Leon Battista Alberti

 

Intercenali. Libro decimo

 

 

Proemio.

 

Micrologo, uomo di umile condizione, non avendo trovato nessuna compagnia, viaggiava da solo dall'Arcadia agli egizi gimnosofisti con l'intenzione di apprendere la virtù. Per caso entrò in una selva oscura e impraticabile e mentre nel suo cammino si soffermava a raccogliere chiocciole forse per nutrirsi, si imbatté in Ercole (quello che poi per la sua virtù fu considerato un dio), il quale nella stessa selva inseguiva un leone. Dal suo atteggiamento e dai tratti del viso Micrologo cominciò a sospettare che quello non era indiano, ma piuttosto argivo. Pertanto disse: "Orbene, fratello, quale strada porta in città?". Benignamente Ercole accettò di essere chiamato fratello da un pezzente e con molta cortesia apprese della sua patria e dello scopo del suo viaggio e lo informò che il bosco era pieno di insidie. Gli disse perciò di dirigere i suoi passi verso i raggi del sole, dal momento che solo con grandissima difficoltà sarebbe riuscito a uscir fuori dalla selva. Infine confessò all'uomo, che non solo la lingua greca ma anche un identico amore per la virtù gli facevano apprezzare e in un certo senso considerare naturalmente affine, di dovere a Micrologo tutto il suo fraterno amore e tutto il suo rispetto.

Qual è il significato di questo racconto, o studiosi? Ve ne prego, amici, riflettete. Tutti noi che ci dedichiamo agli studi letterari aspiriamo, se non mi inganno, alla virtù e alla gloria attraverso la conoscenza delle buone arti; ma non tutti siamo dotati di tale forza da poter inseguire con sicurezza un leone. La natura, poi, non ha voluto elargire a tutti pari forze di ingegno; per questo si addicono e piacciono ad alcuni le cose grandi, ad altri le piccole. Non è allora un nostro difetto se, mentre gli studi letterari e il comune interesse alla virtù ci spingono ad essere uniti in un fraterno e sacro vincolo, in mezzo a così grandi difficoltà di realizzare i nostri disegni, abbiamo in noi tanta insolente superbia da credere che nessun altro può aspirare alla vera scienza? E nemmeno, per quanto ci compete, permettiamo che vengano aiutati senza nostro danno, in nome del nostro dovere e della clemenza propri degli studi letterari, coloro che sono come smarriti in una grande selva; ma anzi ostacoliamo quelli che, scorta una fiammella di lode e di fama, avanzano con la loro operosità verso la gloria della virtù, o smorzando il loro prestigio o deviandoli verso un cammino sbagliato. Se è infine gradito cimentarsi nella critica, ritengo che tutto il branco degli indotti sia argomento non trascurabile né poco adatto; e in questa critica è consentito eccedere con assoluta libertà e impunità di linguaggio, come se fosse stata dichiarata una guerra legittima, dal momento che non c'è tra padroni e servi, tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli tanta inimicizia quanta, per naturale istinto, tra dotti e ignoranti. Ma non voglio essere più prolisso. O studiosi, se l'esercizio delle lettere e della virtù ha raffinato le vostre qualità morali, di questo solo vi supplico: non consentite che si discosti dalla pietà e dal diritto quel divino ingegno che Dio vi ha dato per ricercare e compiere le più alte imprese. Vi prego di non disprezzare noi più deboli che concepiamo pensieri più adatti ad ingegni tardi e mediocri. Se vi ho avuto tutti come fratelli, se non ho offeso nessuno e ho giovato a tutti quelli che ho potuto, adoperatevi ve ne prego, assieme a me affinché i posteri non abbiano la sensazione che questo nostro tempo, non privo di brillanti scrittori, sia pieno di invidia. Otterremo questo, se, deposte le nostre contese, ci ameremo l'un l'altro: fate ciò e siate felici.

 

 

Argomenti del decimo libro

 

Il gufo. Certi cittadini, anche se sono malvagi, devono ciononostante, essere mantenuti nello Stato.

Le nuvole. Non si deve gareggiare con i superbi in boria e tracotanza.

Perseveranza. Ma bisogna inchinarsi alle circostanze.

Il tempio. La boria e la pompa sono state sempre rovinose.

Il lago. Non si devono introdurre mutamenti nella vita dello Stato per ammantarsi di onori, ma si devono rispettare le antiche consuetudini della patria, comunque esse siano.

Il lupo. Nell'agire non si deve confidare nella benevolenza della fortuna e nei successi, per portare offesa a qualcuno.

Il ragno. Avviene talvolta che l'ostilità dichiarata ai meschini e ai reietti conduca i più potenti alla più disastrosa rovina.

 

 

Il gufo

 

Quando gli alati di ogni specie si radunarono sul monte Olimpo, per prendere comuni decisioni sulle pubbliche faccende, il gufo, l'uccello più dotto nelle cose antiche, poiché per il comportamento e gli atti era considerato filosofo (e in quel momento tutti lo guardavano con molta attenzione), tenne un pubblico discorso, a mio giudizio, non privo di eleganza. In esso, per esporvene come il sunto, diceva di ringraziare gli dei che gli permettevano di vedere tanta folla desiderosa di ascoltare ciò che egli per tutta la vita in molte veglie aveva ricercato per la comune utilità. Disse che gli ascoltatori avrebbero capito facilmente che egli aveva scoperto il modo con cui conservare, con mutuo vantaggio, l'amicizia perenne tra i diversi uccelli e una onorevolissima pace. Ma per questo c'era innanzitutto bisogno di una legge, con cui castigare i malvagi e gli ostinati e offrire ai buoni un modello di vita onesta. Quindi discusse a lungo e con pertinenza della forza della legge e riferì che questo è il principio fondamentale concordemente sostenuto da coloro che si occupano di questi problemi. Il mondo, e tutto ciò che è al mondo, è governato nel migliore dei modi dalle leggi di natura e, al contrario, non esiste nessuna attività pubblica e privata, che possa durare a lungo senza leggi. Perciò affermava che la legge è assolutamente necessaria. Né perciò si doveva prestare ascolto agli eventuali facinorosi e insolenti oppositori di questo principio, i quali, proprio perché pretendono di vivere senza il freno di nessuna legge, ritengono questa difficile e gravosa. Agli onesti certamente la legge è gradita.

Poi rivelò la sua proposta di legge: "Gli uccelli che hanno artigli falcati e rostro adunco, tanto che non possono ruspare nella terra e prendere il cibo, siano nutriti dagli altri uccelli". Egli più volte li invitò a considerare con attenzione quanti vantaggi comportasse questa legge. Giurò per i grandi dei che la legge era stata approvata da tutti gli onesti, con cui aveva conferito prima di venire a proporla. E domandò se qualcuno ignorava che non erano stati dati dalla natura uguali poteri e facoltà a tutti i viventi. Dunque chi non è del tutto dissennato deve sopportare la sua sorte e ricordarsi sempre che, col mutare degli obblighi, bisogna sottomettersi a ciò che è inevitabile. Fece allora lunghi discorsi sulla liberalità; disse che l'amicizia nasce dalla liberalità, che essa cresce con i benefici e che con la generosità si acquista il favore dei cittadini e, infine, sotto la guida della natura, le persone generose sono a tutti così gradite, che esse vengono amate da conoscenti ed estranei e apertamente lodate. Infine proclamò che tutti dovevano considerare empio e quasi contrario alle leggi della natura il rifiuto di donare a chi è bisognoso quel che si ha in abbondanza. Il potere e il comando non vengono esercitati da coloro che sono dotati di animo forte e generoso per danneggiare qualcuno, ma per attirare a sé con benigna generosità quanta più gente possibile. Perciò tutti devono assecondare il compito dei governanti con la condiscendenza, così da doverne ricevere ringraziamenti, come indubbiamente ringrazieranno coloro che riceveranno aiuti dai più generosi. Prometteva di conseguenza solido e eterno legame di familiarità tra coloro che hanno ricevuto e coloro che hanno fatto il beneficio e quindi, quando ciò apparirà in tutta la sua evidenza, gli uni spingeranno con la continua liberalità l'animo di molti a rafforzare la schietta amicizia, gli altri, ben meritando di sé, saranno riconoscenti con l'animo pronto e memore. Non c'è uomo saggio che, comprendendo il valore dell'amicizia, non si prodighi per non sembrare ingrato a nessuno. Aggiungeva inoltre che non poco giova alla virtù avere a disposizione quasi un rivale, con cui poter gareggiare nei doveri e nella benevolenza e da cui con somma lode attendersi graditissimi frutti.

