Leon Battista Alberti

 

Cento Apologhi

 

 

A Francesco Marescalchi

 

Se ti donassero cento frutti maturati precocemente, li accetteresti con animo ingrato? Se egualmente ti dessero cento rose scelte e odorose, sebbene tu abbia rose in gran quantità da qualsiasi luogo tu voglia, ti sarebbe forse sgradito questo dono? Io ti mando cento apologhi, la cui fattura non ti può certo far dire che ho scelto i migliori fra un gran numero di apologhi; ma essi sono tali che io non dispero che tu li gradirai come una primizia dei nostri orti letterari. Se forse ti sembreranno in qualche passo un po' oscuri, sii indulgente con questa stringatezza da me accuratamente ricercata. Dicono per l'appunto che la brevità nel dire non è stata quasi mai priva di ambiguità e ho pensato che gli apologhi dovessero essere quanto più stringati possibile; ma grazie alla loro concisione, replicandone la lettura, non dovresti averne grande fastidio. Ti chiedo pertanto di essere così condiscendente da voler comprendere il loro significato con un po' di applicazione; io credo che, una volta che li avrai ben compresi, ti divertiranno. Ti saluto.

 

 

Ad Esopo antichissimo scrittore.

 

Ben sapendo che i latini ammiravano moltissimo il tuo ingegno nello scrivere favole e giustamente lo proclamavano divino, io che ho composto questi cento apologhi in pochi giorni, desidero ardentemente - te lo giuro per il sacro nome dei posteri - conoscere il tuo giudizio sulla mia opera. Ti prego, dimmi cosa ne pensi. Ti saluto.

 

 

Esopo a Leon Battista Alberti.

 

Chi ha detto che in Italia mancano gli ingegni, da quello che si può vedere, si inganna; tuttavia confesso che a pochi uomini è toccato tale prestigioso riconoscimento. Per quanto tu faccia dell'ironia, ben a ragione ti dovrebbero amare; ma sono invidiosi. Ti saluto.

 

 

 

 

Cento Apologhi.

 

I Mal sopportava la palla di essere battuta e rotolata nel fango e di non potersi fermare in nessun luogo; all'incudine invece dispiaceva di stare sempre ferma sotto i colpi. Perciò trattarono con l'uomo, affinché egli, che in simili faccende è come un dio capace di donare molteplici forme, mutasse l'incudine in palla e la palla in incudine. "Questo cambio non si adatta a voi" - disse l'uomo - "ma se siete d'accordo, farò dall'incudine marre, rastrelli e zappe". Preferisco - disse quella - "conservare la dimensione e il peso che ho; e a te, o palla, do questo consiglio: accontentati di tenere gli uomini avvinti nel gioco e nell'ammirazione di te, saltando e volando".

 

II Il fiore del giglio, stravolto e pallido, allorché l'acqua di una vicina sorgente straripando si avvicinò a lui, aveva smesso il suo antico orgoglio, per salutare ogni più gonfio flutto che si accostava a lui; finché cadde sotto il peso delle onde. Avrebbe certamente conservato la vita se non avesse rinunciato alla sua dignità.

 

III L'erba saliunca, cresciuta in mezzo al torrente, era bramosa di trattenere presso di sé tutte le pagliuzze, anche le più piccole, che trascinava la corrente: fu sommersa dal mucchio che aveva accumulato.

 

IV La stella superba che voleva farsi ammirare fuori dalla sua costellazione, si spense a metà del suo cammino quando scivolò più in basso separata dalle altre.

 

V Il cane che si accingeva a combattere con il toro, sperava di vincere, perché l'avversario non aveva i denti di sopra. Ferito dalle corna del toro, "Non l'avrei creduto", disse.

 

VI Il bue, sempre pronto a cozzare, quando gli vennero recise le corna, lanciò siffatte villanie all'albero a cui era legato: "Io ti trascinerò supino per le strade"; l'albero gli rispose: "Ma intanto sarai amputato".

 

VII Piena di stupore l'officina aveva chiesto ai mantici da dove potessero far uscire tanta aria. Risposero: "Se ne trova a sufficienza dove prenderla".

 

VIII Il moscerino derideva il tarlo che si vantava di essere della famiglia delle cicogne, poiché con il suo rostro divorava corrodendolo la scricchiolante trave; sosteneva a sua volta di essere figlio di Fetonte, poiché volava per il cielo.

 

IX L'orso, dopo aver spezzato i rami di un cespuglio, alle parole del tronco: "Questo è dunque il ringraziamento che ricevo per il beneficio di averti offerto del cibo e come ti comporterai con me per il resto dell'anno?", rispose: "Ti lacererò e ti strapperò dalle radici".

