus viris, quod pauperes simus, nostrae gentis necessitudineque coniunctos hospites, istis ipsis invitis, congredi? O nefandam et perniciosam nostrae communis libertatis labem atque excidium! Arroganti imperio dispellunt, superbo impetu deturbant: nos vero nostram dignitatem, tam atroci iniuria lacessiti, virtute non tuebimur? Nos insignem paucorum audaciam tam multi uno consensu et conspiratione nunquam refellemus? Pudeat foedae servitutis! Hic cives liberos esse nos ostendite. Adeste viri fortes, tyrannos nequire diutius perferre ostendite. Ius vestrum tueri, libertatem defendere ac denique vitam servituti postponere olim posse ostendite. Adeste cives, vi temeritas coercenda: sequatur libertatis vindicem qui se civem libertateque dignum putat. Arma, arma, viri!".

Haec Momus. At cives qui aderant, ut est vulgi vitium et natura sponte quosque rerum novarum auctores sequi et praecipites in ostentatos seditionum fluctus ruere, iam tum irritatis animis fremebant et passim indignum facinus procerum accusantes undique ad tumultum insurgebant. Id cum animadvertisset dea, ad templi vestibulum se conferens, perturbationum auctore Momo accito, facile surgentem tumultum circumstrepentis plebis sedavit frontis et manus gestu, regia quadam cum maiestate innuens, et ad Momum conversa "Num tu hoc" inquit "pacto, Mome, quae modo apud me pollicebare incohabas? Siccine indomitam multitudinem ad immanem audaciam concitabas, ut me et hasce puellas medias inter pericula facium, ferrique, armorum constitueres, ut mutilatorum cadentiumque nostra inter gremia cruore aspersae divae ad superos rediremus? Saniore esse Momum posthac mente optamus". "Ego vero" inquit Momus "desperatus meis in rebus, tantis laesus incommodorum et horum istorum mortalium iniuriis, non possum ipsum me cohibere quin mea mala sentiens paululum cedam dolori. Tuum erit, Virtus, hoc providere: utrum iniuria nobis sempiterna magis quam beneficiis certandum est?". "Adsis" inquit dea "hoc velim de me tibi persuadeas, tuis me commodis curandis minime defuturam; et quo firmiori spe atque exspectatione quae tuae sint partes exequare, da manum, hoc tibi spondeo: tu quidem, si quid, uti mea de te fert opinio, bene de genere deorum apud mortales fueris promeritus, profecto efficiam ut nulla ex parte officii tui poeniteat. Atqui est quidem ut de te mihi omnia pollicear: novi ingenium tuum, Mome, et de te sic statuo, dum ita instituas aliquid et tibi salutare et diis gratum velle experiri, profecto ex sententia perficies. Tu modo id para et te pristina deorum gratia dignum praesta: maiora longe a nobis rependentur quam promiserimus".

Momus ad haec quid aut de se statueret, aut benigne admonenti referret praeter lacrimas non habebat. Illud commovit deam, quod vetula quaedam incurva cum senio, tum et metu praesentium rerum pene confecta, properans, tremitans, anhelitans, voce submissa "Hoe, homo, hoe" inquit "ne tu quantis in periculis versere non intelligis! Fuge hinc, miser, teque ab paratis adversum te insidiis eripe. Acinacem vidi servo ab latere procerem tradere, ac iubere uti quam primum te rerum omnium perturbatorem confoderet". Dea, ne quid coram immite huiusmodi et nefarium perpetraretur verita, velum quo esset accincta, instar apicis quod e caelo in puteum corruens amisisset, ad Momi caput advolvit. "At tu" inquit "quas voles varias in facies versus infestam in te insidiarum manum aufugies, quod si pro tuo officio quae ad deorum rem pertineant exequere, id mihi assumo de te, ut benemerito benefactum congratuleris". Post haec ad proceres conversa dea sese nisi in templo alibi pernoctare instituisse negat, sed postridie mane, si redierint, habere quippiam quod cum illis sit maximis de rebus actura. Demum, ubi salutatores missos fecit, e vestigio aeneas graves valvas obducit templo, quo ab impurissimorum audaciumque contumeliis sit obclusis foribus tutior.

Momus, postquam quae nequam et improbe tentasset tam praeter spem atque exspectationem bene vertere animadvertit, suis ab successibus animos atque spiritus pristinos resumens, omnes curas cogitationesque suas ut aliquod se dignum facinus aggrederetur intenderat. Ergo novam atque inauditam laedendi rationem adinvenit, qua ubi nefarie misceret omnia, illic pie et probe fecisse videretur, et pro malo invento ab iis qui iniuriam accepissent gratiae haberentur.

Puellarum enim una erat, Tersitis soror, inprimis ob egregiam deformitatem urbe tota cognita. Haec, quod regio langueret morbo, rus valitudinis gratia petierat. In hanc conversus Momus se ceteras inter puellas, quae tunc forte in triviis atque angiportibus congruerant, immiscet vultusque suos non ut antea pallentes et squalidos, sed novo quasi miraculo factos roseos et miro venustatis splendore amoenos ostentans, manuque sibi insuetos aureos capillos demulcens, bellissime inflectebat. Invidentibus puellis atque poscentibus unde una haec Tersitea omnium incuriosissima puella tam repente connituerit, Momus, composito ad delitias vultu, "Eo dum" inquit "adeste meae cupidines, meae puellae, animoque, si id vacat, advertite quae vobis utilissima et gratissima dictura sum. Discetis enim a me quo pacto etiam vos huiusmodi vultu ornatissimo prodeatis. Atqui eritis quidem tanto quam ipsa sim ornatiores, quanto prae me vestrarum quaeque ex se est longe formosior atque decentior. Quod ni ita ut facerem tam mirifici doni largitores dii imperassent (meum apud vos sit fas profiteri peccatum) fortassis poteram tacendo meo cum animo mecum hoc nostro solo potiri gaudio, proprioque hoc inter puellas triumpho gloriari: sed superis diis sponte ac lubens pareo. Tu Venus, tu Bacche, tuque aurea Aurora adeste faveteque, dum sancto pioque vestro pro imperio tanti tamque divini muneris meas hasce amantissimas carissimasque puellas participes facio".

His Momi dictis puellae facile non dici potest quam sese audiendi discendique avidas praestiterint. Tum Momus commentitiam fabulam ordiri grandi verborum apparatu caepit in hanc ferme sententiam. Nocturna se quidem vigilia fessam curisque animi fractam atque defatigatam ruri mane diluculo obdormivisse et in somnis visam sibi curas easdem sua cum defuncta nutrice repetere. Id erat suam se vehementer sortem accusare quod alioquin non omnino repudiandam ob ingenii dotes puellam videret se nullis fore non ingratam atque una praesertim re, coloris obscenitate, haberi a cunctis mortalibus spretam atque reiectam. At vetulam nutricem visam dicere: "Desine, anime mi, te hisce fletibus commacerare, dabo quo pacto fias formosissima. Ito, voveto superis et Veneri et Baccho atque Aurorae diis te coronas tua manu illibatis floribus consertas ad aram illorum simulacris admoturam, modo aliquid dent ad te honestandam opis. Namque obsequii memores et gratissimi dii quaeque petieris praestabunt". Hac nutricis oratione recitata, Momus iam tum animos puellarum spe atque cupiditate maiorem in modum oppleverat. Quas cum ita affectas intueretur, unam atque alteram spectans, perquam bellulo gestu caeptos sermones prosecuta, "Haec mea" inquit "dixerat nutrix. At ego experrecta pronis manibus quanta dabatur animi fide ex insomnio vovi. Credin? Illico me bona spe factam firmiorem sensi. Quid multa? Iterato consopitam me Aurora dea per somnium qua arte resina cerusaque pingerem et pumice fingerem et croco nitroque crinem tingerem edocuit. Qua ex re nos puellas bis felices arbitror et quod divinos Aurorae vultus his artibus, quoad lubeat, liceat imitari, et quod nostris in curis et laboribus patefactam ad superos deos immortales consulendos placandosque viam habeamus. Hac pacem opemque poscere superum, hac, diis volentibus et annuentibus, quasi quodam rerum agendarum commercio iungi superis facili levique negotio possumus. Ite ea de re posthac puellae, atque a diis audete votis quaeque collibuerint petere".

His fabulis recitatis, Momus puellam unam atque alteram bellissime adornavit atque sese qua pingerent arte instructas plerasque omnes reddidit. Verum petiit in abdito facere id consuescerent, ne viri quoque sibi una tantas delitias usurparent, neve domi morosae et causatrices novercae resciscerent. Haec Momus, atque abiit ita acta sua secum reputans, ut prae laetitia prope insaniret. "Etenim" aiebat "profecto, uti aiunt, rerum omnium vicissitudo est. Quis tantam tamque variam temporum meorum commutationem conversionemque factam uspiam potuisset suspicari? Nuper exul, miseriis obrutus, diis atque hominibus odio et ludibrio qui fueram, nunc repente ex afflictis perditisque rebus in tanta haec mea tractus gaudia nimirum exulto laetitia. Sed nondum apud me constat inprimis ne congratuler quod ab exilio restitutus pristinam dignitatem recuperaturus sim, an quod haec mihi vindicandi mei ratio in mentem inciderit, qua inveniri nulla possit festivior: et profecto hic apud homines versari oportet, si quid ad dolum et fraudem velis astu perfidiaque callere. Hui quale bipedum genus homines! Appage! Atqui hoc mihi ex acerbo exilio obtigisse voluptati est, quod vafre et gnaviter versipellem atque tergiversatorem praebere me simulando ac dissimulando perdoctus peritissimusque evaserim. Quas profecto artes commodas et usui pernecessarias in illo apud superos otio et luxuriae illecebris constitutus nunquam fuissem assecutus. Nunc his meis vexatus exagitatusque casibus, quid est quod te, Fraus, verear? O me felicem, si illa pristina in rerum affluentia quid possent in dies nova incommoda tenuissem: non me, fedifraga Fraus, tuis proditoriis artibus exterminasses! Quod si ad superos rediero... Sed de his alias. Hoc scio, Momum fallet nemo, quandoquidem omnes fore improbos perdidicit Momus. Ad rem redeo. Sic se res habet: hic apud homines ferendo tolerandoque dura et adversa ad grandes praeclarasque res prospere agendas ratio et modus comparatur. Vel quis meum hoc, uti par est, satis laudarit vindicandi commentum? Ne vero non me architectum elegantem omnis malitiae praebui? Hoc nimirum meo facto id venturum sentio: superos discet mortalis voto incessere, novi eius petulantiam, novi procacitatem, arrogantiam, temeritatem. Nihil sibi rerum optimarum atque divinarum non deberi deputat. Quid erit quod votis non aggrediatur? Stulte appetet, temere affectabit, proterve exposcet, nihil sibi negandum, nihil non ultro conferendum ducet. Denique quivis unus humunculorum cunctos deos sua insolentia expostulando defatigabit. Illi vero delitiosi, qui quidem lauta inter caeli domicilia omne aevum per otium et incuriam ducere instituere, si quid has res votorum curarint, conferant ad res agendas manum animumque oportet, ac desinant quidem suo cum Ganimede, sua cum Venere et Cupidine desipiscere voluptatibus. Adde quod, si de mortalibus bene mereri occeperint, in dies excrescet desidiosis inertibusque labor. Sin haec negligent desidia et fastidio, actum est, nulli sunt: tolle qui pareant, frustra imperes. Non habeant dii qui ad sui numinis venerationem animos subigant, quanti tu putes esse te superum? Accedit huc, quod sunt quidem dii ipsi plus satis ambitiosi et popularis submissionis assentationisque maiorem in modum avidi; sunt alia ex parte supini, ignavi, desides, quo fiet ut, nectare atque ambrosia immersi et obruti, nova et insperata huiusmodi re quasi a somno exciti, quid quisque privatim sibi consiliorum captet non habeat et communi in re quid statuisse conferat non inveniat. Disputabunt altercationibus magis quam sententiis. Illic nostrae aderit operae pretium non mediocre. Nam, me ni eorum mores et consuetudo fallit, futurum profecto video, ut in contentionis studiis aliquid irarum et odii inter eos excitetur. Neque dubito quin in me multa ex parte illarum perturbationum aestus redundet, sed quo me purgem atque ab inita invidia revocem illud semper patebit, ut dicam me bona fide illorum maiestati consuluisse quantum ingenio et simplici prudentia valui; et bene mihi quidem, quod in me fuit merito, insperatum rei eventum ad culpam esse non detorquendum. Postremo et quid illud? Num qui incultas agrestesque potuit puellas deperisse Iuppiter, factas per me venustiores non ardebit? Vale, Iuno!".

Dum haec secum commentaretur Momus, incidit in mentem ut tetrum aliud adoriretur facinus, diis superis et diis inferis et hominum generi invisum, infestum et detestabile. Digna res memoratu levi re, si id ita licet dicere, tam exitiosum execrabileque malum esse exortum. Tum et ipsum flagitium ob inventi novitatem habet in se quippiam quod quidem legentibus voluptatem afferat.

Momum diximus Laudem, unam Virtutis filiam, caepisse adamare. Laude igitur ut potiretur animo destinarat nihil rerum omnium praetermittere. Ea de re ad obclusum templum circum astabat, lustrans omnes aditus, undique repetens omnia atque pertentans; sed cum omnes eius haberi fustra conatus obiectis firmatisque templi portis intelligeret, pedem animumque inde quasi iam tum caeptam obsidionem dissolvens averterat. Sed cum inter discedendum iterato ad templum versus constitisset et suspirans rursus huc atque illuc suspexisset, forte neglectam posticam fenestram animadvertit: per ipsam hanc, seu furtim seu vi, suos sibi fore petendos amores instituit. Scalas eo admovere loco et publico et hominum frequentia circunsepto cum difficile atque arduum, tum et pro re agenda erat haudquaquam tutissimum. Ergo isthinc oculis ab fenestra ipsa pendens, hinc vero animum in omnes partes concitans plura deliberabat, multa audebat, cuncta metuebat, furoreque libidinis agitatus inter spem atque metum aestuabat. At cum sese collegisset et memoria repetisset quid velo ab dea Virtute suscepto posset, illico sese hortatus ad murum templi vetustate asperum adhaerescere et brachia multo sursum versus tendere, unguesque barbamque inter lapidum iuncturas infigere totis manibus totisque contendit pedibus, quoad in hederam versus ipsam per fenestram arduus irrepsit. Illinc ubi aspexit solam fortassis Laudem, matre fratribusque consopitis, in suis concinnandis capillis ad tersum templi lapidem quasi ad speculum advigilare, prae amoris furore male sui compos et animo in omnem audaciam percitus, quo se vertat, quid captet consilii non invenit praeter id, ut pronus tacitusque amatorii furti occasionem praestoletur. Idcirco muro sensim diffluens intensis brachiis animo suspensus dependebat; quo in statu atque exspectatione positus difficile dictu est quam et morae et sui esset impatiens. Ad puellam enim factus propior acrius flagrabat amoris facibus, alia ex parte, multa veritus, refrigescebat atque contremiscebat. Rursus omnia poterat aggredi, rursus item sese levissima quavis oborta suspicione revocabat atque continebat; iterato ad temeritatem excitabatur, iterato inter audendum haesitabat ac ad omnes animi intento facinore concitatos metus nequiebat totis frondibus non titubare.

Puella dea, commotarum frondium levi tum primum allecta sonitu, oculos eo defixerat. Mox ubi pendentis ramos hederae et quasi plausu gestientes frondes conspicata paululum a crinibus innodandis destitisset, suae non oblita levitatis viridanti sibi ex palmite coronam facere aggrediebatur. Quid hic Momi audaciam referam? Etenim sese attrectantem puellam totis lacertis complexus oppressit, atque omnem in partem, ne diis a somno excitatis male quod tentasset verteret, oculos atque aures intentas atque arrectas porrigens pervicit. Mox se in fenestrae limitem retraxit et illic paululum suos inde amores victor securusque spectans constitit.

Sed vide quid faciat improbitas. Plebei aliqui vilissimi scurrae, quod nullos neque deos neque homines vereri, id demum in vita optimum commodissimumque deputent, per hederam istam ipsam conscendebant stuprandi profanandique templi gratia, prehensisque hinc atque illinc ramusculis multa vi innixi in fenestram evadere elaborabant. Qua ex re effectum est ut Momus, non secus ac per capillos distractus, cum parte putrentis vetustate muri corruere coactus sit. Eam iniuriam Momus aegre tulit: idcirco in torrentem versus impudentes ipsos scurras foetidam per cloacam traxit atque submersit.

At Virtus dea, primo reluctantis filiae strepitu excita, ut erat ingenio acutissimo et consilio praesenti, optimum opportunissimumque ex tempore consilium inivit, quod quidem doctissimi prudentissimique rerum agendarum in hanc usque diem cuncti comprobavere. Quam enim rem ne facta esset poterat ope nulla consequi, eam noluit ad praesentem suam suorumque notam et ignominiam promulgare atque committere fortassis clamitando, ut ad unius filiae acceptam contumeliam novae etiam inimicitiae in suos redundaturae accumularentur. Itaque praesentis pro temporis iniquitate commodius ducit quasi per somnum dissimulando et obaudiendo, quoad tempus ferat rei atrocitatem levare. Ergo prona despectat, tacitaque exspectat qualem sibi res ipsa exitum adducat. Puella vero, insperato Momi scelere exterrita, vixdum animos crinesque collegerat, cum se factam compressu gravidam et partui maturam sentit, eodemque ferme temporis momento (mirum dictu) sponte sua foetum erupisse animadvertit; post id, quod ex se natum esset colligens monstrum horrendum teterrimumque demirans stupuit atque vehementer indoluit. Monstro praeter cetera foeda et obscena illud aderat longe incredibile, quod totidem oculis, totidem auribus, totidem micabat linguis quot et ipse parens hederae consertus fuerat foliis. Accedebat quod prae se eam ipsam animi ferebat sollicitudinem et curiositatem circumspectandi omnesque motus excipiendi qua inter vitiandum parens agitabatur, illudque vehementius perturbabat, quod mira et nimium intempestiva esset loquacitate praeditum: namque vel nascendo quidem conari verba caeperat. Tantum ex se natum malum puella non odisse non poterat: ea de re id opprimere omnibus aggressa est modis, sed frustra. Deo enim deaque progenitum animans, morti nequicquam obnoxium, vigebat, sed hinc, huc, illac e matris manibus resultitare, suffugitare, rursus repere per sinus per vestesque interlabi non cessabat: quin et plagis ictibusque collisum voce, corpore ac viribus excrescebat. Aderat illic prope ex leuconicis plumis pulvinar, quo sollicita puella volutabile inquietissimumque id monstrum suppressans opprimere innitebatur. At monstrum miris modis reluctans unguibus dentibusque ita pulvinar collaceravit ut medias inter plumas inserperet. Etenim tum istic puella intrudere monstrum iterum atque iterum innitebatur, quo saltem, si minus posset necare, a suorum oculis obderet atque exponeret. In eo exequendo opere iam tum animis viribusque defecerat.

Tantis igitur casibus confectam puellam dea mater dudum conspicata ingemuit. Ergo ut puellae tanto in discrimine opem afferret, quasi tum primum a somno expergefacta adstitit, ac "Desine" inquit "ipsa expediam", graduque citato properans dextro pede volutantis monstri colla compressit. Monstrum vero, etsi quasi irretitum nequicquam hisceret, verborum tamen petulantia insolescebat quaeque enim illic conspicarentur decantare minime intermittebat, quin et quae audisset vidissetque, nonnunquam vera falsis miscens, referebat. Triumphum enim Trophaeumque non Virtute natos, sed Casus Fortunaeque filios, et eorum alterum esse stolidum, alterum dementem adiurabat, hosque irridens "Io Throphee, io Triumphe!" vociferabat "tuque heus, Trophaee, quidni, uti assoles, in triviis ad pueros fessosque vectores tete ostentans signis, mutorum more ganniens, restitas?" Addebat et Laudem oculo esse indecenter lippam, tum et Posteritatem pedibus retroversis aegre pergere affirmabat. Et ad Virtutem deam versum "Cum tibi" inquit "Laus capillum pectit ad frontem, pectus gremiumque tuum multa conspergitur sordium foeditate".

Monstri istiusmodi commota procacitate Virtus dea animo repetebat quam ferme omnium dicacissimorum sit natura et ingenium ut facile queant vetera negligere, modo nova ad obloquendum suppeditent, et eosdem meminerat recentibus in horas undevis captis rumoribus gaudere, spretisque vulgatis historiis semper aliquid recentis fabulae captare. Quae cum ita essent, bene consulta dea "Abi tu" inquit "malam in rem, Fama, quandoquidem fari non desinis, aliasque tibi quas recites fabulas alibi comperito", atque haec dicens, per quam fecisset Momus fenestram furtum, per hanc monstrum eiecit. Fama idcirco, quo primum solutis membris licuit, eo repente lacertos intentans se agitare ac perinde sublimi pendere aere volitando institit, quoad e vestigio didicit evolare tanta pernicitate ut non radius et umbra, non oculi acies, non animi ulla vis ulla ex parte ad unius istius celeritatem possit comparari. Ferunt hanc unico temporis momento campos Marathonios Leutricosque et Salaminas et Thermopylas et Cannas et Trasimenum et Furculas et Scylleos scopulos et cyclopea saxa Idaliasque silvas et Herculeas Gades et Byrsen et Thalas et Atlantis axem et ubi niveos Aurora Phoebo frenat equos et ubi glaciali stridet oceano immersus Sol, omnia, inquam, haec et pleraque omnia quaevis alia istiusmodi momento lustrasse Famam. Accessit quod visendi, auscultandi referendique aviditate ac studio flagrans, nihil uspiam tam seclusum, abditum obinvolutumque latitabat, quod ipsum Fama dea non continuo scrutari, renoscitare, vulgoque propalare summa industria, incredibili vigilantia, intolerabilique labore inniteretur.

Tam exsecrabile ex se progenitum malum intuens Momus primum caeperat suspicari fore ut pessime secum a diis ageretur. Redibat in mentem quale ab se foret in templo, praeter deum hominumque ius fasque, commissum facinus. Illud etiam perturbabat, quod suorum apud divos commodorum interpretem deam alienasset ab se audaci temerarioque libidinis scelere, et verebatur ne maximo istius unius Famae praeconio magnorum deorum apud homines ius et maiestas innotesceret, atque inde et metuere et venerari deos credulum vulgus molto assuesceret. Sed alia ex parte erat ut se recrearet quod intelligebat Famam non quae approbes modo, verum etiam et inprimis quae improbes aliorum gaudere facta recensere, et adnotarat mortalium mores, qui quidem non tam recte pieque cuiusquam factis moveantur quam ut ex iis quae pro officio minus facta appareant graviter offendantur, esseque hominum ingenium huiusmodi meminerat, ut graves etiam laudatores atque maturos habeat suspectos, levissimis vero obtrectatoribus ultro credat, et optimorum egregie facta minori cum voluptate audiat quam perditissimorum calumnias, calumniasque ipsas pro cognitis exploratissimisque referat, veris vero laudibus aliquid semper detrahat atque imminuat. Adde his quod totam hominis mirificam divinamque animi, ingenii, morumque pulchritudinem et laudis decus unico suspecto vitii naevo despiciunt atque fastidiunt. Quae cum ita essent, de re ipsa sic statuebat Momus fore ut, quo superum ferme invenias neminem cui non insint domesticae aliquae insignes illustresque maculae turpitudinis, eo non defuturum quin Famae rumoribus apud mortales deorum opinioni vehementer officiatur. Ceterum, pro vitiata ab se in templo puella, non difficilem habere se apud Iovem causam rebatur, eum qui, amore captum, se non neget quippiam fecisse, in quo patris hominum deorumque regis facta imitatus videatur.

Haec tum secum Momus.

At alia ex parte dea Fortuna, Virtuti ob eam rem infensa, quod iam pridem constituendarum rerum apud mortales provinciam affectasset quodve in ea re sibi deam Virtutem praelatum iri dedignaretur, totam se ad aemulam deturbandam apparabat. Ea de re, dum quaeque apud mortales agerentur observat, sensit quale interea esset terris obortum immane monstrum, cumque visendis monstris maiorem in modum delectaretur, et instituisset suas esse partes Virtutis deae caepta, quoad in se esset, dirimere, laeta ad terras applicuit conveniendi Famam cupiditate captandaeque ad laedendum occasionis gratia. Sed illico in rem sibi gratissimam incidit: namque Herculem quidem, acrem assiduumque adversus monstra perduellionem, clavam manu librantem totoque innixu Famam petentem offendit. Ea de re substitit, secum ipsa quidnam consilii caperet pensitans. Multa offerebantur quae sese perturbarent, inter quae illud inprimis animo versabatur, quod audiebat coram bacchantem Famam et deorum facta consiliaque toto aethere explicantem. Quas inter fabulas illud erat, adventasse Fortunam deam ut Virtutis deae caepta interturbaret et Virtutem instituisse in ara apud mortales focum succendere divorum flamma, quo mortalibus in astra pateret via. Huiusmodi vocibus tametsi commoveretur, Fortuna dea tamen quod totis terrarum montibus atque convallibus festivissime resonaret delectabatur; accedebatque ad voluptatem monstri ipsius species informis, omnique corporis facie longe praeter exspectationem opinionemque ostentuosa, ex quo fiebat ut cum monstri futilitatem odisset, tum et cuperet salvum esse atque illaesum. At vero ubi perpendit ipsum Herculem nonnulla ex parte monstri esse persimilem non se continuit quin hominem accursitans amplecteretur. "Et quidnam hoc rei est" inquit "quod denso gravique roboris trunco fretus, tete fatigans, dura et difficilia praemeditaris in deorum genus? Num tu adeo ignarum te rerum aestimatorem habes, ut quam oratione rationeque pollentem levi pendere aere sentias non eandem ex deorum progenitam genere intelligas? Hoc moneo, facilius quidem efficies ut quod ipsum mortale sit immortalitatem assequatur, quam ut quod immortale siet a mortali quoquam opprimatur. Tu proinde quae tuam in rem futura sint dum et tua et mea causa refero, auscultato ipsa: quo argumento te in deorum ordinem facile irrepas edocebo, neque erit ut foco quem posuit in ara dea Virtus tibi opus deputes. Hoc age: clavae istius corticem delibrato, quo levigato sis onere expeditior, teque inter molles istas herbas obdito in umbra, illinc corticem agitans ostentato et insibilato et immugito, vocesque crepitusque varios personato. Dea, ut est rerum omnium noscendarum curiosa, confestim ad te properabit: illam tu saltu prehendito atque rapito; ego, ne semel ea facta manceps te discusso diffugiat, aureum hunc crinem tuum ad capillum innecto: hic robur nervis et pectori firmitatem adhibebit. Unum cave manu corticem mittas, ne te fortassis foedato, expetita cum praeda advolet dea".

Etenim successit Herculi res ex sententia. At complicitum ad monstri collum toto amplexu haerentem Momus efferri in altum Herculem ut vidit, non facile dici potest quantis utramque in partem commotus animi perturbationibus exstiterit. Principio, non posse hominem ratus tam immane pondus clavae suique una corporis molem diutius substinere, caepit hortari filiam deam ut hostem audacem et temerarium quam alte sublimem tolleret, quo collapsus casu gravius confringeretur. Sublatum vero ut vidit, iterum atque iterum caepit efflagitare ut ab se discuteret atque dimitteret. Ut demum perpendit Herculem ipsum ad Martis usque regiam advectum in caelum atque illic in area Martis seu fessitudine seu consulte elapsum restitisse, caepit prae dolore capillum vellere, genas unguibus lacerare pectusque contundere et magno cum eiulatu sese miserum vociferare, "Actum est, Mome" inquiens "de te; actum est! Ne vero non mihi erat apud superos inimicorum satis, ni et is ex numero eorum qui quidem servo acinacem ut me confoderet praebuerant, in caelum me auctore asportaretur! At videre quidem iam videor hunc artibus istis, quibus apud mortales assuevere assentando, blandiendo et sese iactando, apud minime malum illum principem Iovem triduo assecuturum ut qui hic mulierculae servierit illic regnum inter deorum principes ineat. Vel ego, omnium stultissimus, quid insanivi? Quid alienas iniurias ad me recepi? Quid mei capitis periculo, nullis munitus copiis, exul, invisus, male acceptus, sponte graves aliorum inimicitias subivi? Quid mea intererat? Num tacitus poteram mortalem Herculem immortali cum filia Fama luctantem spectare? Tu, Mome, tu mortalibus in caelum patefecisti viam tua irarum impatientia, tu hostem in caelum substulisti. Et profecto in vita ita convenit, sapientem nullum habere stomachum. Vorandae quidem sunt hominum iniuriae, sed nostra intolerantia fit ut quae fortassis levia ferendo essent, ea gravem molestamque in aerumnam crescant male ferentibus. Itaque nunc sapis, Mome, nunc gratis philosophabere. En mortales caelum petunt, tu exulas, Mome, tu eiectus, exclusus exulas. Et quanti est me esse non mortalem, cui novis in dies molestiis congemiscendum sit? O dulcem laborum requiem, mortalibus dono a diis deditam, mortem! Sed quid? Ego itane sum demens? Non perpendo quam pulchre quae putabam incommoda ea sint meam futura in rem? Est ergo uti aiunt, sub metu voluptas latitat. Quid igitur? Tene fugiunt hominum mores, Mome, quam sint illi quidem ambitiosi, procaces, audaces? Quotus erit quisque istorum heroum, qui non et se quoque caelo dignum deputet? Hinc fiet ut tanto ex numero non paucissimi qua valebunt quidem fraude, quo poterunt dolo, quo licere sibi omnia putabunt, ex novis excogitatis insidiarum artibus Herculem imitati consequantur. Da forte ut sint illi quidem, vel duo, in eas recepti regiones caelicolarum: proh, quantos discordiarum turbines conflabunt! Videre videor plenos caelicolarum caetus seditione malis istorum et delatorum et calumniatorum artibus. Hic demum apud mortales quantas clades, quantas urbium eversiones, quanta gentium excidia futura intueor! Dum Herculem imitari inter se studiis contentionis inflammati ardescent, dum hi per ambitionem Famam occupasse, hi contra per invidiam occupantes interpellasse, ferro, igni, vitaque certabunt. Nunc me iuvat esse immortalem, nunc non est ut pigeat exilii, quandoquidem unam hanc ob rem refertum cadaveribus mare, cruentatas provincias, foedata astra flagrantium urbium fuligine visurus sum. Gaude, Mome!".

Itaque haec Momus, atque ut horum inter homines malorum quasi seminaria iniiceret, in Herculis speciem versus ad proceres, qui de summis rebus consulturi convenerant, composita oratione tum multa quae ad rem faciant, tum et qua sit ratione et via factus deus refert seque ut imitentur persuadet. Mox ut eos ad rem exequendam animis iam et armis accinctos vidit, in auram conversus evanuit, filiaeque edixit ut hunc sibi ludum usurparet, mutuo sese his atque his proceribus ostentando.

Interea Fortuna dea, quod usui futurum arbitrabatur ne quis vacuas Iovis aures ad invidiam sui ob Herculis factum praeoccuparet, docta quam in animum cuiusque primas inscripsisse formas intersit, confestim ad Iovem institit, suadens hunc Herculis insperatum eventum optimam fore in partem accipiendum. Non enim alio illustriori potuisse argumento deorum maiestas ad venerationem et metum deorum mortalibus monstrari, quam ut discerent olim se fieri posse deos.

Dum haec aguntur Fama dea, ab Hercule excedens, studio visendi propinquas Iovis sedes petierat. Huius tetro truculentoque aspectu territi dii toto caelo tumultuavere, et qui modo Herculem ad se delatum aegre tulerant, hi non modo percommode hospitem appulisse, verum et ab inferis arcessendum ni adesset arbitrabantur, at permaximi quidem interesse asserebant quo duce contra insueta et immania monstra dimicarent. Datur idcirco Herculi ferrea Iovis clava, Vulcani arte facta, qua monstrum Famam penetralia omnia deorum lustrantem abigat. Hac fretus Hercules duellum adversus congreditur. Fama, armatum acerrimumque perduellionem nequicquam sibi exspectandum statuens, caelo a summo se praecipitem dedit, atque inter veniendum magno cum eiulatu vociferabat: "Nos, diis genitae, prius reiectae caelo quam conspectae ad infimas mortalium terras insontes pellimur; facinorosissimi mortalium armis deorum ornantur, et pro tantis iniuriis illud rependitur, ut qui nos laeserint in deorum numerum ascribantur!".

Haec dicendo Fama pervolans nova nefandaque mortalium caepta offendit; ea de re ad matrem, ceteris omissis rebus, quasi temulenta, ingenti alarum stridore advolat, magna voce referens quod viderat ac vociferans: "Fugite hinc, deae, heu fugite, namque proci amatoresque mortales, vim inferre parati, ad templum adventant, adsunt armati ut vi de caeli possessionibus paciscantur!". His concussae vocibus deae, armatorumque strepitu subaudito furentium, istiusmodi motibus insuetae, quo se vertant non reperiunt: itaque intus trepidatur, at foris circum ad templi portas tumultuatur; ipsa dea Fama fremitu virum attunditur. Etenim fit hinc refractis vectibus armatorum irruptio in templum, hinc perterritorum deorum adolescentulorum ad matris gremium eiulatus. Mater Virtus ne se ita vestibus comprehensam detentent admonet, seque una inde quam ocissime in quippiam rerum versi proripiant sollicitat. Illi cum hebetes tardique natura, tum armatorum aspectu animis consternati haesitabant. Dea vero Virtus, et mortalium audacia et suorum ignavia irritata, maximo deorum voto imprecata est ne desidibus posthac in caelum uspiam aditus pateat, atque ignavis diis nisi unam liceat in formam verti. His peractis exsecrationibus, in fulgur versa emicans evolavit. Laus Virtutis filia, pallio amisso, levem in fumum versa hos atque hos sui prehensatores occaecatos reliquit.