Perciò si dilungò sui vantaggi della legge, tanto che non tralasciò nessun argomento per dimostrare che la legge era onesta, liberale, utile e, infine, degna di approvazione. Tutta la plebaglia, soprattutto i corvi e le cornacchie, cominciava ormai ad approvare apertamente; ma il pavone, le anatre, la pernice e simili alati, splendenti di oro e di gemme, poiché erano tronfi e boriosi, mal sopportavano questa cosa; e in particolare le anatre, gli uccelli più ciarlieri, si impegnarono a sabotare la legge. Dopo aver imposto silenzio agli altri, questa ciurmaglia cominciò a parlare, partendo dagli antenati e da quelli che con la loro virtù e i loro meriti avevano lasciato chiara fama di sé e ai posteri quiete e tranquillità e innalzò con grandissimi elogi i detti e i fatti di costoro. Sostennero invece questi animali che erano degni di biasimo coloro che tralasciavano le regole degli ottimi e saggi antenati. Denunciarono che in questa famiglia gli scontenti dei costumi e delle usanze patrie volevano introdurre nuove e non usuali frodi. Si apriva perciò ai mestatori e ai sediziosi la via per promuovere rovinose iniziative, in modo da portare a compimento, con il conforto della legge e il suffragio degli ignoranti, quello che volevano realizzare con la forza delle armi. Bisognava quindi stare attenti, per gli dei immortali a non perdere la libertà, di cui nessuna cosa più dolce e più cara si può trovare nella natura, credendo di conquistare la libertà. Chiesero infine quali nemici potessero essere tanto rozzi e feroci che, per difendere la libertà, anche appartenendo alla plebe più vile e umile, non proclamavano che bisognava resistere con le armi e con la forza. Per questo era necessario stare all'erta, affinché quella libertà, che era messa a repentaglio da un nemico forse armato, fortissimo e apertamente ostile, non venisse distrutta quasi con l'inganno da gente volubile e scaltra con le sue chiacchiere. Infine dissero che bisognava considerare quanto fosse distante dalla libertà intraprendere un'attività, che malvolentieri si è costretti a svolgere per mezzo di un editto. E affermarono che i popoli liberi devono approvare solo le leggi, che a ciascuno conservano il suo e impediscono le offese dei violenti; e finalmente che si devono del tutto eliminare, se ci sono, quelle che ai tuoi figli sottraggono la ricchezza acquistata con il sudore e i pericoli; a te la libertà concessa dagli dei; e a tutti l'operosità maestra di una buona condotta di vita. Certo nessuno preferisce condurre una vita inerte e misera, per accondiscendere e servire individui oziosi e volgari. A questo punto non tralasciarono nessuna lode dell'operosità. Le ricchezze, sostegno dello Stato, si accumulano con l'operosità; pochi operosi hanno portato spesso, nei momenti di maggiore difficoltà, la ricchezza e la salvezza a tutto il popolo. Uno Stato ben fondato e bene organizzato non tanto deve provare riconoscenza grandissima verso gli operosi, quanto odio mortale verso gli oziosi. Si devono scacciare e sterminare tutti gli oziosi, di modo che ricevano il castigo per aver recato danno allo Stato e non contaminino gli altri con la macchia dei loro cattivi costumi. Dopo di ciò elencarono accuratamente tutti i delitti che nascono dall'ozio. E proseguirono nel loro discorso fino a mostrare che la legge del gufo può piacere ai pigri e agli ignavi, ai malvagi e ai perfidi. Questi, poiché non sanno procurarsi il vitto con la propria operosità, fuggono; oppure, poiché non possono saziare, secondo il loro capriccio, l'infinita brama del loro animo e le loro superbe voglie, si sforzano di soddisfare sé medesimi con le fortune degli altri innocenti e con la rovina della collettività. Perciò giurarono che una legge siffatta appariva decisamente dannosa a tutti gli onesti. Se c'era tuttavia qualcuno così vile, che con il suo servilismo preferiva sembrare dipendente dagli altri piuttosto che desideroso della sua libertà, costui, se aveva deciso di poter essere così prodigo delle sue cose e del suo favore da accettare una vergognosa condizione, non imponesse agli altri con la sua impudenza la necessità di servire.

Sarebbe qui lungo riferire l'elenco di tutte le pericolose discordie che, secondo loro, sarebbero sorte con il passare del tempo, se avessero offerto non solo ai morti di fame, ma anche agli scioperati e ai perditempo in genere, abbondante cibo; altri avrebbero poi osato avanzare richieste più esose, se non difendevano la libertà contro gli oziosi e gli arroganti. Con questa orazione avevano volto l'animo degli ascoltatori a valutare il significato della libertà; tuttavia, poiché con la precedente orazione il gufo si era imposto per la sua eloquenza, la folla esitava incerta e oscillante. I notabili, che avevano osservato la disposizione d'animo della folla muta, avvicinandosi a ciascuna specie di uccelli, con ogni argomentazione sconsigliavano la legge e passeggiando tenevano questi discorsi: il gufo era chiaramente pazzo, se, per mostrarsi filosofo e dar l'impressione di aver fatto chissà quali scoperte, solo, in un gruppo di nobili cittadini, era andato a tenere un'insensata declamazione e con voce roca aveva pronunciato un'orazione vana, sciocchissima e inconcludente. Infatti, oltre ad aver mostrato l'estremo della bruttezza con il suo viso pallido e gli occhi gravi, non aveva presentato nessun argomento adatto a un filosofo, né nel suo modo di comportarsi si riscontravano atteggiamenti analoghi a quelli dei filosofi, tranne il fatto che si compiaceva di vivere in dura solitudine nei teatri deserti e nella triste ombra. Nella musica, poi, il cui apprendimento lo faceva vegliare notti intere, e nella quale sosteneva di essere valente, mostrava, come era possibile vedere, un'assoluta incapacità. Esortavano allora a considerare i gesti tristi di quell'uccello e ad osservarne il cipiglio, chiedendosi se egli avesse consultato tutti insieme gli dei del cielo e dell'inferno quando aveva proposto la legge".

Il gufo volgeva da tutti i lati le orecchie e gli occhi per capire quel che si diceva qua e là sul suo conto e si stupiva che facessero discorsi tanto stolti e discordanti. Gli uccelli, osservando il suo volto e i suoi gesti, scoppiarono in una risata sonora e volarono tutti attorno alla bestia per dileggiarla. Quando l'aquila, l'avvoltoio e gli uccelli di questo genere si accorsero che l'assemblea si era risolta in una burla, si radunarono subito a deliberare e, presa una decisione, stabilirono di mettersi in stato di guerra, dal momento che non potevano restare in pace e sotto la legge. Da allora fino ad oggi sono stati in perenne conflitto con i notabili.

Con quest'apologo vorrei far capire le analogie con i sistemi politici: ci sono alcuni che è meglio mantenere con la condiscendenza che con il pericolo di vita.

 

 

Perseveranza

 

Le querce, sradicate dallo scirocco, non cessavano di provare grande meraviglia di fronte alle canne, che sostenevano incolumi e illese la grande forza del vento furioso. Allora le canne dissero: "Di che vi stupite, o immense querce? State al suolo, perché vi opponete resistete. Noi, invece, umili, vanifichiamo gli assalti della fortuna con la condiscendenza e la pazienza".

 

 

Le nuvole

 

Nella precedente generazione dei nostri padri l'Italia era solita avvalersi in guerra, in difformità dall'antica usanza degli antenati, non di cittadini, ma di soldati mercenari e di armi straniere. Questo (se non mi inganno) avveniva per un accorto disegno, in quanto essi ritenevano più conveniente opporre al furore delle armi uomini che si vendono e sono d'infima condizione, anziché provare la fortuna della guerra con pericolo e disagio dei cittadini. Forse volevano anche evitare che il soldato latino usasse le armi per condurre la patria alla rovina. Il che, in verità, è avvenuto. Infatti, poiché nemici assidui, mossi dalla speranza di vittoria e dalla brama di preda, hanno taglieggiato in Italia popolazioni prospere e pacifiche la gioventù italiana a poco a poco si è sentita attratta dal richiamo delle armi. Essendo la gente italica fiera e nata per comandare subito sorsero qua e là per tutta l'Italia innumerevoli condottieri, dotati di tanto coraggio e superbi per la gloria di tante imprese, che ciascuno di loro non badava alla vittoria e ai trionfi. ma principalmente al potere e non riteneva piena la vittoria se non riusciva a tenere sotto la sua giurisdizione coloro che aveva superato. Perciò, dal momento che questi ritengono bellissimo governare e le libere città non servire a nessuno e, non trascurando nulla gli uni per acquisire il potere, le altre per difendere la libertà, da una parte e dall'altra sorsero tante discordie, che non solo gli uomini, ma anche gli dei se ne stupirono moltissimo. Pertanto da Giove ottimo massimo, a cui sempre fu a cuore la pace degli uomini, fu mandato Mercurio, messaggero degli dei, affinché chiedesse cosa significassero tanti apparati militari in ogni parte d'Italia. Presi i talari, il dio, volando verso le Alpi, si fermò in quel luogo da dove poteva vedere Gallia e Etruria e qui depose i talari e lasciò l'aspetto divino per mescolarsi meglio tra i mortali. Subito gli si accostarono le Nuvole e, fatta corona, salutarono assai familiarmente il dio; di esse infatti era solito servirsi Mercurio per le sue operazioni.

