Leon Battista Alberti

 

ISTORIETTA AMOROSA FRA LEONORA DE' BARDI E IPPOLITO BONDELMONTI

 

 

Nella magnifica e bellissima città di Firenze sono due casati d'antiqua nobiltà e gentilezza, l'uno chiamato de' Bardi, l'altro de' Bondelmonti, li quali essendo insieme inimici per la loro grande potenza e ricchezza attraevano a sé quasi tutta la terra in divisione. E dell'una parte il principale si chiamava messer Amerigo de' Bardi, cavaliere di grandissima riputazione e prudente di consiglio, il quale nel suo tempo ebbe una sola figliuola chiamata Leonora. Dell'altra parte il primo era messer Bondelmonte de' Bondelmonti, cavaliere animoso e di grande affare, e così come fu piacere della fortuna, ebbe uno solo figliuolo chiamato Ippolito Bondelmonti. Erano queste parte ricchissime e di roba e di superbia, e nella inimicizia vecchia assai crudelmente insanguinate, per modo che né messer Amerigo né messer Bondelmonte osavano andare con manco di trecento persone bene armate. E così l'odio nella inimicizia continuamente cresceva, insino che amore volse dimostrare con le sue forze di quanto vigore sia 'l suo fuoco.

Di che essendo già Leonora d'anni quindici, e andando il dì di Santo Giovanni a vedere la festa, e ritrovandosi Ippolito, il quale era d'anni diciotto, ancora lui in Santo Giovanni, gli venne risguardata la fanciulla, la quale per ventura guardava lui. E siccome si scontraro con gli occhi, si punsono il cuore d'amoroso disire in tale maniera che, prima si partissino quivi dal tempio, l'uno dell'altro fortemente s'innamorò. E più volte feritosi insieme con la coda dell'occhio, si dimostraro il loro amore essere parimente equale, non conoscendo però lui lei né lei lui. Di che partendosi Leonora con la sua compagnia, Ippolito la seguitava assai onestamente un poco di lontano, intanto che lui conobbe lei essere figliuola del loro capitale inimico. La fanciulla allo entrare di casa si voltò celatamente, e guardando il giovane, con un amoroso inchino pigliata licenza dalle sue care compagne, se n'andò in casa, e fattasi alla finestra, vedendo Ippolito, domandò una sua vicina chi lui fusse. Intese come lui era figliuolo di messer Bondelmonte Bondelmonti; della qual cosa ella assai ne fu dolente e grama, e partita dalla finestra, se n'andò in camera dolendosi della fortuna. E quanto più era impossibile il vedersi spesso, tanto maggiormente cresceva l'amore d'ogni parte, per modo che la infelice Leonora alcuna volta rinchiusa in camera sola, lamentandosi dell'amore diceva: “O iniqua e crudelissima fortuna, nemica d'ogni piacere, come sofferisci tu che tante pene in me alberghi e riposi? Perché non umili tu li cuori delli nostri padri? Perché quello amore che è in fra noi, non è in fra loro? O dispietata sorte! O duro caso! Perché tanta asprezza, perché tanta crudeltà ne' cuori delli nostri padri! Perché l'antiqua inimicizia, perché le antique discordie nacquero mai in fra gli nostri passati? Perché non s'estinguono, che tanto fuoco quanto il mio almeno si pascesse del vedere?”. E in simili e altre dolorose parole la valorosa fanciulla e la notte e 'l giorno con le lacrime consumava.