Momus, nefastum tetrumque mortalium scelus conspicatus, nequivit non facere quin, suorum temporum similitudine commotus, trium relictorum in templo deorum vicem ingemisceret. Ergo, ut erat in auram versus, in templum ad divos confestim pervadit, rogatque se vertant in quampiam rem, quo se in libertatem vendicent. Consulentibus divis in hominemne, quo, raptis insultantium armis, strage et occidione infestos occiderent, "Et sic opto" inquit Momus "ut quo acinace ipsum me petierint eodem cadant! Vos tamen quidvis fieri velim quam homines, namque in terris nihil est homine quod vivat durius. Quin et animantis cuiusquam personam ne induatis admoneo: namque mortale qui iniverit corpus cum multa offendet incommoda, tum illud grave atque iniquum urgebit, quod sui ferre carcerem oportebit".

Haec Momus. At negavit Triumphus admodum se absque corporis commercio, quo voluptatibus perfrueretur, velle degere. Idcirco in papilionem se vertens attrectantium admirantiumque e manibus lubricis alis delapsus evolavit. Trophaeus vero, ut erat corpore vasto, immane in saxum versus aliquot eorum qui manum ad se attulissent suppressit. Puella dea Posteritas pro dignitate et temporis necessitate rectius consuluit: in eam enim se vertit deam, quam quidem Echo nuncuparunt. Quae cum ita essent, frustrati mortales non sine rixa ereptum Laudi pallium horsum istorsumque carpendo collacerarunt et minutissimas in particulas, ut casus tulit, conscissum diripuerunt.


Liber secundus

 

 

Quas perturbationes Momi exilium apud mortales excitaverit hactenus recensuimus; nunc dicendum qua ratione ab exilio in Iovis gratiam restitutus fuerit et quam novis inauditisque perturbandarum rerum artibus pene ultimum in discrimen deos et homines et universam orbis machinam adduxerit. Atqui erit quidem operae pretium legisse quam varia incertaque consilia, quam insperati inauditique rerum eventus quamque frequentes et digni memoratu sint casus subsecuti, ut nesciam ipsa ne me rerum dignitas et magnitudo et copia plus ab scribendo, dum ingenio diffidimus, absterreat, quam historiae amoenitas ad scribendum voluptate illectet atque invitet. Dices de Momo quicquid hucusque legeris fore nulla ex parte comparandum cum iis quae deinceps consequentur. Nam cum auctore Momo caepissent puellae ab superis diis levia primum et pusilla poscere, quod solent amantissimi patres blaesis puerulis et delicatis filiolis poma et similia poscentibus tradere cum voluptate et risu, ita et diis iucunda erant puellarum vota illa ridicula, dum aliae quod pingulentae essent, aliae quod nimia macritudine non placerent, aliae quod aliud quippiam ad speciem liberalis formae desiderarent, id simplici quadam animi puritate deprecarentur, et quo erat facile obsequi, eo et dii benigne conferebant, hinc desumentes quod huic alterae puellae contribuerent; ac manavit quidem res, pari deorum facilitate, usque dum patres maioresque natu facere et ipsi vota accessere, sed primo iusta atque ea quidem eiusmodi, ut facere palam medio in foro amicis (ut aiunt) inimicisque probantibus deceret: ergo ab diis sponte ac volentibus audiebantur. Accessit item ut reges ditissimaeque respublicae votis deos poscere assuescerent.

Principio hominum haec adversus deos et veneratio et cultus adeo fuit accepta superis, inventi novitatem mirifice probantibus, ut nulla in re libentius versarentur quam in votis mortalium benigne suscipiendis. Perquisitoque idcirco atque cognito huius tam gratae rei auctore, cunctorum animi ab eo quo erant erga Momum praediti odio ad misericordiam fuere atque ad benivolentiam conversi. Hinc summo omnium consensu et sententiis fit amplissimis verbis de revocando Momo lex, constituunturque legati Pallas dea atque altera Minerva, quae quidem optime de deorum genere promeritum Momum quam honorificentissime suas in pristinas sedes ad caelicolarum ordinem reducant atque restituant, et datur inclusus gemma sacer ignis deorum, quo divinitatis insigne apicem inflamment ad verticemque adigant reduci. Recusarat Pallas velle ad mortales accedere, nam eos quidem armis posse et animis valere audierat: tandem, imperio Iovis et amicorum suasionibus victa, sumptis thorace et armis, parere instituit. Vixdum rogata erat apud superos lex: eccam Famam alis stridentibus properantem ad Momum anxiam atqui, uti est eius natura veris falsa immiscere et omnia tametsi pusilla dicendo reddere grandiora, parenti nuntiat tumultuari apud superos, parari maximos motus, iam caepisse delabi caelo armatos deos. Quam rem audiens Momus, flagitiorum suorum conscientia exagitatus atque aestuans, procidit. Vexabat animum quod violatos ab se fore optimi et maximi deorum immortalium regis legatos meminisset, quo suo detestabili scelere omne caelum in se infestum iraque incensum arbitrabatur, et tantos irarum impetus perferre diffidebat; ea de re maximis precibus agit apud filiam uti, quoad in se sit, deos ipsos adventantes interpellet atque frustretur, quo sibi et captandi consilii interea et delitescendi locus detur, si forte liceat fallere subterfugiis. Fama ut parenti obtemperet advolat. Momus vero difficile dictu est quam omnes in animi pertubationes iactarit se atque agitarit. Multa incohabat consilia, cuncta displicebant; omnia temptabat, nihil non aggrediebatur quod ad opem atque salutem suam facere suspicaretur; alia ex parte singulis diffidebat locisque rebusque, quicquid inierat consiliorum repudiabat; nihil fuit formae, in quod vertere se non affectarit.

Tantis curis confectum Momum Fama rediens recreavit, nam "Bonis commodisque usurum te diis, Mome, annuntio" inquit "et, quod minime reris, pacem gratiamque afferunt, et una sacrum deorum igniculum ad te dono deferunt". Id cum intellexisset, etsi veteris cum dea Fraude inimicitiae memor verebatur ne quid doli ad se intercipiendum importaretur, tamen, quod abscondendi sui nullus aut locus aut facultas dabatur diis superis omnia spectantibus, quodve taedium sui ferre diutius dedignaretur, in quoscumque sibi essent parati casus praecipitem obiicere se admodum festinabat. Ergo ultro progredi animumque alioquin labefactatum atque prostratum erecto vultu fictaque hilaritate integre et de seipso quid sentiat habere alta reconditum dissimulatione instituit. Factus inde obviam, cum se mutuo salutassent atque ex legatorum vultu verbisque plane atque aperte intellexisset praeter spem se ex omnium rerum difficultate ad superum delitias evocari exque diuturnis tenebris miseriarum suarum in summum illustremque pristinae dignitatis gradum assumi, amens factus repentino gaudio, quibus verbis pro animi libidine congratularetur non habebat, sed prae laetitia prope delirans multa dicebat inconsiderate, inter quae illud ex ore inconsultum excidit, ut diceret: "Siccine, Mome, quod apud mortales aiunt, omnes ab exilio ad imperium veniunt?".

Quod Momi dictum Pallas (ut sunt mulieres ad suspicandum pronae, ad perversa interpretandum faciles, ad nocendum paratae et proclives) altiori discursu pensitavit quam ut id ulla vultus frontisve significatione indicaret, sed tacita profundo pectore Momi naturam atque improbitatem versans statuebat neque Iovis neque superum rationibus convenire ut huic nequissimo veteris iniuriae procul dubio memori et innata consuetudine improbitatis ad omne genus audaciae promptissimo id conferatur, quod magnas gravesque res agendi potestatem et facultatem praestet. Repetebat item cum ceteras, tum has rationes Pallas, ut suo cum animo diceret: "Nos quidem debilitatum exilio et fractum aerumnis hunc monstrorum procreatorem aegre sustinuimus. Quid tum, verum ac superum donis confirmatum et integrum nullo cum periculo sustinebimus? Quid illud, aut quanti intererit, divini muneris spe et exspectatione Momum a furore cohibere, an porrigere quod promptum et in flagitium accinctum excitatumque impellat? Vel quis erit iniuriis atque inprimis exilio lacessitus, qui non vindicandi sui praestari occasionem cupiat? Et quis erit vindicandi sui cupidus, qui non perficiendi facinoris proposita spe et facultate omnia aggrediatur?".

His rationibus mota Pallas ut commodius rem totam cum collega definiret edicit Momo ut sese interea ad fontem Helicona comparet atque ornet, quo posito squalore honestior ad consalutandum superos redeat. Misso Momo, cum satis deliberassent inter se, decernunt deae fore id Iovis consilium ut mature videat quam e republica deorum deputet Momum versari insignem inter caelicolas atque munitum sacro deorum igniculo, ni prius perversi indomitique animi rationes perspectas et cognitas habeat.

Momus ubi solus lavat haec secum animo caepit deputare: "Olim quod tristem personam gererem illam et severam, tetrico incessu, truculento et terribili aspectu, vestitu aspero, barba et capillo subhorrido atque inculto, quod superstitiosa quadam severitate multo supercilio multaque frontis contractione gestiebam, quod me contumaci quadam taciturnitate aut odiosa obiurgandi mordendique acrimonia publicum terrorem omnibus offerebam, merito nullis eram non invisus atque infensus. Nunc vero aliam nostris temporibus accommodatiorem personam imbuendam sentio. Et quaenam ea persona erit, Mome? Nempe ut comem, lenem affabilemque me exhibeam. Item oportet discam praesto esse omnibus, benigne obsequi, per hilaritatem excipere, grate detinere, laetos mittere. Ne tu haec, Mome, ab tua natura penitus aliena poteris? Potero quidem, dum velim. Et erit ut velis? Quidni? Spe illectus, necessitate actus propositisque praemiis, ipsum me potero fingere atque accommodare his quae usui futura sint. Sequere, Mome, namque abs te quicquid voles impetrabis et quae tute tibi non negabis, ea tu quidem omnia perquam pulcherrime poteris. Quid tum? Igiturne vero nos insitum et penitus innatum lacessendi morem obliviscemur? Minime; verum id quidem moderabimur taciturnitate, pristinumque erga inimicos studium nova quadam captandi laedendique via et ratione servabimus. Demum sic statuo oportere his quibus intra multitudinem atque in negotio vivendum sit, ut ex intimis praecordiis nunquam susceptae iniuriae memoriam obliterent, offensae vero livorem nusquam propalent, sed inserviant temporibus, simulando atque dissimulando; in eo tamen opere sibi nequicquam desint, sed quasi in speculis pervigilent, captantes quid quisque sentiat, quibus moveatur studiis, quid cogitet, quid tentet, quid aggrediatur, quid quemque expediat, quid necesse sit, quos quisque diligat, quos oderit, quae cuiusque causa et voluntas, quae cuique in agendis rebus facultas et ratio sit. Alia ex parte sua ipsi studia et cupiditates callida semper confingendi arte integant; vigilantes, solertes, accincti paratique occasionem praestolentur vindicandi sui praestitam ne deserant; sempiterne sui sint memores; nunquam adversariis parcant nisi cum velint gravius laedere, arietum more, qui quidem abscedendo impetum concitant, quo vehementius impetant; mulctandoque inimico re quam verbis, facto quam ostentatione insistant; fronte, familiaritate et blanditiis iram animi operiant; omnium sermones aeque esse insidiosos deputent; credant nemini, sed credere omnibus ostendant; nullos vereantur, sed coram quibusque applaudere atque assentari omnibus assuescant. Qui se sic instructum paratumque exhibuerit vulgo habebitur frugi, servabitur apud doctos, metuent omnes, obsecundabunt, idque praesertim cum te viderint quasi ex commentariis omnem eorum vitam ad unguem tenere; alioquin si ipsum te neglexeris, si cesseris petulantibus, si pertuleris irritantes, fiet ut immodesti in te in dies insolentiores reddantur tua patientia, fiet item ut procaces temulentique quodammodo ad te unum vexandum illectentur. Sed quid plura? Omnino illud unum iterum atque iterum iuvabit meminisse, bene et gnaviter fucare omnia adumbratis quibusdam signis probitatis et innocentiae: quam quidem rem pulchre assequemur si verba vultusque nostros et omnem corporis faciem assuefaciemus ita fingere atque conformare, ut illis esse persimiles videamur qui boni ac mites putentur, tametsi ab illis penitus discrepemus. O rem optimam nosse erudito artificio fucatae fallacisque simulationis suos operire atque obnubere sensus!".

Haec Momus. At Pallas et Minerva interea constituerant Iovis arbitrio relinquere ut provideret turbulentone et concitato ad omne facinus Momo deorum sacrum insigne commodetur. Verum interea exulem perquam benigne conveniunt, multa spe confirmatum hortantur ut malit summi deorum regis quam legatorum manu divinitatis insigne suscipere. Nullam recusat Momus conditionem, modo ab terrarum incolis diffugiat, et quam quidem ipse sibi personam gerere imperarat, impraesentiarum apud legatas belle ac sedulo initam agit: quadam enim simulata simplicitate et bonitate caepit collacrimari, et acclinato vultu inquit se quidem non ignorare quam intersit maximi optimique deum regis manu ornari se atque restitui, fateri quidem tantorum se putare munerum esse immeritum, daturum tamen operam ut Iovi ceterisque diis, quoad in se sit, perspectum et cognitum reddat se neque immemorem esse neque ingratum accepti beneficii; idque sperare se assecuturum, quandoquidem agendo recte omnem exspectationem bonorum de se longe superare instituerit, et fracturum invidorum inimicorumque erga se conatus et impetum patientia atque rebus his omnibus quibus ad gratiam et benivolentiam flectantur: se quidem longa perdomitum calamitate atque aerumnis confectum didicisse perpeti adversa et facile moderateque ferre si quid forte suam praeter sententiam et voluntatem exciderit; quibus rebus fiat ut possit non invitus illatas iniurias ad se non recipere et susceptas funditus oblivisci; demum cupere et ad felicitatem putare id, sibi ut detur locus quo melioribus et bene consulentibus pareat atque obtemperet.

Itaque haec Momus cum ornate copioseque disseruisset, qui caeperat esse veterator, ficto vultu suspirans "Et quid agimus?" inquit "Abite vos dignae caelo, deae, ac redite ad vestras delitias, sinite miserum et infelicissimum exulem versari in sordibus et squallore; sinite me in luctu, in solitudine degere et calamitatem qua oppressus obruptusque sum ferre, quandoquidem et tanta est ut ad miseriam addi nihil amplius possit". Hic deae quidem permotae misericordia multa ad consolandum prosecutae, medium inter se Momum excepere atque ad superos adduxere. Ad Iovem igitur cum appulisset Momus, pro suscepta assentatoris persona regis genua amplexatus veniamque et pacem compositis verbis deprecatus, non, uti concupisset, exceptus exstitit benigne ab Iove. Nam adversus Phoebum factus iratior Iuppiter intumuerat et ad redarguendi Phoebi quam ad salutandi Momi causam erat occupatior. At miser Momus, rerum istarum ignarus, suas rationes malo iniri apud superos exordio interpretatus, penitus concidit, et quo se verteret non inveniens, quasi indicta ad iudices die reum se accitum atque adductum putare et pro capite causam meditari quo dicendi genere culpam ab se suorum scelerum amoveret, quibusve deprecationis et commiserationis locis Iovem mitigaret secum ipse commentari occeperat. Interea qui ab Iove scrutatum missus fuerat, Mercurius, rediens refert Phoebum ipsum illico affuturum, neque, quod inimici calumniis insimularant, aut Aurorae illecebris et amoribus detineri aut suam per superbiam exequi officium dedignari, verum immani quadam votorum phalange obiecta interpellari quominus ad regiam Iovis arcem pro vetere more et consuetudine, ut assolent dii, singulis diebus regem consalutatum et veneratum ascenderet. Hic Iuppiter, remissa frontis severitate, in Momum versus "Nos" inquit "vota isthaec tua, Mome, ni modus adhibeatur, obruent", dictisque paululum conticuit. At Momo id Iovis dictum illico in animum induxit ut faceret coniecturam se aliquid turbarum suis votis concivisse, idque cupidissimo rerum novarum tam fuit voluptati ut non potuerit non oblivisci moeroris sui, conceptamque animo laetitiam nequivit non propalare. Secundo enim optatissimoque flagitiorum suorum successu gestiebat atque intra se "Peream" aiebat "ut lubet, modo, quod videre videor, hic aliquid laeserim".

Interea Iuppiter ad Minervam Pallademque versus inquit: "Quidni et Virtutem una vobiscum reduxistis? Quid ea? Quid rerum agit?". Hic deae se quidem, pro vetere legatorum more, curasse in sua profectione aliud nihil respondere praeter unum id, cuius gratia proficiscerentur, at satis quidem se superque habuisse negotii in uno Momo pervestigando, quando, ut miseri calamitosique faciunt, in solitudine et squallore abditus latitaret. Caepit ergo Iuppiter de Momo sciscitari Virtutemne apud mortales viderit. Hic Momus, dura suspicione perculsus ne quid ea interrogatio ad factum ab se vitium spectet, expalluerat et obmutuerat; sed brevi sese colligens, obducta ad speciem comiter fidentis fronte, subridens "Num tu, o dignissime deorum princeps, quae apud mortales in dies gerantur" inquit "ignoras?". "Mitte" inquit Iuppiter "quae norimus, dic quod rogare". Tum Momus iterato titubare et quo ea spectent verba dubius expavescere, sed iterato ab Iove admonitus ut responderet, sui memor, ad belle initas artes dissimulandi rediit atque inquit: "Mercurius, qui omnium solertissimus est, si quid eum novi, ubi ea consideat tenet, qui quidem non iniuria dearum pulcherrimam Virtutem unice amet; et dulces amores tuos, o Mercuri, quamdiu sines abs te abesse?". Hic Mercurius cum arrisisset asseveravit seque, Iovem deosque reliquos omnes adeo fuisse hac una votorum cura perpeditos, ut nullis rebus praeterquam votis vacare occupatissimis diis licuerit, et putare se quidem optime consultam deam a tantis rerum agendarum molestiis secessisse. Momus hac de re iterato recreari, iterato efferri incredibili gaudio, et cum Virtutem deam videret apud Iovem deosque desiderari, ut erat mirus admodum redditus veterator, eleganti vocis, vultus gestusque artificio totum se ad fingendum comparat, et superiorem illam quam recensuimus historiam refert de suis perpessis rebus, sed ita ut dum mortalium expromeret scelera, tum quidem maxime hominum causam tueri et erratis velle veniam impetrare diceres. Etenim aliis ex fabulis insinuatione adducta eo devenit ut quasi non ex proposito, sed ipsa ex re admonitus in id incideret, ut enarraret irrupisse proceres in templum, tumultu exterritos adolescentulos deos a matre restitisse variasque in formas versos sibi a consceleratorum temeritate et audacia cavisse. Subinde annectebat se quoque gravissimis iniuriis affectum, et media deperdita barba diffugisse. Itaque his admodum rationibus nihil praetermisit quod valeret ad odium adversus homines excitandum, in eoque omnem vim orationis exposuit, ut indignissime factum id dii statuerent. Confabulantem Momum Iuppiter audiens et ii qui aderant dii nimirum commovebantur cum ceteras ob res, tum ob iniquam indignamque Virtutis deae calamitatem; alia ex parte non poterant non facere quin in cachinnum irrumperent ridiculos Momi casus intelligentes. Quos cum ita vidisset affectos Momus "Quantum ista in re" inquit "quam dicturus sum valeam prudentia, vestrum erit iudicium: ego vero sic de me ipso testor, summa fide adduci ut haec referam. Tibi quidem o rerum conditor, Iuppiter, omnia probe et praeclare fore constituta sentio quae quidem ad imperii decus et ornamentum faciant, ni forte illud, quantum videre licet, desit, quod quae apud mortales agantur habes neminem qui ad te referat, et eam gentem, mihi crede, minime neglexisse oportet". Cum haec dixisset, Iuppiter, secum ipse suspensus, innuens affirmavit uni se huic rei cupere providisse, sed in tanto suorum numero aegre ferre quod haberet neminem, ex animi sui sententia, quem volentem et ad rem exequendam non ineptum possit mittere. "At habes quidem" inquit Momus "cui recte ac tuto eam demandes provinciam, ut promptiorem accommodatioremque dari si optes, nunquam alibi invenias. Habes enim ex me natam Famam, omnium pervigilem et, quod ad rem conferat, celerem pedibus et pernicibus alis ut nihil supra; tum est illa mei quidem cupidissima atque observantissima, ut hoc tibi spondeam pro accepto abs te beneficio: eam quaeque imperaris, mea praesertim causa, mature summa fide et summa diligentia executuram". Habuit Momo gratias eam ob commonefactionem et pollicitationem Iuppiter. Ergo Momus "Hoc pro beneficio," inquit "si beneficium potius quam officium id supplici et calamitoso Momo putandum est, peto a te, benignissime Iuppiter, ut si qua in illa procreanda forte videar amorum culpa obnoxius, eam ereptae barbae doloribus compenses". Risere atque re cognita indulsere.

Hunc risum intercepit iratae Iunonis adventus: nam dum apud Iovem sic confabularentur evenit ut Pallas Minervaque sese e corona subriperent Iunonique ut gratificarentur abscederent; quod Iunonem et in Momum esse infestam et veterem contumeliam meminissent, qua de causa sacrum deorum ignem inclusum gemma reddere Momo destitissent edocuere. Illis ea de re collaudatis, Iuno ad Iovem irrupit ardua, irarum impotens, torvo aspectu, atque illic habere quidem se inquit quippiam quod de rebus maximis cupiat conferre, amotisque arbitris sic orsa est: "Et quidnam esse causae dicam, mi coniunx, ut fieri te in dies etiam maioribus in rebus negligentem intuear? Pigetne te Iovem esse, pudetne te regem haberi et omnia licere ex arbitrio, qui tibi paratum imperii aemulum induxisti? Vel quidnam fuit causae ut quam tu rem fastidias, eius tu rei auctorem improbum et factiosum probes? Inimicos eosdemque abiectissimos ornabis, tuos vero, quoad in te sit, omnium esse indecentissime acceptos voles? Extorres, proscriptos, pessimeque de deorum genere meritos et invitos in caelum accerseri iubes, me vero quae te quae Iuno measque preces respuis. Tu aedes auro, tu fores, tecta, gradusque auro, aureas columnas, aurea epistylia, parietes auro gemmisque pictos ac redimitos quibus visum est condonasti, uxore praeterita atque neglecta. Lautissimas aedes illi incolunt, at et quinam? Mercurius deorum scurra et temulentus Mars et pellex Venus, infelix Iuno, despecta Iuno! O nos miseras, a nostri coniugis beneficentia excludimur! Adde quod et nostras sedes, quas hinc reiectae incolebamus, cum essent nulla re alia praeter puritatem et sordium vacuitatem honestae, tu amantissime, tu coniunx, replesti foedissimorum votorum obscenitate: me dignam profecto hac mea in te perenni fide et constantia, in quam istarum purgamenta reiicias! Sed liceat deorum regi ornare quos velit, ac velit quidem publicum odium, istum nefarium et consceleratissimum Momum, ad se recipere, regni consortem facere, sui et suorum oblitus, aulas uxoris ita foedari votorum illuvie patiatur ut vel iumenta Phoebi ea subisse respuant ac pro foetore horrescant. Sed non hic committam amplius ut frustra apud obstinatum aspernatorem graves meas iniurias deplorem; satis obtudi aures tuas, Iuppiter, satis frustrata sum. Et quid iuvat aeternum poscere quod semper negetur, ni forte studeas ut continuo aliquid curarum ad veterem dolorem accumules? Non rogabo, non profecto prosequar, ut qua in re tibi sum voluptati (dum nostram importunitatem flocci pendis et omnia negas deprecanti) in ea mihi sim gravis nimium rogando. Tu sequere negando et aspernando iam quae ultro erat officii tradere. Sed, si per te liceat, agedum: num illud oportuit, cum aliorum commodis etiam infimorum tam multa contulisses, hoc etiam animadvertere, ne indecentius uxor quam caelicolarum infima plebes habitaret? Et quanti erat elargiri uxori ab Iove optimo et maximo, non sine lacrimis precanti, quod indignissimis ultro erogasti? Quid si maiora expostulavissem? Nihilo enim plus rogabamus dari quam ut ad aedium nostrarum ornatum vota mortalium quae essent aurea commodares; idque tamdiu supplex orans, obtestans, coniunx, tandem abs te haud usquam potero exorare? Mi vir, semperne eris in Iunonem durus? Quod si te mea in causa nequeo flectere, at, mi vir, illud liceat admonuisse tua praesertim causa, ut videas quos ad te recipias, quibus credas, cui committas teque remque maiestatemque imperii tui; hunc tu Momum si satis noris, etiam atque etiam quae commonefeci pensitabis".

Haec Iuno, cumque unas et item alteras lacrimulas tenui velo abstersisset, quaeque de Momi animo erga Iovem vereretur subtexuit et omni dicendi qua poterat arte gravissimos infigere aculeos suspicionum elaboravit; subinde iterato ad vota expostulanda orationem deflexit. Cui Iuppiter "Esse et ego quid hoc dicam causae" inquit "o coniunx, quod nunquam te non iratam offendo? Dolet me tui et curarum tuarum, quas nimirum esse alioquin leves, sed ad te sollicitandam plus satis graves intueor. Et quid agis, Iuno? Semperne sic novas res aucupaberis et captabis, quo me vexes? Quid est quod me tibi purgem? Aurea dixisti velle habere vota ut coaedificares. An parum tibi apud nos suppeditat aedium ubi splendide lauteque habites, ni et novas tibi arces construas? Sed vince, coniunx, habe tibi vota aurea, cape ab obstinato frustratore quae imperas. Tu modo ne nobis istas leges imposuisse prosequare, ut quae facta velim tu reddere infecta cures. Pone tuas istas malo suspiciones dicere quam simultates, deque Iove posthac sperato meliora. Neque enim adeo me Iovem esse oblitus sum ut non prius quae facto opus sint mediter quam facta velim, tum et quae me deceant ita prospicio ut nusquam mei me poeniteat consilii. Negligentis potius esset atque inconsulti levium suspicionum occursu, quibus omnia referta sunt, ab instituto deici. Non tamen hinc est ut me admoneri abs te feram moleste, sed defatigari delationum ambagibus, utcumque id fiat, stomachor. Tu contra, Iuno, aeque admonentem Iovem ne despice; hoc est quod abs te impetrasse velim, quod item frustra aeternum petivi, ut cum parere didiceris, Iuno, tum eorum qui imperent consilia et gesta pensites atque corrigas. Interea quae tua fieri causa voles, et Iuno, et coniunx, Iove audiente volenteque assequere".

Itaque haec Iuppiter, et in ea re consulto commotior videri multo voluit quam esset id quidem cum ut coniugis vehementiam retunderet, tum ut Palladi pro non executo in legatione imperio honestius succenseret; ac fuit quidem ea de re in dicendo usus voce ita elata ut a corona deorum, qui tum semoti astabant, exaudiretur. Missa ab se Iunone, varia secum ipse de uxore repetens conticebat; ceteri dii velut attoniti ob regis iniucunditatem obmutuerant. Sed tulit casus ut Momi quodam facto insperato Iuppiter unaque dii omnes ad risum excitarentur. Namque Iunone apud Iovem quae recensuimus disputante, Momus de Mercurio interrogarat quidnam id ita esset, cur Phoebum ad Iovem salutandum proficiscentem vota interpellarint. Cui Mercurius in hunc modum responderat: "Mortalium quidem vota cum multis de causis, tum quod plena venirent ineptiarum, ut erant aspernanda ita aspernabantur. Ea de re Iuppiter diique omnes iusserant ab his caelicolarum sedibus expurgari atque excludi. Ut maiora omittam, in votorum numero erant quae nasum aduncum oculosque perturgidos strumamve informem emendari expostularent, eoque devenerat res ut, quod longe fastidias, acu aut fuso amisso votis deos poscere auderent. Sed haec erant levia: illud erat gravius, quod quo erant vota ipsa pleraque omnia referta odiis, metu, ira, dolore et huiusmodi putridis corruptisque pestibus quae hominum pectoribus immersae haerent, eo aulas omnes caeli obscena tetraque odoris foeditate et nausea complerant. Illudque inprimis superi abhorrebant atque exsecrabantur, quod inter vota comperiebantur quae parentum, quae fratrum quae liberorum virique inprimis necem atque interitum exposcebant. Quid et quod magis oderis? Vota audebant facere quibus urbium provinciarumque ultimum exitium atque excidium flagitarent. Sed anceps et diutina fuit deliberatio cunctane vota caelo exterminarent atque reiicerent; vicit tamen eorum sententia, qui aurea retinenda consulerent. Nunc hoc successit incommodi, exclusis votis, ut multa votis poscere mortales assueti, votis vota dum non audiuntur addere non cessent, quo fit ut incredibili votorum vi aethera occupent, votis Phoebo via interpelletur, votis Iunonis area consternatur, ipsi denique inter se dii votorum gratia grave inire certamen parati sint. Ergo tu, Mome, his tuis inventis omne caelum, omnes caelicolas exerces".