"Certo", disse Mercurio, "siete venute a proposito; suppongo che potrete liberarmi dalle preoccupazioni con cui sono venuto. Voi che, di grazia, sovrastate le città giorno e notte, ditemi la ragione, poiché potete facilmente saperlo, per cui in ogni angolo gli uomini impugnano tante armi?". Allora le nuvole: "Sappi, o Mercurio," dissero "che Plutone ha una figlia, probabilmente nota agli stessi dei, il cui nome è Ambizione; il suo aspetto è così bello che la desiderano ardentemente molti giovani nobili e non pochi patrizi. Ma la fanciulla è mutevole e petulante e gode moltissimo di uno stuolo di corteggiatori e promette a tutti, a suo capriccio, ciò che essi desiderano da lei. Perciò chi spasima d'amore è sempre pronto a riverirla con ogni opera, cura, attenzione, assiduità e ostacola e vanifica in tutti i modi possibili le speranze e le attese dei rivali. Tra loro, quindi, sono nate liti, odio, risse; e a causa dei conflitti di parte si è arrivati al punto che hanno deciso di scontrarsi in assetto di guerra".

Mercurio, avendo compreso la situazione, disse: "Veramente la donna è la rovina degli uomini; da essa sempre sono derivate contese, dissidi e ogni calamità nelle cose pubbliche e private". E mentre si accingeva a tornare da Giove, chiese se mai le nuvole volessero qualcosa da lui. Allora le nuvole dissero: "O Mercurio, ci hai detto proprio quello che ci aspettavamo. Infatti per la tua benignità verso di noi, come speriamo, non rifiuterai di patrocinare una causa giusta e santa, e nient'affatto difficile. Ti preghiamo e ti supplichiamo di farlo. Questo è l'oggetto della causa. Sai, o Mercurio, che non siamo affatto di umile stirpe. Nate infatti e dalla Terra e da Giunone, è, pensiamo, noto a tutti che siamo state di sicuro generate da Febo. Quanto sia modesta e tranquilla la nostra vita non è necessario dirtelo, essendo una cosa arcinota. E allora? Non è forse un'offesa che i fuochi abbiano come dimora l'Etna e per re Vulcano e i venti riempiano grandi e vari spazi e per molte contrade si aggirino sotto la guida di Nettuno tanto che scorazzano per tutto l'etere, il mare, i monti e infine per tutta la terra? Noi, invece, innocue, stabili nel nostro lavoro, non abbiamo l'onore di un re, non siamo protette da leggi; anzi (condizione molto amara), sempre raminghe e fuggiasche siamo agitate, tanto che non ci è mai consentito di fermarci, mai di riposare in tranquillità. Sempre alimenteremo l'ombra con le nostre lacrime? Noi forniamo la rugiada e il nutrimento ai semi, affinché diventino maturi e dolci frutti, di cui si nutrono le vittime degli dei e gli uomini, delizia dei celesti. I venti scalzano i fiori e con le inondazioni sconvolgono il campo coperto di erbe; i fuochi devastano le messi mature. Non è giusto trattenerti più a lungo con i nostri moniti, dal momento che sei saggio e ci accorgiamo che hai fretta di ritornare da Giove. Ti preghiamo soltanto di perorare questa causa della nostra salvezza e dignità, se la giudicherai onesta e non indegna del tuo amore verso di noi. Ma vogliamo convincerti, o Mercurio, che niente di più gradito può esserci dato da te quanto ottenere con la tua collaborazione questo giusto favore che gli dei possono facilmente compiere. Desideriamo l'onore di un re e il possesso di una patria dopo il lungo esilio, per poter qualche volta venerare in pace gli dei con devota religiosità. Non rifiutiamo nessuna sede e nessun re, purché dignitoso. Se grazie a te, Mercurio, si realizzeranno, come speriamo, i nostri desideri, ti accorgerai che saremo memori e riconoscenti del tuo benevole aiuto".

Allora Mercurio disse: "Voglio arrecarvi onori e vantaggi; ma spetta a voi considerare se in questa faccenda vi giovi di più che Mercurio sia avvocato delle nuvole presso i celesti o piuttosto consigliere di Giove; con questi cercherò di orientare in modo per voi soddisfacente il senato degli dei". Fu deciso allora che i messaggeri partissero assieme a Mercurio. Raccontano che Giove corrugò la fronte per un po' dopo avere ascoltato la loro perorazione e le loro richieste. Quindi dopo aver taciuto per qualche istante pieno di pensieri, congedò i legati delle nuvole con questa risposta: gli dei decidono che le nuvole abbiano un re e un regno a loro scelta. Tuttavia per andare ancor più incontro ai desideri delle nuvole, senza offesa per nessuno, delegava il compito di scegliere un re adatto agli dei e degno di stima al parlamento delle nuvole. Stando così le cose, le fece riunire in comizio, con la speranza di convincerle che da parte degli dei non sarebbero mancate sedi e onori per il re proclamato.

Perciò da ogni contrada le nuvolette segretarie volano ad accogliere le nubi nobili, grandissime e barbute, per indire i reali comizi. Eccole, quindi, le candidate, dall'aspetto meditabondo, nobile, contegnoso; ciascuna, reclamizzando i suoi disegni e i suoi programmi, era pronta ad esercitare il potere e a promulgare le leggi. Erano inoltre piene di tanta arroganza che, accantonate le solite bestie da tiro, si fecero trasportare da animali più rari, dall'idra, dall'ippocentauro, dalla belva di Lerna e da simili mostri. Affermano che al padre Febo fosse odiosa la boria e la superbia delle nuvole; ed egli, non sopportando il loro sussiego, girò il viso, ma le nuvole, quando giunsero a mucchi presso la cima, con insopportabile ostentazione di dignità e di maestà, con voce grave e sonora, e tuttavia soffocata e cupa, oppure sorda, si salutarono tra loro e appena furono ammesse tutte le classi ai comizi centuriati, è incredibile a dirsi con quanta premura ciascuna si precipitò a occupare tutti i seggi. Avresti potuto udir crescere la loro voce grave e rauca, e dopo di ciò scoppiare in grandissimi clamori; quindi per l'aspra contesa delle parti, si cominciò a ricorrere alla forza; le candidate, in preda alla furia, posato il mantello sul braccio, usarono pietre e fiaccole come armi. Non si può dire la paura che arrecò ai mortali e agli dei il conflitto, il fragore e il fracasso dei contendenti. I fiumi si gonfiarono per il sangue delle nuvole; i monti e i templi degli dei tremarono di sgomento e di paura. Non c'è dubbio che anche gli dei restarono attoniti e sospesi come se crollassero le fondamenta del cielo. Dicono che solo Giove con la fronte placida e serena, emesso un sospiro, sorrise dopo tanto agitarsi delle nuvole e a chi lo interrogava disse che non a caso aveva consigliato alle nuvole di accordarsi tra di loro per l'elezione di un re. Sapeva che l'indole delle nuvole è sconsiderata e malvagia e che, quando sono gonfie di superbia, con gran boria e supponenza scelgono un comportamento capriccioso e volubile. Aveva inconfutabile prova della loro sconsiderata arroganza, oltre che da altri particolari, proprio del fatto che esse desideravano un re e una sede per il loro regno. Se lo avessero ottenuto e avessero saputo orientare la forza, i progetti, la volontà, i desideri al comune onore, non sarebbe stato senza dubbio lontano il giorno in cui, nella loro illimitata tracotanza, avrebbero tentato di assalire gli astri, la luna e lo stesso sole. La cosa più augurabile era di stroncare la loro insolenza. Infatti coloro che hanno una parvenza di virtù o di vizio facilmente si radunano tra loro; e vediamo con quanta familiarità vivono insieme i beoni, i ghiottoni, i femminieri, i biscazzieri, i ladri, i banditi, i sicari, gli assassini e altri scellerati di questa risma; solo il superbo sdegna e odia il superbo simile a lui e chiunque al superbo è meno fastidioso del superbo. L'indole dei superbi è tale che essi sono sempre tra di loro molesti e ostili.