 

X L'invidioso, occultando nel suo seno il fuoco che per primo aveva trovato, desiderava tenerlo nascosto a tutti; ma il fuoco gli bruciò le vesti e rivelò la sua presenza.

 

XI Il lombrico aveva chiesto al millepiedi di regalargli due piedi. L'altro disse: "E tu regalami una delle tue due teste".

 

XII Il vanitoso, mal sopportando che la sua immagine non l'avesse salutato dallo specchio, aveva dapprima cominciato ad accendersi d'ira, poi a farsi insolente; poiché gli veniva rimandata una figura con gli stessi caratteri, colpì e spezzò lo specchio. Ebbe a dolersi del suo gesto, giacché di uno si era fatto parecchi derisori.

 

XIII Il naufrago aveva citato in tribunale l'Oceano, accusandolo di essere un predone e lo aveva convinto della sua colpevolezza. "Vieni" - disse l'Oceano - "non ti impedirò di recuperare le tue cose, quando vorrai".

 

XIV Quando la castagna, mandato un gran sospiro, saltò in mezzo alla stanza, disse: "Non potevo sopportare più tanti affanni".

 

XV I remi avevano un'aspra contesa con il timone e lo deridevano perchè era solo e piccolo. Per questo il timone portò la nave contro uno scoglio e tutti remi di una fiancata furono infranti e distrutti.

 

XVI Il sole, passando attraverso un calice di vetro pieno d'acqua, aveva disegnato sull'ara l'arcobaleno: l'acqua ascriveva ciò a sua gloria. Il calice invece disse: "Se io fossi trasparente e terso, quello non ci sarebbe nemmeno". A queste parole l'ara silenziosa si rallegrava tra sé e sé di ospitare un onore così grande.

 

XVII Il vaso che, fin quando era stato pieno, era rimasto con la bocca chiusa e silenziosa, ora, ritornando vuoto, con la bocca spalancata, imprecava contro tutti quelli che si avvicinavano.

 

XVIII La zampogna coperta di polvere disse: "Noi poeti non cantiamo se siamo sazi".

 

XIX Il libro, in cui era stata scritta tutta l'arte libraria, chiedeva aiuto per non essere divorato dal topo. Il topo sghignazzò.

 

XX Il cane da caccia legato alla catena, quando vide gli altri cani inutili vagare sciolti e giocare, disse: "È così utile l'inerzia?".

 

XXI I candelabri d'oro, adorni di gemme preziosissime, non capivano perché mai una statua di legno marcio fino a quel giorno spregiata, venisse innalzata al di sopra di essi. Rispose la statua: "Rappresentiamo la figura di un dio".

 

XXII L'imperatore aveva posto nel tempio con i più solenni onori la freccia, sotto i cui colpi era caduto il re dei nemici. Si lamentò l'arco, perché egli, pur essendo stato l'artefice principale dell'impresa, era tenuto in disparte senza gloria.

 

XXIII Il verme rosicchiava la noce in cui era nato. "O veramente ingrato ed empio!" - disse la noce - "non cessi di recare danno a me che ho posto le condizioni del tuo esistere?". Rispose il verme: "Se tu mi hai generato per farmi morire di fame, hai agito ingiustamente".

 

XXIV Nel tempio delle vestali l'olio si lamentava di non essere stato mai ringraziato dal fuoco, che aveva alimentato per tanti anni con suo grande pericolo. Il fuoco disse: "Sia per te un premio morire nel tempio piuttosto che nella taverna".

 

XXV Uno zoppo si fece tagliare il piede dal lato più lungo, per poter camminare in equilibrio. Quando gli fu tagliato, carponi si lamentava di essere diventato del tutto inutile a camminare.

 

XXVI L'ombra dell'uomo, per diventare più grande, desiderava il tramonto del sole. Quando comprese di dover morire assieme al sole, invano bramò che il sole si mostrasse nel più alto punto del cielo.

 

XXVII Quando il contadino osservò lo spinoso, irto e intoccabile asparago, che aveva visto da piccolo mite e tenero, e se ne stupì, l'asparago disse: "In verità son riuscito simile ai miei antenati".

 

XXVIII La fuliggine e la cenere, mentre il fumo se ne andava, dissero: "Ebbene, fratello, ci lascerai nella nostra infelicità!". Il fumo disse loro: "Che rapporto c'è tra me e voi? Voi sonnecchiate lente inerti, mostrando così diversa natura; io salgo verso il cielo".