Hanc Mercurii orationem Momus audiens non potuit ipsum se continere quin prae animi laetitia in maximum cachinnum irrumperet ita ut omnium ora in se converteret. At rogatus quid ita inepte ridendo insaniret, illico versipellis, se recipiens, inquit: "Sane rideo, Mercuri, quod aiebas mortales votis poscere ut indecentes et male dolatos vultus suos reconcinnaretis. Etenim fabri sitis omnes dii oportet puellarum gratia, siquidem una sola in puella pro eius animi sententia construenda quicquid ubique est artis artificiique consumitur. Proh et quae ora et quos vultus domo afferunt!". Hinc exhilaratus Iuppiter non tam Momi salibus quam gestus insipiditate, qui dedita opera et studiose se ridiculum exposuerat, arrisit; perinde eos, qui tum illic aderant deos, inprimisque Momum, ridendi cupidus vocavit ut secum esset in coena. Ridebis atque admiraberis Iovemque Momumque, nam in coena non facile dici potest quam inter epulas praeter omnium opinionem iocosum se Momus exhibuerit, multa referens quae suum per exilium pertulerat cum ridicula, tum et digna memoratu. Inter quae illud fuit, ut referret omnes quidem se voluisse hominum vivendi rationes et artes experiri, quo reperta commodiore acquiesceret; in singulis quidem elaborasse ut studio et diligentia coniuncta exercitatione et usu evaderet in egregium artificem; nullam tamen ita didicisse ut sibi satis instructus videretur, tam comperisse omnes artes huiusmodi ut quo plura quae ad peritiam faciant usu et doctrina sis assecutus, eo plura discernas tibi deesse ad cognitionem. Sed eas omnes quae apud homines inter egregias habeantur vivendi artes reperisse eiusmodi esse, ut sint longe minus utiles minusque commodae ad bene et beate vivendum quam sapientis hominis cognita ratio postulet; atqui, ut a primariis et honoratissimis incipiat, militiam sibi inprimis visam percommodam, id quidem, cum alias ob res, tum quod per eam virorum principes reddantur, potentatus nanciscantur, posteritatisque fructum assequantur. Accedebat eo ut arma sibi potissimum eligenda duceret quod se ab armorum periculo immortalitate immunem meminisset, ac fuisse quidem militem se beneque rem gessisse manu et animi viribus, postremo ductitasse exercitum, instruxisse acies, exercuisse classem, suos vidisse titulos victoriarum quamplurimos excepisse frequentissimos civium plausus et congratulationes; sed brevi odisse castra, vexilla, arma, classica, omnemque virorum strepitum fremitumque: non id quidem satietate aut fastidio quodam iteratae gloriae, sed iusta rectaque, minime insolentis viri, ratione, quandoquidem in his omnibus rebus quae ad arma spectant nihil inveniri intelligeret quod saperet aequitatem, quod non esset alienum a iustitia, quando item in omni illa armatorum multitudine intueretur nihil quod quidem ad humanitatem aut pietatem spectaret, omnia cerneret ad utilitatem, ad animi libidinem, ad rerum temporumque suorum rationem et conditionem per vim nefasque referri, nulla fortibus certa aut merita referri praemia, omnia imperiti vulgi iudicio et opinione pensari, res consiliaque eventu putari, praemia non virtuti, sed audaciae et temeritati referri. Sinere se pericula et labores quos in sole et pulvere, noctuque sub imbre et divo obire oporteat; sed illud non praeterire, quod inter sanguinis vitaeque suae prodigos, alieni cupidos, impuros, impios, diritate immanitateque teterrimos, in fece et sentina perditissimorum et a suis patriis sedibus perpetratis flagitiis profligatorum, inter ruentium templorum stragem, fragorem, fumum cineremque versandum esset, ut tota illa in re bellica nihil se invenisse Momus deieraret quod satis delectaret praeter id, quod interdum, stulto et vesano furore conciti, turmae atque manipuli armatorum mutuum in ferrum praecipites ruerent. Operae quidem pretium esse coram intueri portenta illa impurissima et pestes hominum properantium in mortem, suique similium scelere et manibus contrucidari. Voluisse et regem fieri se, quod proxime ad deorum maiestatem regium imperium arbitraretur ac magni quidem duxisse olim vereri observarique se a multitudine, eamque praesto adesse, pendere ad obsequium, parere dictis; item magnifice habitare, honorificentissime progredi, laute ac splendide convivari et concelebrari. Principio quidem veritum ne id sibi foret arduum assequi atque difficile, quoniam multos videbat ea una in re nanciscenda frustra maximis laboribus et ultimo discrimine contendisse, perpaucos attigisse; sed animadvertisse duas ad principatum patere vias breves et haudquaquam difficiles: unam quidem, quae factionibus et conspirationibus muniatur, hanc teneri expilando, vexando, collabefactando, sternendoque quicquid tuis curriculis obiectum ad interpellandum offenderis, alteram vero ad imperium viam bonarum esse artium peritia, bonorumque morum cultu ac virtutum ornamentis deductam atque aptam, qua quidem te ita compares, ita exhibeas hominum generi oportet, ut te gratia et benivolentia dignum deputent, unum te in suis adversis rebus adire, tuis potissimum assuescere consiliis et stare sententiis condiscant. Neque enim ullum in terris vigere animans quod ipsum sit homine contra servitutem magis contumax; contra item homine ipso fingi posse nihil ad mansuetudinem tractabilitatemque propensius. Sed scire imperium agere artis esse minime vulgaris, quod si pecudes, brutaque et quae ad feritatem agrestem nata sunt usu domita reguntur et certa quadam disciplina continentur, quid hominem ad facilitatem frugalitatemque societatemque vitae natum non moderabimur arte et ratione, quandoquidem iusta et recta imperantibus, ut videre licet, sponte ultroque obtemperet? Sed imperium postquam adeptum partumve est rem esse procul dubio difficillimam imperantibus asserebat. Nam eo cum sis adductus loco ut tua negligere, aliena curasse oporteat, cum item tua unius cura et sollicitudine multorum otium et tranquillitatem tueri ac servare opus sit, quid potest in vita difficilius dari atque laboriosius? His addebat publica esse negotia omnia penitus ardua atque impeditissima, in quibus si tua unius utaris opera non sufficias, et aliorum si utaris opera casibus id atque periculis refertissimum sit; negligere vero quid sit officii cum ad dedecus et ignominiam, tum ad calamitatem exitiumque redundet. Denique, si rem satis spectaris quod isti imperium nuncupant, id profecto publicam et intolerabilem esse quandam fugiendarum rerum servitutem intelliges. Ceterum nummularias ceteras quaestuosasque artes et facultates ultro abdicatas ab se esse voluisse, quod vel satietatem ex copia, vel fastidium ex usu, vel taedium ex quaestu praebeant, vel si tandem cupiditate adducaris ut tibi plura esse velis quam oporteat, fore ut sordidam illiberalissimamque sollicitudinem afferant. Postremo nullum genus vitae se aiebat comperisse quod quidem omni ex parte eligibilius appetibiliusque sit quam eorum qui quidem vulgo mendicant, quos errones nuncupant. Hanc esse quidem omnium unam facilem artem, in promptu utilem, vacuam incommodis, plenam libertatis ac voluptatis, quam rem ita esse multa cum festivitate Momus cum plerisque aliis argumentis, tum his rationibus demonstrabat: "Etenim sic" inquit "dicunt quidem geometrae, quaeque versentur in arte sua aeque teneri a quovis rudi discipulo atque ab eruditissimo, modo semel ea percepta sint. Idem ferme ipsum in hac erronum arte evenit, ut uno temporis momento perspecta planeque cognita atque imbuta sit. Sed in hoc differunt, quod geometra instructore qui futurus est geometra indiget, erronum vero ars nullo adhibito magistro perdiscitur. Aliae artes et facultates habent edocendi tempora, ediscendi laborem, exercendi industriam, agendive quendam definitum descriptumque modum; item adminicula, instrumenta et pleraque istiusmodi exigunt atque desiderant, quae hac una in arte minime requiruntur. Una haec artium est incuria, negligentia inopiaque rerum omnium, quas aliis in rebus ducunt esse necessarias, satis fulta atque tuta. Hic non vehiculis, non navi tabernave opus est, hic non decoctoris perfidia, non raptoris iniuria, non temporum iniquitas metuenda est. Hic nullum congeras capital praeter egestatem rogandique impudentiam oportet, ac tua ut perdas, aliena ut roges nihil plus negotii est quam ut velis ita mereri de te. Adde quod aliorum sudore et vigiliis erro pascitur, suo quantum lubeat otio abutitur, rogat libere, negat impune, capit a quibusque, nam et miseri ultro offerunt et beati non denegant. Eorum vero quid referam libertatem atque solutam vivendi licentiam? Rides impune, arguis impune, obiurgas, garris tuo quodam iure impune. Quod illi ad dedecus ignominiamque deputant verbis cum errone contendere, quod illi statuunt flagitio manum impotenti inferre, id ad regni quasdam conditiones et leges facit. Posse quae velis et nullos habere dictorum factorumque censores, ea demum regnandi suffragia et praesidia sunt. Neque illud concedam regibus ut divitiarum usu magis quam errones fruantur: erronum theatra, erronum porticus, erronum quicquid ubique publici est. Alii in foro ne considere neve altercari quidem voce paulum elatiori audebunt, et censoria veriti patrum supercilia publico ita versantur ut nihil sine lege et more, nihil pro voluntate et arbitrio audeant. Tu, erro, tranverso foro prostratus iacebis, libere conclamitabis, faciesque ex animi libidine quaecumque collibuerint. Duris temporibus ceteri moesti mutique tabescent, tu saltabis, cantabis. Malo regnante principe alii diffugient errabuntque exilio, tu arcem tyranni concelebrabis. Hostis victor insolescet, tu solus tuorum intrepidus coram adstabis. Et quod quisque summo labore capitisque periculo sibi accumularit, tu illius quasi debitas tibi dari primitias expostulabis. Est et illud quod ad rem egregie faciat, ut cum nemo sic viventi invideat, tum et ipse nullis invideas, quandoquidem in aliis cernas nihil quod non facile possis assequi, dum velis. Adde his quod erronis conditio ita est ad quamvis artium aliarum accommodata, ut quoquo te contuleris recte ac digne fecisse videare, quod quidem ceteris mortalium haud aeque evenit: nam et levitatis putatur suam qui assueverit artem linquere et non sine dispendio ad alias transmigratur. Neque illos audiendos puto qui quidem hanc unam erronum sectam dicant plenam esse incommodorum. De me illud profiteor, ceteris omnibus in artibus unas et item alias plerasque res offendisse quae et durae et acerbae fuerint quaeve, cum eas noluerim, tum iisdem illis aegre carere non potuerim. Nam omni quidem in artificio multa sunt, insita natura et quasi innata, quae etsi gravia et molesta sint, ferenda tamen sunt iis qui in ea velint versari; at hac in sola una erraria (ut ita loquar) disciplina et arte nihil unquam offendi quod quidem ulla ex parte minus placuerit. Nudos vides errones sub divo atque duro in solo accubare: eos contemnis, despicis una cum vulgo atque fastidis. Vide ne teque vulgusque errones ipsi contemnant atque despiciant. Tu aliorum causa facies multa, erro nec tua, nec aliorum causa facit quippiam, sibi facit quicquid facit. Quid hic referam quam sint illa quidem inepti et stulti hominis quae vulgo admirantur, toga, purpura, aurum, mitra et huiusmodi? Aut quis non irrideat, cum videat te vestium gravi involucro et implicamento obligatum atque compeditum prodire, ut aliorum oculis placeas? Hoc non facit erro, ergo ridet. Tune sanus non cavebis tibi esse vestium pondere infensus, tune, ut lautior et cultior videare, non recusabis habere membra ad aliorum arbitrium occupata et obstricta? Veste utemur ut tegamur, non ut admiremur. Imbrem et frigora qui veste proteget, erit is quidem satis et ad usus commoditatem et ad naturae decus ornatus. At solo cubabit erro: et quid tum? Ne vero si somnus aderit apertioribus obdormies oculis nudo in pavimento quam inter peristromata? At cygnis dedit quidem natura plumas ut integerentur, non ut ad lectorum delitias conferrent: tibi si tantum dedisset somni quantum subiecit strati ubi dormiens accubas, procul dubio perquam maximum dormitares. Fitque is quem natura dedit ad requiescendum locus et sedes usu in dies mollior atque salubrior, quod, si quid ad delitias desit, pro pulvinari praesto erit fessis somnus.

Ceterum, conscendat in concionem erro, dicat eadem quae quivis stragula veste indutus orator dicit: cuinam maior confertiorque accurret audientium corona? Quem attentius audient? Quo perorante magis commovebuntur? Cui tota in causa vehementius assentientur? Magna est in rebus gravissimis horum disciplinae hominum auctoritas, ut nihil supra. An tu interraro videbis ebrii et deliri erronis dicta accipi pro vatum monitis eademque seriis in rebus referri ac si oraculi essent ore decantata? Sed de his alias, ad me redeo. Quid illud, et quanti erat arduis me et periculosissimis in rebus hominum aeque atque in levissimis versari animo aequabili, nullam in partem commoto? Quam quidem rem tu, o Iuppiter, deorum princeps, si sapis, optas atque maiorem in modum posse concupiscis. Et quidnam est quod ad fructum otii et specimen amplitudinis maiestatisque decus faciat magis quam ita sese habere paratum et compositum, ut nullis uspiam rerum motibus de statu decidas? Nuntiabantur gravia, quae ceteri omnes exterriti pavefactique horrescebant: novos invisosque liquores ex duro silice manasse, mediisque ex fontibus arsisse flammas, tum et montes inter se arietasse. Stabat attonitum vulgus, trepidabant patres, omnia erant in metu et sollicitudine rerum futurarum. Alii publicam salutem advigilabant, alii suis commodis servandis insanibant, spe agitati aut metu. At Momus, curis vacuus, in quodcumque velis latus dulce obdormiscens nihil sperabat, nihil metuebat, interque stertendum illud usurpabat dicere: 'Quid tum, Mome, et quid haec ad te, ad quem neque pauperiem afferent neque quippiam auferent?'. Narrabantur et rerum monstra: alios strata mari via obequitasse, alios per sylvas perque saltus traduxisse classem, alios subfossis montibus media per saxa intimaque per viscera terrae suos traxisse currus, alios immani strue caelum aggressos petere, alios flumina et lacus eripuisse mari atque extinxisse, mediumque intra aridum terrae solum acclusisse maria. Haec admirantibus ceteris atque stupentibus, Momus illud assuescebat dicere: 'Enimvero, Mome, et hoc nihil ad te'. Ferebant locupletissimos amplissimosque reges orbis innumerabili hominum manu impetum inter se facere, contegi caelum sagittis, flumina sisti cadaveribus, mare hominum cruore excrescere. His rebus cognitis ceteri, prout rerum suarum ratio et studia ferebant, aestuabant variis animorum motibus; solus Momus illud observabat dicere: 'Et istuc, Mome, nihil ad te'. Spectabantur agrorum incendia, vastitates, populationes, audiebantur cadentium virorum gemitus, ruentium tectorum fragor, calamitosorum eiulatus; haesitabatur, trepidabatur, discursitabatur; strepitus, crepitus, fremitus totis triviis, totis angiportibus; at Momus resupinus nudis feminibus oscitans allucinabatur, et quid sibi tanti tumultus vellent ne rogabat quidem nisi negligenter sane atque morose. Tum si quis coram tantos turbines et rerum tempestates deplorare aggrediebatur, Momus, perfricato crure, aiebat: 'Nequedum, Mome, quicquam est hic, quod quidem tibi recte cures: dormi'. Quid postremo? Quo hos atque illos animis affectos atque perturbatos mihi ludos facerem, cum eos coactis circulis collatisve capitibus serio aliquid ordiri atque conferre spectabam, repente eo advolabam, istic assistebam, ab iis petebam, assiduus efflagitabam ut aliquid ad pietatem elargirentur inopi atque egeno; illi indignabantur, ego mea gaudebam importunitate; illi nostram odiosam intempestivamque scurrulitatem exsecrabantur atque excandescebant, Momus ridebat".

Itaque Momus huiusmodi toto ridente caelo referebat. Sed Iuppiter, cum satis risisset, Momum facetias istas recensentem interpellavit. "Atqui" inquit "heus Mome, num et, quod aiunt, figulus figulo, faber fabro, ipsum idem aeque erronibus evenit, ut inter se invideant?". Tum Momus: "Enimvero et quis huic invideat qui prae se ferat miserum esse se?". Tum Iuppiter: "Ni fallimur, invidebit quisquis prae illo qui admodum miserabilis sit, volet sese dignum videri misericordia. Quod ni istuc siet, fateor una haec tua erronum vita est non modo, uti aiebas, vacua incommodis, sed egregie directa ad quietem atque summam ad felicitatem apta, ut eam statuam huic nostrae deorum beatitudini esse longe anteponendam. O malum maximum invidia, maximum invidia malum!". Tum Momus "Admones," inquit "o Iuppiter optime et maxime, ut ipsum me accusem: audies rem festivam. Versabatur inter philosophos egregius quidam nebulo, quem unum si spectes facile credas principem esse abiectissimorum hominum, ita corporis forma et omni membrorum ornatu se agebat inter errones insignem atque nobilem. Describam tibi hominis speciem et habitum. Aderat illi os impressum, mentum obductum, cutis hispida, crispissata atque ab genis pro palearibus dependens, omnis vultus perfuscus, oculi turgidi et aperte prominentes, horumque alter luciosus, alter sublippus et ambo perverse strabi; naso tam erat multo ut non hominem, sed nasum existimes ambulare. Pergebat procurva cervice et inversa in sinistrum humerum, collo protenso et acclinato, ut terram non prospicere oculis sed auricula diceres; surgebat spatularum una in strumam pergravem, incedebat gradu lato, tardo, vasto, sed lassis artubus et quasi longo morbo spondylibus dissolutis ad cuiusque pedis motum innutabat. Sino vestitum et reliquum apparatum, saccos centipelles, lacernam attavam lacernarum, in qua mille parturientes mures nidificarant; pendebant humero pera, calathus atque cantharus sordibus obsceni, foetore exsecrabiles. Huic me fateor homini fortassis interdum invidisse, non quo esset ille quidem ita informis, sed quod non obscure perspiciebam pluribus hunc videri dignum pietate, cum esset non pietate, sed odio potius dignissimus. Tum et illud pigebat, quod errones nimium multos volitare foro conspiciebam. Unum profecto erat in tota illa erronum arte quod animo ferebam minus aequo: id erat cum latrantes et infestis dentibus nudos talos appetentes caniculas pueri adversum me concitabant, et quam sint illi quidem molesti scio vobis non posse facile persuaderi, sed ea irritamenta si maximis diis accidissent, nihil in rerum orbe universo est quod illis inveniri posset laboriosius. Sed de his alias. Nunc vero ad rem redeam, hoc est ut affirmem apud mortales nihil inveniri commodius erronum vita, siquidem et facilis et paratissima est, siquidem huic neque calamitas officere neque improbitas adimere quicquam potest, siquidem in ea nihil inveniri potest quod doleas". "O te igitur stultum" inquit Iuppiter "si tanta bona reliquisti, ad superos ut conscenderes! Vide, Mome, quid recites, non potuisse in te apud mortales ea quae apud nos divos plus satis possunt. Quid est quod nequeat improbitas?". Hic Momus caepit deierare nunquam se fuisse minus affectum curis quam cum esset erro, nunquam praeter semel tota illa in vita doluisse, atque id quidem re alioquin levi obtigisse, sed non tamen indigna memoratu. Incidisse enim ut offenderet quendam ascripticium servulum ex ergastulo qui detrectantem et calcitrantem asinum fuste caederet. Primo caepisse efferate excandescentem illum ridere, post id incidisse in mentem ut repeteret quam ab pauperum numero iumentis debeatur, quae si forte desint fiat ut divites velint portari a pauperibus. Ea de re indignatum caepisse redarguere atque increpare his verbis: "O bipes indomite, servum pecus, non cessabis furere? Ne tu non intelligis quam huic animantium generi debeatur, quod ni essent tu tuique similes pro iumento sarcinas atque impedimenta ferres?". Haec dixisse Momum. At illum, ut erat immanis, relicto asino obiurgatorem petiisse et dixisse: "Quin immo tu pro asino feres?", fusteque ipso quo asinum percusserat reddidisse Momum onustum plagis. Affuisse tum illic nonnullos viros probos qui servum hunc dictis castigarent et factum maledicerent atque condolerent; Momum vero affirmasse id factum optime, quandoquidem, maximis hominum aerumnis neglectis, asini incommodis moveretur.

Tanta Momi lepiditate nimirum captus Iuppiter edixit ut suis aedibus posthac uteretur perfamiliariter. Quam quidem rem cum ex Iovis imperio factitaret (vide quid possit principis erga quemvis gratia et frons), Momum, publicum caelicolarum odium, abiectum, despectum diisque omnibus pessime acceptum, ut primum videre factum principi familiarem et gratum, illico bene de illo sentire dignumque ducere cui sese ultro ad amicitiam offerrent, observarent, colerent: idcirco Momum singuli deorum adire, consalutare, gratificari dictis et factis certabant.

Quo in numero atque errore cum plerique omnes, tum et Pallas dearum una (ut ita loquar) mascula, et Minerva, cunctarum decus et lumen artium, versabantur; et erit operae pretium legisse qualem se Pallas Minervaque deae gesserint, quo etiam in diis naturam mulierum recognoscas. Nam illae quidem, quod intuerentur beatissimum principem Iovem, cui relictum esset nihil quod amplius cuperet praeterquam ut perpetuis voluptatibus frueretur, Momi scurrulitate delectari, idcirco movebantur ut de publicis deque privatis rebus suis plurimum cogitarent, et cum essent non ignarae quid in cuiusque animum et mentem possint conspersae verborum aptis temporibus maculae, illius praesertim qui quidem ex arbitrio ad te sive otiosum sive sollicitum habeat aditum, iam tum animis erant vehementer commotae, et cum meminissent ab se proxima ignium iniuria fore lacessitum Momum, non temere vereri caeperant ne diligens solersque sectator aliquid iocosa illa sua assiduitate adversi moliretur. Sed, uti erant mulieres, consilio usae sunt muliebri, minime opportuno minimeque attemperato. Enimvero Minerva qua callebat dicendi arte convenit Momum, ac de sacrorum ignium facto ex ignaro fecit ut esset certior, dumque suadere institit non id quidem sua fore amissum opera, ut tanto deorum dono Momus fraudaretur: omnem largitionis offensionem explicavit, affirmans id sibi nusquam potuisse venire in mentem, ut aggrederetur quippiam quominus bene de se deque deorum genere meritus Momus ex Iovis decreto ac voluntate ad superos rediret honestior; sed fateri suum errorem, se quidem Palladi et armatae et praepotenti deae sic petenti non fuisse ausam non obtemperare, neque mirandum Palladem hoc temptasse, quae quidem Fraudi deae plurimum debeat, quin et indulgendum si studiis coniunctissimae deae in adversarii gloria non augenda mutuo opitulentur. Ceterum orare ne quid sibi succenseat, sed posthac malit sui cupidam experiri quam odisse immeritam.

Momus, etsi acrem animo ex ea re indignationem concepisset, tamen, quod simulare dissimulareque omni in causa decrevisset, tenui oratione et levibus dictis ab se Minervam missam fecit, ac inter cetera illud adiuravit, non id se accipere ut iniuriarum velit reminisci cum alias ob res, tum ne eam animo ferat molestiam quam vindicandi cura et sollicitudo soleat afferre; meliorem posthac optare inimicis atque obtrectatoribus suis mentem, qui si tandem esse infesti non desinant, ad officium tamen ducturum se ut suas esse partes deputet ferendis adversariis palam facere quali sit calamitosus infelixque Momus animo redditus miti et mansueto. His acceptis responsis Minerva abiit, sed vixdum ex aula excesserat cum e vestigio Pallas, iisdem animi suspicionibus excita quibus et fuerat Minerva, ad Momum appulit suadereque institit astu et artibus Minervae adductam se ut de Momo non bene mereretur, cuius quidem erroris maiorem in modum poeniteat veniamque poscat. Non fuit aliud frontis aut verborum ad dissimulationem in Momo adversus Palladem quam fuisset ad Minervam; ardebat tamen ita et dolore et iracundia, ut vix compesceret lacrimas. Sed hunc animi dolorem Themis deorum apparitoris adventus sustulit, qui Iovis iussu ad solemne convivium Herculis Momum accersiturus advenerat. Cupiebat enim Iuppiter ut multas alias superiores sic et coenam apud Herculem ducere lepiditate Momi voluptuosissimam. Verum id longe evenit secus quam voluisset: nam cum inter coenandum pleraque dicta ultro citroque a commessantibus iactarentur et praesertim ab Hercule nonnulli sales recitarentur, rogareturque Momus ut veterem illam historiam enarraret, quo pacto apud philosophos avulsa barba diffugisset, Momus hos intuens ita ridicule in se affectos non potuit facere quin stomacharetur: aegre enim ferebat non illud sat videri Iovi et diis semel atque iterum succincte et breviter audisse, ni et rursus in convivio, in quo maximorum deorum flos et nitor discumberet, quasi epularum obsonium et mensae condimentum Momum ad irridendum deposcerent. Qui ergo in hanc usque diem fuerat ex studio ludus iocusque omnium ordinum sua affabilitate, is nunc sibi contumeliae loco ascribebat se invitari non honoris gratia, sed ad risum. Accedebat quod novissimam animo personam imbuerat, superiore illa omissa; namque posteaquam intellexerat plurimi se ab deorum vulgo fieri ob principis gratiam, rerum suarum successu (uti fit) elatus, caeperat spe et cupiditate maiora appetere de se atque, intermissa pristina conveniendi festivitate, per maturitatem et gravitatem sensim elaborabat ut dignus videretur apud Iovem gratia et apud caelicolas auctoritate. Quae cum ita essent, factum est ut, convivarum et maxime Herculis petulantia offensus, pulcherrimo quodam commento insolentes bellissime castigatos reddiderit. Se quidem, inquit, nunquam non fecisse libenter ea omnia quae maximis diis grata intelligeret, nequedum id sibi inpraesentiarum videri molestum si suo etiam cum dolore tam praeclare de se meritorum voluptatibus satisfaceret; malle quidem tristem turbulentissimorum suorum temporum memoriam delesse ex animo quam totiens refricasse. Sed suis recensendis aerumnis venire quandam annexam complicatamque rationem gratiarum pro accepto ab deorum rege beneficio, cuius quidem meminisse procul dubio gaudeat, at futurum quidem sempiterne inscriptum animo beneficium quod acceperit, et nunquam non retributurum officio quod potuerit. Exilii quidem sui poenam fuisse nunquam adeo sibi acerbam et molestam quin de genere deorum superum bene fore merendum statuerit, et doloris sui poenam erroris culpa mitigasse; inde illud fuisse, ut quae sibi in dies forent mala subeunda, ea quidem cum moderate, tum et fortiter atque constanter perferret, sed quantis rerum adversarum cumulis obrueretur non facile dici posse, inter quae illud inprimis angebat, quod nullae salvis deorum rebus darentur occasiones quibus qualis demum esset Momus praeclare agendo ostenderet. Accidisse ut qua in re se pulcherrime officio fungi intelligeret quamve unice ac maxime curaret, in ea nimium multos, nimium acres, nimium infestos oppugnatores atque hostes offenderet, quorum de vita et moribus dicendum sibi sit prius; mox de illorum gravissimis sceleribus pauca ex incredibili numero facinorum, quae ad rem faciant, referentur. Esse apud mortales genus quoddam hominum, quos si spectes progredi oculis in terram defixis, fronte corporisque habitu ad omnem veterem morem et honestatem quadam scaenica superstitione composito, facile venerere; sin vitae consuetudinem et studia ad omnem flagitii turpitudinem pronam et praecipitem respectes, merito oderis. Hos quidem sese spectatores dici rerum voluisse, ac esse quidem eos pro nominis dignitate ingenio praeditos alioquin non tardo neque hebeti, sed tam praeclarae atque excellentis virtutis lumina, si qua in illis sunt, foedissimarum sordium cumulis perdidisse; quaesivisse illos titulo cultusque parsimonia non vitae modum, sed inanis cuiusdam gloriae levem auram et famae immeritae rumorem apud eos quibus parum essent cogniti; eosdem tam inepte, tam intemperanter esse ambitiosos ut rerum quae sint omnium pulchre et praeclare nosse causas profiteantur. Horum duas primum de diis exstitisse sententias, subinde multas et varias manasse opiniones, non tam multitudine quam disceptantium deliramentis repudiandas; sed inter omnes quaenam sit maiore digna odio nondum satis constare. Nam alii ullos esse deos penitus negare: orbem rerum concursu quodam fortuito minutissimorum, quo sunt omnia referta, corporum esse factum casu, non deorum opere aut manu constructum; alii deos esse cum ipsi non credant (nam si crederent aliter viverent) credi tamen vulgo velint sua praesertim causa, id quidem ut venerentur, ut arma, castra imperiaque sua deorum metu muniant atque ad stabilitatem firmitatemque corroborent; cui sententiae illud addunt, ut se quidem esse deorum interpretes, cum nymphis, cum locorum numinibus magnisque cum diis grandia habere rerum agendarum commercia excogitatis vanitatum figmentis assimulent. Cum his adeo sibi fuisse certamen varium atque laboriosum, hic ut deos esse ostenderet, illic ut non esse deos tales probaret quos scelerosi mortales suorum facinorum auctores sociosque habeant. Sed ita congressum in certamen ut cum eloquentem ipsa causa faceret, tum se dicente veritas ipsa atque ratio facile tutaretur atque defenderet; at pro deorum quidem re satis commodam sibi atque accommodatam fuisse contra philosophos orationem, pro salute autem sua et pro capitis sui periculo parum se sibi utilem patronum exstitisse. Quo enim deorum rationibus inservierit studio et contentione qua debuit, eo sibi pessime consuluisse, gravem subiisse invidiam, acerba odia adversum se excitasse ambitiosorum immodestissimorumque hominum, qui quidem eiusmodi sunt ut omnia possint facilius perpeti quam videri cuiusquam prudentiae et consilio acquievisse. Accessisse et tertium quoddam genus hominum, sane doctrina et praeclaris artibus excultissimum, sed nimis cupidum laudis et gloriae, qui quidem non fortiter factis aut recto rerum agendarum consilio fructum posteritatis mereri, sed umbratili quadam confabulandi arte suum commendare nomen immortalitati affectent. Hos per conciones vagari solitos, nihil sibi assumentes certi atque constantis quod affirment, praesertim apud eos qui usu et exercitatione rerum sapere quicquam videantur, sed novis in dies assentationum artibus auditorum aures aucupari et popularium de se admirationem captare, non tam multitudinis sensum atque cogitationes flectendo et deducendo, quam ad multitudinis nutum sua omnia instituta vertendo in dies et inmutando, et in ea re verumne an falsum, rectumne an pravum id sit quod dicendo tueantur minimi eos pendere: illud omnibus nervis eniti, ut id prae ceteris recte sensisse in suscepta altercatione videantur. Horum se amplitudine et impetu orationis interdum rapi et obrui solitum, ut quid respondendum esset non succureret: posse illos copia verborum, posse eruditione, posse usu ut nihil sit, modo velint, quod vel dicendi facultate, vel adepta iam tum auctoritate nequeant. Hoc ex genere hominum quendam, cum de diis disputaretur, his verbis orsum fuisse dicere: "Non is sum, o viri optimi, qui nullos esse deos et inane volvi caelum ausim affirmare, inveterata praesertim in animis hominum opinione de diis, quos tamen vestrum nemo, ni fallor, est qui ullos esse certa praestantique ratione audeat affirmare. Sed illud interdum occurrit, ut possim dubitasse quid sit illud, cur patres et piissimos deos superos nuncupemus. Quaeso, adeste animis et pro vestra humanitate quae dicturi sumus attendite: novas inauditasque de rebus optimis disputationes ex me audisse, ni fallor, minime pigebit. Fingite adesse hic primos illos parentes nostros quos diis proximos arbitramur et eos, hac nostra hominum qua constituti sumus miseria perspecta, ab Iove hominum patre et deorum rege pro nondum obsoleta parentis gratia ita rogare: utrumne illud, o pater Iuppiter, statuemus officium fuisse piissimum, ut, quoad in te fuerit, omnia nobis esse per te erepta volueris, quae quidem homines optanda ducerent? Quis illud a quovis irato patre etiam in perditos liberos animo unquam ferat aequo et moderato, ut quos haberi suos velit eosdem inferiore sorte quam bruta pleraque animantia agere vitam patiatur? Sino vires, velocitatem, sensus acuitatem, quibus longe homines a bestiis superamur; cervisne atque cornicibus tam multos vitae annos dedistis ut degerent, homines vero, quorum intererat id, vel maxime superum causa, per quos templa, sacrificia et ludorum magnificentia, a quibus omne sacrorum specimen religionisque honos colitur, tum primum inter nascendum consenescere atque deficere, et antequam se in vita constitutos sentiant in ipsoque aliquid incohandi conatu ruere in mortem voluistis. At sit mors, deorum sententia, quidam exitus ab aerumnis sitque perinde mors bonorum optimum quod a malis adimat! Mortem ego facilius crederem esse non malam si eam sibi deos arripuisse perspicerem, donumque non delaudarem si ab iis esset deditum qui malorum tantorum causa non fuissent. Verum quid hoc? Ceteras prope res omnes quae quidem ulla ex parte possent placere superi occuparunt, mortem longe ab se exclusere. Quid est bonarum rerum omnium quod sibi non vindicarint superi atque ascripserint? Nostros dii Ganymedes, nostras dii naviculas, nostras dii coronas, lyras, lampadas, turibulos, crateras, nobis quicquid belli, venusti lautique invenere sustulerunt atque asportaverunt in caelum: in caelum lepusculos, in caelum caniculas, in caelum equos, aquilas, vultures, ursas, delphinas, cete. Quod autem nostris delectentur, quod monstra hinc rapta in delitiis habeant non doleo, sed ne probo quidem; illud doleo, beatos illos superos nostris non moveri incommodis, et cum patres sint, tam de nobis mereri pessime eos quis animo ferat non aegro et perturbato? Nos, deorum filios, deteriori esse in sorte constitutos quam pecudum filios quis possit ferre? Ne vero nos, si filii sumus, si patres ipsi sunt, tam maximi eorum regni participes facere non oportuit! At illi filios a patriis sedibus pepulere, belluis caelum replevere, homines exclusos voluere, monstris caelum refertum reddidere. Et quantine putabimus nos hydras atque hippocentauros potius factos non esse quam homines? At hominum gratia tam multa in medium effudisse deos praedicant, quae quidem cum ad usum, tum ad voluptatem atque ornamentum faciant: fruges, fructus, aurum, gemmas et huiusmodi. Haec igitur iuvet inter nos considerasse, itane sint uti ferunt, quod si quis deos ea fecisse asserat ut iis nobis illudant, nostras spes et exspectationes frustrentur, fortassis non mentiatur. Quotus enim quisque est qui istiusmodi non appetat volente deo, quotus est qui adipiscatur deo non repugnante, quotus est qui adeptis fruatur aut gaudeat? Sed ea demum cedo fecerint hominum causa, quaero bonorumne an malorum? Si bonis providisse dicent, quaeram quid igitur ea bonis non erogentur, improbis non auferantur. Cur eadem optimis adimant et scelestissimis condonent? Eccam pietatem probis dedere, ut quae ad necessitatem faciant omnia per industriam, vigilias laboresve quaeritent, impiis vero, audacibus deorumque contemptoribus etiam adiecere quae nimia penitus sint. Sed quid ego ullos ab deorum iniuria excipiam, cum videam eos in universum mortalium genus tam multa intulisse, quae interdum si quid furere desinant sibi non licuisse optent? O diis invisum genus mortalium, quandoquidem, praeter eas gravissimas res quas recensuimus, dolorem quoque febremque atque morbos et acres pectoris curas et turbidos praecordiorum impetus et saevissimos animi cruciatus importarunt! O nos extrema in miseria gravissimis durissimisque aerumnis obrutos mortales, quos ita vexant, ita in dies afficiunt malis superi ut cum nunquam vacare calamitatibus liceat, tum assiduis acerbissimisque casibus semper nova dolendi ratio insurgat atque immineat, quoad perpetuo in luctu homini vivendum sit, et ita vivendum ut omni in vita hora nulla succedat horae similis. Vel quis vestrum est, viri optimi, qui sibi commodarum rerum omnium quippiam relictum sentiat, praeter eas tantum res, quibus ademptis omnino futuri simus nulli? Lucem, undas, fruges et huiusmodi non est ut nostra potius quam ceterorum animantium causa fore producta assentiamur; loquendi usum et vitae modum, quo esset alter alteri adiunctior, coacti necessitatibus ipsi adinvenimus; cetera omnia nobis erepta brutis fuisse condonata vestrum quis ignorat? O nos igitur iterum male acceptos! Quid admisimus miseri mortales ut, rebus omnibus quae gratae commodaeque sint ereptis, nos aerumnis et difficultatibus obruti vitam miseram degamus? Sed sint illi quidem dii caelo digni, optima omnia mereantur: nos mortales, ad miseriam nati, obrui cumulis malorum non recusemus. Tametsi de omni deorum genere quid possit quispiam interpretari, quis est vestrum quem id fugiat? Quid tamen sentiam ipse non est ut referam, vos id adeo statuetis quid tota in re assentire oporteat, quandoquidem ex nostro mortalium numero dicuntur aliqui ad deorum numerum augendum conscendisse. At voletne ille quidem ex medio hominum grege abreptus et inter beatissimos rerum dominos adscitus, voletne, inquam, ille venerari et coli et metui, tantarum sese rerum gradu et sede et maiestate dignum deputans? Cui forte iterato si via sit, ac sibi plane cognita et explorata, qua conscenderit ad superos redeundum, quidvis facilius possit quam caelicolam fieri. Multa praestitit occasio, multa tulit necessitas, sed plura adiecit hominum improbitas atque stultitia, quibus rebus summorum forte deorum aliqui vel inviti in id amplitudinis rapti sunt ita adeo ut se mirentur unde tantum siet. Et quam commodius cum illis ageretur, si se nossent pro dignitate deos gerere! Quod si nostrum quispiam homunculorum talem se exhibeat in rebus administrandis qualem plerique magnorum deorum se habent, merito plecteretur. Sed tu deosne esse hos putes, qui res mortalium tam supine desidioseque negligant, aut hos qui monstra, ut videre licet, inprimis colant, ulla rerum piissimarum procuratione dignos putabis? Scio quid hic respondeas, dices: quid mirum si nimia in licentia constituti insaniunt, si dum omnia posse quae velint sentiunt, hi quidem velint omnia quae possint, et quae demum velint, licere omnia arbitrentur? Atqui id ita liceat diis, spreta hominum causa: cum Ganymede inter epulas volutari, nectare et ambrosia immergi. Nobisne non licebit tantis miseriis moveri? Non licebit opinari superos deos aut nullam gerer mortalium curam, aut si gerant odisse? Et quid iuvat tantis supplicationibus obsecrationibusque pacem deum alias res agentium, aut mala reddentium, exposcere? Desinamus inepti eos sollicitare irritis cerimoniis qui, voluptatibus occupati, solertes agentesque oderint. Caveamus inutili nostra superstitione de his velle bene mereri, qui quidem aut nulli sunt aut, si sunt, irritati, infesti semper ad miseros mortales malis conficiendos invigilant".