 

 

Il tempio

 

Ci fu in Etruria, come ho appreso dai nostri antenati, un tempio di grande nobiltà e bellezza dedicato alla dea Tosse, oggetto di antichissimo culto e degno, per il suo aspetto, dell'universale ammirazione; in esso non infrequentemente si celebravano sacrifici e festività di grande rinomanza a cui partecipavano tutti i vicini. Questo tempio sarebbe durato sino ai giorni nostri se non fosse clamorosamente crollato per una circostanza inaudita e straordinaria. Infatti accadde che le pietre, che giacevano come fondamenta del tempio, spinte dal vano desiderio di novità, tennero tra loro simili discorsi: "Che facciamo, fannullone? Siamo gettate in questa perenne servitù e mai sarà possibile liberarci dall'immane fardello al quale siamo sottoposte? Dovremo sempre sopportare quelle pietre insolenti e inerti che gravano sulle nostre spalle? Cosa sarebbe accaduto, se esse fossero arrivate prima in questo luogo? E se avessero occupato prima delle altre questa dimora? E se ad esse fosse stato anticamente prescritto il possesso di questo suolo che è stato assegnato a noi? Che offesa è questa? Le pietre nuove e straniere si trovano alla luce del sole? Chi è tanto vile da sopportare a lungo questo stato? Quelle, indolenti e inutili, sono ornate di corone d'oro; noi che con la nostra fatica e il nostro vigore assicuriamo la salvezza e l'incolumità di questo tempio, siamo sempre imbrattate e insudiciate dal fango e dal muschio. Resteremo per sempre neglette e ignobili, mentre quelle vengono baciate e abbracciate da fanciulle leggiadre e fresche? Riscattiamoci da questa vergogna passando alla gloria della forza e dell'onore. Saliamo con animo forte e audace e avanziamo, come meritiamo, nell'alta e celebre sede del tempio". Con l'animo acceso da queste parole, si affrettarono ad eseguire il loro disegno. Ma si erano appena sollevate per muoversi che tutto il tempio rovinò da ogni parte con grande fragore. Per questo gli artigiani spezzarono alcune pietre, ma soprattutto quelle delle fondamenta, in parte per farne calce, in parte, dopo averle tolte dal luogo sacro, per pavimentare il condotto della cloaca. Accortesi di quel che era accaduto, le pietre che erano state la causa di tanta disgrazia si addolorarono dei disastri e delle sciagure che coinvolgevano se stesse e le altre. E mentre si lamentavano, non smettevano di ammonirsi l'un l'altra: è pazzo chi non vuole essere quello che è; è dovere dell'uomo prudente non detestare la posizione che gli ha dato la sorte; si deve piuttosto sopportare la vecchia norma, anche scomoda ed ingiusta, anziché con nuove leggi precipitare te e gli altri in un male grave e forse estremo.

 

 

Il lago

 

In un laghetto, che non era di solito frequentato da nessun animale dannoso, moltissimi pesciolini e molte rane, animali dalle abitudini diverse, vivevano insieme con un diletto che non si può facilmente descrivere; e sia le rane che i pesciolini avevano infatti ereditato dai loro antenati l'abitudine di mettere tutto in comune in quel luogo. Ogni giorno si svolgeva lì questo tipo di spettacolo: i branchi di pesciolini si raggruppavano danzando, le rane cantavano delle melodie saltellando. Tale era in sostanza il loro modo di vivere che non c'era niente da aggiungere ai giochi, all'allegria, alla gaiezza. Somma era innanzitutto la libertà, grandissima la pace, assenti le discordie interne, assenti i sospetti tra i cittadini, assenti le invidie e le contese con i vicini e gli stranieri; incredibile l'accordo degli animi e delle volontà nelle cose pubbliche e private. In tale situazione, sia perché questo è il comune destino delle cose umane (in quanto le creature mortali non possono avere niente di perenne e di stabile), sia per l'innata mancanza di misura di molti, che non possono accettare con equilibrio la fortuna propizia, accadde che alcuni pesciolini bramosi di fama e di sembrare promotori di importanti iniziative pubbliche, promulgarono queste legge: "Le rane abitino la spiaggia e le parti superiori del lago: i pesciolini tengano le parti inferiori".

Questa legge piacque a tutti, tranne che ai vecchi più saggi; ma essi non si pronunciarono con sufficiente energia contro i promotori della legge per disapprovarla. Questi ultimi, anzi, poichè alla moltitudine sembrava che essi avessero trovato un ottimo sistema di vita, furono pubblicamente lodati. Si riteneva che, grazie a questa disposizione, la regione era stata ben divisa, dal momento che questa legge impediva alle rane di sporcare le acque profonde rivoltando il limo e faceva obbligo ai pesciolini di restare nelle loro caverne. Avendo pertanto obbedito alla legge per alcuni giorni con grandissimo scrupolo ed essendo ognuno rimasto volentieri al proprio posto, accadde quel che accadde. Nessuna disposizione, per quanto sacra, per quanto egregia, viene introdotta nell'amministrazione dello Stato senza che essa venga cancellata da nuove leggi e, quasi con disprezzo, ignorata dalla massa insolente e bramosa di novità. La folla dei pesciolini, secondo le antiche libere consuetudini, emergeva non raramente alla superficie e anche le rane si introducevano nella zona dei pesciolini. La legge cominciò ogni giorno di più ad essere rifiutata. Erano scontenti di questa situazione coloro che erano stati i promotori della legge; ed erano sdegnati del fatto che la loro autorità non meno dei pubblici regolamenti venisse trascurata e svuotata d'importanza. Perciò con discorsi in pubblico e in privato cercarono di convincere le masse che era molto bello sottoporsi a qualsiasi sacrificio per far rispettare la legge. Riuscirono soprattutto a convincere i pesciolini, che stavano in estasi davanti alla loro eloquenza e applaudivano con grande calore, affinché, quando gli oratori mandavano un banditore, con il lancio di una pietruzza nel lago, non ne ostacolassero il ritorno in sede. I pesciolini rispettavano l'editto senza alcuno sgarro; ma le rane garrule e petulanti, per loro natura insolenti, o perchè ritenevano molto più piacevole l'antica libertà e il modo non coatto di vivere, o perchè sdegnavano l'antipatica prosopopea degli oratori, non solo non rispettavano l'editto, ma anzi, quando era lanciata una pietra, si dirigevano subito verso la parte bassa del lago e, accorrendo da ogni lato, disturbavano le assemblee con grande schiamazzo e impedivano l'ascolto della voce dell'oratore. Gli oratori proclamavano che veniva tradita la repubblica e commesso un grave delitto, sostenendo che quella resistenza alle leggi avrebbe provocato la rovina dello Stato. Le rane affermavano che erano dei pazzi a non capire che a causa di questa legge erano stati introdotti dei tiranni, mentre esse avevano compreso che era vergognoso obbedire al loro sciocco editto: esse non odiavano ancora a tal punto la libertà da non ritenere bello salvaguardare senza ulteriori regole l'antica indipendenza dei padri anziché sottostare ad una legale servitù. Cosa aggiungere? Mentre da un lato gli uni sono pronti, dall'altro le rane rifiutano di obbedire alla legge. Con la forza delle loro parole gli oratori sollecitano con continui discorsi il volubile stuolo dei pesciolini a considerare ora un delitto e un'offesa gravissima per il rigore della legge quello che prima era consentito come gaiezza e gioco. Da un lato e dall'altro si udivano perciò vari e gravi lamenti e durissimi litigi. E la questione era arrivata, a causa delle passioni di parte, alle armi e allo scontro frontale. I pesciolini a questo punto, poichè capivano di essere inferiori per forza, decisero (avvenimento degno di essere ricordato nelle lettere) di ricorrere all'inganno.

Non lontano da questo lago nidificava un grandissimo serpente in una conca paludosa, dove i pesciolini avevano l'abitudine di passare per sotterranei cunicoli. Gli araldi dei pesciolini andarono a chiamare costui e parteciparono all'ambasceria gli stessi propugnatori e sostenitori della legge. Il serpente, colpito dalla loro eloquenza, ritenne di non compiere nessun gesto prima di recarsi con gli stessi messaggeri a ispezionare il luogo e gli abitanti. Particolarmente lieti per il suo arrivo i pesciolini si congratulavano tra loro. Ritenevano che sarebbe stata domata per sempre la superbia delle rane, che vedevano scoraggiate per la paura del tiranno. Le rane, appena capirono con non oscuri indizi la frode dei pesciolini e il loro malvagio inganno, stabilirono di render la pariglia, chiamando la lontra, animale ostilissimo ai pesciolini.