Ippolito, che non era punto con manco fuoco di lei, sanza dire alcuna parola, conoscendo non poter vedere quella ch'egli sempre teneva scolpita nel cuore, di dolore e malinconia tutto si consumava, per modo che ogni piacere gli era tornato in tedio, e abbandonati tutti li suoi amici e compagni, poco usciva di camera; anzi sempre sanza alcuna consolazione si stava in sul letto, bestemmiando la crudele disposizione de' fati, maladicendo la perfida inimicizia paterna: “Ahi fiero e crudo amore, ingrato di tanta umiltate quanta è stata la mia, che 'l primo giorno che ti piacque, mi sottomisi al tuo giogo! Perché di tante pulcelle quante bellissime sono nella nostra città, non mi hai messo nel cuore l'amore come di questa, dove tu come aspro e crudele insieme a lei e a me fai abbondare angosciosi pensieri? Questo certo da te non meritava la nostra fede. Maledetto sia il giorno che gli occhi miei guardarono tanto alto, poiché di lì nascere doveano tanti tormenti e tanti martiri. O dispietata fortuna, come sofferisci tu che la mia tenera gioventù in lacrime si consumi? Certo io veggio la mia vita finire per l'amore di quella che tanto m'ama. Piacciavi, o fati, cavarmi di questi martiri, perché assai più mi duole l'affanno della mia singulare dea che 'l mio”. E fra sì dolorosi pensieri il nobile giovane la sua vita consumava, e raro usciva di casa, perché nulla gli gravava altro che 'l non potere vedere la ninfa amata, dove non osava di passare da casa di costei pel gran timore dell'ardua nimicizia.

Di che Ippolito, sentendosi crescere l'amore e mancare la speranza, cominciò per la grande malinconia a perdere il sonno, anzi sempre aveva ogni suo pensiero a Leonora. E già essendogli venuto a noia il cibo, si mutò tutto di complessione in modo che, dove egli era il più allegro, festivo, lieto, giocondo, faceto giovane di Firenze, più bello, più fresco e universale, in breve tempo divenne melanconico, magro, solitario, pallido, doloroso e saturnino più che altro della città. E infine, mancandogli li sentimenti naturali, divenia di giorno in giorno più simile ad uomo morto che vivo; della qual cosa 'l padre e la madre erano molto dolenti. E cercato da' medici quale fusse la cagione di tanta mutazione, non trovavano altro che continua malinconia che nocesse al giovane. Di che non potendo sapere che gli gravasse, né donde la malinconia procedesse, Ippolito cominciò fortemente a gravarsi nel male, intanto che pigliando poco di conforto e consumandosi dallo affanno, i medici lo difidarono dicendo che, se la cagione de' suoi pensieri non si trovava, non era possibile dargli rimedio, e non rimediando, che in breve tempo se ne morirebbe. Di questo i suoi assai furono dolenti, massime el suo padre e la sua madre, li quali non avevano altro figliuolo né altro bene. E tanto più gli doleva quanto, non sapendo il male, non lo potevano aiutare. Onde che la sua madre, la quale portava gran pena del male del figliuolo, cercò con molti ingegni di sapere da lui quale fusse la cagione di tanta malinconia. E infine, trovando il figliuolo duro e pertinace nel negare e nel tacere, vinta da materno amore, in camera, sola col suo figliuolo con molte lagrime cominciò così a parlare:

“Ippolito, io non so se ti ricorda degli affanni che io ho portati per allevarti, e dei caldi, freddi, fame, sete, sonni e vigilie ho patite per tuo amore e per allevarti in più delicatezze e costumi che mai figliuolo fusse allevato. E per maggiore mio dolore già sono diciott'anni che mai madre fu più contenta di suo figliuolo che sono stata io di te, non aspettando già questi impii colpi di fortuna, e assai appagata io mi teneva dell'amore ti portavo, veramente credendo che tu mi avessi in luogo di madre, in amore e in riverenza. Della qual cosa la tua durezza e pertinacia mi fa in tutto certa del contrario, che a me vuogli tenere celato il tuo dolore, acciocché non si possa rimediare al male. Anzi per maggior mia pena vuogli che io ti perda sanza alcuno aiuto, e per maggiore mio dolore non vuogli che io possa piangere la cagione della morte tua”. E al figliuolo con molte lagrime e assai teneramente piena di dolore, mostrandogli il petto disse: “Caro figliuolo, risguarda il ventre che nove mesi con tanto affanno ti portò; vedi il petto che con tanto amore del suo latte ti nutricò; vedi le braccia che tanto tempo con dolce e soave peso ti sollevorono. Muovati dunque compassione delle lacrime, pianti, lamenti e sospiri della tua misera madre, e quella pietà che non hai di te, abbi di me, che certo in questa infelice e misera vita senza te delibero non stare. Non volere essere ad un punto cagione insieme della tua e mia di vita perdizione, ma più presto, o dolce e caro figliuolo mio, riserva l'una e l'altra. Piacciati, vita mia, non mi fare più in lacrime consumare. Dimmi adunque, o cara speranza, quale è la cagione di tanta malinconia che ti grava in sì duro male. Se no, qui vedrai alla tua presenza di dolore creparmi il cuore. Dolcissimo figliuolo, poiché non ti curi del morire, almeno la tua dolente madre ti sia raccomandata. Che quest'ultima domanda non mi sia negata. Tempera omai le lacrime della infelice madre, e non mi lasciare sanza contento dell'ultima domanda”. E continuamente mescolando con le parole lacrime e sospiri, aspettava che risposta il figliuolo le desse.

Ippolito, benché nel cuore solo avesse la sua amata Leonora, mosso da materna tenerezza, volti li languenti occhi verso l'affannata madre, sanza alcuna lacrima con costante animo disse: “Madre, assai mi stringe e pesa il dolore vostro a pari del mio, ma poiché la crudele fortuna ha disposto nella mia gioventute tormi la vita, vi conforto a pazienza, e priegovi non vogliate in maggiore dolore farmi la morte più dura. Bastimi le pene mie; onde che, essendo il mio male irreparabile, delle mie membra sazierò il crudelissimo fato. Dolce madre, vogliate accordarvi col volere d'essa fortuna, e non cercate di sapere quello che v'abbi a crescere di duolo. E poiché al corpo non potete dare alcuno aiuto, non vogliate aggravare l'anima con maggiore dolore”. E dette queste parole con gli occhi abbondanti di lacrime, si voltò dall'altro lato del letto. La madre, vedendo la durezza del figliuolo e pertinacia, con altro modo cominciò a tentare di sapere il fatto suo. “Ippolito, - diss'ella, - che più figliuolo non ti voglio adimandare, già questa risposta non aspettava io da te. Ma poiché di me ti cale sì poco, maladetto sia quanto affanno mai per te sostenni, e il latte che ti nutricò. E poiché 'l morire ti giova per lasciarmi male contenta, da me mai sarai benedetto; e così l'anima tua col corpo vada con la mia maladizione”.

A queste parole il valoroso Ippolito, rivolti verso la madre gli suoi occhi: “Madre mia, - diss'egli, - se io credessi che altra persona che voi né in vita né dopo la morte avesse a sapere quello che io vi dirò, certo io mi tacerei. Ma perché spero che voi mi terrete secreto, v'avviso come alla mia salute non è altro riparo, perché se io non veggio Leonora de' Bardi, la mia vita sarà brevissima”. La madre con tutto il caso gli paresse arduo e difficile, pure per confortare il figliuolo disse: “Non dubitare, che io provvederò al tuo fatto in buono modo”. E partitasi dal figliuolo incontanente se n'andò ad un monasterio, dove stavano monache, chiamato Monticelli, al cui governo era una abadessa, sorella della madre di Leonora, donna assai benigna e graziosa. E quivi, benché le inimicizie fussino fra' loro parenti, fu dall'abadessa lietamente ricevuta; dove dopo molti ragionamenti ella aperse il suo cuore all'abadessa, e narrandogli il caso la pregava di consiglio e d'aiuto. L'abadessa, la quale era di natura umile, benigna e grandemente pietosa, con buone parole s'ingegnò di confortare l'affannata madre, e infine disse com'ella deliberava di dare modo alla salute d'Ippolito, e che quanto il suo onore patisse, lui vedrebbe Leonora a suo diletto. Di questo molto si confortò la donna, alla quale l'abadessa disse: “Dite ad Ippolito che si conforti e che attenda a guarire bene, e che domenica sera venga qua da me, che al fatto suo vedrà il rimedio che io gli troverò”. La donna, ritornata a casa, fece ad Ippolito l'ambasciata dell'abadessa; il quale confortatosi molto, in brievi giorni tutto si riebbe.