Huiusmodi fuisse ambitiosi illius orationem Momus rettulit, et hac sese oratione adiuravit ita commotum dictorum petulantia et flagitii indignatione ut prae ira vix manum continuerit, nec dubitare quin si Iuppiter ipse optimus maximus, omnium mitissimus, diique piissimi et modestissimi affuissent impudentissimumque illud oratoris os et intolerabilem gestus verborumque iactantiam atque magnificentiam fuissent intuiti, illico in illam omnem scelestissimam familiam litteratorum omnem vim fulminis effundendam iudicassent, quo philosophos omnes totis cum gymnasiis et libris et bibliothecis absumerent. Verum se pro suorum temporum conditione et necessitate temperasse iracundiae, pro suscepti tamen negotii ratione non potuisse non facere quin in id erumperet verborum, ut inter admonendum eos, qui de diis ita obloquerentur, hortaretur iterum atque iterum prospicerent ne quid de his, a quibus tantis tamque divinis prosecuti essent beneficiis, aut perperam perverseque opinarentur, aut male mereri aggrederentur, caverentque ne dum deos negent, demum sentiant praesentes esse eos atque piissimorum et impiissimorum, proborum et improborum habere discrimen, postremo illis optasse ut ea mens erga superos sit, quae suo sit sine detrimento et malo. Hic igitur ambitiosos illos, qui omnia possent moderantius perpeti quam videri cuiusquam prudentiae et consilio acquiescere, consensione facta insurrexisse, et quod Momi praesertim admonitiones dedignarentur, a quo iam pridem multis victi disputationibus capitali odio dissiderent, idcirco furore concitos irruisse atque vim illam ab se persaepius alibi enarratam intulisse; sed petere se ab Iove optimo et maximis diis ne huic mortalium insipientiae succenseant, sed potius quae se digna sunt suam per indulgentiam atque beneficentiam cogitarent et prodesse mortalibus perseverent, Momi incommodis atque iniuriis posthabitis.

Haec Momus submissa et inflexa voce tristique fronte referens, animo erat alacri, cum ceteras ob res, tum quod deos atque inprimis Iovem dictorum aculeis commoveri non obscure perpendebat. Perspiciebat enim obmutuisse Iovem et digito hospitalem mensam subincussisse, ergo intra se gaudio exultabat. Quam rem intuens Hercules subridens "Te" inquit "ego item, o noster Mome, testor, ne quid ipse succenseas si qua ex parte mortalium causam non esse apud Iovem omnino desertam cupio", et ad Iovem versus "Indulgendum sane, o Iuppiter, est" inquit "mortalibus errore praesertim consilii adversus ignotum apud se Momum desipientibus, quandoquidem apud superos Momus ita se gerit ut non facile nosci et alius videri possit plane quam sit. Sed cavendum item est ne quis in aliorum incommodum atque detrimentum plus sapiat plusve teneat artium fallendi quam ingenia bona et simplicia deceat. Quid illi mortales possint eloquentia ex Momo perspicue licet intelligere, qui tam exquisita excogitataque suadendi ratione instructus de mortalium gymnasiis ad superos rediit. Sed de Momi dictis deque tota causa quid a Iove optimo et maximo sentiri deceat in promptu est; quid vero statuisse debeat, alii viderint. At tu, Mome, illud velim tecum deputes, an hic aut locus aut tempus idoneus accommodatusve sit, ut in convivio de his rebus iniucundissimis disputes, ut capitis causam agites. Quid tibi voluisti, Mome? Utrum philosophos atque eruditos ad invidiam trahere, an deos lacessere dictis et ironia? Sed nos, o superi, tam grandi accurataque Momi oratione commoti, quid faciemus? Illudne praeteribimus, quod meminisse oportet, quamdiu fuerint mortales, tamdiu fuisse et opinionum errores et studiorum varietates et disputationum ineptias? Sed tu, deorum gravissime, agedum Mome: negabisne cum istis studiosorum familiis, in quas tu tam atrocissime invehebare, aeternum fuisse quandam perennem inquisitionem veri atque boni? Negabisne philosophorum ope effectum ut genus mortalium seque suamque sortem non ignoret? Non enim erit ab re neque ab officio, Mome, si abs te provocatus congrediar. Etenim quis unquam apud mortales tam protervus inventus est, qui se maximorum deorum amplitudine et maiestate dignum deputet? Quis est qui non se quidem tam multis quae a diis susceperit bonis prope indignum deputet? An erit ullus amens adeo furoreque adeo percitus quin mentem, rationem, intelligentiam rerumque memoriam et eiusmodi, quae longum esset prosequi, cum praeclara praestantissimaque et summo deorum beneficio esse concessa hominibus, tum et ipsis a diis, inprimisque divina a mente atque ratione ducta asserat atque confirmet? Haec ut homines dinoscerent et profiterentur viri docti et in gymnasiis bibliothecisque, non inter errones et crapulas educati, effecere dicendo, monendo, suadendo, monstrando quod aequum sit, quod deceat, quod oporteat, non popularium auribus applaudendo, non afflictos irridendo, non moestos irritando; fecere, inquam, docti ipsi, suis evigilatis et bene diductis rationibus, ut honos diis redderetur, ut cerimoniarum religio observaretur, ut pietas, sanctimonia virtusque coleretur. Atqui haec quidem eo fecere quo ceteros meliores redderent, non quo sibi inanem ullam gloriam aucuparentur: qui tametsi gloriae cupiditate commoti tantas vigilias, tantos labores, tam multa diligentia et cura res arduas et difficiles suscepissent atque obivissent: quis erit deorum omnium qui illis, praeter te unum, Mome, succenseat? Quis erit deorum omnium praeter te unum, Mome, qui illos non de se bene meritos fateatur? Quis erit quin illis, praeter te unum, Mome, habendas gratias, diligendos, iuvandos servandosque non affirmet? Deorum autem cultores atque observatores, quales illi cumque sint, nostro pro officio, o superi, ne vero non fovebimus, eorum saluti non prospiciemus, eorum causae, commodis rationibusque non opitulabimur! Eos demum per quos haec tam digna, tam grata, tam accepta constent, per quos dii putemur et veneremur, Momus, deorum causae affectissimus, caelo annuente atque impune oderit! Siccine studio et contentione rationibus deorum inservire didicisti, Mome, ut qui illic apud mortales quo colamur, veneremur, supplicemur providerit, effecerit, instituerit, eum hic tuo dicendi artificio et verborum ambagibus inducas in odium superis? Quod si nescias, philosophi, Mome, philosophi, inquam, hi sunt omnes inter mortales a quibus superi multa et praestantissima ad maiestatis decus imperiique culmen cum acceperint, tum se accepisse non inficientur, quibusve et superi omnia pietatis officia cum debeant, tum et deberi fateantur. Et diligunt quidem eam studiosorum familiam, Mome, superi magis quam ut dictis tuis commoti eos velint perdere, potius cupiunt eos esse non infelicissimos, ac merito id quidem, nam hi ratione et via assecuti sunt ut sit nemo quin deorum vim et numen esse non sentiat neque profiteatur et se ad bonos mores rectamque vitae normam accommodet. Neque tamen velim Momum nostrum, deorum festivissimum, tam esse erga mortalium genus iratum deputes ut eos oderit, qui fortasse quempiam ex mortalibus asciverit inter superos. De me adventitio novoque deo hoc testor, a me plurimum deberi Momo quod filiae iusserit ut ad vos me sublatum afferret. Et te laudo, Mome, si tuam erga mortales mentem et animum bene interpretor, qui Iovem admones ut malit quae suae sint beneficentiae meminisse quam quae aliorum sint iniuriae, si ad iniuriam pensandum est quod inconsulti homines admiserint. Ideo, ni fallor, pertinet, o Iuppiter, ut sic dixisse velit Momus: tu quidem cum insipientibus omnino succensueris, officii erit sapientibus et optime de diis meritis omnia ad gratiam et beneficentiam referre. Quod cum fecisse volet Iuppiter, o superi optimi, et quosnam diliget, quos ornabit, quos caelo dignos putabit? Eosne qui omnia turbent, nihil pacati, nihil quieti possint aut meditari aut exequi, an eos potius quos ratio quaedam non ab scurrarum improbitate ducta, sed a virtute parata et constituta aditum sibi ad Iovis deorumque gratiam et benivolentiam patefecerit? Qui suo studio, diligentia, opere, labore, periculo plurima perquisierit, multa invenerit, nihil praetermiserit, omnia temptarit in mediumque contulerit quae quidem ad hominum usum, ad vitae necessitatem, ad bene beateque vivendum conferrent, quae ad otium et tranquillitatem facerent, quae ad salutem, ad ornamentum, ad decus publicarum privatarumque rerum conducerent, quae ad cognitionem superum, ad metum deorum, ad observationem religionis accommodarentur!".

Hanc Herculis ad Momum orationem et animos utrinque iam ad altercationem paratos occupavit atque avertit repens exauditus ad caeli vestibulum strepitus; ad quem dinoscendum cum relictis poculis advolassent, evenit ut in grandem inciderint admirationem, conspecto e regione maximo atque omni colorum varietate ornatissimo arcu triumphali, quem quidem Iuno coaedificarat auroque votorum conflato operuerat, tanto et operis et ornamenti artificio insignem atque illustrem ut caelicolarum optimi architecti fieri id negarint potuisse, et pictores fictoresque omnes sua esse in eo expingendo atque expoliendo ingenia superata faterentur. Alia ex parte successit ut maiorem in modum demirarentur quid sibi cumulus illic maximorum deorum intra se tumultuantium et ad caeli regiam infesto gradu properantium vellet. Ergo et illuc versis oculis et hic auribus arrecti et animis in partes utrasque solliciti pendebant. Illud interea effecit ut acrius etiam moverentur, quod vixdum eo appulerant, cum illico Iunonis illud vastum et immane tantarum impensarum opus labans corruit, cuius fragore et sonitu subincussa caeli (uti sunt aenea) convexa maximum dedere sonitum, quem ab resonantis testudinis tinnitu exceptum musici notantes ad memoriae posteritatem Iunonis illud caducum fragileque opus Tinim nuncuparunt, at postea corrupto vocabulo Irim vulgo appellarunt. Iuppiter vero ceterique caelicolae cum aliunde, tum hinc quam in omni re agenda sit ratio, mens institutumque muliebre inconsultum et penitus ineptum annotarunt; subinde re ipsa admoniti manifeste perspexere caepta mulierum eo semper tendere, ut aliquid discordiarum discidiorumque exsuscitent. Nam etsi eos inter, qui tum adventarant deos, aliquid fortasse aderat quominus unanimes et concordes essent, ad veteres tamen simultates Iunonis novissimum factum magnas contentionum acrimonias excitarat. Quas ubi ad Iovem detulissent, conversus ad Herculem Iuppiter, animo vehementer commotus, "En" inquit "et quanti est nos esse principes? Quid homines querantur nullam sibi advenire horam horae persimilem, nihil ad animi sententiam secundare? Nos et dii et rerum principes integram unam sumere coenam vacuam molestia non poterimus! Quosnam accusem? Istorumne studia importuna et insanas cupiditates an meam potius desidiosam facilitatem, qua fiat ut cum licere sibi per me omnia arbitrentur, tum et interdum plus satis iuvet delirare? Quidvis malim fore me quam principem, dum quibus praesis, quorum commodis advigiles, quorum quietem et tranquillitatem curis et laboribus tuis praeferas neque beneficii, neque officii memores in te sint, dum assiduis futilibusque expostulationibus obtundere atque variis agitare sollicitudinibus non desinant. Semperne, o meum convitium, semperne causis expostulationum innovatis me coram contendere ad simultatem perseverabitis? Quotiens vestra sedavi iurgia, quotiens a contumelia cohercui, a rixa distraxi, ab insania revocavi, quotiens hos nostros tumultus oppressi! Thetim accusabat olim Vulcanus (tritaeque iam tum vestrae hae fuere fabulae) quod splendorem lucemque omnis suae dignitatis pollueret atque extingueret. Vulcanum Diana Silvanique dii accusabant quod umbratiles suas amoenasque sedes hostili impetu immanique iniuria populare atque vastare aggrederetur. Hos accusabat Aeolus quod Zephyro et Noto et Austris et Aquilonibus ceterisque suis commilitonibus alas expilarent plumasque decerperent, quas monstris navigiorum adigerent. Aeolum accusabat Neptunus quod misceret omnia, otiumque atque aequabilitatem suarum regionum funditus perturbaret. Neptunum rursus et Thetis accusabat quod se impio hospitio exciperet nitoremque atque illibatum virginitatis florem auderet violare. Nunc et nova discidiorum discordiarumque materia oborta est: Iunonem accusat Neptunus quod votorum purgamenta aedificationisque rudera in aram neptuninam per contemptum et contumeliam eiecerit; Ceres ne suum in solum reiciantur repugnat; ea item Vulcanus negat posse commode suis in officinis apud se recipi, et harum querelarum ad me irrequieta immodestissimorum iurgia referuntur. Ego delirantibus meas patientissimas aures praebeo, isti nostra abuti patientia non cessant, nihil verentur. Quid hoc petulantiae est? Nunquamne erit ut hac vestra garrulitate mutuo vos lacessere nosque obstinate obtundere desinatis? Liceat per hanc nostram patientiam insanire, at pudeat olim de nobis demum abiecte atque impudenter sentire! Annon illud est impudentiae, quae quisque fastidiat esse apud se, ea in principis gremium velle reicere? Vota mortalium deponi recusant apud se: quo alibi ponantur non patet locus: ad me itur, expostulatur ut inde atque inde adimam. Quid hoc? An aliud est quam efflagitare ut quae illis ingrata sint, quae obscena illis videantur, quae desertis et incultissimis suis in vastitatibus excepisse nolint, ea in regium triclinium reiiciantur? O nos miseros, si impudentissimis obtemperandum sit, et infelicissimos, si his imperandum sit apud quos nulla est principis reverentia, nulla aequi, nulla pudoris observatio! Putabam me aliquando magna diligentia compositis rebus, et distributis pro dignitate imperiis, ab his praesertim molestiis vacaturum. Nunc ne id Iovi maximo rerum principi deorumque regi liceat non caelicolae modo sed, quod vix ferendum est, homunculi obstant. Sed quid ego in hanc unam pestem animantium, ne dicam homines, irascar? Hoc nimirum nostra effecit nimia facilitas: dum omnibus obsequi ultro cupimus, omnium in nos temeritatem illeximus. Dederam mortalibus, ut duras et indomitas eorum mentes nostrorum munerum admiratione mitigarem atque beneficiis ad bene de nobis sentiendum flecterem, plura longe quam optare homines sit fas. Namque principio dederam amoenissimum odoratissimumque perpetua florum copia ver. Cupere se illi quidem dixere ut quam fructuum spem flores prae se ferrent mature traderem: ea de re aestatem adieci, eique rei Vulcani fabros omniumque ignium officinam exercui, quorum manu et opera intimis ab radicibus succus in baccas educeretur atque in ramos fructumque concresceret. Quid tum? Demum saturi, fructuum copia delectari se admodum atque cupere dixerunt ut pristinum ver restituerem. Cessi quidem eorum libidini: collegi idcirco ab omni natura gignendarum rerum igniculos atque baccis quasi thesauris inclusos fovi spiritu, quo ad veris opus atque ornamentum servarentur. At improbi illi, tantorum a me acceptorum commodorum immemores, ingrati, indigni mortales ac novarum semper cupidi rerum temporumque, suique admodum impatientes, dum quae a me aut petant aut optent non habent amplius, dum ultro eis commodo quae ne optare quidem audeant, si modestiores sint, pro accepto beneficio nihil plus est quod referant quam merum odium. Nunc aestum, nunc algores, nunc ventos exsecrantur, et nos ea facere accusant quae suam in rem non sint, neque verentur dicere nos ea facere quae vesani amentesque non facerent. Sed merito accusant, nam eos prosequimur beneficiis, quos furialibus Erinnibus persequi est opus. Sed satis superque furoribus exagitantur, quandoquidem se deorum superum haeredes deputant regnique partem deposcunt. Aut quis maior inveniri potest furor quam versari in errore, trahi libidine, impelli audacia, velle indigna, appetere immoderata, suis bonis nunquam nosse perfrui, aliorum praemiis dolere, quae quidem sua secordia atque ignavia recusent refugiantque consequi? Et breve sibi datum vitae spatium condolent qui supini tam multis perdendis horis otio abutantur, et inter senescendum nihil agendo marcescunt. Morbos et aerumnas a diis importatas praedicant. De his quid est quod dicam, cum sit homo homini aerumnarum ultima? Pestis est homo homini. Tu tibi, homo, tua voracitate, tua ingluvie tuaque intemperatissimae libidinis incontinentia effecisti ut doloribus excruciere, ut morbo langueas, ut ipsum te male ferendo perdas. Dolet mortalium dementiae et mallem modestiori esse praeditos ingenio. Sed quid agam, quo me vertam? Quis ab importunissimorum catervis obsessus oportunum sibi uspiam consilium reperiat? Quis tam ferreus, tam ad omnes lacessentium impetus expositus atque obfirmatus erit, qui haec diutius perferat? Hinc altercantium inter se expostulationibus obtundimur, hinc votis, aut potius exsecrationibus obruimur. Nec tantarum molestiarum vexationumque ullus adinvenietur modus? At invenietur quidem. Quid tum? Quo fruantur mundus non placet. Hic status, haec rerum conditio gravis intolerabilisque est. Novam vivendi rationem adinveniemus: alius erit nobis adeo coaedificandus mundus. Aedificabitur, parebitur!".

Obmutuerant irato Iove ceteri omnes dii. At Momus, sentiens quid suis esset consecutus artibus in pertubandis tantopere et deorum et hominum rebus, exultabat animo sibique congratulans gloriabatur quod ex tam raro laedendi genere suas deprompsisset vindicandi facultates, quas quidem ridendo prosequeretur. Verum, ut ad suas dissimulandi artes rediret, composito ad mansuetudinem vultu, subridens "Adsis, quaeso", inquit "o Iuppiter, et quae dixero, si per tuam facilitatem licet, consideres sintne ex tua re an non. Hominum improbitate inprimis quantum videre licet offenderis, ac merito id quidem. Quis enim praeter te illorum ineptias diutius perferat? Et soleo saepe ipse mecum quaerere unde sit quod nulla re sis magis quam facilitate et mansuetudine ingratis atque immeritis homunculis parum acceptus. Sed vide par ne sit hos labores suscipere alium coaedificandi orbem ut ingratissimorum querelas fugias, vide ne id deceat tantis caeptis hominum insaniam velle habere castigatam. Tu tamen de tota re pro tua prudentia cogitabis. Quod si tandem istos voles homunculos pro sua temeritate atque procacitate multatos reddere, novi quid facto opus sit, potius quam ut tantam aedificandi rem aggrediare. Illi quidem, quod praeter cetera animantia erecto ad sidera spectanda vultu perstent, idcirco ex deorum se ortos genere praedicant et sua interesse deputant nosse quid quisque superum agat aut meditetur. Adde quod dictis factisque caelicolarum redarguendis delectantur et deorum vitam et mores censoria quadam lege praefinire atque praescribere non pudet. Quod si mihi credideris, Iuppiter, iubebis eos pedibus sursum versus et ima cervice obambulare manibus, quo et a ceteris quadrupedibus differant et manum a furtis, rapinis, incendiis, veneficiis, caedibus peculatuque absque teterrimis reliquis, quibus assuevere, flagitiis conferant ad perambulandi usum. Sed muto sententiam. Novi eorum mentes atque ingenia: pedibus ipsis furari, pedibus involare et cuncta perpetrare scelera triduo condiscent, ut nihil fieri posse commodius censeam quam ut muliercularum illis numerum ingemines. O quantum dabunt poenarum, quantos qualesque et quam assiduos cruciatus experientur! Animorum est carnifex mulier curarumque flamma furorisque incendium atque omnis tranquillitatis et otii pestis, calamitas atque pernicies. Sed hic iterum verto sententiam: deorum me superum movet ratio, nam unam admodum si addideris hominum generi feminam, tantum illa quidem ciebit malorum, tantas vexationes, tantos rerum turbines et tempestates excitabit ut non dubitem futurum quin ea, profligatis atque prostratis rebus hominum, caeli quoque fundamenta collabefactata ac penitus convulsa reddantur".

Tum Iuppiter ad Momum annuens "Siccine" inquit "Mome, etiam dum seria agantur te exhibes ridiculum?". Tum Momus: "Enimvero" inquit "recte admones: desino te ad risum et iocum verbis illicere et quod instat agam. Tu, o rerum princeps, agedum, ac si fas per tuam facilitatem est, sic sciscitari pervelim quidem intelligere tuane an deorum an hominum gratia et causa instituas novum exaedificare mundum. Ego de me hoc fateor, non is sum qui existimem habere te quippiam quod in tam pulchro absolutoque opere atque perfecto amplius desideres, neque video cur in quo perficiendo omnem diligentiam tuam, omnes ingenii vires exposueris, in eo innovando aliquid immutari posse, nisi forte in deterius arbitreris. Sin aliorum te ratio in tantis caeptis commovet et ita decresti velle illis morem gerere quorum causa haec aggrederis, scrutandas tibi primum eorum sententias censeo quorum te causa et commoditas moveat, ne forte his quibus gratificari studeas fias ingratus, tuis frustra susceptis laboribus atque impensa. Et ea in re ediscendum principio iudico cupiantne illi quidem orbem novari an corrigi, proxime intelligendum quamnam statuant futuri operis optimam esse descriptionem. Interea ad deliberandum erit aliquid dandum spatii, quo aliud sit cogitandi, aliud agendi tempus. Ceterum redarguendi ineptias, seu sint illi quidem dii seu sint illi quidem homines, semper erit tibi, ni fallor, integrum semperque patebit idem ipsum, ut possis ex sententia quicquid ad istorum poenam statuas oportere. Verum id egisse intempestive, quod mature possis facere, haudquaquam sapientis est, et omnis quidem maxima ex parte opera quae immatura est cum perditur, tum etiam laedit. Vota demum, si videbitur, poteris interea eo loci ad litoris margines exponere, quo mare ab tellure et ab his aer discriminetur. Id si feceris, erit istorum nullus qui sibi fieri iniuriam possit merito affirmare, et e medio quod amplius litigent tolletur. Adde quod eo erunt loci vota exclusa, ut ea nullibi esse possis dicere".

In hanc Momi sententiam Iuppiter facile adduci passus est, eamque dii omnes comprobavere. Itaque extremis inde litoribus ad mare vota distenta exstant, esseque vota minutas illas ampullulas praedicant quae quidem illic luculentae et quasi vitreae splendescunt. Quae cum ita essent, laeti dii ab Iove discessere. At Fraus dea, Momi dicta pensitans, quam ea quidem in se haberent vim ad animos in quamvis partem concitandos facile perspexit: miro illum callere doli artificio atque ad fingendi fallendique usum nimium posse Momum intellexit. Ea de re omnem simultatem sibi adversus Momum longe evitandam posthac indixit, atque, ut sibi adversarii gratiam conciliaret, quanta licuit arte frontem, vultum, gestum ad venustatem, affabilitatem comitatemque confingit atque conformat. Momus, veteris acceptae ab dea Fraude contumeliae memor, pro novissimo ab se suscepto vitae instituto graviter docteque scaenam agere perseverat. Longum esset referre quam se quidem quisque eorum compararit atque gesserit optimum simulandi artificem, dum arte ars utrimque illuderetur. Tandem eo ventum est ut inter congratulandum dea Fraus de Momo quaereret quisnam sibi Hercules sua lautitie et mensarum apparatu videretur, qui quidem unus deorum omnium maximum optimumque caelicolarum principem hospitio atque convivio suscipere ausus sit. Cui Momus: "En" inquit "et quid putes? Annon dignus erit Hercules quem tu Momo praeferas, quem tibi ad gratiam et benivolentiam spreto me adiungas?". Tum dea: "Siccine agis mecum, Mome? Egone tibi, quicum vetus et dulcissima est consuetudo et familiaritas, alium quempiam praeferam? Sed de his alias. Illud, quaeso, dicito: tune Herculem ipsum apud mortales noras?". Tum Momus: "Tu" inquit "demum, uti caepisti sequere, novos in dies amores secta, at Fraudi id liceat deae. Quid tum adeo? Semperne oportebit his curis et suspicionibus excruciari eos qui te plus se ament? Verum Herculem ames, Herculem agites, Herculem loquaris, Momum despexeris; num etiam ludum facies? ". Tum dea meretricias inire blanditias, et cum cetera tum illud: "Me miseram" inquit "atque infelicissimam, si quid de me venire tibi in mentem potest, ut putes me istiusmodi amantium genus cupere! Hos ego Hercules non penitus abhorrendos ducam atque fugiendos, qui quidem ingenio elati, animis tumidi, successibus gloriosi, imperiosi, importuni, omnia sibi quae eorum postulet libido deberi deputent? Vel qualem ego illum erga me futurum interpreter, qui deorum principem alienis convitare in aedibus integra condivorum cautione ausus sit? Et huic tam insolenti quid erit quod negasse tuto possim, si forte me illi dedicem? Servire id quidem esset, non amare. Sed hac in re Martis prudentiam requiro, qui adventitium caelicolam levissimumque hospitem apud se tantisper insanire possit perpeti". Tum Momus, despecta scintillula unde in Herculem posset aliquam ignominiae notam inurere, illico eam arripuit inquiens: "Non est is quidem Hercules qui non didicerit et imperare et parere, ut temporum suorum exigat ratio. Sed ne adeo quidem imperiosus est ut te eum odisse censeam". Tum dea: "Ain vero" inquit "parere didicisse Herculem? Audieram quidem istuc, sed invidia dictum rebar". Tum Momus subridens: "Et quidnam" inquit "illud est quod audieras?". Tum Fraus: "Vis me dicacem reddere, tam belle interrogando: sed non invita amanti parebo amans. Audieram Herculem hunc ipsum servisse apud mortales. An vero, mi Mome, id est uti ferunt? Quid taces?". Tum Momus gestu concitato et aspectu indignanti "En," inquit "credin me posse tuum esse ludum diutius? Convivarit Hercules, quid ad te? Lautus sit Hercules, quid ad te? Amas Herculem, ergo id ad te! Non tamen efficies ut tibi succenseam: amabo immeritam et amabo invitam", hisque dictis fronte ad simulationem iracundiae vehementius obducta sese inde subripuit. Ab se discedentem dea intuens, secum ipsa inmurmurans inquit: "Vale, Mome! Tu quidem constirpata atque abstersa barba tersior adopertiorque a mortalibus redisti quam abieras. Vale, vale!".


Liber tertius

 

 

Superiores, credo, libri rerum varietate et iocis delectarunt: fuit etiam quippiam in illis, ut videre licuit, quod quidem ad vivendi rationem et modum conferat. Qui sequentur libri nulla erunt ex parte aut iocorum copia aut insperatarum rerum eventu et novitate superioribus postponendi et, ni fallor, eo erunt fortasse hi anteponendi superioribus, quo maiora atque digniora recensebuntur. Videbis enim quo pacto salus hominum deorumque maiestas et orbis imperium fuerint ultimum pene in discrimen adducta, et hac in re tam seria tamque gravi admiraberis tantum adesse ioci atque risus.

Sed ad rem proficiscamur. Itaque indicarat Iuppiter venisse in animum sibi ut deorum hominumve causa alium vellet orbem condere. Quod quidem institutum cum maiores, tum et minores dii mirum in modum comprobabant. Nam, uti fit, ad suos usus et commoditates eam rem interpretantes, quisque sibi prospiciebat: et qui fortassis erant inter caelicolas ignobiles atque alioquin privati, facile in eam spem adducebantur, ut sibi persuaderent a rerum novarum casibus aliquid adminiculi atque occasionis ad se honestandum appariturum, et contra qui auctoritate dignitateve praestabant non posse Iovem arbitrabantur tantis in rerum motibus primorum procerum carere consilio, quo fiebat ut sibi praescriberent hanc ipsam rem ad sui status robur et firmitatem fore accessuram. Hinc minores quidem dii quibus poterant artibus suadendi apud Iovem instabant ut pro suscepto instituto rem exequeretur; tum et primates optimatesque deorum causae huiusmodi satis admodum suffragabantur tacendo et interdum annuendo: sed qua esse opus arte apud principem intelligebant, ea tum docte utebantur. Suas quidem in agendis rebus cupiditates atque affectus dissimulando obtegebant, et quae inprimis affectabant, ea levibus quibusdam verborum inditiis sibi haudquaquam satis placere ostentabant, quo eorum consilium, cum rogarentur, utilitati principis ac reipublicae magis quam privatis emolumentis et studiis accommodatum videretur. Neque praeterea deerant ex deorum optimatibus qui quidem, seu quod animi quadam integritate atque maturitate in rebus Iovis versarentur, seu quod prudentis et bene consulti ducerent plus semper in omni re putare incommodi subesse quam appareat, Iovem idcirco admonerent ut tanto in opere incohando iterum atque iterum cogitaret, ne quid in perficiundo offenderet quo tanti caeptus interpellarentur: et praecavendum quidem, cum alias ob res, tum ne facti pigeat, ne quid in experiundo invisum atque impraemeditatum irrumpat, quominus res ex sententia succedat; accedebant et ii, qui propriis commoditatibus consulentes nullam rem aliam curabant praeter id, ut Iovem a suscepto innovandarum rerum instituto amoverent. Namque Iuno, votorum affluentia facta aedificatrix, quidvis poterat perpeti magis quam hominum populos perire, huicque causae praeter Herculem, qui quidem in servandis hominibus officio fungebatur, Bacchus et Venus et Stultitia dea et huiusmodi plerique alii, quod ab mortalium numero egregie colerentur, maximopere favebant. Tum et Mars, quod Aerugine architecto struendo porticu aeneo uteretur, cui centum columnas ferreas levissime rasas et perpolitas adamantinasque tecto tegulas destinarat, Iunoni ad res hominum servandas ultro sua et studia et operas accommodabat: namque ab hominibus quidem non modo materia et huiusmodi in dies suppeditabatur, verum et quo tersissimas redderet columnas callos atque sudorem excipiebat. Ergo hi quidem dii summopere elaborabant dissuadendo, hortando, poscendo ne quid temere aggrederetur.

At Momus ipse secum, rerum tantarum perturbatione motus, "Profecto" aiebat "est quod fertur, nullam inveniri tam amplam voluptatem quae non pusilla sit, ubi tu aliis nequeas impertiri. Quanta mea haec esset voluptas, si haberem quicum possem explicare sine periculo! O me beatum, qui potui verbis adducere principem ut tantas res aggrederetur! Verum commovi hactenus, nunc impellendus est. Sed quid ago? Multorum invidiam in me comparabo. Et quid tum? Oderint illi quidem ut lubet, modo sim huic uni cordi. Is me Iuppiter dum non respuet, dum excipiet, ut facit, benigne, plus satis habebo fautorum. Vel quis est qui deliro cum principe non insaniat? At vincat, uti aiunt, malum. Ergo tu, Mome, una cum grege id suadebis fieri, quod si forte iam factum sit vituperes? Equidem et quidni? Id agam, ut quaeque placere principi sentiam, eadem quoque probare me ultro ostentem. Et quid ago? O me iterum felicissimum, qui meis artibus ita mihi rem hanc paraverim, ut regem me admodum esse caelicolarum sentiam! Quid erit posthac quod nequeat Momus, quando inieci inter proceres quo maximis inter se studiis contendant, atque ita contendant ut sic me inde habituri forte sint arbitrum? Hic igitur opus est insistam. Atqui dissentiant quidem inter se conferet, quorum erga te impetum metuas. Nam si qui horum in te insultaverint, tu ad hos alteros confugias, ubi tot conspiratores adiunges tibi quot erunt ii ad quos concesseris. Sed de his videro quae tempus feret: interea iuvat de Iovis in me gratia et benignitate melius mereri. Commitiganda quidem et commoderanda eius mihi est animi concitata ratio. Quid, si ei tradam optimas illas commonefactiones de regno quas olim apud philosophos collectas redegi brevissimos in commentariolos? Profecto, si legerit, sibi rebusque suis commodius consulet".

Haec Momus. At Iuppiter, uti est vetus quidem et usitatus mos atque natura nonnullorum, ferme omnium principum, dum sese graves atque constantes haberi magis quam esse velint, illic illi quidem non quae ad virtutis cultum pertineant, sed quae ad vitii labem faciant usurpant; quo fit ut cum quid prodesse forsan cuipiam polliciti sunt, in ea re apud eos minimi pensi est fallere, et fallendo perfidiam et perfidia levitatem atque inconstantiam suam explicare cognitamque reddere; cum vero molestos nocuosque se cuivis futuros indixerint, omni studio et perseverantia libidini obtemperasse, id demum ad sceptri dignitatem regnique maiestatem deputant; itaque in suscepta iracundia plus dandum pertinaciae quam in debita gratia retribuendum fidei statuunt. Sic hac in re Iuppiter neque odia dediscere suo cum animo neque non meminisse iniuriarum apud alios videri cupiebat, sed cum nullam inveniret novi condendi mundi faciem atque formam quam huic veteri non postponeret atque despiceret, cumque intelligeret se initam provinciam satis nequire commode per suas ingenii vires obire, instituit aliorum sibi fore opus consilio. Sed ita peritorum sensus et mentes captare affectabat, ut si quid forte dignum laude a quoquam in medium exponeretur, nullos inventori honores aut gratias deberet, sibi vero invidiam hanc novandarum rerum inventi gloria pensaret. Idcirco unum olim atque alterum deorum quos esse acutiores opinabatur atque inprimis Momum, quem unum multo praestare ceteris omni laude ingenii existimabat, detinebat verborum ambagibus atque cum his flectebat sermones longa insinuatione, quoad illecti quid de tota re sentirent expromebant. Nullos inveniebat quorum industriam probaret, ingenio perquam paucissimi excellebant, rari qui cogitandi labores et investigandarum rerum studia non refugerent: omnes tamen ita se gerebant ut eos facile intelligeres videri velle apud Iovem plus sapere longe quam saperent. Sed cunctorum una ferme erat sententia, ut quos apud mortales omnia nosse praedicant, philosophos, consulendos assererent: illos quidem complura de his rebus maximis et gravissimis solitos cum mandare litteris, tum in dies accuratissime pervestigare, et nihil esse rerum omnium de quo non audeant propalam disceptare; valere quidem ingenio et suarum artium cultu ut, si curam et diligentiam adhibeant, facile omnem difficultatem absolvant.