I vecchi ritenevano che era da cittadini folli preferire di rivaleggiare nell'odio piuttosto che nell'amore e nel dovere e che non era giusto, proprio perché detestavano la crudeltà, commettere degli atti che li avrebbero fatti sembrare assai malvagi. Se ancora ragionavano, non dovevano introdurre, non solo come vendicatore, ma nemmeno come arbitro delle lotte e dei conflitti domestici un estraneo, al quale anche renitenti dovevano obbedire. E disputavano sul modo più facile per tenere lontane dalla loro vita creature di tale superbia e ingordigia, se per caso (e l'avrebbero fatto) avessero cominciato a diventare moleste. Aggiungevano ancora che grande sarebbe stato il danno e di certo degno di biasimo, se le private offese dei malvagi cittadini avessero messo in pericolo la patria e se avessero subito delle offese tali da dover anch'essi piangere nelle disgrazie degli avversari. E infine chiedevano come avrebbero potuto pregare gli dei, dal momento che essi si rallegravano delle disgrazie dei concittadini e della propria vergogna. Supplicavano infine di astenersi dall'odio; e infatti preannunziavano che, a causa delle disgrazie nate dall'odio, si sarebbe verificata la rovina della patria e la catastrofe totale. Prevalse tuttavia il parere dei più astuti e di coloro che erano convinti fosse meglio vendicare in qualunque modo le offese. Perciò, senza aver riguardo per i vecchi, per mezzo di ambasciatori fecero venire da terre remote la lontra. La belva, per sua natura feroce e quasi sfinita dalla fame, appena si accorse di essere arrivata in un paese molto ricco, ringraziò gli dei per averla colmata in maniera inattesa di tanti doni, si recò dal serpente e con lui divise il potere e stabilì questa legge: "Il serpente governi sulle rane, la lontra sui pesciolini". Una volta sancita la legge, i crudeli sovrani dalle maledette fauci, imperversarono con intollerabile arroganza e odiosa violenza sugli individui di ciascuno dei due gruppi. Cittadini onesti e coraggiosi per un motivo ignoto venivano sgozzati. Nessuno aveva un bene che a lungo poteva considerare come suo. Erano infine afflitti da tanti mali, che erano costretti a piangere sia le loro disgrazie che quelle dei concittadini rivali. Immersi in tanti mali non erano allietati dalla speranza di una migliore fortuna; e ogni giorno di più i tiranni spadroneggiavano e diventavano crudeli.

Gli infelici non sapevano a chi rivolgersi, tranne che a quei vecchi, i quali spiccavano ai loro occhi per saggezza e prudenza. E ormai ognuno era disposto a sopportare qualsiasi cosa dagli altri, pur di non assistere allo spaventoso annientamento dei migliori cittadini e delle famiglie più cospicue. Ma i vecchi, che non erano stati ascoltati quando erano stati consultati in tempi di prosperità (anche i vecchi dissennati, nello sconvolgimento generale, erano circondati da un fitto stuolo di gente che supplicava, compresi i dignitosi e gli intrepidi) bisbigliavano esitanti che essi erano vissuti abbastanza per la vita e per la gloria e che non potevano fornire soccorso nelle avversità, dopo essere stati ignorati nella buona sorte. Perciò rimandarono la folla da quei furbi, ad opera dei quali erano stati disattesi i loro ottimi consigli. Infine, sollecitati dai figli e dalle mogli e richiesti con grandi preghiere di aiuto e di perdono, i vecchi si convinsero di non rifiutare la loro collaborazione alla patria in pericolo e in difficoltà, se quella massa indocile li ascoltava e obbediva alle loro parole. La folla giurò che avrebbe sempre rispettato questi padri come divinità, poiché capiva che essi avevano saggezza e capacità di prevedere il corso degli eventi futuri; sempre perciò li avrebbe seguiti con devozione e rispetto e mai avrebbe infranto i loro comandamenti.

I vecchi furono soddisfatti; preoccupati quindi per la situazione presente, pretesero innanzitutto di riavere il favore e la benevolenza di una volta. Era questo il solo modo per poter recuperare e conservare la salvezza e l'incolumità della patria. La concordia dei cittadini era il mezzo più adatto per scacciare e abbattere ogni tirannide. Discussero a lungo su questa proposta e li esortarono a stringere patti di amicizia. E tutti, dal momento che l'acerbità della fortuna li aveva resi umili e miti, obbedirono. Pertanto, deposti gli odi, poiché la faccenda non si poteva in nessun modo risolvere con la violenza, cercarono di allontanare dalla loro vita tiranni tanto crudeli con l'intelligenza e la ragione. Alcuni capi dei pesciolini, che erano molto abili nell'eloquenza, colta l'occasione in cui la lontra era di animo più conciliante, le rivolsero questo discorso: "Rendiamo grazie agli dei e soprattutto a te, giustissimo principe, e doverosamente ci congratuliamo con la tua virtù e con la nostra fortuna, dacché nel nostro stato abbiamo ottenuto che venisse arginata l'antica insolenza della plebe e l'illimitata libertà di creare disordini grazie a te, che vi hai messo un freno. Infatti noi credevamo che quell'arroganza, della quale, per eccesso di libertà, si vantava la plebaglia dei pesciolini, sarebbe giustamente diventata odiosa agli dei; e nessuno era tanto stolto da non capire che la loro incostante natura, facilmente incline al piacere, avrebbe arrecato danno alla patria. Tu, o santo principe, hai evitato la disgrazia che stava per abbattersi su questa gente. E hai pensato che non facessero parte dello stato quei cittadini che passavano tutto il giorno tra gli scherzi e le frivolezze; e hai santamente introdotto la parsimonia, punendo i prodighi e i superbi, e la modestia, castigando i più ignavi. Per questo motivo, avendo tu dato alla repubblica l'incolumità e l'esempio, mai, per gli obblighi di gratitudine verso di te e per il nostro bene, cesseremo di pregare gli dei, affinché resti quanto più possibile duraturo e solido il tuo potere su di noi, che le tue leggi hanno reso più civili. E infatti se tutti esprimono la convinzione che tu sei il migliore dei principi possibili e che la salvezza dei sudditi è tutta nelle tue mani, avviene talvolta che ci permettiamo di pensare al benessere dei pesciolini. Riteniamo che questo può arrecare lode e vantaggio. Se il serpente, che, conscio del tuo potere (che abbiate il bene e la fortuna), non si facesse superare in giustizia e umanità da te, che invece non vuole superiore a sé per potere, prestigio e forza, certo, a nostro giudizio, non si potrebbe aggiungere niente alla felicità di questa nostra provincia. Se è infatti felice quello stato retto da leggi ottime e stabili e da miti costituzioni, molto più felice è quello in cui l'umanità la mitezza e la benignità dei governanti vengono temperate da una certa severità. Quando si verificano, o ottimo principe, situazioni diverse e, se ben ti conosciamo, contrarie alla tua volontà; quando le ottime leggi vengono violate da coloro che debbono tutelare il diritto; quando chi per primo dovrebbe praticare la pietà, è meno devoto del lecito; o nostro re, ti preghiamo di ascoltare con clemenza le parole che, pur malvolentieri, ti rivolgiamo. Non è giusto che un re solerte e vigile, che le genti tutte vantano con ammirazione come unico, ignori un solo particolare di quello che accade ai suoi sudditi. Abbiamo ritenuto quindi doveroso farlo, dal momento che noi stessi ci siamo messi nelle tue mani. Questi sono i nostri problemi: accade che nel tuo regno (che gli dei colmino di bene), che le norme fissate dalla sorte e dalle leggi (direi sotto la tua pace, con la tua mite pazienza), o principe benignissimo, per l'altrui, per così dire, sconsiderata libertà, vengono trasgredite ingiustamente e, se non ci inganniamo, empiamente. E non vorremmo (gli dei ci sono testimoni) rendere, ammesso che lo possiamo, qualcuno impopolare o infine, fra tante disgrazie, passar sotto silenzio l'iniqua sorte comune senza piangere e senza che ci sia possibile levare una protesta presso di te, mitissimo principe. Né ci è ignoto che si devono accettare, come si dice, con pazienza le iniziative dei principi verso gli infimi e deboli sudditi e con la sopportazione far intendere che abbiamo appreso ad obbedire ai superiori. Ma, per quanto desiderosi di obbedire senza riserve, siamo costretti a lamentarci, non comprendendo i motivi del nostro destino, o quando questo serpente cerca di acchiapparci mentre fuggiamo, o perché capisce che il tuo regno non vacilla in nessun modo. O sciagura! non posso trattenere le lacrime: da quando il serpente è salito al potere non c'è un sol giorno senza crudeltà. O cosa indegna, contraria agli ordinamenti degli antenati e alle leggi del santo potere: le rane vengono tormentate dal loro principe, oppresse, massacrate. Non hanno alcun valore per un principe adirato le preghiere e le lacrime degli afflitti; alle infelici rane non viene lasciato nessun nascondiglio per trovare un po' di scampo alla strage, né nel proprio né nell'altrui paese! Quello superbo, inesorabile, ardente d'ira e di furore le insegue, con un volto, o buoni dei, terribile; sconvolge, perturba tutte le cose pubbliche e private; ovunque il principe compie atroci misfatti; giungono alle orecchie frequenti e raccapriccianti i gemiti dei cittadini più autorevoli e dei moribondi. E ciò non senza nostra rovina. Infatti se qualche sostenitore del tuo partito e di te dichiara che questi fatti sono contrari alla legge, subito viene punito da quell'energumeno che giura di perseguitare con pari odio anche te, o nostro principe, se in qualche cosa lo intralcerai. Atterriti da questo spettacolo noi, sia per un senso di umanità sia anche calcolando i nostri danni, come è giusto, siamo convinti di essere in pericolo e assieme alle rane, nostre infelicissime concittadine, fuggiamo la vista di quel pazzo. E quale aiuto e conforto possiamo portare a esse? Abbiamo qualche altra risorsa? In tanti mali ci conforta soltanto che gli dei ci hanno dato un rifugio in cui porre la nostra salvezza: sia per necessità, sia per la tua benignità osiamo ricorrere a te, principe pietoso; e in nome dell'antica consuetudine per cui siamo uniti alle rane in una patria comune, ti chiediamo di voler salvare, come puoi, quelle innocenti da tante disgrazie e di provvedere opportunamente ai nostri mali, sebbene noi siamo felici, se stai bene tu, al quale non esitiamo ad affidare non solo la fortuna e il bene dei tuoi sudditi, ma anche l'altrui. Ma pur tralasciando i nostri mali, che neppure piccoli né rari riceviamo ogni giorno dal serpente, non pensiamo che si debba trascurare questo particolare: il male si è allargato e diffuso più di quanto si possa con pazienza e senza tuo danno sopportare. Infatti, senza contare il resto che nella tua accortezza vedrai e bene esaminerai, quanti danni pensi, o principe, che te ne verranno dalla crudeltà di uno solo? Nessuno è infatti sicuro dalla folle violenza di costui; perciò, abbandonati i beni domestici e tutta la famiglia, siamo costretti dalla sua crudeltà e dalla sua pazzia a fuggire e a nasconderci ad ogni momento nei deserti e sterili fiumi; e dobbiamo all'improvviso accantonare anche la cura della prole. Di conseguenza, giacché le parti del tuo regno sono minori di quanto è giusto e sono tranquille e pacifiche meno di quanto tu desideri nella tua giustizia e pietà, esse diventano ogni giorno di più meno fiorenti e popolose di quanto a te, ottimo principe, si addica. Nessuno dubita ormai che se con la tua sapienza (cosa che speriamo) non metterai un freno a questa disgrazia, la situazione arriverà in breve a un punto tale che, crollate le famiglie e infine messi in pericolo i patrimoni, la società sarà del tutto sconvolta e distrutta. Il popolo deve vivere nella quiete e nella pace in una città lieta e famosa per il gran numero di abitanti. E se tu ti affiderai a chi dà giusti consigli, non accetterai certamente con rassegnazione che la tua autorità, la tua dignità, la fortuna del tuo potere vengano diminuite dalla altrui insolenza. E se ti rammenterai nella tua sapienza che quei re, i quali non hanno castigato, pur potendolo, la tracotanza, l'empietà, l'arbitrio o non li hanno tenuti lontano dai loro sudditi, sono stati giudicati dalle persone oneste paurosi e fiacchi; poiché sappiamo che sei privo di entrambi questi difetti non negherai che è tuo compito, come crediamo, evitare che si giudichi il tuo modo di governare non onorevolissimo. Tutti ammirano te, o nostro re, perché sei pio e giusto e amante della pace, della tranquillità e della quiete e ti tributano grandi lodi; non c'è nessuna qualità utile a formare un perfetto governante, che non ti venga riconosciuta, ad eccezione di un particolare solo che non si accorda con le tue mirabili qualità: consentire al serpente folle e spietato, che non bada a preghiere e lacrime e non rispetta il diritto e gli dei, di imperversare ancora con tuo danno, in contrasto con la tua virtù e la tua saggezza nel governare. Forse alcuni, fidando nella tua forza e nella tua magnanimità, chiedono prove più impegnative di quanto noi pavidi e atterriti osiamo supplicare; essi allegano questi motivi e tanti altri sacrosanti e onesti e ti pregano di non permettere che costui, il quale disprezza te e i comuni vincoli, fino a quando è così violento, venga chiamato con lo stesso santo nome, compartecipe del sacro potere. Ma noi non rifiutiamo di averlo come re, se tu decidi così; e siamo disposti a rispettarlo come affine agli dei quasi come facciamo con te, se il suo potere diventa mite e legittimo. Sebbene, chi potrebbe pensare che le ragioni di questo principe hanno onesto fondamento e che egli è degno delle prerogative del comando, se è arrogante verso i suoi, superbo verso gli estranei, ingiusto, spietato e crudele? Poichè abbiamo deciso di parlare per un impegno morale e non per discutere della vita e del comportamento di chi capita, riprendiamo la discussione dal suo punto iniziale. In te, o saggio principe, è riposta tutta la speranza delle benemerite rane e la nostra; possiamo rifugiarci solo in te. Non abbandonarci, di nuovo ti supplichiamo, tu provvederai alla nostra salvezza, al nostro onore e alla tua fama".