L'abadessa invitò molte fanciulle alla festa di Madonna Santa Maria di settembre, la quale era il lunedì seguente, e fra le altre invitò Leonora sua nipote. La domenica sera Ippolito, uscitosi della sua casa, se n'andò al monasterio di Monticelli, e quivi dall'abasessa ricevuto in camera, fu da lei assai teneramente confortato. Alla quale Ippolito pietosamente disse: “Madonna, assai di forza hanno i colpi dell'amore, più che non si stimano quelle persone che non hanno provato, in tanto ch'è allo innamorato ogni cosa licita sanza alcuna stima d'onore o di pericolo. E perché questi sono colpi che non si danno a patto, è piaciuto alla fortuna che di tante fanciulle quante bellissime sono nella nostra città e di grande affare, la immagine sola della vostra nipote Leonora per maggior mio duolo m'è entrata nel cuore. E certo che la speranza dell'aiuto vostro mi tiene vivo, dove già sono più giorni che la vita mia sarebbe finita. A voi dunque mi raccomando e alla vostra infinita prudenza, acciocché per Dio e per voi la mia madre dica avere la vita racquistata del suo figliuolo”. E dette queste parole attese la risposta.

L'abadessa, udite le pietose parole d'Ippolito, disse: “Figliuolo, se alla tua salute e alla consolazione della tua madre io non avessi deliberato dare riparo, non bisognava che io ti conducessi qui; anzi come nimica della tua salvazione lasciarti arrivare al tuo fine. Ma vinta dalla mia buona natura e dalle lacrime della tua madre e dalla compassione del tuo misero stato, poiché la tua domanda è fondata in sulla onestate, delibero col mio onore salvare la tua vita. E però domani dopo desinare tu ti starai qui in camera mia drieto al letto, e vedrai Leonora a tuo piacere. Ma voglio che tu mi prometta, quanto tu hai caro il suo onore e amore, che tu non gli farai alcuna violenza”. Ippolito promisse all'abadessa quanto ella volse. Di che la mattina seguente Leonora andò alla festa, e quivi dopo il desinare, venendo l'ora di riposarsi, tutte andarono a dormire, quale in una camera e quale in un'altra. L'abadessa menò Leonora seco alla camera sua, e serratola in camera se n'andò fuori. La fanciulla, essendo sola in camera secondo il suo credere, cominciò a dirizzare la sua mente verso Ippolito, e quivi salita nel letto diceva: “O fiero destino che nel cuore mi mettesti l'immagine del mio dolce Ippolito, perché non consenti alla morte mia? Ahi, ingrata e sconoscentissima Leonora, tu stai qui nel letto, e il tuo Ippolito forse piange per tuo amore; tu qui ora stai in festa, e lui forse vive in sospiri. Ahi, caro Ippolito, perché non sei tu qui in camera meco? Quali sarebbono i nostri ragionamenti, quanti sarebbono li nostri piaceri! Io son certa che il tuo cuore e tutti i tuoi pensieri sono universalmente con meco. Oh fortuna nemica d'ogni piacere, come non metti tu pace fra' nostri padri? Dunque solo la inimicizia paterna ne sturba li nostri diletti. Tu se' giovane, e io giovane; tu bellissimo, e io ti piaccio; tu me ami e io moro per te. Perché non tu mio marito e io tua donna? Oh pensieri miei, ora che fa il vostro Ippolito? Certo sospira del non essere dove è la sua cara e amantissima Leonora. O dio d'amore, perché non consenti tu ad un'ora contentare lui e me? Or fussi tu qui, dolce Ippolito mio, quante volte t'abbraccerei e bacerei io, quanto avida e devota ti narrerei i miei presenti e passati sospiri?”. E dette queste parole con molte lacrime voltatasi verso il lato dove Ippolito stava ascoso, tendendo le braccia diceva: “Come t'abbraccerei io, se tu fussi qui; come ti stringerei!”. E in queste parole la fanciulla s'addormentò.