Cum audiret Iuppiter philosophos tantopere universo a caelo comprobari, non facile dici potest quam eos desideraret coram congredi et colloqui. Quod ni superiorem invidiam nova invidia coacervare esset veritus, fortassis adducebatur ut omnes illas philosophantium catervas cuperet inter deos caelicolas asciscere, quo deorum senatum tam illustrium patritiorum splendore ornatissimum redderet, sibique prudentissimorum consilio imperii sui rationes communiret. Vicit tamen quod in mentem venit non esse ex usu ut eos haberet apud se quibus non imperandum, sed ob insignem gravitatem atque dignitatem esset obtemperandum, habendos quidem apud se eos praesertim a quibus observari se metuique sentiat, non quos vereri oporteat. Accedere et illud, quod eos recusaret qui se recte facere edocerent, et eos sibi dari cuperet qui quaeque ipse ediceret facere non recusarent. Quae cum ita essent, diu multumque deliberabat quemnam ex suis ad philosophos consulendos mitteret: qua in disquisitione facile sensit quam non bene secum ageretur, dum nulli tam multos inter suos familiares adinvenirentur quorum posset opera praeclaris in rebus uti. At doluit quidem suos omnes tam esse omnino rudes atque imperitos ut nihil bonarum artium tenerent, nihil homine dignum nossent praeter id quod longo servitutis usu didicissent: id erat ad regiam lauto apparatu esse, ad principem assistere, appellentes arte quadam plaudendo excipere, confabellari, assentari, detinere, ut iam eos omnes cuperet ab se mittere atque amovere. Sed novos deligere quorum sibi essent mores ignoti minime conducere suis inceptis arbitrabatur. Idcirco, ne hac praesertim in re quam esse penitus occultissimam cuperet sese aliorum fidei atque taciturnitati committeret, instituit posito regio fastu solus atque ignobilis mortales adire philosophos tum consulendi, tum multo etiam visendi gratia. Sed prius, quo praestantissimorum philosophorum nomina, notas, effigies sedesque condisceret, habuit apud se Momum et quantum potuit quae ad rem facerent longis sermonibus expiscatus est. At hos inter sermones incidit ut de sinu Momus parvas tabellas Iovi porrigeret his dictis: "Fides amorque quo in te affectus sum, Iuppiter, efficit ut meas ipse partes duxerim aliquid studii et operae in tuis servandis atque augendis rebus exponerem, quoad id possem: idcirco ea sum aggressus cogitatione et meditatione quae ad imperii tui decus et dignitatem spectare arbitrabat. Tu ea, cum tibi erit otium, ex istis tabellis quibus mandata sunt cognosces, hac lege, ut quaeque tibi in his prudentiae partes minus satisfecerint, eas tu fidei acceptas referas".

Susceptis Iuppiter tabellis et ab se misso Momo, tabellas ne aperuit quidem sed neglectas reiecit in penetrali, seque ad iter accinxit animo admodum alacri et prompto. Sed istiusmodi obivisse peregrinationem postremo tulit ingrate: namque ut primum ad mortales appulit, in Academiam forte ingressus, complures illic variosque mortalium repperit huc et illuc et omnes per angulos vagando quaeritantes ac si abditum aliquem noctu comperisse furem elaborarent. Quos adeo sollicitos intuens Iuppiter obstupuit ipsoque in gymnasii vestibulo haesitavit. Mox ubi eos vidit lucilucas musculas blacteas inter digitos gestantes atque his quasi in umbra positis pro igniculis utentes risit, quoad ex quaeritantibus quidam "O" inquit "insolens, ne tu et nostrum Iovem philosophorum percontatum accessisti!". Tum Iuppiter "Et quemnam" inquit "perconter?". Tum illi "Platonem" inquiunt "naturae monstrum, quem quidem hoc esse in gymnasio certo scimus, sed quo eum comperisse loco detur non habemus. At eius interdum audire visi vocem sumus interdumque eius ob oculos facies obversari credita est: verum ille nusquam minus. Sed quid agimus? Heus, et tua ubinam luciluca est?". His verbis Iuppiter in suspicionem incidit atque pertimuit ne ii, quos omnia etiam occultissima nosse sibi persuaserat, ludicra istac veluti scaena exprobrarent sacrum ab se deorum insigne fore ita contectum ut cum adesse coram deus intelligeretur, tamen nusquam satis dinosceretur. Idcirco illinc secedens iam tum accusare initam profectionem suam incipiebat. Interea sensit seducto quodam in viculi spatio intra putridum reiectumque dolium multo hiatu oscitantem quempiam seque versantem; quo cum appulisset propius et in dolio coactum hominem in globum demiraretur, accidit ut solis radios qui adinfluebant interciperet. Ergo inclusus ille torvis oculis tetraque voce increpans "Appage te" inquit "hinc, o insolens spectator! Si dare potis non es, ne adimito solem". Tum Iuppiter, tanta abiectissimi hominis acrimonia concitus et rerum quae ageret prae indignatione oblitus, "Tibi" inquit "aeternum si velim solem dabo atque rursus adimam". Haec ille cum audisset, caput e dolio quasi testudo proferens multa caepit conclamitare voce: "Accurrite, adeste populares" quoad multitudo artificum advolavit. "Hunc" inquit "Iovem comprehendite, atque cogite ut puteos atque cuniculos vestros sole oppletos reddat". Hic Iuppiter, superiores Momi deaeque Virtutis casus repetens, nihil erat malorum quod non ab insolenti quae circum irruerat multitudine exspectaret, beneque secum actum deputabat si nihil plus quam dimidia multatus barba tam inepti consilii sui poenas lueret. Hunc ita perterritum et titubantem intuens ex his qui congruerant unus paterfamilias, homo sane frugi, "O" inquit "hospes, sine hunc cynicum philosophum dignam se vitam degere, quandoquidem nihil sibi esse rerum omnium relictum velit, praeterquam ut possit omnibus maledicere et mordere". At Iuppiter, ubi hunc esse philosophum intellexit, nimirum ad conceptum metum addidit novam suspicionem, istic se quoque agnitum existimans. Ergo nihil sibi antiquius ducit quam ut consertissima ex plebe se illico proripiat atque abducat.

Itaque secedens, procul respectat quempiam mediam in convallem sub pomeriis urbis obscena inter animantium cadavera considere atque cultro hos atque hos, seu canes seu mures, concidere atque praesecare. Id sibi cum visum esset opus partim mirabile, partim ridiculum, procedebat ut rem cognosceret. Eo cum propius accessisset constitit. At homo Iovis adventu nihil commovebatur, sed a finitimis laribus interim subaudito mulieris cuiusdam eiulatu, quae filii mortem deploraret, ab secandorum animantium opere paululum destitit, atque Iovem despectans et subridens "Num tanti est" inquit "velle quod nequeas?". Id dictum Iuppiter non, ut erat, in eam dictum, quae filium forte immortalem fore optasset, sed in se dictum pensitavit. Et discedens "Quid hoc mali est" inquit "apud mortales? Ne vero et stulti etiam philosophantur!". Iamque decreverat ad superos redire, ne quid gravioris incommodi subiret.

Ex urbe igitur excedenti evenit ut cum prope vallum atque sepem horti cuiusdam pervaderet sensisse visus sit nonnullos intus disceptantes de diis et maiorem in modum altercantes. Adstitit. Hic altercantium unus elata voce forte sic dicere aggressus est: "Ut intelligatis quid sentiam, hoc affirmo, rerum orbem non factum manu, neque tanti operis ullos inveniri posse architectos: immortalem quidem ipsum esse mundum atque aeternum; et cum tam multa in eo divina quasi membra conspiciantur, statuo totam hanc machinam deum esse. Si ullus in rerum natura deus aut mortalis aut immortalis est, qui vero contra periturum mundum opinetur? Num is insanire quidem deum posse putabit, an ipse potius insaniet, ubi non conservatorem tantorum tamque absolutorum operum deum, sed peremptorem futurum possit arbitrari?". Alius contra "At ego" inquit "sic censeo, infinitos in horas concrescere atque consenescere capacissimum per inane mundos minutissimis corpusculis concurrentibus atque congruentibus". "Num tu" inquit alius "deos tollis? Cave te esse ita impium sentiant: sunt enim omnia plena deorum".

Haec audiens Iuppiter obstupuit atque non satis, prout sua ferebat suspicio, demirari poterat unde in hoc genus hominum tantum cognitionis incessisset ut se post sepem et vallum abditum et delitescentem agnoscerent. "Non igitur est" inquit "ut hic tuto diutius esse possim apud mortales", caelumque idcirco petiit, tanta de philosophis imbutus opinione, ut incredibili arderet cupiditate ediscendi quid demum docti illi pro suis institutis rebus decernerent; neque dubitabat illos quidvis rerum obscurissimarum atque difficillimarum nosse et posse, quorum tam praeclara in se dinoscendo exempla spectasset, et hanc opinionem augebat quod in Academia vidisset ex quaeritantibus illis aliquos nitenti barba et lauto apparatu, fluenti ab humeris purpura, leni incessu, commoderatis oculis obambulare ut eos caelo dignos et deorum habendos magistros existimaret. Sed pro instituto, cum operis gloriam sibi concupisceret et id suo se ingenio assequi non posse animadverteret, commento ad eam rem usus est eleganti. Namque accito Mercurio edicit uti ad se Virtutem deam ab inferis deducat: dedecere quidem tam insignem et praestantissimam dearum in tantis rebus agendis non accivisse. Neganti Mercurio deam male a superis diis atque inferis acceptam et ea fortassis de causa latitantem facile posse comperiri, "Apud philosophos illos tuos" inquit Iuppiter "ni fallor, invenies, qui se totos illi dedicarunt". Tum Mercurius "Cave" inquit "o Iuppiter, ullos inveniri posse putes tam vanos atque mendaces. Ut rem teneas, de illis ipse nonnumquam, quod Virtuti afficior, quaesivi eamne deam viderint: illi eam quidem apud se perquam familiarissime diversari deierant, at demum dea nusquam minus". Tum Iuppiter "Tu tamen" inquit "abi et percontare, sic facto opus est". Sed ita agebat Iuppiter quod norat quam esset quidem Mercurius curiosus quamque novis in dies iungendis hospitiis paciscendisque commerciis delectaretur, quo futurum prospiciebat ut lingulax deus aliquid a peritissimis philosophis acciperet, cum de rebus deorum quae sciret et quae nesciret omnia suo pro more conferret, et id quidem peropportune ad suas institutas res fore ut referret.

Interea apud superos studia partium tantas in simultates et factiones excreverant ut omne caelum non minus quam tris esset in partes divisum. Namque hinc Iuno, quae aedificandi libidine insanibat, quam poterat maximam suarum partium vim et manum et bonis et malis artibus cogebat ad hominumque salutem tuendam instruebat; hinc contra turma illa popularium et eorum quidem quibus non ex sententia cum statu rerum suarum agebatur sponte congruebant, sed immoderatam rerum novandarum cupiditatem qua flagrabant studio gratificandi deorum principi honestabant. Medium quoddam tertium erat genus eorum qui cum ignobilis levissimique esse vulgi caput grave et periculosum putarent, tum et cuiquam privatorum subesse recusarent, contentionum eventum sibi etiam quiescentibus exspectandum indixerant, ea mente, ut in quamcumque visum foret partem tuto attemperateque prosilirent suisque motibus rem quoquo versus vellent ex arbitrio traherent. Hi demum omnes apud Iovem unam eamdemque rem sed variis diversisque causis et rationibus poscentes instabant: alii enim ut pro exspectatione succedentibus rebus congratularentur, alii ut rebus non ex sententia succedentibus mature providerent, alii ut occasionibus praestitis attemperate uterentur. Id autem erat ut olim quid de orbe innovando Iuppiter statueret enunciaret.

Quae cum ita essent, Iuppiter, ut molestam odiosamque ab se assiduitatem sollicitantium excluderet, fretus inprimis legatione Mercurii, qua sibi persuaserat futurum ut apud rude vulgus deorum multum gratiae et gloriae pulcherrimo aliquo philosophorum invento assequeretur, edicit proximis caelicolarum kalendis se concionen habiturum et quae decreverit explicaturum et omnibus deorum ordinibus satisfacturum. Sed haec Iovem spes de Mercurio multo fefellit: nam cum adivisset Mercurius terras et positis talaribus Academiam, philosophorum officinam, peteret, evenit ut Socratem philosophum ipso in angiportu solitarium offenderet: quem cum nudis vidisset pedibus et trita veste adstantem, ratus plebeium quempiam, eo ad hominem se fronte qua erat liberali et indole nimirum divina confert. "Atqui heus" inquit "homo, ubinam ii sunt, apud quos viri et docti et boni fiunt?". Socrates, ut erat mirifica praeditus affabilitate et comitate, peregrinum conspicatus adolescentem forma egregium facieque insignem, pro innata sua consuetudine caepit callida illa qua assueverat disserendi ratione alios ex aliis elicere sermones, quoad et qui esset Mercurius et qua de re appulisset et quid superi pararent omnia exhausit. Interea ex Socratis auditoribus unus et item alter accesserat, quos cum non paucissimos pro re agenda Socrates adesse intellexisset, manum in Mercurium primus iniecit, atqui "Adeste" inquit "familiares! Apprehendite hunc, alioquin indole nobili et liberali praeditum, sed inaudita incredibilique insania laborantem. O deterrimam hominum conditionem! Quam multos habet ad nos perturbandos aditus insania! Quid ego nunc querar furere alios amoribus, odiis, cupiditatibus, libidinibus, quid hoc? Hic se esse Mercurium praedicat et ab Iove demissum Olympo ut Virtutem quae ab caelo exulet deam pervestiget ubinam sit, ac parasse quidem caelicolas orbem rerum evertere et eum cupere innovare. Quis hic furor est?". His auditis, qui Mercurium prehenderant in maximos risus exciti cum negligentius Mercurium observarent, Mercurius, ut erat pedibus celer, ipsum se eripuit fuga et casu devenit in viculum ubi intra dolium Diogenes inhabitabat, quo in loco seducto et arbitris vacuo ab cursu fessus constitit. Interea improbus quidam lenonis puer adiecto fuste quem manu ebrius gestabat Diogenis dolium putre et vetustate penitus confectum multa vi illisit atque confregit, at mox inde conspectu evolavit. Ea contumelia percitus Diogenes, quasso ex dolio prosiliens, cum alium neminem praeter Mercurium videret, rapto eodem quo esset lacessitus fuste, sedentem petiit. Mercurius atroci et insperato insultu absterritus voce maxima caepit popularium opem atque auxilium acclamitare, et in Diogenem versus, qui se inter acclamandum percussisset, "Siccine" inquit "in liberum hominem atque immeritum facis iniuriam?". At Diogenes contra "Siccine tu" inquit "a servo tibi iusta atque emerita rependi doles? Tu impure, tu sceleste, tu iniustus exstitisti, qui quidem quietum lacessere, qui domum diruere, qui ex laribus sedibusque detrudere insontem non sis veritus. Tua est, adeo tua haec intolerabilis iniuria: nam meo quidem in facto non iniuria sed error est, nam cervicem quidem, non quam incussi genam petebam fuste". Ad Mercurii voces pauci accursitarant; hi, re intellecta, hortati sunt ne in philosophum istiusmodi esset iratior. Dehinc, ad Diogenem versi, redarguendo his verbis usi sunt: dedecere quidem qui se philosophum profiteatur non temperasse iracundiam, et quam rem in hominum vita tantopere improbent eam ab se non habere alienam flagitium esse; postremo addebant nihil esse turpius quam egenum et destitutum hominem per impatientiam delirare. At contra Diogenes "En" inquit "admonitores audiendos, qui mea in causa eum velint esse me qui ipsi in aliena non sint: meum tu me iubes dolorem ferre patienter, cum alienum tu ne feras quidem moderate".

Ergo Mercurius decedens sic secum stomachabatur: "Hisne credam qui asserant illud hominum genus fore sapientissimum quod litteras tractent, qui re ipsa sint stultissimi? Mirabar quidem si una cum sapientia tantum posset odium sui persistere. Nudi ambulant, sordide vivunt, doliis habitant, algent, esuriunt. Quis eos ferat, qui sese non ferant? Sibi omnia denegant quae ceteri concupiscunt. Ne vero is non furor est nolle rebus perfrui quae ad cultum, ad victum faciant, quibus ceteri omnes mortales utantur? Quod si plus ceteris in ea re sapere se arbitrantur, superbia est, stultitia est, ut eos aeque errare aliis in rebus, quas nosse profiteantur, deputem. Quod si se reliquis esse hominibus in urbanitatis officio similes recusant, exsecrabilis quaedam eos incessit feritas atque immanitas. Sed istos sordidissimos sinamus esse miseros, quoad invisa istiusmodi philosophandi ratione vitam degant illepidissimam. Hisque dictis rediit ad superos, Iovemque salutans subridens inquit: "Qui aliorum sensus et mentem indagaturus accesseram, inveni qui mea secreta omnia exhausit". Mercurium Iuppiter et tam cito et liventi cum gena redisse advertens remque percontatus, non facile dici potest ex istius peregrinatione plusne voluptatis an tristitiae exceperit: voluptati quidem fuit ridiculam totius peregrinationis historiam intelligere, dolori vero fuit quod penitus nihil pro exspectatione factum sentiebat. Sed cum satis Mercurium esset allocutus et non cessaret Mercurius omni dictorum contumelia philosophos prosequi, "Vide" inquit Iuppiter "ne tua verborum intemperantia tibi vitio sit atque effecerit ut quos vituperas, hi meritas abs te poenas desumpserint. Novi quid dicam: plus sapiunt illi quidem rerum occultarum quam opinare. Quid, si praesenserint suis investigandi artibus te, Mercuri, esse eum qui se apud me insimulare levitatis assueveris?". His dictis Mercurius animo factus perturbatior e Iovis conspectu sese abdicavit. At Iuppiter, suarum rerum statum repetens, in tanta consiliorum inopia qualecumque in mentem incidit consilium arripuit. Apollinem, quem unum omnium deorum sapientissimum et sui cupidissimum habebat, amotis arbitris apud se habet et admonet quaenam sibi rerum difficultates instent: non multo abesse kalendas praestitutas; quid senatui populoque deorum ex edicto referat deesse: demum cetera omnia, praeter suam Mercuriique peregrinationem ad philosophos factam, explicat. Postremo rogat uti quam possit opem atque auxilium suis iam prope afflictis rationibus afferat. Omnem Apollo in tuenda servandaque principis bene de se meriti maiestate pollicetur curam, operam atque industriam adhibiturum, modo tantis rebus agendis valeat ingenio, fidem vero et diligentiam profecto non defuturam neque ullum pro commodis et emolumentis Iovis recusaturum se laborem, pericula, difficultates. Illud videat, ne quod se velit facere, id cum iis conveniat quae sibi in mentem venerint. Nam versari quidem apud mortales genus quoddam hominum, qui philosophi nuncupentur, quorum sint plerique ausi novas atque inauditas commentari formas orbis: hos se aditurum et consulturum, neque futurum ut vereatur in dubiis rebus eos consulere, qui bonis artibus et disciplinis innitantur. Amplexatus Apollinem Iuppiter atque exosculatus, "Nunc" inquit "resipiscere a maximis animi curis per te incipiam, o Apollo. Novi solertiam, novi et vigilantiam tuam: omnia de te spero quae huic causae opportunissima accommodissimaque sint. I, sequere, faciam quidem ut sentias te adversus memorem accepti beneficii functum fuisse officio". Tum Apollo, se accingens ad iter capessendum, "Agesis" inquit "aliudne me velis?". Tum Iuppiter "Recte" inquit "nam est apud mortales Democritus quidam minutis animantibus caedendis nobilis; sanusne an insanus sit, varia est opinio: sunt qui philosophum, sunt qui delirantem praedicent. Pervelim fieri certior quanti homo sit". Tum Apollo: "Tantumne hoc est, quod cum maxima novandi orbis cura apud te conveniat? Sed rem expediam: hicque tibi iam id inventum dabo". Ergo sua ex crumena, qua sortes inerant, hos eduxit versiculos:

Quae tamen inde seges terrae, quis fructus apertae?

Gloria quantalibet quid erit, si gloria tantum?

Lectis versiculis, "Omnium hic" inquit "stultissimus est mortalium". Subrisit Iuppiter. "Atqui adsis" inquit "sortem iterato educito et spectato sitne itidem quem dixero sapiens an insipiens". Eduxit Apollo hos alteros versiculos:

Scire erat in voto damnosa canicula quantum

Raderet augusto.

"Ergo" inquit "omnium is quidem sapientissimus est". Hic vehementer arridens Iuppiter "O te" inquit "ridiculum! Et quasnam sortes esse has tuas dicam, quae ex stultissimo tam repente queant sapientissimum reddere Democritum? Neque enim alium appellare succurrebat?". Tum Apollo "At" inquit "in promptu est quo haereat res. Sic interpretor: sciscitanti Apollini, cuius est diem illustrare, sortes diurnum qualem se habeat Democritus hominem decantarunt. At subinde Iovi, cuius praeter id quod aliis impertitus sit, sua sunt reliqua omnia, qualem aeque se Democritus reliquo habeat tempore sortes liquido explicaverunt, ut sentire nos hic oporteat hominem hunc noctu sapere perpulchre, eundemque interdiu insanire". Risere atque abiit Apollo.

Iuppiter vero plenus spei per alacritatem kalendas exspectabat. At cum ipsae advenissent kalendae et in arcis atrium dii cum solemnium causa, tum et concionis ineundae gratia laeti frequentes venissent, Apollo vero nusquam appareret, incredibili maestitia Iuppiter affectus prope contabescebat. Iam Fata, quorum erat muneris sacros curare ignes, facere pro more aggrediebantur. Alia ex parte confertissimi dii poscebant ut ab Iove concio indiceretur, cuius ergo inprimis acciti convenissent. Ille vero, quod esset nihil commentatus, ad tantam de se exspectationem progredi refugiebat, sed praescriptam de concione habenda legem suo facto rescindere neque ex gravi principis officio, neque ex sua re ducebat esse, quod intelligebat quanti sua intersit minime volubilem minimeque variabilem haberi Iovem quantumque conferat eos qui rem publicam moderentur ita sua omnia quadrare, ut sic dixerim, instituta, ut in recto aequabilique consilio facile acquiescant. Ergo ut aliquid rerum agendarum festinantibus interiiceret atque intermisceret, quo interea deorum desideria ab causa hac sibi difficili et gravi diverteret et distineret, imperat Fatis solemne incohent: mox se adfuturum atque cetera expediturum. Itaque stant Fata lautissimo habitu manu postes attinentes ac deorum dearumque ingredientium ordines recensent igniculosque flamines, quos deitatis exstare ad verticem insigne dixeram, caelicolis instaurant. At Iuppiter interea inter cunctandum secreta obclusus aula sollicitudinibus curisque obruitur. Tandem egressus potius ut aliquid ageret quam ut quid ageret intelligeret, se in templum infert. Illic solemne rite ac pro vetere more sanctissime peracto, dum senatus deorum Iovem salutatum aggrederetur, unus ferme maximorum principum, Apollo, desiderabatur: erant idcirco qui Apollinis contumaciae succenserent. Iuppiter neque purgare absentem neque moderate pati obtrectatores, et dici non potest quam perplexe sese agitaret animo atque in omnis partis haesitaret. Tandem incidit in mentem ut Momum regem institueret senatus comitiorumque principem faceret, non quo illum tantis honoribus dignum censeret, verum ut ostenderet audacibus ambitiosisque nonnullis deorum se ad illos augendos atque ornandos ultro omnia sponteque velle conferre qui quidem non imperare, sed obsequi et gratificari didicissent. Itaque iubet in comitium classes deorum immittat ordinibusque universos considentes habeat, apudque populum verbis Iovis ita agat: cupere quidem Iovem quae ageret quaeve meditaretur omnia omnibus vehementer placere et decresse quidem singulis, quoad in se sit, morem velle gerere; quae res cum ita sit, adductum se ut priusquam suam proferat sententiam optet fieri certior ex tota mundi congerie sitne quippiam quod velint servari ad novum opus integrumque transferri potius an funditus velint everti universa atque perfringi. Tum et de tota re edicit ut quid quisque cum suis, tum communibus rationibus conducere arbitretur licenter aperteque disputent: non affuturum se in concione utili consilio, quod cavisse velit ne qui forte humiles dii et in publicis insueti praesentiam regis vereantur ac perinde dicere quae sentiant retardentur. Haec mandata maximarum insperatarumque fuere perturbationum causa. Quam rem futuram Momus, ut erat acutus atque ingenio excitus, fortassis animo praesagibat, sed Iovi, cui iam pridem suum dedisset consilium inscriptum tabellis, sollicitare novissimis admonitionibus non audebat; tamen conferre arbitrabatur quoquo pacto Iovem ab inconsiderata innovandarum rerum libidine interpellaret. Idcirco "Si tuam per facilitatem" inquit "licet, Iuppiter, quaeso: tabellasne, quas pridie a me accepisti, legistin?". "De his alias" inquit Iuppiter "colloquemur: nunc quod instat agito". Tabellas Iuppiter ne sibi quidem traditas meminerat.

Ardentem alacritate concionem offendit Momus et studio rerum novarum obsequentissimam adeo ut vix crederet tam volentes et lubentes obtemperare; sed illico ut caepit mandata Iovis explicare et se regem senatus concionisque principem gerere, sensit tantam in singulis animorum fieri commutationem ut ad vultus frontisque tristitiam addi amplius nihil posset. Non est ut referam quantum invidiae ob id adversus Momum, quantum querimoniarum adversus Iovem insurrexerit et apud proceres et apud infimos plebeios: nullorum erat oculis aspectus Momi non gravis atque invisus, Momi verba omnibus molesta, Momi facta singulis infensa, quin et tantum flagrabat odii in Momum ut se in faciem sentiret exsecrari, et quoquo versus vertebat oculos, illic spectabat explodentes et contumeliosum quippiam ad sui fastidium gestientes. Qui tum omnes etsi ita essent animati ut vix a Momo refractis subselliis impetendo manus continerent, tamen sese ab iracundia Iovis maximi metu revocabant atque cohercebant.

Tandem rogatus primam dixit sententiam Saturnus voce ita suppressa, verbis ita raris gestuque ita defesso ut potius conatum loqui quam locutum diceres: pauci reliquum sonitum vocis immurmurantis excepere, aliqui tamen ferebant Saturnum dixisse se quidem petere ut suae senectuti veniam darent si quid minus orando posset, quando et latera et pectus quassum et imbecille haberet attritis consumptisque viribus senio. Proximo loco Cybele, deorum mater, rogata, diu nutans oreque admodum pro vetularum more irruminans, cum satis diuque suos respectasset ungues, "Enimvero" inquit "de his rebus gravissimis atque rarissimis cogitasse oportuit". Tertia fuit Neptuni sententia: is quidem, acri voce atque aspero tono tragicoque quodam dicendi more sententiis tritis et locis communibus late diffuseque vagatus, quidvis aliud potuit videri velle dicere quam quod ad rem qua de agebatur ulla ex parte pertineret. Successit Vulcanus, et is quidem suam omnem orationem hac una in re consumpsit, ut affirmaret vehementer admirari se quidem quod sint in deorum numero plurimi tanto praediti ingenio ut de rebus his quorum gratia convenerint docte atque erudite norint disseruisse. Mars vero, cum ad se ventum esset, nihil plus habere se quod pro re diceret affirmavit quam ut polliceretur accinctum paratissimumque arbitrio imperioque Iovis Martem affuturum et praestaturum quidem operas demoliendo convellendoque mundo. Plutonis oratio avaritiam sapere visa est, quod se habere attestatus sit modulos novissimi operis perquam pulcherrimos quos proferret, modo quid prius paciscerentur: suos enim labores atque industriam nullis propositis praemiis decresse non condonare. Hercules, praestita occasione ut diu multumque praemeditatam orationem de suis laudibus tam celebri tamque in confertissima concione recitaret, sibi haudquaquam defuit: sua gesta magnifice extulit et grandia de se in posterum pollicitus est; demum de tota re se ad Iovis sententiam referre dixit. Venerem risere dii quae excogitasse nova quaedam miri artificii deierabat, ni paululum quippiam totam rem plurimum impediret: sed optimum rerum magistrum, speculum, consulendum. Diana inventuram se optimum quendam architectum pollicita est, sed negare id genus artificum velle imperitis censoribus subesse, ne quod arte ab se elaboratum sit alii, ut aliquid fecisse videantur, mutando vitient atque depravent. Iunonem callidiorem putarunt, quae plures fieri mundos variis formis suadebat et hos atque alios habendos ad satietatem. Cum autem ad Palladem ventum est, ea, uti ex ante composita constitutaque scaena cum Iunone ceterisque illarum partium conspiratoribus convenerant, se habere enuntiavit quae cum Iove ipso de his rebus conferat, at, quibus mandatum negotium erat, unus et item alter deorum prae constituta inter se arte et fraude magnis vocibus redarguere eiusque superbiam increpare, quae tantos deos totamque concionem indignam putet cui pro communi utilitate meditata communicet: illa altercari: hinc ex ordinibus plures studiis partium excitati in convitia conveniunt, inglomerantur, constrepunt: quem tumultum atque ordinum perturbationem spectans Momus, supra quam ceteri omnes voce illa sua boanti hos atque hos increpans, ita conclamitabat ut solus ipse tanto ex comitio audiretur. At cum sedare tumultuantem concionem iterum atque iterum frustra temptasset, commotus facti obscenitate excanduit, quoad plurima per iracundiam dixit immoderate, inter quae excidit ut diceret non iniuria apud mortales veteri sanctissimoque more et lege observari ut publicis abigerentur excluderenturque mulieres. Addidit his etiam Momus ut diceret: "Etenim quaenam temulentissimorum lustra his convitiis comparabimus?". Quae dicta ab tota concione audita cum animos cunctorum iam tumidos atque indignatos offendissent, ut erant iam tum primum concepto odio irritati, "Siccine" inquiunt "Momus hic sua cum demorsa barbula ab exilio erit restitutus ut nostram ad ignominiam novus exsistat censor?".

Hunc concionis animum intuens dea Fraus, tempori inserviendum rata, ad Iunonem advolat, monet, hortatur belluam hanc nimia licentia insanientem atque temere insultantem coherceat. Itaque Iuno, sponte sua iam pridem satis in Momum commota, nunc deae Fraudis impulsu concita, sese praecipitem ad facinus inauditum dedit. Reiecto enim pallio "Adeste" inquit "matronae; tuque, Hercules, huc ocius trahe Momum: sic soror et coniunx Iovis imperat". Paruit haud invitus Hercules, Momumque in hunc atque in alterum manuque voceque sese agitantem per capronosum illud quod fronti imminet sinciput prehensum, ut erat praepotens, ita suum in dorsum reiecit ut resupinum contorto collo ad Iunonem quasi truncum apportaret. E vestigio innumerae iniectae manus misero. Nihil plus dico: Momus quidem mulierum manu ex masculo factus est non mas omnique funditus avulsa virilitate praecipitem in oceanum deturbarunt. Inde Iunone duce ad Iovem properant iniuriisque deploratis efflagitant ut aut publicum ipsum odium Momum releget aut universum dearum populum in exilium abigat: non posse quidem deas matronas tuto his in locis degere ubi funestum exitiosumque id monstrum versetur; qua de re etiam additis lacrimis obtestantur ut malit unius consceleratissimi poena tot suarum necessitudinum et optime de se meritarum precibus salutique consulere quam perditissimi unius gratia omni de caelo duriter mereri.

Id Iuppiter, etsi facti exemplum magis quam factum ipsum non probaret, tamen ne non concedendum quidem multitudini statuit quod tantopere affectaret atque exposceret. Semper enim multitudinis motum atque impetum fuisse reipublicae periculo ni comprimatur, et alium non adesse comprimendi modum nisi ut obtemperetur. Tum aliqua item ex parte eam rem ita cecidisse ferebat minime moleste, maxime quod gravi illa esset hoc pacto sollicitudine factus liber qua non mediocriter angebatur, cum non haberet quid concioni exspectanti se dignum referret. Ergo cum annuisset garrientiumque muliercularum strepitus quievisset pauca de rixae istiusmodi indignatione succinctis verbis perstrinxit, ac se eam quidem perdendi Momi libidinem in tales tamque multas sibi coniunctissimas et carissimas incidisse ait dolere magis quam ut audeat improbare: illud maluisse factum non impetu, non praecipiti consilio cum multas alias ob res, tum ut liceret pacata et quieta concione frui, quoad quid instituisset commonefaceret; sed quando per Momi calamitatem, ne dicat per suorum immodestiam, id non liceat, ducere ait se commodius non agere id nunc quod decreverat, et non invitum velle supersedere quando videat commotos et perturbatos procerum animos; sed propediem ad senatum de tota republica relaturum quae excogitasset utilia et admodum necessaria.