Con questa orazione i pesciolini, non senza l'intervento degli dei che sempre hanno avuto particolare avversione per la crudeltà e il rigore dei principi, portarono a termine il piano orchestrato dalle rane. Infatti suscitarono nella lontra tanto odio contro il serpente che essa, mentre ancora i pesciolini peroravano la causa, ebbe l'animo pronto alla vendetta.

Contemporaneamente le rane subornano dei delatori, per denunciare al serpente la boria di molte rane doviziose, che rifiutavano il suo potere e conducevano nelle dimore dei pesciolini una vita sfaccendata, senza minimamente rispettare la maestà del potere e le leggi della patria. Per questo, a parere di tutti, si doveva deplorare la malvagità delle rane, ma anche quella dei pesciolini e la si doveva in qualsiasi modo castigare. Infatti, offrendo la loro ospitalità, essi violano le leggi e provocano chiaramente un danno allo Stato, in quanto, accogliendoli, offrono ai rei la possibilità di trasgredire. Chi ignora che questi atti sono molto gravi e offensivi verso un tale principe, il più giusto e rispettoso della legge? E si deve lodare chi interviene con severità tanto che i trasgressori abbiano a pentirsi della loro intemperanza. Se infatti non vengono soffocate la licenza degli arroganti e l'alterigia degli insolenti, se infine le inclinazioni dei cittadini insofferenti di ogni disciplina, le loro smodate passioni, i loro ardenti appetiti non vengono arginati con la severità e la paura, di certo accadrà che, declinando la forza del potere, tutto lo Stato crollerà. Si deve perciò provvedere non solo alla salvezza, ma anche alla dignità, alla fama, alla grandezza dello Stato; ed è giusto, inoltre che, per suo dovere verso i cittadini, un principe sia preoccupato che i malvagi non ardiscano trasgredire e che gli altri imitino chi è rimasto impunito. Un principe deve essere costante e forte nel vigilare; e deve perciò evitare la permissività, per non sembrare un custode pigro, svogliato e poco zelante delle sue cose. La diligenza di un principe viene come non mai apprezzata, allorché egli si vanta e si adopera affinché i suoi sudditi, sbagliando di meno, diventino sempre più degni di approvazione. E ciò può bene avvenire, se egli farà in modo che i rei si pentano dei loro misfatti e gli innocenti si pregino delle lodi e dei premi della virtù. Non si deve tollerare l'irresponsabile supremazia della folla; questo stato di cose ha indotto gli oziosi a credere che il potere sta nell'ostentazione, nella boria, nelle vesti sgargianti e nel vagare per la città, nel non temere le leggi, nel disprezzare gli ordini dei principi. In conseguenza di ciò sono state accantonate le arti dell'operosità e le altre attività pubbliche e private e sono state sacrificate solo al fasto, per cui giorno dopo giorno, a causa dell'ozio e della superbia, il potere è diventato fragile e inconsistente.

Non si deve perciò ammettere che i sudditi alzino tanto il capo fino a schiamazzare per tutti i cantoni di essere schiacciati da un'ingiusta servitù e di giurare che non mancheranno i vendicatori della libertà, se si presenterà l'occasione. Osano salutare la lontra come il solo re amico del popolo e maledire il serpente senza nessuna vergogna. Se egli ha ben chiare le sue responsabilità, se non è dimentico delle sue virtù e attentamente rifletterà su quello che gli si addice, certamente dovrà convenire che in questa vicenda ha il doveroso ruolo del punitore. E deve agire con severità esemplare ora verso l'uno ora verso l'altro, per abituare la moltitudine in preda alla paura, all'obbedienza delle leggi e al timore del principe. Le rane che stanno sulla spiaggia aspettando il comando del principe, sempre saranno considerate conformi alla sua volontà; quelle che, invece, fuggiasche e ostinate, preferiscono per un ambizioso disegno vivere in un'altra regione piuttosto che nella propria, quelle che hanno abbandonato i figli e i penati per non obbedire al principe, quelle che arrecano danni gravissimi allo Stato, si devono punire con ogni sorta di castigo.