Ippolito, essendo dietro alla cortina, vedeva e udiva ogni cosa, ma per la fede promessa mai volse fare parola, anzi con grandissimo affanno si tacea. Leonora, come fu addormentata, si sognava essere con Ippolito, e in sogno diceva: “Oh Ippolito mio, chi t'ha menato qui? Qual pianeta, quale destino c'è stato tanto benigno?”. E credendo di abbracciare Ippolito, stringeva le braccia baciando il vento. Ippolito vedendo questo, non gli parve più tempo d'aspettare, e quivi senza spogliarsi altrimenti, quando ella stendeva le braccia, s'entrò allato a lei in sul letto, e quivi stato un poco, cominciando a baciarla, ella dal sonno si destò, e trovandosi gente allato, tutta spaurita fu tentata di gridare, quando Ippolito disse: “Taci, Leonora, e odi 'l parlare mio. Sappi - diss'egli - che io sono il tuo Ippolito, il quale poco avanti tu con tante lacrime hai desiderato, e sono venuto a quello che sanza te certo la mia vita sarebbe finita, cioè il vederti, e questo mercé e grazia della tua zia. Piacciati, poiché nelle tue mani è la vita e la morte mia, d'eleggere di me quello che ti piace. Se lo mio vivere ti piace, non gridare, anzi benignamente ascolta el misero amante che per te muore, il quale è qui per la tal via condotto in camera”. E quivi gli narrò tutto il modo. Poi disse: “Leonora, io sono qui per contentare ogni tuo piacere; però, piacendoti la morte mia, ecco con questa coltella mi cava di tanto affanno”. E cavatosi un pugnale da lato, el diede nelle mani di Leonora, la quale veramente conoscendo 'l grande amore d'Ippolito, e vedendo la comodità del tempo, disse: “Ippolito, assai mi piace la tua vita più che la morte; e non tanto che le mie mani facessero di te sangue, anzi ogni mio desio, da quel dì che amor mi mise la tua immagine nel mezzo del cuore, è sempre stato di fare verso di te quello che ciascuna serva è obligata fare verso il suo signore. E però, dolce Ippolito mio, siccome poco avanti tu mettevi la tua vita nel mio arbitrio, togli la tua arme e di me fa il tuo volere come di fedelissima serva”. E insieme con queste parole li valorosi amanti mescolavano sospiri, baci e lacrime, e deliberarono non maculare la fede data all'abadessa.

E però disse Leonora: “Ippolito, tu sai quanto è l'inimicizia delli nostri padri, e sapendosi l'amor nostro, non ci avverrebbe quello che suole avvenire, cioè che per congiunzione di matrimonio si onestasse l'amore, perché li nostri padri per la loro inimicizia e crudeltà ci occiderebbono, e così 'l nostro amore arebbe sventurato fine. E però io ti conforto che tu ti porti saviamente almeno per mio amore se nol vogli fare per lo tuo, perché tieni per certo che, come messer Amerigo mio padre sapesse il nostro amore, con ogni arte s'ingegneria tormi la vita, la qual cosa so che molto ti dorrebbe. Io non ho cuore che pensi altro che a te, e se io mangio, beo, dormo, o quello che mi faccia, tutti li miei pensieri sono scritti nel tuo viso. Tu conosci quanto pericolo noi incorriamo sapendosi il nostro amore. E perché tu non creda che io ami te con manco vigore che tu me, sappi che io sto in una camera, sola, la quale ha una finestra che risponde sopra la strada. E perché altro partito non c'è al nostro amore, tu verrai venerdì notte alle cinque ore con una scala di corda a piè della finestra, e attaccherai la scala a quel filo che tu troverai pendere della finestra, e io tirerò suso un capo della scala e attaccherollo al ferro della finestra, e tu allora sicuramente te ne verrai su per la scala in camera, e quivi potrai stare due o tre giorni celatamente senza saputa d'alcuno; e in questo modo assai spesso daremo compimento alli nostri amorosi desiri. Ma prima che di qui partiamo, voglio che a fede l'uno dell'altro ci promettiamo di non torre altra mogliera o marito; anzi, poiché la fortuna vuole che in palese non potiamo guardarci, che ne' nostri cuori non possi entrare altro che nel mio il dolce Ippolito e nel tuo l'amante Leonora”.