Et cum tandem ex aula egrederetur indomitus ille feminarum vulgus, casu fit illis obviam Apollo a mortalibus rediens; quem cum vidissent, quod et vatem et praeclarum futurorum coniectorem putarent, non sine causa consulto abfuisse a tumultu interpretati sunt. Ideo innutantes "Hui" aiebant "improbe, quam solus sapis, quam belle scisti uti foro et vitare illepida!". Fiebat idcirco ad Apollinem concursus iamque ad vestibulum adstabant pressi, quod multis exeuntibus atque redeuntibus constiparentur. Quam inter frequentiam forte aderat et dea Nox, quae una furtis faciundis mirifice delectatur et in ea re ita scite perdocta est ut vel oculos Argo, si velit, furari possit. Ea ut pendentem ab Apollinis latere crumenam sortibus turgidam animadvertit, ita abstulit ut id facinus omnes penitus latuerit. At Apollo, salutatis his atque his, intellectaque concionis historia, laetabatur cum ceteras ob res, tum quod in rem Iovis cessisset. Eoque admodum exhilaratus ad Iovem ingressus, quod minime rebatur, tristiori quam erat par exceptus est fronte ab Iove. Etenim Iuppiter ceteris amotis: "Et quidnam tam sero tardusque redisti?". Tum Apollo "Nihil habui rerum" inquit "aliud quod agerem, quam ut tua sedulo matureque imperia exequerer. Sed me illi ad quos accessi philosophos, dum ita instructi sunt ut nihil expromant rerum reconditarum nisi id sit maximis verborum involucris implicitum, longis ambagibus detinuere invitum quidem, tamen eos audiendos putabam, quando exspectationi tuae omni diligentia studebam satisfacere. At sunt profecto ad unum omnes verbosi. Unum excipio Socratem, nisi forte quibusdam minutis interrogatiunculis interdum quasi aliud incohans vagetur: qui tamen, utcumque est, mihi semper visus est frugi illique volens favi fudique in eum tantum mearum rerum quantum sat sit ad sinistros gravesque casus evitandos. Semper eius abstinentia, continentia, humanitas, gratia, gravitas, integritas unaque et veri investigandi cura et virtutis cultus placebit. Is omnium unus opinione longe praestitit, dum ex eo elegantem et dignissimam memoratu disceptationem accepi quam quidem, cum audies, credo non gravate feres me in ea perdiscenda paululum supersedisse, et fortassis non inficiaberis tuas ad rationes bene componendas adhiberi posse nihil accommodatius. Quod si vacas animo ad has res audiendas, eam tibi succincte et breviter enarrabo". Tum Iuppiter: "Cupio, narra: sapientum quidem sermonibus et dictis delectari, etiam ubi nihil afferant praesentibus causis emolumenti, conferet". Tum Apollo "Duo" inquit "fuere homines inter philosophos apud quos aliquid grave et cum ratione constans audierim: Democritus et Socrates. Dicam de Socrate si prius de ipso Democrito dixero quae te ab tua ista insolita tristitia frontis ad risum hilaritatemque restituant. Audies rem cum festivam, tum et plenam maturitatis. Democritum offendi inspectantem proximo ex torrente raptum cancrum vultu ita attonito, oculis ita stupentibus ut prae illius admiratione una obstupuerim. Cumque plusculum adstitissem, caepi hominem compellare, at ille ab suo, si recte interpretor, somno quo apertis oculis habebatur nequicquam excitabatur. Commodius ea de re duxi democriteam illam, ut ita loquar, statuam relinquere quoad sponte sua expergisceretur, quam illic frustra tempus perdere. Itaque alias alibi catervas conveni philosophorum, quorum mores quis non improbet? Et vitam, quis non oderit? Dicta vero et opiniones quis aut interpretetur aut probet? Adeo sunt obscura, adeo ambigua, ut nihil supra". Tum Iuppiter arridens "An" inquit "o Apollo, tu quidem, qui interpretandi mirus es artifex, istorum dicta non interpretaberis?". "At" inquit Apollo "de me profiteor omnia posse facilius: ita sunt illa quidem partim varia et incerta, partim inter se pugnantia et contraria. Sed de his alias. Illud sit ad rem, quod cum inter se hoc genus hominum nulla in ratione conveniat, omnibus opinionibus et sententiis discrepent, una tantum in stultitia congruunt quod eorum quivis ceteros omnes mortales delirare atque insanire deputat praeter eos quibus fortassis eadem aeque atque sibi sunt vita, mores, studia, voluntates, affectus viaque et huiusmodi. Adde, quod quisque probat alios non probare, quae oderit alios non odisse, quibus moventur alios non moveri: id demum ad iniuriam deputant. Hinc difficile dictu est quantae et quam multae manarint inter eos lites et controversiae, dum et contumeliis et vi etiam, si possent, alios omnes sui esse imitatores velint, ut vix feras tantam in sapientiae professoribus versari insaniam". Tum Iuppiter: "Quid ego philosophos mirer velle ceteros suo arbitratu degere, cum et plebeios video in horam, prout sua fert libido, a superis poscere imbrem, soles, ventos atque etiam fulgura et huiusmodi?". Tum Apollo: "Quid ceteri faciant non refero. De his hoc statuo eiusmodi esse, ut dum quisque sua stultitia orbem universum agi optet dumque nihil constantis certique habent, statuo, inquam, futurum ut si eorum velis audire ineptias oporteat infinitos et momentis temporum varios mundos profundere aut assiduis deprecantium quaerelis insanire. Sed de universo philosophorum genere haec dicta sint, ad Democritum revertor. Ad hunc igitur iterato rediens offendo hominem perscindentem cancrum quem spectare attonitum dixeram, cancrumque ipsum obtenso vultu pronisque luminibus introrsum per viscera scrutantem et dinumerantem quicquid nerviculorum ossiculorumque inesset. Saluto hominem, at ille nusquam minus. Non possum facere quin ipsum me rideam: audies, o Iuppiter, ridiculam rem. Incidit enim in mentem ut cepe quoddam ex proximo agro desumerem atque medium inciderem meque homini adigerem, quo facto caepi eius gestus et motus imitari: pressabat ille os, ego itidem pressabam; cervice ille in hanc ruebat aurem, ego itidem in hanc; praegrandes ille exporgebat oculos, ego itidem. Quid multa? Omnia enitebar ut me illi praeberem similem, et habebam quidem me homini imitando prope parem ni illud interturbasset, quod Democrito exstabant oculi siccitate insignes, nobis vero ob molestam cepae acrimoniam oculi erant praegnantes lacrimis. Quid multa? Hoc ludicro invento assecutus sum quod serio nequivissem, ut colloquendi daretur locus. Me enim despectato subridens 'Heus' inquit 'tu, quid facis lacrimans?'. Tum ego contra despectans: 'At enimvero tu quid facis? Quid rides?'. 'Te' inquit ille 'prius rogitaveram'. 'Tibi' inquam 'ipse prius respondi'. Paratum inde adeo litigium videns grandius arrisit. 'Atqui quando ita evincis' inquit 'referam de me quale nostrum foret opus. Ego enim multam dederam operam ut brutis eviscerandis (hominem quidem ferro lacerare nefas ducebam) intelligerem quasnam primum in animantibus malum, iracundia, sedes occuparet, unde tanti motus effervescerent, quibus facibus mentem hominis exagitaret omnemque vitae rationem perverteret: ea enim re inventa, multa me in hominum vita reperturum putabam commoda et utilissima. Videbam in plerisque animantibus quaedam quae mihi plane satisfacerent, sed ne in homine quidem intelligebam unde tam multa surgerent quae ad stultitiam facerent. Quae compereram haec sunt: nam succum quidem inveniebam ad inter praecordia inhaustum abspirantibus animi igniculis concoqui in sanguinem ita ut variarum quibus constet partium variae fiant segestiones quarum una quidem, quae ex levissima sanguinis exspumatione annatet, colligitur et vasculo a natura coacto et coaptato commendatur. At solere liquorem hunc figura ignibilem, sive commotis praecordiis sive admisso visceribus intimis incendio, fervere atque candescere eiusque acutissimas scintillulas segestione levigatas, aestu impulsas, volitare canalibus et ad rationis usque sedes sese attollere atque pervadere suoque appulsu acri atque temulento inflammari atque conflagrare intima naturae omnia, quoad mentem lacessendo tumultuantem reddat. Haec ita esse in aliis quidem animantibus clare perspexi. At nunc animal unum hoc quod inter manus est, cum natura mihi ad omnem duelli audaciam et ferocitatem pulchre adornatum videretur, diligentius recognoscendum arbitrabar. Huic thorax, huic manicae, huic nil non opertum squamis adesse natura voluit, cumque arma scirem amoto irarum impetu esse penitus mollia et inutilia non iniuria opinabar huic etiam dedisse naturam multa ad incessendam iracundiam fomenta atque irritamenta. Ea vero ubinam haereant nusquam invenio, et quod magis solliciter accedit, quod ne cerebrum quidem hoc in animante comperio, et opinari non adesse uno hoc in animante cerebrum vetat ratio, quod enim animal movetur loco, cerebrum habeat atque inde vigeat necesse est, quandoquidem omnes nervorum fibrae e cerebro ipso fluant. At hoc, cui tam multorum membrorum et robusti et varii motus suppeditent, qui carere possit cerebro non intelligo'. Haec Democritus. At ego ut viderer quoque philosophari contra sic orsus sum dicere, spectare quidem me in eo quod manibus haberem cepe demoliturine sint superi dii mundum an perpetuo servaturi. Tum ille 'O te' inquit 'aruspicem lepidissimum! Unde tibi novum ariolandi hoc genus arcessivisti?'. Tum ego 'Atqui' inquam 'istuc recta et a vobis philosophantibus diducta fit ratione, qui quidem maximum esse cepe mundum asseveratis'. Tum ille 'Facis tu' inquit 'adeo venuste, qui parvo in orbe maximi mundi casum quaeris! Verum et quidnam? Hisce in extis cepariis quid ingrati invenisti quod plores?'. Tum ego 'Viden' inquam 'istic diviso in cepe litteras c atque o? Num eas clare aperteque admodum sentis quid proloquantur?' Tum ille: 'Quid, tune loqui cepe, cum et caelos cantare aliqui dixerint existimabis?'. Tum ego: 'Minime, sed prae se ferunt. Iunge o atque c: aut occidet, inquiunt, aut corruet. Disiunge: non itidem enuntiant, corruiturum orbem?' Tum ille vehementer ridens; 'Tu' inquit 'igitur, o piissime, orbis excidium atque interitum ploras! Sed heus tu! Ubinam huius qui nunc constat mundi rudera superi reicient, si demoliri aggrediantur?'. Hoc dictum, quod sapiens et ad nostram rem accommodatissimum videretur, effecit ut obmutescerem atque mecum ipse dicerem: 'Habes tu quidem cerebrum quod te non habere fueram dicturus, quando illud in cancro quaereres'.

"Haec de Democrito hactenus. Nunc ad Socratem illum redeo, virum omni virtutis laude insignem. Hunc repperi quadam in taberna coriaria suo pro more de quodam multa interrogantem: sed ea prorsus nihil ad nos". Hic Iuppiter: "Nempe et perquam insignem praedicas virum, qui apud coriarios diversetur! Verum agedum, quaeso, o Apollo: quidnam id erat quod interrogabat Socrates? Est enim ut cupiam de eo audire quae vere sua quidem sint, non quae aliena fictione Socratis dicantur". "Nempe tum, si recte memini, his verbis utebatur: 'Agesis, o artifex, si quid in mentem tibi veniat ut velis optimum calceum conficere, non tibi corio esse opus statues optimo?'. 'Statuam' inquit ille. Tum Socrates: 'Qualecumque dabitur corium ad id opus accipiesne an putabis interesse ut ex multis commodius eligas?'. 'Putabo' inquit. Tum vero Socrates: 'Quo id pacto' inquit 'dinosces corium? An tibi aliquid quod experiundo videris corium peropportunum et accommodatissimum propones tibi, cuius comparatione hoc tuum pensites et quid cuique desit ampliusve sit apertius discernas?'. 'Proponam' inquit ille. Tum Socrates: 'Qui vero optimum illud condidit corium casune an ratione assecutus est ut illi nullae adessent mendae?'. 'Ratione potius' inquit artifex. 'Et quaenam' inquit Socrates 'illa fuit ratio ad id munus obeundum? Eane fortassis quam concidendi corii usu et experientia perceperat?' 'Ea' inquit artifex. 'Fortassis' inquit Socrates 'aeque ac tu in seligendo ita ille in parando corio similitudinibus utebatur, partes partibus integrumque integro comparans, quoad futurum corium omnibus numeris responderet suo huic quod menti memoriaeque ascriptum tenebat corium'. 'Est' inquit ille 'ut dicis'. 'Tum' inquit Socrates 'quid, si ille nunquam fieri vidisset corium? Eam optimi corii conficiendi descriptionem et similitudinem unde hausisset?'". Hic Iuppiter, qui attentissime omnia haec Socratis quaesita adnotarat, rupit tunc incredibilem quandam in admirationem Socratis atque inquit: "O virum admirabilem! Nequeo me diutius continere quin clamem: o iterum virum admirabilem! Sino illud, te, o Apollo, quamquam esses personatus, ab Socrate fuisse cognitum. De illo enim sic est quod audeam affirmare, novisse et qui sis et quid negotii ageres et quid tibi velles: denique omnia cognovisse. Nam est ea quidem mentis perspicacia in occultis quibusque rebus pervestigandis apud philosophos, quantum re periclitati sumus, cum communis et quasi peculiaris, tum genere ipso tanta ut supra sit quam possis credere. Et novi quid dicam, et expertus novi. Verum vide quam bellissime te cognito et causa intellecta satisfecerit. Sentio quo tuae tendant verborum amphibologiae, Socrates: aut enim ad huius similitudinem in quo fabricando omnes pulchritudinum formas expressi restituendus erit mundus, aut plures tentandi quoad fortassis casus absolutiorem aliquem afferat. Sed quid tum, quid postea?". Tum Apollo: "Enimvero negavit artifex se id scire quod rogasset atque obmutuit: illico ipse me ingessi, consalutavi, ille me perhospitalissime benignissimeque accepit. Multa in medium contulimus quae longum esset referre, sed eorum quae nostram ad rem conducerent illud placuit inprimis quod pluribus interrogatiunculis conclusum dedit, et finis fuit huiusmodi: nam hunc quo omnia contineantur mundum talem nimirum exstare ut alibi reliquerit nihil quod addi adiungive sibi a quoquam possit. Cui si nihil addi, nec diminui, si non diminui, nec corrumpi; nam cui addes, quod alibi esse non possit? Aut qui corrumpas, quod diduci nequeat?". Hic Iuppiter: "Tritum istud et vulgatum quidem est dictum, utcumque sit, quod minime cum illo superiori de coriario compares". Tum Apollo: "Cave his rebus diiudicandis, o Iuppiter, opinioni quam veritati assentiaris. Vide ne te nimia quae apud te viget istius viri auctoritas in errorem trahat atque detineat: nihil enim tantas habet vires ad suadendum quam gratia, nihil quod veritatem obnubilet aeque atque auctoritas. Pythagoras auctoritate assecutus est ut quae diceret omnia vera an falsa essent sui nihil curarent, omnia assentirentur, nihil auderent negare, nihil non crederent, denique vel ineptissima etiam vellent haberi pro certis et testatis apud ceteros, ut etiam cum se ab inferis esse reducem praedicaret iurarent vera praedicare". Tum Iuppiter: "Attemperate quidem in haec incidimus: eram enim percunctaturus quidnam istiusmodi celebres, Aristotelemne, Platonem Pythagoramque ipsum et eiusmodi philosophos adivisses. Et quid igitur? Num ab his quippiam rari et reconditi attulisti?". Tum Apollo "Aristotelem" inquit "repperi, contuso pugnis Parmenide et Melisso, nescio quo minuto philosopho, gestientem et cum quibusque obviis rixantem ac intolerabili quadam superbia et incredibili arrogantia vetantem quosque prae se quicquam proloqui. Theophrastum vidi maximam suorum scriptorum pyram instruere ut eam incenderet. Platonem erant qui dicerent abesse longe apud suam illam invisam quam coaedificasset politiam. Pythagoram audiebam paucis superioribus diebus in gallo quodam fuisse cognitum eundemque fortassis nunc inveniri posse in pica aut loquaci aliquo in psitaco: solere quidem illum per varia diversari corpora. Hoc loco Iuppiter "O" inquit "Apollo, quam cuperem quempiam istiusmodi in cavea domi habere philosophum! Quam meas regni res inde praeclare constitutas ducerem! Quid censes? Possetne ulla prehendi industria?". Tum Apollo: "Et quidni id posset qui nosset venandi artes, modo illum norit?". Tum Iuppiter: "Istuc difficile, vili in corpore philosophi mentem intelligere". Tum Apollo: "Immo vero facile, ubi advertas". Tum Iuppiter: "Obsecro, tuisne id fortasse artibus et sortibus?". Tum Apollo: "Maxime, vel etiam inprimis propositis praemiis assequemur ut sese illi ultro offerant". Tum Iuppiter: "Malo tuas in illis dinoscendis artes experiri. Age, quaeso, specta ubi sint locorum". Tum Apollo cum istac pro re suas vellet sortes consulere et ruptam ligulam abrepta crumena intueretur maxima caepit voce indignissimum facinus in se admissum deplorare, et quod familiarius apud Socratem fuerat versatus, sibi id fecisse furtum blanditorem Socratem persuadebat et adiurabat. Longum esset referre quibus verborum convitiis philosophum prosequeretur: scurram appellabat et fabrorum ludum. Tum et illud addebat, non iniuria Momum praedixisse tales fore mortales ut etiam, sin aliter nequeant, pedibus ipsis furari aggrediantur. Cumque satis deferbuisset ac verborum iactantia acquievisset, eum intuens Iuppiter "Num" inquit "o Apollo, cancrum te Democriti esse quam qui sis tantis conceptis irarum motibus praestaret? Cancro quidem cum sit furoribus vacuus omnis armorum nervorumque vis ad lacessendum suppeditat; tibi cum ira flagres, cum tui vix compos sis, nihil ad prosequendam vindictam relictum est. Quid facies? Quos petes? Qua ratione aut ab sontibus poenas desumes aut insontes afficies? Illis quidem quid auferes boni cum nihil habeant, quid afferes mali cum paupertatem et dolorem et istiusmodi penitus nihil timeant?". Tum Apollo: "En monitorem percommodum, qui minima offensus molestia orbem velit ruisse, et me, qui tantas amiserim divitias, ut temperem iubeat! Et possum quidem aestu sitique mortales perdere, Iuppiter, mortales, inquam, perdere". Tum Iuppiter: "Vel possis quidem quidvis malorum; tu tamen nihil feceris, quandoquidem nihil deinceps apud superos constituetur quod ipsum non pateat mortalibus: namque philosophi quidem aut suis, quibus callent, occulta pervestigandi artibus, aut tuis sortibus adiuti omnia praevidebunt quae acturi simus et pro summa sua sapientia vitabunt. Quare malo tuos istos animi aestus sedes. Desine casum hunc longius deplorare. Collige ipsum te. De istis quidem improbissimis multandis alias erit ut mature cogitemus, tametsi opinor alibi accidisse ut tantas divitias amiseris". Tum Apollo: "Recte" inquit "admones; iam monenti pareo, et unum est quod me recreet: habeant illi quidem sortes, interpretandi modum et rationem nusquam habituri sunt. Sortes levi labore reintegrabimus, illis curarum plus et sollicitudinis quam commoditatis et opportunitatis redundabit a sortibus".

Dum haec apud superos agebantur, Aestus, Fames, Febris et eiusmodi, quod audissent finem atque interitum rebus parari, quo repentinum futurum laborem in tot mortalium milibus mactandis minuerent iam tum primum caeperant vexare humanas res multaque viventium capita absumpserant. Quibus calamitatibus acti, hominum genus, quod deos votis aureis maiorem in modum moveri animadvertissent, ludos voverunt diis maximos, et eos dictu incredibile quam grandi apparatu et theatri et scaenae quantave impensa ornarint. Sino musicos, ludiones, poetas, quorum innumerabilis populus omnibus ab provinciis exterisque usque ab orbis oris confluxerat. Quicquid erat rerum dignarum ubivis gentium, id ad templi, ad sacrificiorum ad ludorumque ornatum convexerant. Sino cetera: illud operis vastitate non postponendum, quod theatrum circusque maximus aureis velis pictis acu, opus vastum et incredibile, superne et quaque circumversus integebatur. Honoratissimis in gradibus maximorum deorum simulacra exstabant, omnia circum auro gemmisque nitebant, et quod aurum gemmasque vinceret specie quantum ab his dignitate vincebantur, omnia floribus conspersa ad venustatem conveniebant, omnia sertis fumorumque delitiis odorata et redimita. Tabulae insuper pictae alabastricaeque mensae et varia speculorum miracula ad complendos non admiratione, sed stupore homines accedebant; quin et, quo nihil esset non refertissimum rebus admirandis, ipsa item extrema singula intercolumnia singulis heroum statuis occupabantur. Tantis apparatibus superi ab caetu hominum dignari tenerique se advertentes non poterant non facere quin commoverentur. Quo effectum est ut etiam ii qui fortassis aut studiis partium aut suorum commodorum spe causae hominum adversarentur sententiam verterent et partim misericordia, partim muneris magnitudine commoti superiorem suam de novandis rebus postulationem reiicerent; qui vero hominum res salvas cuperent, quorum erat princeps Hercules, apud Iovem instabant ut mallet de se bene in dies promerentes mortales beneficio obstringere quam poenis perdere: illud enim valere cum ad gratiam, tum etiam ad laudem, hoc vero postremum nihil afferre emolumenti et plurimum posse ad calumniae suspiciones augendas; et monebat ut diligentius pensitaret votane haec facta religione haud minore quam impensa cum Momi calumniis conveniant, sintne illorum qui deos nullos putent, an eorum qui diis se acceptissimos et commendatissimos esse optent. Admonebat item ut Momi naturam et mores animo repeteret: demum statueret an qui apud mortales, quibus esset odio, deos invisos et infensos reddere aggressus sit, idem apud superos, quibus se acceptum opinabatur, inimicos homines malo afficere neglexerit; et quibus sit Momus odiis praeditus erga mortales satis patere quidem cum aliunde, tum illinc, quod antea pene quam eos vidisset foeda obscenaque illa animantia, quae vix nominare sine flagitio possumus, ad homines incessendos produxerit; quare illud cogitent superi, an qui sui reprehensores superos fuerit tantis conatibus prosecutus, idem barbae demorsae contumeliam non curarit. Postremo Umbram, Noctis filiam, obtestans Hercules affirmabat (id enim maximum est deorum iuramentum) quaeque insimulaverit in coena Momus adversus homines eadem ipsa omnia sceleris et perfidiae esse refertissima, et Momi esse illa in deos nefanda, non mortalium, dicta, quibus frequens apud philosophos abuteretur. His addebat non intelligere prudentissimos deorum quid sibi vellet Iuppiter. Si quid forte hoc pacto quaerat novandis rebus placere multitudini, aut si tantarum impensarum praemium nihil praeter solum plebis plausum quaeritet, semper quidem affuturos quibus non quaeque agas omni ex parte probentur, neque defuturos inprimis honestissimos deorum qui consuetas res desiderent magis quam ut novis delectentur. Tum et veteres illos optimos architectos qui tanta arte hunc qui exstet mundum peregerint obsolevisse vetustate, et negare omnino omne id fabrorum genus fieri quidquam posse elegantius, ornatius atque ad perpetuitatem constantiamque aptius quam hoc quod factum tam omni ex parte perplaceat. Quod si tandem novos iuvet architectos experiri, satis patere quidem quid valeant cum aliunde, tum in Iunonis arcu exaedificando, quandoquidem non iniuria vulgo dictitent non aliam ob rem structum fuisse ita nisi ut inter struendum rueret. Haec Hercules non modo Iunone Bacchoque et Venere et reliquis iunoniae factionis complicibus suffragantibus aperteque iuvantibus edisserebat, verum et omni prope caelo probante et admodum consentiente. At Iuppiter, cum horum admonitionibus motus et operis ineundi difficultate diffisus, tum etiam votorum magnificentia illectus, facile de sua pristina sententia abduci se passus est. Ergo praestitam occasionem reiciendae ab se invidiae in Momum libenter usurpavit, tametsi cupiebat videri beneficii gratia id facere quod esset ultro facturus. Idcirco "Homines quidem" inquit "vestras, o caelicolae, delitias, quanti semper fecerim non est ut referam, ni forte hac spe qua vota ineunt homines ipsi parum attestantur sibi esse perspectum et cognitum animum erga se nostrum. Quis enim opem atque auxilium suis adversis in rebus tanta spe atque exspectatione postulet nisi ab eo cui se carum et commendatum meminerit? Neque velim existimetis me facili de causa aut simulasse his non succensere qui praesentia fastidirent, aut dissimulasse eorum nescire mentes atque sensus qui novas res cuperent. Quod si quae in causa sint diligentius pensitabitis, non dubito factum meum ita probabitis ut fieri commodius nihil potuisse affirmetis. Sino reliqua: quid illud, quod patefactum quidem reddidi multorum disquisitione apud multos qui nunquam huc mentem intenderant orbem hunc rerum ita demum omni ex parte absolutum pleneque perfectum esse ut addi amplius nihil possit? Quo fit ut congratuler hinc omnes in posterum abstrusas, ut ita dicam, futuras improborum expostulationes hac in re. Sed quo ipse mihi vehementer placeam illud est, quod aperte atque perspicue cognovi quali essent plerique ingenio praediti vario et longe alio quam ostentarent. Atque inprimis noster Momus praeclare ipsum sese indicavit quid fingendo atque dissimulando cuperet. Me fateor Momi versutiae et commentitiae fallendi artes poterant adducere incautum ut vel Iunonem ipsam, amantissimam scilicet, minus diligerem, id quidem maxime ubi eum fortassis putabam malorum suorum taedio fractum atque effectum plane quem se fingebat. Accedebat quod plura sapere variarum rerum usu et philosophorum commercio videbatur, et bonis artibus excultum ingenium minime improbum et plurimum diligendum arbitrabar. Quid mirum igitur si huic quem diligerem, praesertim versuto et callido, inconsulte quippiam credebam? Non refero quantopere elaborarit suadere, quanta sedulitate eniteretur impellere ut praeceps novis rebus incohandis irrumperem. At mihi sapiens quidem illud dictum saepius in mentem redibat, istos plus satis eruditos minus esse probos quam par est. Et profecto sunt, ut videre licet, minime puri et minime simplices: nam alios facto et re se habent quam fronte et gestu videantur, et insigni, quo plurimum valent, acumine ingenii perverse ad malitiam abutuntur, et illic ubi se probos et simplicissimos videri student, illic maxime fallunt dolo et improbitate. Quam rem cum mature ita esse in Momo animadverterem, ferebam quidem iocosum illum quem se videri affectabat quemve quasi personatus gestu verbisque agebat, ut intimum vafrum et subdolum profundius scrutarer atque comprehenderem. Interea cavebam omnia, credebam nihil. Nunc vero, utcumque res cecidit, commode actum vobiscum interpretor, quando curarum et seditionum seminarium illud deturbastis. Mallem, ut dixi, sine multitudinis motu, sine tumultu: sed licuerit hoc Iunoni improbum atque detestandum e numero deorum quoquo pacto extrudere atque exterminare. Nostrae prudentiae erit, qui Momi acerbitatem atque furorem novimus, providere ne quid superiores pristinas ad perturbationes addat, quo iterato et deorum quietem et res humanas vexet. Ea de re sic institui: consceleratissimum rerum perturbatorem Momum, deorum hominumque odium, quod nihil sinceri, nihil sani, nihil pacati, nihil tranquilli aut cogitet aut studeat aut cupiat; quod felicium et beatorum beneque constitutorum res atque rationes collabefactare, profligare atque funditus pervertere elaboret assiduoque enitatur; quod miseros et immeritos aerumna calamitateque obruere ac penitus obterere, quoad in se sit, nusquam desinat, nusquam acquiescat; quod factiosis, audacibus, nefariis omnique scelere perditis utatur et faveat; quod deterrimos instruat in facinus, incitet atque impellat; quod dictis factisque pestem atque perniciem orbi rerum in horas commachinetur atque importet, quodque in dies nefandae et detestabili improbitati suae multa adaugere accumulareque minime intermittat; ne superos deos lacessere deorumque delitias, homines, opprimere atque conficere pro sua libidine et desiderio amplius possit, intra oceanum maximum fore relegandum et catenis ad cautem commendandum, ita ut praeter summum os reliquo haereat corpore vadis immerso aeternum".

Hic Iuno exhilarata gaudio, Iovem exosculata, "Fecisti" inquit "ut decet, mi vir. Sed unum est quod addi velim, ut qui tam petulanter, tam impudenter et praeter id quod seque nosque deceat in feminarum genus invectus est, Momum, ex semiviro reddas ut sit prorsus femina" Annuit Iuppiter. Relegatum ea de re commutilatumque Momum posthac caelicolae commutilato etiam nomine "humum" nuncuparunt.


Liber quartus

 

 

Vide quid possit improbitas et nequitia, ut cum eius esse extinctam vim ad laedendum credas, reviviscat: plus enim relegatus atque ad cautem obstrictus Momus dabit perturbationum quam hactenus dederit solutus et concitatus. Nunc dignosces uti Momo facinorum auctore deorum maiestas extremum in periculum sit adducta; tum et tantum aderit iocorum et risus ut prae his superiora fuisse iocis vacua deputes.

Iam vero omnis hominum, ut ita loquar, torrentes in urbem confluxerant ludorum spectaculorumque gratia. Canebant tubae, subaudiebantur tibiae ad modosque canebant crotala et sistra et litui et omnis musica. Ipsae deorum superum testudines maximo istarum rerum concentu resonabant. Addebantur his hominum murmur latum atque ingens multorumque multiplices variaeque voces et huiusmodi, quo insolito atque immani sonitu cuncti caelicolae ad rei admirationem exciti stetere. Interea Stupor deus, omnium ineptissimus, quod sese Momum imitans in gratiam Iovis aliquo dicto ridiculo cuperet insinuare, ut erat suapte natura subattonitus atque vastus, ad Iovem properans agresti voce "Proh" inquit "o rex, tantum hominum confremuit istic subtus, ut si omnes excories procul dubio totum caelum contegas". Cui Iuppiter: "Censen tu hunc tantisper sapere? Et quid tum, o Stupor? Et quid tibi venit in mentem? Sed tu perbelle quidem commentatus es, namque ipse quidem semper frigens caelum cavisti ne nudum algeat". Risere dii, hinc locis omnibus quibus terras contui possent late passimque, ut cuiusque oculi atque aures ferebant, spectabundi haesitabant. Eccam patritiorum pompam et civium ordines matronarumque deinceps nurumque greges cum sacris lustrare urbem: aggreditur taeda et multa lampade noctem illustrem reddunt. Virgines porticibus conspicuae urbem ornant atque carminibus cantuque ad saltum et thiasos deos venerantur. Tantas res superi intuentes obmutuerant atque uti quisque se receperat loco pendebat maxime intentus, maxime stupidus. Interea pro vetere more, quod quidem in Promethei calamitate iam pridem factitarunt, dii praesertim maritimi ad Momum consalutandum abque animi miseria levandum plerique accesserant: Naiades, Napeae, Dryades, Phorceaeque atque huiusmodi. At Momus flammulas summo aethere deorum cervicibus collucescentes, sublatis oculis quos fletu et lacrimis prope consumpserat, despicatus, quid sibi tanta repente oborta caelo lumina peterent rogavit, cumque rem intellexisset, tanti spectaculi invidia commotus, perquam longissimum imo ab pectore suspirium inter ingemiscendum emisit, quo ex spiritus anhelitu fusca et atra nebularum vis totum per aethera sublime adstitit. Qua visa, Momus illico animum atque ingenium ut aliquid pro sua consuetudine mali faceret contulit atque adeo institit precari eos deos qui aderant, quoad impetravit ab iis quae ad se consalutandum accesserant nymphis ut, quando aliud nequeant suam ad salutem conferre, hoc unum ad levandas miserias gratissimum beneficium condonent: nebulam ipsam quam valde possint late distentam protrahant et producant montiumque cacuminibus annectant, quo tam inimicissimis et pessime de se meritis superis voluptuosissimum suarum aerumnarum spectaculum intercipiatur. Calamitosi Momi precibus obtemperarunt nymphae plurimumque in eo opere perficiundo laborantes desudarunt, quo factum est ut cum delubra deum sacellaque atque aras adeuntes mortales non perspici a superis nubium interventu sed solum audiri possent, superi sese in periculum dederint. Nam quod suas quidem laudes ad tibiam concinentes non audire modo, verum inprimis spectare quoque cuperent, quasi amentes e caelo ad sua gaudia propius haurienda delabi instituerunt: mortalium ergo tecta occupavere. Solus Hercules, quod fortassis invidorum aemulorumque insidias reditusque difficultatem ad superas sedes vereretur, negavit aut deorum maiestati convenire aut fieri id tuto posse, ut intra mortalium caetus superi considerent et commiscerentur. Se enim monstra terrarum immanissima et truculentissima prostravisse, subegisse, absumpsisse, hominum vero plurimorum impetum et temeritatem consentientem ne ferre quidem uspiam potuisse: facile moveri et esse quidem opinionibus fluidam, animis volubilem, libidinibus concitatam multitudinem; facile impelli ad quodvis facinus, neque apud multitudinem cogitari fasne sit an nefas id quod plurimorum consensus appetat; efferri indomitam et ruere effrenatam neque revocari, neque retineri, neque satis coerceri ullis prudentium monitis et rationibus aut bene consulentium imperio posse; neque scire quidem vesanam multitudinem nolle quod ad arbitrium possit esse; quae vero occeperit, flagitiosa et turpiane an non ea sint non curare, modo perficiat, et atrocia non intermittere ni prius aliud quippiam atrocius incoharit. Et quod magis miretur, in hominum numero sapere quidem per se ferme singulos atque nosse quid rectum sit: cum tamen coiverint, omnes simul facile insanire sponteque delirare.