Dopo tali insinuazioni il serpente, già per sua natura incline all'ira, acceso da irrefrenabile furore, proruppe in una collera tanto grande che con uno spaventoso giuramento gridò, chiamando a testimoni gli dei del cielo e degli inferi, che tutti erano colpevoli e che si sarebbe severamente vendicato del potere abbattuto. E arrivò fino a compiere improvvise incursioni in tutti gli anfratti di quel lago, scandagliando, sconvolgendo, insozzando ogni cosa. Nel frattempo era giunto allo stesso lago l'altro re, la lontra, che per il precedente discorso era entrata in grande agitazione. Accortasi del grande scompiglio e vedendo che la folla dei pesciolini era preoccupata (si erano infatti accordati di fingere una grande paura), in preda ad un'ira senza limiti si precipitò nel lago e con tutte le sue forze assalì il serpente. Questi, poiché il lago gli sembrava sfavorevole per il combattimento, venuto fuori da esso, strisciò verso un posto all'asciutto. L'altra lo insegue mordendolo: nei campi vicini si svolge la battaglia tra quei re. I pesciolini e le rane attendono atterriti l'esito della mischia, facendo in silenzio dei voti. Quelli combattono con spaventosa energia e questa fu la fine della contesa, che, sembra, venne decisa dagli dei, per eliminare due crudelissimi tiranni. La lontra afferrò il serpente in mezzo alla gola; in risposta il serpente con molti morsi velenosi lacerò la gola della lontra e morì stritolando tra le sue spire l'altra che moriva.

Dapprima le rane, strepitando allo spettacolo, gridarono: "Viva il re"; i pesciolini impararono a recitare per gioco quella specie di duello che aveva contrapposto i re nel lago; per tutto il resto della loro esistenza ripresero l'antica e del tutto libera condotta di vita. E, per quanto è possibile, conservano fino ad oggi quest'uso senza mai violarlo; e cantano nei loro versi che la libertà senza troppe regole è, secondo l'uso ereditato dai padri, più utile di un'adorna servitù.

Sono felice se con questa favola ho arrecato piacere al lettore; di sicuro, se non mi sbaglio, ho presentato molti elementi utili per governare lo Stato.

 

 

Il lupo

 

Un pastore aveva legato con una lunghissima fune un asinello ad una vite vecchia e fradicia e si era allontanato nella vigna a raccogliere legna. Accadde che, mentre l'asinello cercava di brucare fronde un po' lontane, si sradicò la vite a cui era legato. L'asinello tirando il tronco attaccato alla fune scalpitava in lungo e in largo. Un lupo anzianotto, vedendo di fronte a sé l'asinello scorazzare. Così disse tra sé: "C'è stato mai per me un giorno più adatto e sicuro per far bottino? Non c'è un cane, né un custode, né un difensore, contro cui combattere per la preda. E quel che mi stupisce non vedo da nessun lato il pastore. Sebbene io non reputi costui pericoloso, dato che è decrepito e invalido, tuttavia mi rallegro che qui non esistono difficoltà anche minime. Mi posso ben vantare; chi è più forte e audace di me? Anche tralasciando le altre innumerevoli palme e corone, ho eliminato l'avo di questo delicato asinello che si trovava nel branco, prendendomi beffe dei cani. E che spirito, che vigore ebbi allora nella fiorente età. Ora, sebbene io sia anziano e più lento, non mi è tuttavia diminuita la forza e la ferocia. La famiglia di questo asinello sa bene che le cose stanno così. Io da giovane li ho divorati mentre erano nel pieno del loro vigore e da vecchio ho sostenuto uno scontro formidabile col fratello di costui, l'asino più solido e valente di tutti. Ed inoltre atterrii il pastore che gettava terra contro di me con la maestà del mio viso e con l'esibizione della potenza dei miei denti, tanto che lo costrinsi a restarsene fermo e a tremare. E tu, deboluccio, nipote di tanti lutti, ti muoverai impunemente davanti ai miei occhi? Questa gente, mi sembra, è nata per essere nostra preda". Mentre il lupo ruminava tra sé questo discorso, l'asinello vagando entrò in una vicina caverna. I pastori, per custodire il gregge, avevano chiuso quest'antro con graticci, mettendo soltanto una porta di vimini sull'uscio. Il lupo, frattanto, disse: "Potrò lodare abbastanza l'odierna fortuna o farò in modo di perdere con la negligenza l'opportunità che essa mi ha dato? Scappo ad arraffare con maestria quel che l'occasione ha voluto mi appartenesse". Detto ciò, si inoltrò subito nell'antro. Il luogo era piuttosto oscuro; perciò si diede il caso che l'asinello fuggisse a precipizio dall'antro dalla parte opposta a quella per cui era entrato. L'apertura della grotta, avviluppandosi alla fune e al tronco che veniva trascinato, lo seguì nella fuga. Il lupo restò così chiuso nell'antro e invano tentando di uscire con le unghie, con i denti, con tutte le sue forze, supplichevole, affidava la sua salvezza all'asinello. Ma questi, legato alla fune, atterrito, quanto più si dava alla fuga, tanto più era saldamente trattenuto dalla porta che lo impigliava. Frattanto sopraggiunse il pastore che cercava asinello; quando gli fu chiara la situazione, chiuse più strettamente la porta e disse: "Ecco, o malvagio, come ti ha abbandonato la tua antica arroganza e la tua insaziabile crudeltà: un inerme asinello ha ingannato un brigante matricolato e ha fatto prigioniero un energumeno. Non ti vergogni di quel che fai contro la tua dignità; hai smesso senza alcun decoro le tue antiche e orgogliose maniere, per assumere queste così dimesse e vergognosamente vili? Con tuo gran disdoro ti sei mostrato supplichevole davanti ad un pivellino? Non è decoroso che tu, abituato alle armi e pronto all'incontrollata e impunita aggressività, abbia deposto il contegno e l'orgoglio abituali, tanto da chiedere venia con animo così dimesso e vile a chi riuscivi prima ad atterrire con la sola vista? Sconta, o sciagurato, il tuo giusto castigo".

Dopo queste parole il pastore gettò su di lui un gran mucchio di pietre e aggiunse: "Non ti sembra che siano oltremodo dure le zolle che prima disprezzavi?". Infine massacrò di colpi il lupo e lo scannò e con la sua pelle, come se fossero le spoglie di un nemico, ornò magnificamente l'asinello. Con questo esempio vorrei che si comprendesse che ci sono nel genere umano taluni individui simili ai lupi, che non cessano di molestare con ogni specie di tormenti e offese i cittadini pacifici e calmi. Bisogna ricordare ad essi che un inerme e fuggiasco asinello legato intrappolò il lupo, inveterato predone, portandolo alla morte e ai più gravi castighi proprio in quel luogo dove si credeva più sicuro e felice.

 

 

Il ragno

 

Un uomo onesto e buono, atterrito da un elefante irritato contro di lui, era salito nella fuga su un alto albero, da cui, assediato dalla bestia ostile, con molte e appropriate parole chiedeva la grazia di venire risparmiato, poiché non gli aveva arrecato nessuna offesa. Comprendendo che tutte le sue preghiere erano inefficaci nei confronti della bestia, scoraggiato e senza speranza di salvezza, cominciò con molte preghiere a chiedere l'aiuto degli dei. Per caso sullo stesso albero aveva il suo nido un ragno, che, in quel momento era impegnato, secondo il suo solito, a tessere la tela. Distratto dall'arrivo dell'uomo, avendo osservato la situazione provocata dall'odiosa violenza, mosso sia dalla pietà verso l'infelice che rischiava di essere ucciso, sia dall'odio per la crudeltà e l'implacabile ostinazione dell'elefante, per un po' desistette dalla sua opera e si accostò all'uomo:

"Mio caro, finchè sono qui, ti invito a stare tranquillo. Infatti, anche se tu mi vedi piccolo e debole e insignificante, ti accorgerai che, con l'aiuto degli dei, la mia opera ti sarà utilissima contro le offese. Gli dei detestano l'atroce e spietata caparbietà nell'offendere. Asseconderò gli dei vendicatori e protettori, portando soccorso alla tua vita con lealtà e devozione. In questa contesa la pietà vincerà la crudeltà e, non dubitare, il nostro operato avrà ragione della spietata ferocia di questa belva. Con l'aiuto e la protezione degli dei ti assicuro che, senza alcun dubbio, renderemo vano lo scellerato proposito dell'abominevole avversario". Queste furono le parole del ragno. L'uomo allora: "Non credo che tu possa aver concepito tanto coraggio nel vendicare il delitto e nel permettere così alte imprese senza una celeste ispirazione. E giustamente si deve credere che non sarà considerato mai piccolo e spregevole chi possiede in sé un così grande sentimento di pietà e di misericordia, o piuttosto uno spirito religioso; anzi, in così grande pericolo, mi sarà molto gradito di essere legato da vincoli di gratitudine nei tuoi confronti. Infatti, perché tu capisca da quali sentimenti io sia animato nei tuoi riguardi, in qualunque modo accada che io possa tornare incolume dai miei, questo solo ti prometto in cambio del tuo grande beneficio: per sempre, finché vorrai, la mia casa ti offrirà ospitalità. Avrai in comune con me la cassetta del pane e la cella di vino e ogni cibo che ho a casa mia".