El parlare di Leonora piacque tanto ad Ippolito, che per la grande allegrezza non poté rispondere altro che con dolcissimi baci ringraziarla, e tornandosi drieto al letto, l'abadessa venne alla camera per Leonora, e trovatala in sul letto sola, di buona voglia la salutò. Di che usciti di camera ne mandò Leonora a casa; e la sera Ippolito dopo molte grazie e profferte fatte all'abadessa se n'andò a casa, e quivi con grandissimo desiderio aspettava el venerdì. E ritrovata la scala di corda, il venerdì a notte, solo, messosi questa scala in una berretta lunga la quale lui portava in capo, se n'andò verso le case de' Bardi, dove Leonora l'attendeva dalla finestra. Di che, andando Ippolito ed essendo già appresso al canto che arrivava alle case di Leonora, la maladetta fortuna gli apparecchiò uno strano caso, e questo fu che il cavaliere del podestà, andando alla cerca di notte e vedendo Ippolito, cominciò a seguitarlo E fuggendo lui, la berretta gli cadde, dove 'l cavaliere, veduta la scala, cominciò più volenteroso a seguitarlo, dubitando che non fusse qualche ladro, e tanto fece che giunse Ippolito e domandollo dov'egli andasse con quella scala a tal ora. Ippolito, per non vituperare Leonora, disse come con quella scala andava ad imbolare. Di che il cavaliere, maraviglioso del fatto, pur per rispetto della scala e del fuggire suo e della confessione, deliberò menare Ippolito seco al podestà. El giovane, essendo adomandato dal podestà, rispose come lui andava a rubare. El podestà, maravigliatosi dell'appetito bestiale del giovane, il quale era figlio dell'uno de' due primi uomini di Firenze, volentieri non arebbe voluto che gli fusse capitato alle mani, vedendo la sua umanitate, bellezza e infinita gentilezza; ma pure, vedendo la sua confessione, deliberò ritenerlo seguitando lo stile della ragione.

Leonora, aspettando il suo Ippolito, si maravigliava di tanta tardanza, e infine vedendo che già il giorno appariva, tirato il filo dentro, si mise a sedere in sulla panca del letto, pensando qual fusse la cagione che il suo Ippolito non era venuto, e temendo varie e diverse cose. La mattina la novella si spande per Firenze come Ippolito Bondelmonte è stato preso per ladro. Onde che a tavola desinando messer Amerigo, ed essendovi Leonora, lui dice alla moglie: “Non sai che 'l figlio di messer Bondelmonte questa notte qui appresso a casa nostra fu trovato con una scala di corda che andava a furare, di che lui è nelle mani del podestà; e sanza martirio ha confessato che andava ad imbolare, sì che io mi credo che lui sarà giustiziato come rubatore”. Leonora, udendo queste parole, tutta si smarrì, e partitasi accortamente da tavola se n'andò in camera, dove per lo gran duolo non poteva parlare; anzi tutta aghiacciata, serrato l'uscio della camera e postasi in sul letto, aveva il sangue dal dolore più ghiaccio che neve. Poi riavutasi un poco, “Ahi, morte - diss'ella - perché non mi cavi di queste pene? Ahi, sventurata Leonora, non vedi tu che per tuo amore Ippolito è giudicato a vergognosa morte? Non vedi tu che per salvare il tuo onore lui vuole perdere e l'onore e la vita? Non volere più vivere al mondo poiché 'l tuo fato in ogni cosa è contrario. Come potrai tu vivere sanza Ippolito, il quale non vuole vivere, non essendo salvo il tuo onore?”. E dicendo queste e altre dolorose parole la povera fanciulla, asciutti gli occhi, se n'andò in sala a sentire se nulla di nuovo udiva del suo amante.