Haec Hercules, sed dii spreto Hercule in theatrum ingressi, atque inprimis Iuppiter pario ex marmore ingentes innumerasque columnas maximorum montium frusta, gigantum opus, admiratur, et tantas numero et tam vastas et in eam regionem locorum aut tractas esse aut erectas obstupescebat intuens, easque tametsi coram intueretur tamen fieri negabat posse tantum opus et prae admiratione et vidisse et laudasse plus satis non intermittebat, atque secum ipse suas ineptias accusabat consiliique tarditatem deplorabat, qui hos tales tam mirifici operis architectos non adivisset potius quam philosophos, quibus uteretur ad operis futuri descriptionem componendam. Evenisse quidem quod aiunt, ut quem semel sapere aliqua in re tibi ipse persuaseris, hunc semper sapere et in omni re doctum esse facile credas. Haec Iuppiter. Tandem lustrata urbe hominum turmae sua per diversoria corpori se coenisque dederant. Quae cum ita essent, incidit in mentem diis ut futuros postridie mane ludos scaenamque cuperent inspectare. "Ergo, et quid agimus?" inquiunt inter se "Num ad nostras redibimus sedes, an istic spectaculis visendis considebimus?". Spectaculorum erant omnes cupientissimi, sed alii alibi, aut caelo, aut templis pernoctandum statuebant. Postremo placuit sententia illius qui deorum quodam, ut opinor, fato admonuit ut se quisque in suum quod in theatro esset simulacrum converteret, quo abeundi redeundique viam et laborem vitarent quove cum dignitate et sine ullius iniuria dignissimis locis conquiescerent. Unum erat quod huic sententiae adversaretur: nam parum quidem occurrebat ubi locorum illinc abreptas statuas apte deponerent. Dum haec animis deorum volvuntur, Stupor deus, ut erat artubus torisque praepotens, rem se dignam aggreditur, nullis id quod paret indicans, atque se in pedes coniicit ita vaste, ita dissolute, ut subito furore efferri bacchantem diceres, facinusque ipsum aggreditur alioquin ridiculum, sed pro re agenda eiusmodi ut factum subinde omnes reliqui comprobantes imitati sint: ad statuam enim in theatro positam sui similem applicans hos atque hos validiores deorum ut se adiuvent voce illa sua agresti advocat, mox subiectis scapulis illa se onerat. Erat autem statua ampla et ponderis immanis, tamen susceptam dorso solus asportavit et eam intra opacam silvam reposito in antro, obscuro loco, collocat, inde in theatrum sudore madidus rediens se vertit in statuam quam asportarat statuaeque vacuum locum occupat. Id ipsum ceteri tametsi factum irriderent, sibi tamen faciundum putarunt: itaque fecere, Stuporis exemplo, suam quisque quo visum est loco statuam abdidere, neque defuere Cupido, Mercurius et huiusmodi talarium alarumque adminiculis freti, qui extremo theatri fastigio prostratas reliquerint.

Dum se sic dii in theatrum dispositi ex animi libidine haberent, res omnium ridicula, sed memoratu dignissima cum in silva ad Stuporis statuam, tum et in theatro accidit. Nam <in> silva quidam Oenops philosophus idemque histrio, vetere illa Momi contra deos disputandi flagitiosissima petulantia imbutus, dum ad ludos concelebrandos properaret a praedonibus captus exstitit multisque affectus plagis adducitur ad ipsam hanc specum in qua statua Stuporis dei erat exposita. Quo cum appulissent praedones consilium ineunt praestetne captum iugulare an vivum dimittere oculis effossis. At Oenops, tanto in periculo constitutus, etsi in eam diem nullos deos, inane caelum esse crediderat et praedicarat, nunc tamen ultimo in capitis periculo constitutus seque salutemque suam caepit omnibus votis commendare maximis diis. Sed consilio inter se habito praedonibus placuit habere quaestionem de homine et discere quanti se possit redimere. Erat nox atra et intempesta: expediunt idcirco praedones quae ad cruciatum faciant. Alii lorum comparant, alii virgas ulmo avellunt, alii ignem cote excutiunt. Illis ita occupatis res evenit digna memoratu. Nam primis igniculorum favillis collucescentibus videre visi sunt praedones in antrum quippiam, et quidvis id quam statuam eiusmodi in loco adesse poterant opinari; dehinc maioribus admotis luminibus manifesto adesse deos animadvertentes obmutuerunt et ea re insperata perterrefacti e vestigio non sine clamore relicto captivo abvolarunt. Vidisses hos amissis armis quasi temulentos obiectam ornum fugiendo impetere, alios inter cursitandum offensa roboris stirpe ruere atque alios offensis prostratis sociis istuc versus et illuc versus praecipites ruere, eosdemque illiso ore inter surgendum interque spuendum cum cruore defractos dentes iterato sequentium impetu quassatos ruere; alios vero, viso deo, quasi alteram Stuporis statuam factos primum haerescere, mox formidine debilitatos labescere. Quae rerum et temporum suorum facies cum ita esset, non defuit sibi Oenops. Egressus enim antro et turbam concussorum profligatorumque contuens sese confirmavit; inde, rapto de quodam telo, unum egregie stupentem excordemque factum metu per capillum prehendit, prosternit revincitque loro quo se praedones illi vincire caeperant. Mox hominem prae se in urbem agit laetus et animo secum adiurans nihil minus credendum posthac quam nullos esse deos quos tam praesentes extremo suo in periculo compererit. Itaque haec in silvis Oenops; in theatrum vero ingressus, suos colludiones qui se exspectabant offendit de se deque diis mereri non bene, nam supersedentis tarditatem una et deos maximos quorum causa vigilarent exsecrabantur. Id sibi primum visum est indignissimum, sed illud indignius, quod inter histriones servum quendam vino madidum ad Iovis statuam pleraque nefanda exequentem offendit. Pudet ea dicere: tamen institutum prosequemur. Immingentem ebrium intuens Oenops, pro nova suscepta religione, caepit gravissimis dictis increpando absterrere. At servus in eum versus "Eia" inquit "philosophe, adesne? Siccine mecum agis? Unde in te nova isthaec repente religio incessit? Qui deos aeternum negasti, frigentem hic statuam fictaque simulacra veneraberis?", haecque referens non imminxisse modo erat contentus, verum et alvi praeterea illic onus ponere parabat. Hic Oenops "O" inquit "sceleste, non tu denique alium tibi locum ad tantam flagitii spurcitatem desumes!". Tum barbarus et ebrius ille servus "Vos" inquit "philosophi omnia esse deorum plena consuestis dicere". "At" inquit Oenops "etiam praesentis deos irridens negligis!". Tum barbarus "En" inquit "perdoctum philosophum! Deumne tu hoc frigens et vacuum simulacrum aut opinaris aut nuncupas, quod quidem vix igne et ferro adhibito fabri effecere ut vultus hominis potius quam monstri faciem imitaretur? Dic heus tu, o aeneum caput, quanto malleo, quantis follibus durum tuum istud os dolarunt fabri! Vel tu, Oenops, num simulacrum hoc vidisti ad publicum aquaeductum pridie patera istac calonibus aquam fundere? Demum inutile istud aes, cui nihil invenias quod probes praeter artificis manum, Iovis instar venerabimur? Est nimirum illud perpulchre dictum quod in cavea saepius decantari audio:

 

Qui fingit sacros aere vel marmore vultus,

non facit ille deos: qui rogat ille facit".

 

Tum Oenops et facti indignitate et dictorum petulantia commotus "Malam" inquit "tuam in rem! Non desines de istis tuis sceleribus cantando disputare! Appage te hinc!". At barbarus, dum se Oenops iugulo apprehensum traheret, alvi afflatu perobscene concrepuit atque "Appage tu" inquit "te, profane, dum sacrum facio, o interturbator: num tu non perspicis quam hunc adolendi ritum comprobent hi?". En iterum intonuit. Non potuit hoc amplius Oenops ferre, sed ebrium pugnis calceque contusum suos intra foetores obvolvit atque gradibus praecipitavit. At multatus ebrius ore illo suo liventi et male illibuto impudicissime plorans "Ego tibi, quisquis es deorum" inquit "cuius causa haec pertuli, ut eveniant aeque atque mihi evenere imprecor, quandoquidem huc qui ullos esse deos semper negavit, quod se imitarer tua causa tam impie in me grassatus exstitit".

Iuppiter haec intuens intra se rem sic deputabat: "Credin me hoc noctis bene acceptum? Tametsi hic suo utitur officio: quid aliud aut ebrius faciat, aut ab improbo audias? Adde quod probe multatus poenas luit: plus enim cruoris effudit quam ingurgitarit vini. Quod ne tanti quidem haec sunt ut ludorum voluptatem respuas. Sint histriones obsceni ut lubet, modo nos in theatro esse nulli noscant. Sed quid agimus? Quid si praesenserint? Neque enim illud factum frustra opinor, quod praesentes esse deos philosophus ipse Oenops dixerit. Verum et quid demum, quid tum? Utcumque ceciderit res, tamen praesente populo venerabimur".

Haec cum effecisset Oenops, rogantibus sociis quid ita religatum adduxisset hominem et quid se praeter spem et exspectationem omnium ad religionis sanctimoniam dedisset qui antea nullos credidisset esse deos, ordine quaeque sibi apud praedones accidissent recitavit: sed ne satis quidem eum sibi notum esse deum auxiliatorem dixit, quo propitio rem tam fauste atque feliciter executus sit, et idcirco magis atque magis cupere sibi fieri cognitum cui habendae forent gratiae tanti beneficii. Non illum quidem sibi visum Iovem, non Phoebum, non Iunonem, non ex his celeberrimis et popularibus quibus templa constituta sunt, sed rarum illum quidem atque insolitum. Hic histriones "At sunt quidem" inquiunt "in theatro deorum omnium simulacra: eo dum revise omnes, ut facilem et beneficum cum salutarimus, tum eundem patronum nostris in malis auxilio advocemus: nam maiores illi dii iam tum fastidire humilium vota assueverunt". Itaque fit: face igitur incensa circum statuas signaque omnia recensendo, dum horum atque horum vultus contemplantur in Stuporem ipsum incidunt, quo viso Oenops venerabundus procidit eiusque pacem precatus locumque amplexatus adoravit. Viso Stuporis vultu et habitu, risere histriones tetram illius deformitatem: nam stabat ille quidem ore late anhelanti, labio propendulo, oculis concretis, temporibus lacunosis, auribus appensis et omni denique facie ita affectus ut sui oblitus videretur. Cumque accuratius hunc ipsum deum respectarent proscaenici socii, eo maiores etiam in cachinnos efferebantur atque "En" dicebant "strenuum, en fugatorem latronum!". Ergo Oenops "Enimvero istuc quidem est" inquit "quod in me susceptam deorum opinionem multo confirmet, ubi unus multos, inermis armatos, meticulosus audaces ad omnem crudelitatem accinctos sola praesentia exturbarit atque profligarit".

Haec de se coram Stupor deus audiens, etsi mente esset bardus et ingenio prorsus plumbeo, tamen neque laudibus non movebatur neque vituperatoribus non irritabatur; tamen sic secum rerum humanarum sortem atque conditionem versabat: "Et quidnam hoc esse mali dicam apud mortales, ut praesentem deum irrideant, absentis simulacrum vereantur atque pertimescant? Hic beneficii suspicione ductus inveteratam contra deos opinionem opinionisque pervicaciam obliteravit; hi sole, luna et istiusmodi manifestis deorum signis admoniti, quae se posse debereque credere profitentur, inficiantur. Meum potuit aeneum simulacrum profano in loco immanes et ferocissimos latrones a crudelitate absterrere, metu deorum flectere, ad religionis cultum revocare; ipse deus et praesens qui sum studiosos artium quae ad pietatem faciant et gratificandis diis deditos nequeo modestiores reddere. Aut quo pacto istos ab impietate, si esse in nos impii prosequantur, revocabimus?". Haec secum Stupor. Oenops vero, cum satis esset veneratus fautorem deum, spectans non poterat pati tam neglectum esse hunc a quo beneficium accepisset; idcirco rubiginem qua Stuporis facies admodum squalebat ferro caepit abradere. Stupor vero deus abradentis molestiam libenter abegisset ab se sed, ingenio tardus, quo id pacto posset non habebat. Alia ex parte hominem quamvis inepte gratificantem ferendum ducebat, rictu tamen oris interdum duriter abradentis ferrum subterfugiebat. Hunc dii, illius memores dicti, qui ex hominum corio contegi posse caelum asseverarat, risissent cum ab homunculo prope excoriari intuerentur, sed eadem sibi durioraque iam tum fieri ab hominibus posse intelligentes, magis ut proprium periculum metuerent propensi erant quam ut alienam insulsitatem riderent, et multa quidem ex parte se omnes aeque gravi fore notatos rubigine non negabant.

Itaque haec in theatro, quae scio videri posse iis qui nostris opusculis legendis delectentur si non admodum, alioquin scurrilia, at nostris ab moribus et scribendi legibus aliena, qui quidem semper et factis et dictis cavimus ne quid minus grave et sanctum adoriremur quam litterarum religio et religionis cultus paterentur. Sed si pensitaris quid conati simus cum totis libellis, tum hoc loco exprimere, intelliges profecto principes voluptati deditos incidere in opprobria longe iis graviora quam quae recensuimus: eaque de re nos velim magis secutos initam institutionem iudices quam pristinam studiorum et vitae rationem. Sed plura fortassis diximus quam volebamus, pauciora profecto diximus quam postulaverit res. Verum de his hactenus: ad rem redeo.

Huiusmodi in theatro cum agerentur, novae item apud inferos rerum iucundissimarum et inprimis dignissimarum historiae initae sunt. Namque audierat Charon crebris defunctorum rumoribus proximum fore ut omnis mundus vastaretur, iamque caepisse Parcas et Hispiades populare hominum familias, omnia consenescere tristia et contabescere instantis ruinae periculo et metu. Eo Charon adeo priusquam opus tantum tamque ornatissimum deleretur instituerat hunc videre mundum, quem vidisset nunquam visurusque postea esset nunquam; sed tantae peregrinationis viam, ut puta ab inferis ad superos usque mortales, arduam esse audierat et paucissimis aut cognitam aut concessam non ignorabat. Idcirco inire temere non audebat, et ex omni defunctorum multitudine reperiebat neminem qui ullo abduci pacto posset ut non recusaret eo redire unde solutus tetro corporis carcere lubens atque volens profugisset: eamque ad rem dehortandam mortalium aerumnas multa ex parte explicabant et viventium mala cum defunctorum libertate comparabant; postremo affirmabant praestare quidvis malorum perpeti quam redire ad hominum vexationes obeundas. Aderat fortassis inter defunctos Gelastus quidam philosophus alioquin non vulgaris, quem tamen Charon diutius neglexerat non aliam ob rem, nisi quod extrema egestate mortuus non attulerat quo portorium solveret. Cum eo igitur paciscitur Charon, si se prius comitem apud mortales viaeque praemonstratorem praestet, gratis transvecturum. Suscipit Gelastus id muneris tametsi invitus viaeque inscius. Sed quid ageret miser, cum solvendo non esset? An eo in loco aeternum consideret quo neque inter vivos neque inter mortuos censeretur? Nimirum ergo omnia nota et ignota, dura acerbaque aggredi cogebatur, idque maxime cum neque ex amicis neque ex ditissimis quidem quispiam appellebat, a quo daretur ut stipem mutuo rogaret: defunctorum enim nemini plus nummo uno ad portorii mercedem asportare a mortalibus unquam licuit.

Itaque Charon, dum ad iter accingitur, subducta navi multum ac diu cogitavit conferatne hanc alicubi apud inferos relinquere; tandem, quod ita praestare arbitrabatur, navim reversam sustulit suoque imposuit capiti ut staret quasi pusillo mapalio opertus, manuque remum collibrans graditur. Arduum et praeter aetatem firmissimum senem proficiscentem turbae admirabantur. Verum illi inter pergendum in sermones incidere istiusmodi, ut quaereret Gelastus de Charonte quid ita navim portaret aut quidni praestitisset eam in litore subductam sinere. Cui Charon "Et quid" inquit "tibi defunctorum ineptias referam? Nemo est illorum quin me suis velit imperiis navigare. Quin et fuit pridie polyphagus nescio quis, qui quidem rapto remo se pro argonauta gereret. Illi ego 'Et quis tu?' inquam. 'Classiumne fuisti fortassis praefectus in vita?' 'At' inquit ille 'nostra in familia olim fuere plures remiges'. Ego illius insolentiam non tam admiratus quam ineptias risi, com viderem tam impudenter et temere id profiteri et aggredi cui esset rei minime aptus. At ex comitibus defuncti unus 'Mentitur' inquit 'o Charon, ne pictum quidem uspiam aut hic aut suorum aliquis vidit mare: alpibus enim aeternum lapidicinis ascripti exercebantur'. Is cum ita fuerit insolens, quales tu putas futuros ceteros aut tranandi studio, aut insolescendi voluptate, si fortassis detur relicta illic navi occasio?". Hic Gelastus "Quid" inquit "illi quidem si neque insolentia neque arrogantia, sed discendi libidine id ita aggrederentur?". Tum Charon "Novasne" inquit "isthic, ut apud inferos artes condiscant? Minime: sed temerarii sunt. Vel quis hoc ferat ut Charontem remigare quisque instruat?". Tum Gelastus "Atqui hoc est," inquit "o Charon, quo fit ut abs te accepisse me iniuriam possim dicere: tu quidem insolentes plerosque omnes istiusmodi transportasti, me vero, qui nulla ab re magis absum quam a petulantia et importunitate, longum repudiasti". Tum Charon: "Negasne" inquit "te petulantem et importunum exstitisse? Annon est petulantia nostros sibi deposcere labores dari gratis? Nulla item importunitas est centies negatam rem dura et nusquam intermissa assiduitate expostulare?". Tum Gelastus: "Deplorare meum incommodum erat istud, o Charon, non tuos labores poscere, quando tam difficilem te atque inexorabilem praestares erga me, qui nihil sibi relictum haberet rerum omnium quod conferret, praeter preces". "At" inquit Charon "suspendio opus fuit priusquam istud admitteres in te, uti tuae res omnes solis in precibus niterentur". "Id" inquit Gelastus "fateor factum inconsulte, at factum tamen ratione fortassis non improba. Namque id quidem statuebam apprime fore philosophantis, ut quam curarum alumnam praedicant, pecuniam, funditus a me abiiciendam ducerem ac me totum rerum difficillimarum rarissimarumque cognitioni et studiis traderem animo soluto et libero". Tum Charon "O" inquit "stultitiam irridendam, si id credas, coercendam, si id tentes, in rebus difficillimis et rarissimis, ac praesertim in paupertate, versari animo libero et soluto! Tu quidem, si forte dabitur ut possis id sine molestia, erunt res ipsae non difficiles; sin erunt difficiles, plus olei et operae exigent quam ut te animo esse curis vacuo possis affirmare. Pecuniam demum curarum alumnam praedicant: quaeso, quinam id praedicant? Qui sapiunt, inquies. Tanti ergo est sapere apud philosophos, ut algendo et famescendo vitam precario et per mercedem trahere quam in rerum affluentia opulentiaque malint? At tamen vivunt, inquies. Non est vivere, o Gelaste, sed luctari adversus mala: dum ita te habes in vita ut esurias algeasque, hoc est ut miser sis. Aut vos denique, et quid sapitis, in vobis primis sapitis, philosophi?". "Num" inquit Gelastus "quaeris quid sapimus? Etenim omnia novimus, siderum, imbrium, fulminum causas et motum; novimus terras, caelum, maria. Nos artium optimarum inventores; nos quae ad pietatem, ad vitae modum, ad hominum gratiam conciliandam faciant nostris monitis quasi lege data praescribimus". Tum Charon: "Egregios audio et venerandos homines, si se aeque re operaque habent atque dictis. Sed vos, dicito, his vestris legibus ut sint homines hominibus praesto, ut opera et obsequio faveant et opitulentur etiam num ascribitis?". Tum Gelastus "Et istud" inquit "ad officium inprimis ducimus". "Officii igitur erit" inquit Charon "eos quibuscum degas levare aerumnis, levare incommodis, fovere iuvareque opera?". "Erit quidem" inquit Gelastus "ut dicis". "Tu igitur officio legique hoc dato" inquit Charon "hanc praegravem cymbam adiutato ut feram". Tum Gelastus: "Atqui est quidem tuum quoque hac in re pensandum officium: quare, Charon, videto ne praeter officium siet enecto fame atque precario et per mercedem qui vitam traxit tantum onus nobis velle imponere". Tum Charon: "At saltem remum". "Ne tu negasti" inquit Gelastus "licere apud inferos aggredi artes novas! Calamum didici per aetatem tractare in vita, non remum".

Itaque haec inter proficiscendum confabulabantur quoad pervenerunt ad extremum orbis limbum quem orizonta nuncupant, geminae in quo e regione maximo interiecto secessu portae ab inferis patent, altera quae in oceanum, altera quae in continentem orbis dirigitur, estque una harum ebore apta atque intercrustata, altera vero cornu humilem ad cryptam adacta. Placuit Charonti, quod satis aquarum per aetatem vidisset, per tellurem iter facere sed, quod rapido ascensu insuetoque peregrinandi labore fessus desudaret, primo in pratulo recubuere. Est Charon sensibus acutissimus, visu, auditu et huiusmodi supra quam possis credere. Cum igitur ad eius nares florum, qui passim in prato aderant, applicuisset odor, illico se ad flores ipsos colligendos et contemplandos dedit tanta voluptate et admiratione ut ab his aegre ferret abstrahi. Admonebat enim Gelastus plus itinerum superesse quam ut puerilibus florum delitiis legendis insisteret: maiora enim esse quae aggrediebantur, flores quidem suppeditari mortalibus adeo ut etiam ab invitis conculcentur. Ille etsi nihil invitus magis posset audire, ductori tamen parendum ducebat. Dehinc inter proficiscendum Charon tantam in natura rerum amoenitatem et varietatem spectans, colles, convalles, fontes, fluenta, lacus et huiusmodi, de Gelasto caepit quaerere unde tanta vis pretiosissimarum rerum manarit mundo. Cui Gelastus, quo se disertum philosophum ostentaret, huiusmodi ordiri rationem aggressus est. "Principio nosse te oportet, o Charon, universa in rerum natura nihil aut factum aut fieri posse vacuum causa. Causas quidem eas interpretamur quae ad motum conferant atque ad quietem. Quietem motus finem statuimus, motum vero intelligi volumus cum ex hoc fiat quidvis aliud. Et nosse oporteat versari eum quidem motum aut in prima aeternaque rerum firmitate formis imbuenda aut in formarum mutabilitate varianda, quod naturae artificium alii opinati sunt in substantia accidentibus iungenda versari. Sed, ne longe frustra disputem, haec tu hactenus, o Charon, intellextin?". Negavit Charon grandioribus verbis pusilliora aut ordinatius confusiora audisse uspiam dici. Tum Gelastus aliunde repetito dicendi exordio rursus ordiebatur: eum quidem qui principio quippiam facturus esset, mente et cogitatione sibi adscripsisse quae facta cuperet hancque animo conceptam et consignatam speciem nuncupasse formam; proxime sibi comparasse, seu simplex illud fuerit seu mixtum coactumve partibus, quippiam cui aut formam adigeret et quasi obinvolveret aut quo formam ipsam compleret solidamque redderet: hoc vero postremum nuncupasse materiam. Sed ne potuisse opus nisi arte viaque adhibita perficere qua facile exque animi sententia materiae formam coniungeret et couniret: idque artificium appellasse motum. Hoc item Gelastus cum dixisset, interpellavit Charon "Atque" inquit "ego quidem audieram mutua quadam concordique lite rerum omnia facta esse et in dies accessionibus decessionibusque minutarum partium immutari. Sed visne quid sentiam referam de te? Putaram vos philosophos omnia nosse sed, quantum ex te video, nihil nostis nisi ita loqui ut de rebus notissimis verba facientes non intelligamini. Vel quid ego tibi credam temere quando tu quidem, qui primus rerum conditor quid animo habuerit te non ignorare affirmas, profecto, quod pueris evenit, domum redeundi viam oblitus es? Quod si recte coniector, nos ad tartareas plagas te duce praelongo habito itinere redivimus. En atram Stygis caliginem, et istinc audisne fremitum et eiulatus excruciatorum sontium?". Dehinc lupum ostentans "Anne tu" inquit "vides illic defuncti errantem animam?". Hic Gelastus arridens "Ne mirere" inquit "o Charon, namque non plus semel hac iter feci. Sed, quo rem intelligas, quae tibi eiulatus vox visa est litui est sonus a mortalium inde castris delatus aura et, ni fallor, secundas excubias canunt. Caliginem quoque ipse unde tanta sit miror, miror et ipsum te, quod defunctorum hic animas videre alias praeter me praedicas". At Charon: "Is profecto ipse est rex; eo dum o rex!…". Tum Gelastus: "Lupumne tu regem vocas? Id quadrupedum genus apud mortales etsi noxium est, mortale tamen est animans et longe ab hominum natura defunctorumque animis alienum". Interea lupus ipse multo morsu raptis quodam ex cadavere visceribus mandendo restitabat. "Ergo tibi" inquit Charon "iam fit ut assentiar: non enim apud inferos manducant. Sed illud animans putavi esse regem quendam quicum mea in navi Peniplusius praeco elegantem habuit disceptationem, quam redeundo narrabo, ut voles". Tum Gelastus "Volam," inquit "sed tu reges esse lupos qui vidisti aut audisti unquam?". Tum Charon "O te philosophum" inquit "bonum, qui siderum cursus teneas et quae hominum sint ignoras! Ex Charonte adeo portitore disce ipsum te nosse. Referam quae non a philosopho (nam vestra omnis ratio nisi in argutiis et verborum captiunculis versatur) sed a pictore quodam memini audivisse. Is quidem lineamentis contemplandis plus vidit solus quam vos omnes philosophi caelo commensurando et disquirendo. Adsis animo: audies rem rarissimam. Sic enim aiebat pictor, tanti operis artificem selegisse et deputasse id quo esset hominem conditurus; id vero fuisse aliqui limum melle infusum, alii ceram tractando contepefactam, quicquid ipsum fuerit, aiunt imposuisse sigillis aeneis binis quibus altero pectus, vultus et quae cum his una visuntur, altero occiput, tergum, nates et postrema istiusmodi impressarentur. Multas formasse hominum species et ex his selegisse mancas et vitio insignes, praesertim leves et vacuas, ut essent feminae, feminasque a maribus distinxisse dempto ab his paulo quantillo quod alteris adigeretur. Fecisse item alio ex luto variisque sigillis multiplices alias animantium species. Quibus operibus confectis, cum vidisset homines aliquos sua non usquequaque forma delectari, edixisse ut qui id praestare arbitrarentur quas placuerit in alias reliquorum animantium facies se verterent. Dehinc suas quae obiecto in monte paterent aedes monstravit atque hortatus est ut acclivi directaque via quae pateret conscenderent: habituros illic omnem bonarum rerum copiam, sed iterum atque iterum caverent ne alias praeter hanc inirent vias: videri arduam initio hanc, sed continuo aequabilem successuram. His dictis abivisse; homunculos caepisse conscendere, sed illico alios per stultitiam boves, asinos, quadrupedes videri maluisse, alios cupiditatis errore adductos in transversos viculos delirasse. Illic abruptis constreposisque praecipitiis sentibusque et vepribus irretitos pro loci difficultate se in varia vertisse monstra et iterato ad primariam viam rediisse, illic fuisse ab suis ob deformitatem explosos. Ea de re, comperto consimili quo conpacti essent luto, fictas et aliorum vultibus compares sibi superinduisse personas, et crevisse hoc personandorum hominum artificium usu quoad pene a veris secernas fictos vultus ni forte accuratius ipsa per foramina obductae personae introspexeris: illinc enim contemplantibus varias solere occurrere monstri facies. Et appellatas personas hasce fictiones easque ad Acherontis usque undas durare, nihilo plus, nam fluvium ingressis humido vapore evenire ut dissolvantur: quo fit ut alteram nemo ad ripam non nudatus amissa persona pervenerit". Tum Gelastus: "O Charon, fingisne haec ludi gratia an vera praedicas?". "Quin" inquit Charon "ex personarum barbis et superciliis rudentem hunc intorsi ipsoque ex luto cymbam obstipavi".

Huiusmodi rettulerat Charon iamque non longe ab theatro aberant. Ergo de Gelasto sciscitatus didicit et quinam tantam molem coacervassent et quos ad usus haberetur, et cum theatrum illud fabulis agendis factum intellexisset vehementer risit hominum ineptias, qui tantos labores consumpserint demoliendis montibus ut immanem ipsi molem construerent. Tum et stultitiam patrum detestatus est, qui tantas perdendi temporis illecebras in urbe paterentur. At Oenops, ludio ille philosophus de quo supra ridicula illa recensuimus, cum procul vidisset cymba opertum adventantem, ratus novos adesse histriones secessit cum turma eorum qui aderant, ut si quid scaenae Charon commentaretur ex insidiis annotarent. Medio in theatro cum illi advenissent, "Etenim quid tibi haec, o Charon?" inquit Gelastus. Negavit Charon videri sibi aut theatrum aut ornamenta istiusmodi talia ut ulla ex parte cum floribus quos apud pratum excerpserat essent comparanda. Et mirari quidem professus est quod pluris faciant homines quae possint vilissimorum manu assequi quam ea quae ne cogitatione quidem satis queant attingere. "Et flores" inquit "quidem negligitis: saxa admirabimur? In flore ad venustatem, ad gratiam omnia conveniunt. In his hominum operibus nihil invenies dignum admiratione praeter id, ut vituperes tantorum laborum tam stultam profusionem. Dehinc tu, o" inquit "philosophe, principio ex te fieri certior volo, quandoquidem, ut praedicas, multa hoc loco quae ad vitam bene degendam faciant in medium afferuntur, cuinam ea commodent. Maioribusne natu? Stultum si eos aggrediantur commonefacere, qui didicerint usu quae conferant. An adolescentibus? Ineptum eos velle dictis regere, qui non auscultent. Proxime item velim dicas ab poetis, nequaquam a philosophis vitae degendae rationes expetant". Tum Gelastus: "Sit quidvis, Charon: quae tamen ab poeta cum voluptate audias, ea capias facilius, imbues plenius, servabis firmius. Quod si praeterea videris hosce gradus consessu tantorum virorum oppletos, neque ineptum opus dicas neque una interesse pigeat. Et profecto, uti aiunt, non sine deo tam multi coeunt, quando usu invenias ut quos singulos flocci penderis, si coierint venereris et prae reverentia obmutescas". Tum Charon, ad unas atque alteras deorum statuas versus, "Dic, Gelaste," inquit "ne tu hos singulos flocci pendis, aut si coirent venerarere?". Tum Gelastus subridens: "Solus si essem fortassis riderem, plures si adessent alii venerarer".

Interea, dum statuas spectant, Charon seposita ab fornice audire visus est submissa voce colloquentem ac dicentem: "Trita haec sunt quae Gelastus confabulatur, deque tota istorum re nihil est quod probem quam personatum Gelastum hunc: nam ei profecto nihil fieri potest similius". Audit et alios Charon dicentes fuisse bene doctum Gelastum in vita et prudentem, alios contra fuisse quidem stultum et procul dubio delirasse cum ceteras ob res, tum quod tantis iniuriarum offensionibus lacessitus seque dignitatemque suam neglexerit per animi pusillitatem. Neque probare illius vitae rationem, qui perseveravit omnibus aeternum prodesse cum se multi in dies lacesserent et laederent. Non illis quidem cum Oenope rem fuisse, qui se ad propulsandas vindicandasque iniurias magis quam ad firmandam insolentium temeritatem fortem esse ostenderet nimis ferendo. Quae Oenopis verba cum etiam Gelastus subaudisset vocemque loquentis cognovisset, "Velim" inquit "videas, o Charon, quam is quidem iactator sese perstrenuum praestet". His dictis in obloquentes proripuit. Illi propius accedente mortuo et apertius perspecto et cognito obstupuere, et Oenops nihil sibi antiquius duxit, quam ut relicto captivo obvolaret extemplo. Ergo ad Charontem rediens Gelastus "Et qualis" inquit "tibi visus est noster athleta, qui meo primo pedis motu verterit terga? Et hominem demiror, cum mihi in vita apprime fuerit familiaris, aut ea de me oblocutum aut me viso metu potius quam voluptate affectum. Sed nunc intelligo fictum hominis ingenium et ex tuo illo personandorum artificio obductum; fronti fictam, non veram benivolentiam exstitisse, qui profecto neque viventis patientiam totiens lacessivisset neque defuncti nomen impeteret, si amasset". Inter haec dicendum eccum saxum grave cymbam Charontis incutit sonitu maximo (illud enim ebrius ille barbarus multa vi impulerat) quo ictu Charon absterritus inclamavit ut pleno intonuerit theatro. Gelastus vero ira concitus in ebrium se conferebat, at Charon "Desine," inquit "o, desine, Gelaste! Tu illos umbra, illi nos saxis petunt. Sat peragrati sumus. Hic praeter ineptias et improbitatem comperio nihil quod vidisse non pigeat, et ineptias odisse et improbitatem evitasse conferet. Abeamus!". Charontem revocabat Gelastus, ille saltitans una et tremens diffugiebat. Hoc spectaculo theatrales illi dii multo risere, quo risu factum est ut maximam, inauditam insperatamque in calamitatem inciderint omnes dii. Id qui evenerit proxime recitabimus, si prius quae Charonti etiam obtigerint insperata et cognitu festivissima succincte rettulerimus. Audito igitur statuarum risu, Charon "Ridete" inquit "ut lubet: ego rideri quam caedi malo". Putabat enim proscaenicos illos turbatores risisse, tametsi admiraretur retinnire omnia deorum risu. At Gelastus, non insuetus theatri, sese confestim in pedes conicit atque: "Papae, o Charon, papae, siste, adsum" vociferabat. In quem versus Charon expavefactum admiratus "Quid tibi est?" inquit "Saxone percusserunt?". Ille vero vix sui compos, titubans, haesitans "Audistin" inquit "statuas?". "Quid tum?". "Risere" inquit. "Quid igitur?" inquit Charon "Malles plorasse an pro metu reris statuas risisse?". Non se poplitibus substentabat Gelastus metu exsanguis factus, eaque de re Charontem sequens primo dato in trivio ab urbe reversam cymbae puppim arripit atque: "Hic, quaeso, siste, o Charon". Ille vero "Vestros" inquit "mortalium personatos et fictos mores odi, quandoquidem tu qui saxa non metuebas risu te absterritum simulas, et qui tantopere negabas velle te huc ad mortalium sedes regredi, hinc invitus divelleris. Et habeo tibi nullas gratias si me a colligendorum florum voluptate abstraxisti et ad iurgia rixasque adduxisti. Quod si non saxa modo, sed etiam risus hic statuarum pertimescendus est, quis hinc non aufugerit? Sed tu ut lubet, ego vero abeo". Tum Gelastus duri decrepiti acerbitate motus "Ne tu" inquit "o Charon, argutiis et verborum captiunculis quibus versari philosophos praedicabas nunc apud nos uteris!". "Etenim tanti est" inquit Charon "disertis congredi: namque apud doctos discimus". Tum Gelastus sibi consulens non quo Charontem levaret onere, sed quo illum, si se dimisso perseveraret citato gradu fugiens, abire interpellaret, "Ego vero" inquit "ex te quoque, ut par est, aliquid ediscam oportet. Cedo: remum tractare enim assuescam". Tum Charon: "Remumne in sicco?". At ille rapto remo inter reptandum scapulis gestiebat, "Sic" inquiens "clava se habebat Hercules, quod si mihi in theatro affuisset is remus, sceleste Oenops, quem tantis officiis et beneficiis prosecutus sum, luisses. Nam te quidem inter mortales monstrum petissem et cuius improbitatem atque nequitiam patientia pertuli percussissem". Tum Charon "Gelaste" inquit "huc velim animum adhibeas: annos ego multos atque item multos portorio affui, cum innumeris sapientibus et usu doctis habui commercium de his rebus. Hoc velim scias: stat omnium sententia prudentissimorum non semper oportere uti patientia, statuuntque ceteris in rebus apud mortales id observandum, ut nihil nimis, solam vero patientiam aut nullam penitus aut omnino in vita nimiam habendam. Et fortassis non pauciores reperias qui doleant quod patientes fuerint quam qui non fuerint". Tum Gelastus "O" inquit "dictum prudens! Ex me id iudico: plus quidem molestiae ex patientia subivisse me possum asseverare quam ex intolerantia offendisse".