Entrambi furono d'accordo nel sottoscrivere questa buona regola di vita. Disse il ragno: "Pace e prosperità a tutti e due; sarò tuo ospite, contento di un angolo qualsiasi della tua casa. Ora speriamo di salvarci dal presente pericolo e assecondiamo gli dei vendicatori delle offese, per quanto ci è possibile. Non si può dire facilmente quanto coraggio e speranza mi dia una causa giusta a santa. Sii forte contro la paura. Con il mio ingegno e le mie forze ti farò vedere come ti sono amico nella tua causa e provvedo a te".

Dopo aver rincuorato con queste parole l'uomo pieno di terrore, si avvicinò all'elefante e cominciò a parlare: "Dimmi la ragione di quest'ira che non ti fa cessare di perseguitare con il tuo odio un essere inerme e debole? Perché disprezzi le preghiere di un infelice? Se tu ti mostrassi crudele ed inesorabile senza aver subìto un'offesa, direi, col tuo permesso, che abusi della tua grandezza e della forza per le quali emergi tra gli altri animali. Perseguitare un innocente ed un infelice con iroso accanimento, non è proprio di chi vuole essere considerato grande ed eminente. Se invece dici di aver patito offesa, non devi forse avere una misura nella vendetta non compiendo, per odio dell'altrui ingiustizia, atti che ti facciano sembrare empio ed inesorabile? Se è vero che i magnanimi si comportano abitualmente con rettitudine e moderazione, giustificandosi di essere scesi in combattimento solo in nome della giustizia; se persino i forti e gli invincibili ritengono un onore non tanto scendere in lizza, quanto soprattutto superare un nemico spietato e molesto; se coloro che sono per naturale inclinazione disposti alla gloria e alla lode, non godono dei mali dei nemici, ma piuttosto della propria vittoria, finisci allora, o elefante, la contesa con l'uomo e vantati di avere vinto. Chi infatti si mostra supplichevole, chi si affida alle tue preghiere, chi infine prega piangendo che tu lo risparmi, con le sue dichiarazioni, ti offre un'occasione veramente importante affinché tu aggiunga alla gloria della forza e della vittoria anche la lode della mansuetudine e della clemenza. Se tu la sfrutterai e non la terrai lontana dalla tua fortuna o piuttosto dalla tua virtù, farai comprendere a tutti che tu unisci a mitezza alla forza, la pietà e la misericordia alla giustizia. Se la forza esercitata contro il malvagio consiste solo nel superare in valore un avversario molesto e accanito, fino a reprimere l'arroganza e la boria, tu hai già quel che alla forza è dovuto: hai vinto, hai castigato a sufficienza l'avversario, non gli hai lasciato altra speranza di salvezza se non la tua clemenza, nella quale bisognoso e avvilito si rifugia. Non sei forse vincitore di chi è diventato tuo? Costui è certamente tuo, dal momento che da te dipende la sua salvezza. Io penso che si addica alla tua fama desiderare la morte piuttosto che la salvezza di chi è tuo. Durante quest'assedio e questa attesa di un'incerta vittoria, vorrei che tu considerassi nella tua immensa saggezza cosa ti conviene e ti piace, affinché, per il desiderio di annientare un infelice, tu non perda oltre il lecito tempo prezioso e giorni utili in cui potresti lodevolmente svolgere attività onorevoli e degne di te. In altro momento, contro un nemico spietato, che combatte con te con la forza e non con le preghiere e le lacrime, mostrerai con più grande gloria la forza del tuo animo. Ora invece darai ascolto alla misericordia e alla pietà con tuo insigne e grande onore; infatti sarai lodato o per aver risparmiato un colpevole o, almeno, per non esserti mostrato molesto verso un innocente. Il tuo modo di vendicarti sia tale che con la severità si possa conciliare la passione del vincitore; e sia proprio di colui, soprattutto, la cui generosità d'animo aborre da ogni meschina crudeltà, se non ci inganniamo, tanto da considerare vergognoso disprezzare le preghiere di un misero supplice. Se le cose stanno così, ti muova la pietà, ti muova il senso del dovere, ti muovano le mie preghiere e le lacrime di questo povero reietto, che non ha niente per liberarsi dalla calamità se non le lacrime, nessun rimedio trova per alimentare la sua speranza, se non la certezza che non manca in te la benevolenza, la mansuetudine, la benignità degne della tua grandezza. E crede che tu non voglia inutilmente derogare dal tuo compito di principe giusto. Non devi trascurare che se a noi, così come siamo, diventerai amico con affettuoso vincolo, credi a me, che l'elefante non patirà danno ad essersi fatto amico il ragno".

Queste parole del ragno avevano suscitato meraviglia nell'elefante, in quanto un animale tanto piccolo e di nessun pregio osava parlare con tanta franchezza al cospetto di uno degli animali più grandi ed eccelsi; l'elefante cominciò invece ad arrabbiarsi quando lo spregevole ragno, il più imbelle degli animali, lo ammonì a non considerare vergognoso il legame di amicizia con lui. Perciò, pieno di indignazione, agitando la proboscide in segno di scherno disse: "Pensi che gli dei ci sono così ostili, dal momento che dobbiamo stringere alleanza con il ragno?". Molte altre cose aggiunse con i gesti e con il viso, mostrando di disapprovare l'insolenza del ragno. Il ragno, mal sopportando quell'arroganza e quella boria, deplorò l'offesa che l'elefante gli faceva. E questo, oltre che per altre ragioni, soprattutto perché quello si mostrava oltre il lecito duro e inesorabile verso chi aveva fatto ricorso alla sua clemenza. Perciò disse che, da parte sua, solo con l'ultimo respiro avrebbe abbandonato una causa giusta e santa contro un essere empio e crudele; e invocava la testimonianza e la protezione degli dei per dire che non spontaneamente, ma malvolentieri era diventato nemico dell'elefante, se si deve chiamare inimicizia piuttosto che difesa del diritto e della giustizia quell'atteggiamento che può essere accantonato solo dopo aver ottenuto la vittoria e domato la superbia.

Dicono che, dopo aver udito ciò, l'elefante con la testa reclinata e un piede sollevato verso il basso, guardò dall'alto il ragno e disse: "Davvero noi, da cui questo principe degli animali, l'uomo, è fuggito lontano terrorizzato, dovremmo risparmiare te che minacci con le lunghe zampette. Che cosa può la follia?". Quindi rivolto all'uomo così lo provocò: "O tu che sei dimentico del tutto della tua stirpe e della tua nobiltà, è per te tanto dolce e gradevole poter vivere che non ritieni vergognoso e contrario alla tua fama implorare la fede e l'aiuto di questa vilissima bestiolina? Se considerassi poco importanti gli altri pretesti che ho per distruggerti, questo solo mi dovrebbe spingere a perseguitarti con il mio odio più implacabile per terra e per mare: l'avere contratto per paura un'indecente e turpe amicizia con il ragno. Chiamo perciò a testimoni gli dei: finché mi resta la vita, finché lo spirito regge le mie forze, non cesserò di assediarti, o uomo, oppure strapperò dalla radice quest'albero e tutto proverò per odio di questa tua viltà, per ridurre in mio potere te che sei il più pigro e il più vigliacco degli t esseri".

E mentre l'elefante proclamava che così sarebbe stato e soppesava indeciso le sue risorse, dopo aver fatto molti vani tentativi con forza e l'astuzia per realizzare il suo disegno, dicono che il ragno approfittando dell'occasione, di nascosto, scivolando su un filo si introdusse nell'orecchio della bestia e perforò ripetutamente con il molesto aculeo quella parte tenera e molle del corpo dell'elefante. La bestia tormentata da questo pungolo, già prima fuori di sé per l'ira e più furibonda per il nuovo fastidio, dopo averle provate tutte per ammazzare il ragno, comprendendo che in quella faccenda tutti i suoi tentativi erano vani, sconvolto dal dolore che provava, correndo all'impazzata scorazzava per tutta la selva, come se fuggisse davanti ad emissari degli dei; e poi sfinito cadde supino con grande fracasso; saputo che la bestia era caduta, l'uomo da una parte, il ragno dall'altra, provvidero a darsi alla fuga.