Ippolito perseverava nella confessione, in tanto che il podestà lo fece raffermare a banco, e assegnogli il termine a produrre ogni sua difesa. Di che giunto il termine, il podestà fa mettere in punto per far giustizia. E qui mandato pel padre d'Ippolito, “Vedi - diss'egli - il tuo figliuolo è nelle mie mani, il quale di sua volontà ha confessato e confessa, e raffermato il delitto. Dio sa che a me duole d'essere esecutore di questa giustizia, ma bisognandomi seguitare l'ufficio mio, io ti priego che tu mi perdoni e che tu abbi pazienza a quello che la disposizione fatale ha deliberato. E acciocché tu sappi se io ti dico il vero, io voglio che tu parli al tuo figliuolo”. E miselo nel luogo ov'era Ippolito, al quale messer Bondelmonte con un fonte di lacrime si gli gittò al collo abbracciandolo e baciandolo. “Figliolo - disse'egli - a mal punto ti generai, poiché per te tal duolo doveva sentire el cuore mio, quale è quello che sente. E certo non ti faceva bisogno la roba d'altri. Ma la fortuna ha permesso questo acciocché la vita mia più non sia contenta, neanche quella della tua dolorosa madre, la quale io lasciai in tanto pianto e dolore, che io non so se io la troverò viva”. A queste parole lo infelice Ippolito nulla rispondea; di che 'l padre dopo molti lamenti si partì.

Il podestà la mattina a buon'ora fa mettere fuori lo stendardo, e fa suonare la prima volta la campana della giustizia. Leonora, che aveva il pensiero levato, quando la campana sonò, essendo in camera, gli parve quel botto della campana gli desse nel mezzo del cuore, e cadde in terra trangosciata. E tornata in sé, insieme con l'animo gli tornò la pena, e avendo tutto il pensiero levato, aspettava ne' grandi tormenti la morte d'Ippolito con animo di torsi anche lei la vita. Intanto suona la seconda e la terza volta la campana, e letta la condannazione, Ippolito disse al podestà: “Voi sapete la grande inimicizia la quale è continuamente stata ed è fra i Bardi e noi; e poiché la fortuna ha voluto del corpo mio vederne sì oscuro e brutto fine, almeno l'anima mia vorrei secondo il mio potere conducere a migliore fine. E però vi priego che vi piaccia, mandandomi alla giustizia, che io facci la via da casa de' Bardi, acciocché possa domandare perdono dell'odio che io come nimico ho portato loro”. Questo faceva Ippolito solo per vedere Leonora una volta prima che morisse. Di che 'l podestà, parendogli la domanda lecita e onesta, commise al cavaliere che andando alla giustizia facessi quella via. E così con lo stendardo e con la famiglia dell'officiale partitisi dal palazzo, s'avviorono verso la casa di messer Amerigo, il quale, avendo inteso la domanda d'Ippolito, con tutti li Bardi si partì di casa per non avere a perdonare al suo nimico, e nelle loro case solo rimasono le donne. Leonora spesso si faceva alla finestra, e intanto ella sentì la tromba, la quale va sonando quando alcuna va alla giustizia, il quale suono gli parve uno coltello nel cuore. E fattasi alla finestra, vide lo stendardo della giustizia, e vedutolo, dalla grande angoscia occupati li sentimenti naturali, cadde adrieto in terra come morta. E presto tornata in sé, fecesi alla finestra; ed eccoti venire Ippolito tutto vestito di nero con molti canapi intorti alla gola fra due manigoldi, il quale alla prima ebbe volti gli occhi verso la finestra, e veduta Leonora, si scontraro insieme con gli sguardi. Allora Ippolito con un grandissimo sospiro volti gli occhi alla sua Leonora, con uno reverente inchino da lei tolse l'ultima licenza.