His confabulationibus ad mare iam devenerant, quo loci cum circumspectans haesitansque Gelastus constitisset, subirritatus Charon "Istic" inquit "etiam haeres?". Tum Gelastus: "Nolim succenseas" inquit "o Charon, tuam enim rem aeque atque meam ago. Ego me tam vasto in aequore, nullo se praebente calle nullisque recognitis semitis, ducem futurum commodum non profiteor". Tum Charon "Pronam" inquit "audivi esse ad inferos viam, modo petas id ubi non videas neque audias quippiam. Eo igitur versus cursum dirigemus, ingressi navim". Tranquillo mari navigans, Charon "Vides" inquit "minus credendo vobis philosophis ut mecum fiat commodius. Tu, si te audissem, iam tum me suspicionibus obruisses; at non credidi, ergo opportunissime navigamus. Sed mare hoc cur te simulasti metuere, qui Acheronta videras? Non inficior videri hoc vastius, sed nego aut profundius esse aut turbulentius. Verum et quidnam illinc monstri ad nos perscindens mare illabitur? Ne non fortasse hoc illud est quod ad inferos tantas dedit tragoedias et fluctibus versari ferunt? Proh et quam optato advenit, quod enim et quale esset potui nunquam intelligere! Id nunc aderit coram atque conspiciemus, et bene est. Nunc demum iuvat mortales adivisse. Atqui num vides? Eccam rempublicam natantem!". Tum Gelastus "O" inquit "Charon, et quid tibi in mentem venit ut tam apte rempublicam appellares navim? Quod si eam cupiam verbis admodum expingere, nihil afferam illustrius. Istic enim aeque atque in republica imperant pauciores, parent plurimi, et hi parendo condocefiunt imperium gerere; tum et quae ad animi libidines student, quae ad spem parant, ad salutem curant, omnibus temporibus accommodant atque obsecundantur. Adde quod istic, uti in republica, aut unus aut aliqui aut plures totam rem moderantur, qui quidem si observant praeterita, cogitant futura, circumspectant praesentia et omnia ratione et modo aggrediuntur et tractant, volentes sibi nihil rerum bonarum potius esse quam universis, reges hi sunt et bene agitur; sin contra ad se omnia referunt et cuncta prae iis quae collibuerint negligunt, tyranni sunt et pessime agitur. Tum si parent doctis, si praesto sunt, si adsunt volentes atque agunt unanimes quae imperantur, aequabilis tunc et firma est res; sin discrepant, si recusant et respuunt, perturbatur illico respublica atque in discrimine est. Sed quid agimus inconsultissimi? Imminenti ab calamitate non refugimus: incidimus in piratas!". Piratarum audito nomine, Charon, quo nihil tetrius atque truculentius inveniri posse persaepius intellexerat, expavit; verum etsi perterritus contremisceret dissimulavit, quo Gelastum mordere dictis prosequeretur. "Et quantis" inquit "Gelaste, subterfugiis incohatum ad inferos reditum interpellabis? Nunc te incerta navigandi ratio detinet, nunc te praedonum cognita pericula detorquent: quos quid est cur metuas, cui ne vitam quidem possint auferre? Sed abigenda est haec molestia: te in sicco relinquam". His dictis navim ad litus vertit et multa vi remo impulit. Sensit Gelastus Charontem expavisse, idcirco arridens "Tibi quidem" inquit "o Charon, recte fuga consulis. Nam si cepissent callosum navitam suos inter infelicissimos remiges mancipassent; adde quod promissam istam tuam barbam et capillum, te imitati, ad rudentum opus convulsissent". Itaque Charon cum ad litus appulisset offendit incolas, qui propinquis balneis diversabantur, praevisis piratis fugam capessentes atque admonentes ut crudelissimos et consceleratissimos vitarent montesque conscenderent. Negavit Charon suam posse navim aut relinquere aut longius asportare: erat enim fessus et defatigatus, obnixius dum litus peteret navigando. Eam igitur subduxit in contiguam paludem lutoque immersit, se autem inter proximos palustres calamos abdidit. Gelastus vero cryptam conscendit atque illic intra cespitem delituit.

Eccum e vestigio piratas, facta praeda, alacres e navi certatim proruentes: sese in balneum committunt ibique ludi gratia crapulonum regem miro et inaudito instituto inter se creant. In coronam enim circumsistunt, mediis vero aquis unus demittitur mus et ad quem mus nando applicuerit, is habetur rex. Hoc sortis genere ex sociis navalibus quidam bene honestus factus exstitit rex. Ergo, dum animi omnium risu et ioco soluti lasciviunt, quaeque ad balneorum voluptates convenirent iucundissime exequuntur. Interea lixa, unus ex libertinis navalibus abiectissimus, per calonum et lixarum conspirationem sese quoque ludi gratia regem constituit. Huic ille prior sorte creatus rex, quod a plurimis impeteretur, ultro cessit. Tota perinde res agitur ludo et miris iocis ridetur, factumque probant omnes et inprimis archipirata, atque favet. Hinc novus rex sese firmare iuramento concrapulonum fidem ait cupere: idcirco in medium iubet afferri atram fuligine patellam qua omnes, veluti in ara, etiam inviti iurent, quoad ipsum ad archipiratam deventum est: is, quod negasset iurare, raptus ante regem, de collegii sententia pro contumace damnatus est: atque erat in contumaces poena ut immergerentur. Itaque is ut ceteri contumaces immergitur, verum enimvero ita immergitur ut inter manus suffocaretur. Perterrefactis archipiratae familiaribus et enecati casu et coniuratorum audacia vix sui erant compotes. At manus regia, successu exultans, repente puppim clavumque occupant libertatemque omnibus suo esse facinore partam proclamant et congratulantes, petito mari alto, qua venerant abeunt.

Hunc archipiratae casum Gelastus quasi ab specula confestim Charonti renuntiatum accurrit. Nihil unquam avidius accepit Charon: ergo, ut erat a vertice ad vestigium usque obsitus et foedissimus, in medium prae gaudio animi resultans, Gelastum amplexus est eumque exosculando totum effecit lutulentum, "Nunc" inquiens "resipisco. Potuitne commodius cuipiam cecidisse res? Et illud abrasum ulcerosumque caput quis putarit tantos fovere animos? Nunc illi ultro suam erga me omnem iniuriam remitto: qui si affuisses, Gelaste, risisses". "Tua ego risissem" inquit Gelastus "iniuria?". "Quidni" inquit Charon "cum et ipse, qui tunc periculi metu plorarim, nunc rideam? Namque istic ad hunc salictae truncum unus et item alter conservi in coniurationis consilium concesserant. Ego eorum adventu perculsus alter immobilis eram prope factus truncus: prostratum enim me habebam luto et solo sublato vultu auscultabam quid tractarent. Eorum verba vix subaudiebam, sed audire visus sum dicentem: 'Sat est. Hoc probo: submersum suffocabimus'. Me illico pavor occupat, oblitum mei. Compositis rebus, illi quae simulandi gratia quasi exposituri attulerant mactatae pecudis intestina et ventres in eos confertos, quibus delitescebam calamos ad me coniiciunt. Atque inprimis egregius ille rex raso capie caprae caput ita iactat, ut ni declinassem luissem: optavi quidem mihi tum cymbam aeque atque in theatro adesse pro casside, atque: 'Hui' inquam 'etiam demortuae hic arietant pecudes?'." Haec Charon, atque e vestigio rapta cymba sese undis committebat. Hortabatur Gelastus ut balneis ablueretur ne tantis sordibus illibutus apud inferos irrideretur. Negavit Charon id se facturum affirmavitque apud inferos malle sordidissimus videri quam apud mortales lautissimus, modo teterrimas belluas, homines, fugiat. Tum Gelastus "Novi" inquit "quid consilii captes: vis enim tu quoque hinc ad inferos personatus redire".

Haec Charon atque Gelastus. Demum petentes altum et quae de piratis et rege recensuimus repetentes, incidit ut Charon Peniplusii illius cum rege habitam disceptationem pulcherrimam et dignissimam recensere institueret, quam viso lupo se in reditu recitaturum foret pollicitus Charon. Sed ab historiis recitandis novum ortum periculum interturbavit. Namque verticibus turbinibusque obvolvi mare atque atrocissime sese versans insurgere et scopulis illuctare incipiens omnem salutis spem navigantibus ademerat, praeterquam ut ad proximam cautem asperrimam et difficillimam applicarent. Eo igitur confugientes obstrictum vinctumque Momum reperiunt, tantarum causam tempestatum quaerentem vel magis quam suas aerumnas dolentem. Tempestatem quidem fecerant rixantes inter se venti: namque atrocissimi apud theatrum facinoris ab se admissi culpam quisque in alium quempiam reiiciendo altercabantur, inde in tantos irarum impetus exarsere tantosque motus excivere ut mare caelo commiscuerint. Exciderat enim ut Charonte ab theatro diffugiente tellus omnis risu deorum commota supploderet: quo risu Aeolus excitus ex antro rem sciscitatum evolavit. Venti antro inclusi, animis auribusque suspensi atque solliciti, vocem audire visi sunt Famae deae quae quidem stridentibus alis aethera pervadebat, deorum Charontisque factum decantando. Ventos idcirco tanta illico invasit spectandorum deorum ludorumque cupiditas ut refractis claustris, repagulis deiectis obicibusque convulsis temerario impetu una omnes in theatrum irruperint, tam multa immodestia ut super intensum theatri velum vinclis abruptis cum parte muri traherent in ruinam, sequentibus una statuis quas fastigiis murorum nonnulli caelicolarum deposuerant. Is et veli et statuarum casus non sine maximo fuit deorum malo: namque alii quassati, alii obruti ruina, nulli non aliqua ex parte collisi exstiterunt. Atqui, ut ceteros omittam, Iovem ipsum vinclis veli illaqueatum ita deturbarunt ut resupinis pedibus, naso retuso rueret in caput. Cupidinis vero statua superne decidens deam Spem pene oppressit, non tamen defuit quin absterso humero alam decusserit; Speique item statua Cupidinis pectus, obliquo velo labans, vicissim perculit. Dii attoniti quo se verterent non habebant. At Iuppiter, quod unum fuit principis prudentissimi, suo secum ingenio praecurrit disquirens quidnam pro temporis necessitate sit agendum caelicolis. Etenim occurrit animo ut metuat ne mortales iudicent ingratos fuisse diis ludorum apparatus et bene de superis merendi studium posthac intermittant, si forte vacuum statuis theatrum offenderint. Alia ex parte ingrato ab tumultu suos revocare instituerat: ergo, quod facto esse opus intelligit, imperat ut quisque deorum illico suam in theatrum referat statuam atque mox abeat, ne apud mortales comperta re irrideantur: convenire quidem deos quidvis incommodorum pati potius quam auctoritatem suique opinionem amittant. Paruere Iovis dicto omnes praeter Stuporem deum, qui quidem exsanguis factus obduruerat; sed cum caelo dii recenserentur non Stupor modo aut Spes, quae mutilata apud mortales remanserat, verum etiam Pluto et Nox dea desiderabantur.

Illi quidem, maxime Pluto, qua de causa remanserint periucundissimum erit intellexisse. Dea quidem Nox (ut de illa prius dicam) prout tulit casus iisdem sub theatri gradibus cum Apolline iuxta suas obdiderant statuas in eamque, quod esset vacua, illam sortibus plenam, quam supra recensuimus ab Apolline furto subreptam, crumenam indiderat ne ex mortalium numero, apud quos maximos versari fures senserat, quispiam conferta multitudine subriperet. Cum igitur Iovis imperio ardenti opera pareretur, Apollo casu non suam sed Noctis statuam suum in pectus sustulit, ita ut crumena inter ferendum intra pedes deflueret, sed crumenam, quod operi esset intentus, neglexit. Nox vero dea aeque tumultuario illo in opere sese agitans quam reliquam comperuit statuam comportavit. At errore animadverso, rata Apollinem non temere alienam obversasse statuam, se in filiae gremium furti sui conscia lugens commendavit. Noctis filia est Umbra, et eam quidem Apollo ita amat perdite ut nusquam esse nisi Umbra comite didicerit. At crumenam ipsam Ambago, dearum mendacissima, pede in eam offenso repperit. Hinc tanta in deum Apollinem indignatio adversus Noctem exarsit, cognita re, ut ex eo tempore nihil sibi antiquius deputarit quam ut exosam fugando persequeretur: illa Umbrae gremio sese tutatur delitescendo. Plutonem vero immania velorum involucra irretitum detinuere, quoad lenones, qui fornicibus cum suis scortorum sordibus accumbebant, fragore exciti affuere. Hi quidem inventum Plutonem loro ad gulam obducto traxere, post id alii saxo pedem contundere aggressi sunt ut viderent aurone solidus esset, uti suspicabantur, alii vitreos oculos, quod esse gemmas arbitrarentur, dum eruere innituntur ita contrectant ut altero pupillam extruserint, altero confregerint. Non tulit eum dolorem atque iniuriam Pluto animo forti, sed ingemuit atque plus uno ex maleficis lenonibus multavit. Nam, ut erat pondere vastus, sese in latus vertens quos potuit suppressit, huic pedem et huic manum conterens atque comminuens, exinde ab sordidissimis relictus foro dicitur aberrare luminibus captus.

Itaque istiusmodi in theatro gesta sunt. Ceterum venti, tantorum scelerum se fuisse auctores conspicati, alter alterum spectans commutuerant, dehinc metu conscientiae intra se animis vexari, proxime mutuo alter alterum arguere temeritatis atque immodestiae caeperant; postremo convitiis excandescere et tumultuare perseverabant. Demum ardescente rixa luctationum perduellionumque campum sibi mare occupaverant, ex quo repens illa, quam supra commemoravimus, procella oborta est. Hac igitur procella acti Charon et Gelastus ad eam cautem ubi obstrictus haerebat Momus devenere, quo loci miserias Momi advertentes sese recrearunt: namque qui laboribus periculisque acti pessime agi secum arbitrabantur, ut Momi vultus vix ab aestuante oceano respirantes una ac lacrimas undantes videre, alieni mali misericordia suos mitigarunt animi dolores. Atqui et quis esset et quid illic tam graves perferret poenas sciscitati, si quid opis possent admodum praestituros polliciti sunt. At Momus "O nos" inquit "miseros, et quid est quod naufragus ad relegatum possit afferre opis, praeterquam ut sua mala collugeat?". His dictis multo illacrimavit, dehinc ut se fractum confectumque procellarum mole paululum ab aquis levarent exoravit. Quo levato extemplo Momus atque Gelastus sese mutuo agnovere: multas enim, cum apud mortales degeret, Momus cum Gelasto de rebus maximis et gravissimis habuerat disputationes. Idcirco nonnullis commemoratis utrimque cum factis, tum dictis "Ego vero" inquit Momus "tum cum apud vos philosophabar, Fraudis deae ductu caelo proscriptus, aberrabam, sed pro gravissima accepta iniuria in vindicanda mei dignitate malui semper me inter mortales humillimum videri quam inter philosophos deum. Dedi tamen aliquid gravissimo dolori et iustissimae indignationi meae; plura tamen dedi deorum nomini, quando ea perpeti potui ab homunculis, ne ordini superum officerem ipsum me propalando, quae ne inimici quidem ut diutius ferrem potuere perpeti. Profuit autem ad misericordiam malorum nostrorum excitandam, incredibilis illa aerumnarum mearum tolerantia. Caelo idcirco restitutus sum, et quo videas Iovis optimi deorumque aequitatem, me quidem, quod nulla re praeterquam bene agendo et recte consulendo offendissem, proscripserant: quod vero et deam et virginem in templo oppresserim, omnes risere. Redii ad superos vetus Momus ille qui semper fueram, sed novo animi instituto imbutus: et qui in eam diem consueveram opinionem ad veritatem, studia ad officium, verba frontemque ad pectoris intimas rectasque rationes referre, idem post reditum didici superstitioni opinionem, libidini studia, dolis confingendis frontem, verba pectusque accommodare. Non plus dico, nisi me perversis istiusmodi artibus quamdiu apud beatorum illud collegium exercui, tamdiu et principi carus et universis probatus et singulis commendatus et (audeo dicere) inimicis quoque fui gratissimus. Illud ad rerum nostrarum exitium fecit, quod tantis honoribus honestatus mea interesse arbitratus sum ut cederem iam malis artibus et ad pristinam animi libertatem ipsum me restituerem, spretis servilibus assentationum blanditiarumque delinimentis. Et sum ipse mihi conscius quid egerim, quid studuerim prodesse diis. Sino ceteras res: tanta me habuit deorum cura ut Iovi, cum de novandis rebus cogitaret, multis vigiliis veteres omnes illas de deorum regumque officio rationes collegerim quas eram solitus commentari tecum, mi Gelaste, tabellisque conscriptas dederam, sed ille quanti eas fecerit hi casus edocent. Non id, quantum videre licet, honestum utileque consilium placuit Iovi, at placuit me in has miserias relegare. Vos hic quid magis vituperabitis, an desidiam in negligenda republica an iniustitiam in administranda? Sed institutum hoc principis quam sit e republica ipse videat. Iustum vero esse nemo bonus asseret, nequedum scimus quam futurum sit ut bene vertat iis qui nostra laetentur calamitate, neque is quidem, qui recta consulentes malo afficit, prava molientes bonis prosequitur, quamdiu sic se gerens futurus sit felix satis habet constitutum. Sed haec curent alii, quibus relictum est quod sperent: nos nostris miseriis ferendis vacemus". Cum haec dixisset Momus, tum contra "Tui me" inquit Gelastus "miseret, o noster Mome! Sed quid ego meas calamitates memorem? Quo te afflictum consoler, ego, a patria exul, aetatis florem consumpsi continuis peregrinationibus, assiduis laboribus; diuturnam per egestatem, perpetua cum inimicorum tum et meorum iniuria vexatus, pertuli et amicorum perfidiam et affinium praedam et aemulorum calumnias et inimicorum crudelitatem; fortunae adversos impetus fugiens, paratas in ruinas rerum mearum incidi. Temporum perturbationibus et tempestatibus exagitatus, aerumnis obrutus, necessitatibus oppressus, omnia tuli moderate ac modice, meliora a piissimis diis meoque fato sperans quam exceperim. Atqui o me beatum, modo mihi ab cultu et studiis bonarum artium, quibus semper fui deditus, feliciora rependerentur! Sed in litteris quid profecerim aliorum sit iudicii. Hoc de me profiteor, omni opera, cura, studio, diligentia elaborasse ut me quantum in dies proficerem non poeniteret. Praeter opinionem atque exspectationem successit. Nam unde gratia debebatur inde invidia redundavit, unde subsidia ad vitam exspectabantur inde iniuria, unde boni bona pollicebantur inde mali mala rettulerunt. Dices: ea fuere quidem eiusmodi ut hominibus evenire consueverint, et te meminisse hominem oportet. Tum vero, Mome, quid dices si audies quae Charonti huic deo acciderint? Dum res hominum non ignorare digno certe et prudenti instituto elaboravit, saxis fugatus palude conlituit, postremo terra marique extremis periculis perfunctus aegre huc ad te casu appulit; qua abeat, quorsum tendat, ubi consistat, nil certi habet, ut congratulandum in tantis malis putem mihi vel quod deos malorum meorum comites habeam, vel quod deos meliores ad res natos tristiori pene videam in sorte quam ipse fuerim constitutus. Vobis item inter vos, o Mome tuque Charon, maeroris levandi argumenta sint quod alterum quisque alter videat casibus non immunem.

His commiserationibus superaccessit Neptunus deus, qui quidem, cognita ventorum protervia, nubibus imperarat ut eos superne pressando coercerent, quoad ipse cursu obambiens insolescentes commodius argueret. Eo pacto cum dictis tum tridente omnes toto mari delirantium immodestias castigarat, ac deinceps ad Momum consalutandum accesserat. Quo loci inventis Charonte atque Gelasto voluit fieri certior quid ita applicuissent; cognita eorum peregrinationis historia vehementer insaniam ventorum inculpavit, qui quidem una stultitia tam multorum flagitiorum causa fuerint: ludos interturbarint, maria perverterint, deos affecerint. Dehinc poscenti Momo et Charonte ordine cum ceterorum deorum, tum et Stuporis et Iovis et Plutonis casus explicavit. Postremo "Estne" inquit Neptunus "quod me amplius velitis? Pacatis enim oceani rebus me ad Iovem superosque restituam". Tum Gelastus: "Si per te licet, o Neptune, pervelim optimo maximoque Iovi et sua et hominum causa suadeas ut tabellis Momi in moderanda republica utatur: illis enim plurimum adiumenti inveniet ad se levandum suasque res mirifice firmandas". Negavit Neptunus futurum ut Iovi quispiam rerum agendarum modum praescribat: ambitiosum enim principem quidvis prius posse quam instrui, neque esse ut volentem admoneas aut nolentem excites; utraque illum in re semper sui fuisse consilii, dum mavult suum ostentare quam alterius favere ingenio. His dictis abiit. Abiit et Charon atque inter navigandum "O" inquit "Gelaste, esse quid hoc dicam in principe, praesertim Iove, quem sapientissimum praedicant? Mitto illa, voluptati plus satis inservire, potentatu ad insontium calamitatem abuti, imperare quam imperio dignum videri malle et imperio dignum videri cupere quam esse: haec toleranda sint. Illud profecto grave est, principem ita institutum esse ut neque bene consulentibus delectetur neque bonis consiliis moveatur". Tum Gelastus "Et quid putas" inquit "o Charon, cum illo agi qui, assentatorum circumventus corona, in dies dediscat se eum esse qui possit errare et ex licentia libidinis modum, et ex libidine officii rationem metiatur, ut nondum satis apud me constitutum sit praestetne principem esse istiusmodi an servum?". Tum Charon "Facis" inquit "ut redeat in mentem quod narrare inceperam ante tempestatem de Peniplusio: res profecto digna, tametsi nequeo non ridere cum illius memini, qui se vilissimum hominem maximo regi praeferendum asserebat". Tum Gelastus "Quid esse hoc et ipse dicam, o Charon, in quibusque animis ut metu offenso omnes voluptates animi abiiciamus, et periculo transacto e vestigio voluptas redeat? Sed tu quid ita visa tempestate expavisti, ut non caeptam historiam modo neglexeris, verum et tui pene oblitus sis?". Tum Charon: "An secus potui, tantos aquarum montes circum intumescentes et irruentes intuens?". Tum Gelastus: "Esto montes ut lubet: enimvero tu, qui me increpabas quod piratas timerem, cum ne vitam quidem possent auferre, et mare invium negligebas, quid metuisti? Marene ipsum, quando Acheronta non videris, sed consenueris? Aut quid demum? Veteranus navita periculumne timuisti, Charon, cum te immortalem habeas?". Tum Charon contra: "Navita et immortalis ut lubet, hoc scio oportuerat si forte periclitassemus: aut totas illas perpotare aquas aut enecari". Tum Gelastus: "Places, Charon; verum sequere, narra disceptationem illam. Videre videor futuram non ignobilem". Tum Charon: "Audies rem dignissimam, ac iuvat quidem eam recensere, posteaquam huius fluvii fauces, si satis rem teneo, ingressi sumus. Novi aquarum suetum odorem et, ni fallor, spelunca isthaec suppressa et humilis ea est qua ituri sumus. Haec ego adivi loca nonnunquam otiosus. Ergo, posteaquam remum linquere et prostratos secundis aquis dilabi opus est, iacentes his de rebus recensendis delectabimur. Meam in navim Megalophos rex et Peniplusius praeco una ingressi, de loco caeperant contendere dictis lepidissimis; nam se ille principem et honore quovis dignum multa sua virtutis facinora referens asserebat, contra Peniplusius sic disceptabat: "Te o Charon, arbitrum statuo: vide quid inter nos intersit quidve conveniat. Homo fui ego, hic etiam homo, nam neque tu natus caelo neque ego stipite, o Megalophe. Publicus fuit servus is, ego item publicus. Hoc negato, aut quid sit regnum dicito, Megalophe. Num id non est publicum quoddam negotium, in quo etiam invito id agere oporteat quod leges imperant? Fuimus ergo pares, nam legibus ambo astricti eramus, quibus si obtemperavimus tu atque ego fecimus ex officio: adeo ergo fuimus et servi ambo et pares. Sumus etiam aliis in rebus pares, aut si impares ego superior in quibus te praestitisse arbitraris. Etenim tu gradu te habitum feliciori putas: id videamus an ita sit. Sino voluptates et studiorum atque institutorum progressus, quae omnia et faciliora et commodiora et promptiora et habiliora nobis fuere quam tibi. Tum et illa praetermittamus, quod te multi oderant, tu multos timebas, mihi omnes favebant, ego nullis non fidebam. Tibi ad tete ferendum, ad tuas libidines complendas multis erat opus, multa cavebas, plura dubitabas, omnia erant in periculo; mihi adversabatur istorum nihil, plura in rebus meis exequendis suppeditabant quam ut illis omnibus uterer. Tibi nunquam non deerant quibus esset usus. Sed haec, ut dixi, praetermittamus. Divitias tu ex regno, si tibi congregasti pessime fuisti functus magistratu et gessisti non regem te, sed tyrannum; si reipublicae eas parasti fecisti quod decuit, sed ne illa quidem tua est gloria, universorum ea est civium laus, non tua, qui quidem aut partas bello aut auctas censu effecere. Dices: mea cura et diligentia urbem resque imperii ornavi atque servavi meis legibus pacem et quietem, meo ductu et auspiciis laudem et amplitudinem civibus meis peperi. Nos vero in his omnibus quae soli fecimus, frustra fecimus, quae vero multitudinis suffragio et manu fecimus, cur nobis ascribamus non reperio. Sed quae tua fuerit opera et quae mea in istiusmodi rebus recenseamus: tu integram noctem aut dormiebas vino madidus aut per luxum ducebas; ego in specula advigilabam, urbem ab incendio, cives ab hostibus teque ipsum ab tuorum insidiis custodiens. Tu leges rogabas, ego promulgabam; te concionem habente saepius populus reclamavit, me publicum quid iubente omnes attentissime auscultabant. In expeditionibus militem hortabaris, ego signum dabam; te miles observabat, me classicum canente aut hostem invadebat aut revocabatur. Denique tibi universi assentabantur, nemo nobis non parebat. Sed quid agimus? Tune otium civibus parasti, cuius causa tanti tam frequentes armorum discordiarumque motus in urbe fuerint, cuius artibus et studiis publica et privata, sacra et profana omnia sint referta invidia, simultate omnique denique flagitiorum genere? Tum ceteras quidem stultas rerum administrandarum ostentationes quid est quod referas? Quid est quod te iactes quod templa et theatra non ad urbis ornamentum, sed ad gloriae cupiditatem et ineptam nominis posteritatem comparaveris? Et istas elegantes leges quanti putabimus, quibus improbi non pareant et probis indixisse non oportuit? Ac poteram quidem, inquies, multare et esse malo maximo refragantibus: in hoc maleficii genere quis me potentior, quis paratior? Tu quidem unos aut alteros cives non sine discrimine, non sine tumultu et multorum manu affecisses; ego totam urbem, si voluissem, perdidissem tacendo atque dormiendo. Restant duo quibus te longe superabam. Tui te dominum bonorum fortunarumque omnium praedicabant; ego re ipsa eram non id tantum, ut dixi, quod ea potuerim perdere, sed quo omnium bona et fortunae agebantur ita atque dispensabantur ad unguem uti volebam ipse. Namque fiebat ulla in provincia, ullo aut publico aut privato in loco nihil me invito; tibine tuorum quidem bonorum et fortunarum ex arbitrio quippiam succedebat? Plura volebas semper quam posses; ego rerum omnium nil plus volebam quam quod esset, sic enim volebam omnia esse uti erant, et nihil magis. Reliquum est quod si tua tu amisisses bona ipsum te suspendisses, ego risissem".

Dum haec apud inferos agerentur, Iuppiter aula reclusus in solitudine secum ipse temporum suorum casus et institutorum successus repetens sese dictis huiusmodi castigabat: "Quid tibi voluisti, hominum pater et deum rex? Quis te erat beatior? Pusillarum ferendarumque rerum taedio quantos labores, quae pericula, qualia incommoda subivisti! Tuis in capiendis consiliis quam tibi fueris satis kalendarum dies docuit. Bene consulentes respuisse, inconsultorum libidini obtemperasse quid conferat argumento erit aeterno imminutus nasus. Eorum vota supplicantium fastiditi reiciebamus, quorum foeditatem irridentium postea pertulimus. Nos esse nimirum beatos poenitebat, quando novis voluptatibus captandis veterem dignitatem intermisimus. Novum quaerebamus exaedificare mundum, quasi pigeret diutini otii; et otio abundantes otium quaerebamus, et otium quaerentes otium demerebamur. Quid igitur assecuti sumus? Indignos caelo inter deos accepimus, benemerentes aut exterminavimus aut amisimus. Sed quid agimus? An parum poenarum pro admissa stultitia accepimus, ni etiam acerbis his curis animi ingratisque durissimorum temporum recordationibus ultro excruciabimur? Abite hinc tristes curae! Verum aliquo me exerceam opere necesse est, ne nos vacuos et desides occupent tristes memoriae. Ac novi quid faciam: hoc enim conclave dissolute habitum coaptabimus". Positis idcirco stragula et vestibus omnem subselliorum ordinem commutare aggressus est librosque complures abiecte expositos et pulveribus obsitos digno loco astruxit. Dum haec componeret, venere in manus tabellae Momi, quas superius Iovi datas recensuimus. Inventis non potuit facere Iuppiter quin iterum perturbaretur moerore seque suosque casus repetens; tandem tabellas perlegit animi laetitia adeo maxima et dolore adeo maximo ut utrisque addi amplius nihil posset, tanta erant in his grata una atque ingrata. Gratum erat quod in eis inveniret ab philosophorum disciplinis sumptas optimas et perquam necessarias admonitiones ad regem mirifice comparandum atque habendum; ingratum erat quod tantis praeceptis tamque ad gloriam et gratiam accommodatis per suam negligentiam diutius potuerit carere.

In tabellis ista continebantur: principem sic institutum esse oportere ut neque nihil agat neque omnia, et quae agat neque solus agat neque cum omnibus, et curet ne quis unus plurima neve qui plures nihil habeant rerum aut nihil possint. Bonis benefaciat etiam invitis, malos non afficiat malis nisi invitus. Magis notabit quosque per ea quae pauci videant quam per ea quae in promptu sunt. Rebus novandis abstinebit, nisi multa necessitas ad servandam imperii dignitatem cogat aut certissima spes praestetur ad augendam gloriam. In publicis prae se feret magnificentiam, in privatis parsimoniam sequetur. Contra voluptates pugnabit non minus quam contra hostes. Otium suis, sibi vero gloriam et gratiam artibus pacis potius quam armorum studiis parabit. Dignari se votis patietur et humiliorum indecentias ita feret moderate uti a minoribus suos pati fastus volet.

Huiusmodi erant in tabellis complurima, sed illud omnium fuit commodissimum inventum ad multas imperii molestias tollendas: nam admonebat ut omnem rerum copiam tris in cumulos partiretur, unum bonarum expetendarumque rerum, alterum malarum, tertium vero poneret cumulum earum rerum quae per se neque bonae sint neque malae. Has ita distribuebat ut iuberet ex bonorum cumulo Industriam, Vigilantiam, Studium, Diligentiam, Assiduitatem reliquosque eius generis deos desumere plenos sinus et per trivia, porticus, theatra, templa, fora, denique publica omnia per loca aperto sinu ultro obviis porrigerent et volentibus grate ac lubens traderent. Mala itidem sinu pleno et aperto Invidia, Ambitio, Voluptas, Desidia, Ignavia ceteraeque his similes deae circum ferrent atque sponte erogarent non invitis. Quae autem neque bona neque mala sint, uti ea sunt quae bona bene utentibus et mala male utentibus sunt, quorum in numero putantur divitiae, honores et talia ab mortalibus expetita, omnia Fortunae arbitrio relinquerentur ut ex iis plenas manus desumeret, et quantum cuique videretur atque in quos libido traheret conferret.