Leonora dolente più che mai altra fusse, conoscendo quivi non essere tempo da piangere, come furiosa discese la scala, e quivi aspettava che Ippolito arrivasse dinanzi alla sua porta. E quando Ippolito fu a riscontro, ed ella si gittò fuori della porta, e prese la briglia del cavallo dov'era il cavaliere, dicendo: “Fino che la vita mi starà in corpo, tu non menerai Ippolito alla morte la quale lui non ha meritato”. E quivi scapigliata, lasciato il cavallo, gittò le sue braccia sopra il collo dell'amato Ippolito. Il cavaliere stupefatto del caso, vedendo la condizione del giovine e della fanciulla, cominciò a divenire timido e dubbioso che partito lui dovesse pigliare. La Signoria di Firenze, intesa la novità del caso, comandò che li giovani fussino menati dinanzi alli Signori. E quivi menato Ippolito legato con la corda intorno alla gola, e Leonora scapigliata, tutta piena di lacrime innanzi a tutto 'l popolo disse: “Niuno si maravigli, eccelsi Signori, di quello che io ho fatto, perché conoscendo io la manifesta e aperta ingiustizia, non solo ad Ippolito, il quale è mio legittimo sposo e marito, ma a ciascuna strana persona arei io fatto questo che io ho fatto a lui, però che, siccome a difensione della giustizia ciascuno debb'essere coadiutore, così a propulsione dell'ingiustizia ogni uomo debbe essere defensore. Quello che io ho difeso iuxta il mio potere è Ippolito, el quale è qui. Io non aiuto già un malfattore, anzi uno innocente; non aiuto uno strano, anzi il mio sposo, il quale non sono molti giorni in uno onestissimo luogo mi tolse per sua donna, e la notte che lui fu preso, veniva alla casa mia per consumare il matrimonio lecitamente. E poiché per la maledetta nimicizia paterna non si poteva fare la cosa palese comodamente, bisognava che di notte si facesse, e su quella scala, con la quale lui diceva, per salvare il mio onore, che lui andava a furare, esso doveva salire per la finestra della camera mia e venire a me. Ora, Signori, voi avete inteso il caso. Ippolito è mio marito, e se per andare a dormire con la sua donna si merita le forche, certo lui le merita; se no, io vi domando ragione, e che voi mi rendiate il mio sposo. Altrimenti io appello a Dio e al mondo, chiamando vendetta di tanta ingiustizia, pregando Iddio che con giusti occhi risguardi le vostre inique sentenze e malvagi giudici”.

A queste parole li Signori e il popolo rimasono molto maravigliosi, e saputo da Ippolito esser vero tutto quello che la fanciulla diceva, mandati per li padri loro, li quali, inteso il caso, quivi in presenza de' Signori e del popolo mandaro per molte donne e convitate notabilissime, e fatta una bellissima festa fermarono el parentado, e dove già dugent'anni e' Bardi e Bondelmonti erano stati nemici a morte, divennono tanto amici per lo parentado che tutti parevano d'uno sangue. Ippolito e Leonora vissono lungo tempo in grandissimi piaceri con allegrezza e consolazione d'amicizia, di roba e di bellissimi figliuoli.

Che, diremo dunque male dell'amore che fu cagione di tanto bene? Certo quella persona che mai non è punta dall'amore, non può sapere che cosa sia malinconia, piacere, animo, paura, dolore e dolcezza.

 

 

- FINE -