 

X Il vaso di Samo, che era stato gettato in un angolo, guardando dal pavimento i tavoli d'oro e d'argento, disse: "Non raramente sono stato vostro compagno". Quelli risposero: "E certamente lo sarai, se porterai il rodio e il falerno".

 

XXX Cipreste, inventore dell'orologio, rimproverò un dente della ruota e gli chiese perché si era incastrato così ostinatamente rallentando il cammino di tutto lo strumento; quello rispose: "Affinché il peso morto del perpendicolo non rivendichi per sé la gloria di così alta opera".

 

XXXI Quando senza danno il marinaio ritornò nel porto carico di grandi ricchezze, decise di dedicare a Nettuno un ex-voto in ringraziamento della felice navigazione. Perciò da un lato l'albero della nave, dall'altro le ancore, da un altro le gomene premevano per esser in quel modo onorate. Disse il marinaio: "Conviene esporre il timone, perché costa di meno".

 

XXXII L'immagine effigiata da Zeusi diceva al compratore: "Un grande artista mi ha fatto". Disse il compratore: "Ti acquisterò di sicuro quando sarai plasmata con la creta e non con il fango".

 

XXXIII Il lenzuolo, a cui la mano aveva chiesto come mai prima, appena toccato, versasse copiose lacrime e ora, sprizzato e sbattuto, non ne spargesse nessuna, rispose: "Ero ricco di umore".

 

XXXIV Il nocciolo, a cui l'olivo aveva chiesto quando avrebbe dato i suoi frutti, dal momento che fioriva con il freddo, rispose: "Quando sarà tempo".

 

XXXV Un asinaio disse: "Come mai, o asino, non ti avventi sugli altri asini come sugli uomini?". "Quelli non hanno intenzione di battermi", rispose.

 

XXXVI La tromba aveva chiesto alla dea Eco: "Dal momento che sei sempre audace, perché non rispondi anche al tuono?". Disse la dea: "Quando Giove è adirato si deve tacere".

 

XXXVII Il fungo disse: "Orbene, ginepro, sento dire che hai visto molti soli e hai sempre le bacche acerbe. Quando matureranno?". "O dolcissimo", - disse il ginepro -, "sono lento, perciò ti risponderò fra quattro giorni".

 

XXXVIII L'ortica tenne questa conversazione con il papavero: "Quale ragione c'è per cui, mentre ogni altro campo è verde e rigoglioso, tu solo, che pure sei piantato nel luogo più propizio e hai ricevuto il dono di una magnifica corona e di una cintura, sei così pallido di paura e stai chino per la tristezza? Una simile vita sarebbe adatta a me che non ho gloria e sono detestata e costretta a ritirarmi tra le macerie". "Io sono veramente infelice", disse il papavero, "perchè sono connaturati alla mia condizione pericoli a voi ignoti! Tu, poiché sei intrattabile e hai imparato a mordere tutti, vivi senza difficoltà e ti difendi da sola da ogni calamità; io, invece, che pronto all'ossequio ho facilmente imparato a piegarmi da qualsiasi lato, sono arrivato a tale condizione, che ogni soffio, anche il più leggero, è una minaccia di morte".

 

XXXIX La fanciulla, che aveva addentato una sorba, volle una spiegazione del suo modo di essere: quando era infatti gradevole d'aspetto, era stata pessima di gusto; ora invece che era tanto brutta, era diventata dolcissima. Quella rispose: "Forse tu pensi che la bellezza si accordi facilmente con la maturità?".

 

XL Un mercante, mentre d'inverno tornava a casa, trovando sui roseti, che in primavera avevano dato fiorendo tanta speranza di molti e ottimi frutti, solo bacche stoppose e inutili, si addolorò e meravigliato del fatto che restavano sgradevoli frutti di fiori tanto soavi, chiese perché era accaduto ciò. Risposero i roseti: "Abbiamo speso tutte le nostre ricchezze nell'addobbo dei fiori".

 

XLI Nella corona di Adriano il diamante e il carbonchio, le pietre più preziose, rifiutarono di essere poste presso la perla, poiché la sua grandezza avrebbe offuscato la loro bellezza. Ricevuto allora il permesso di essere posti nel punto della corona da loro scelto, dopo averla ispezionata tutta, si sistemarono tra le gemme più piccole e meno pregiate.

 

XLII Il cane ghiottone aveva divorato focacce calde e per questo, divenuto rabbioso, mordeva l'acqua: "Ti stancherai", disse l'acqua, "se vuoi gareggiare con me".

 

XLIII Il sale disse di non voler abitare nel medesimo luogo del ghiaccio, sebbene essi fossero nati dalla stessa madre; e dichiarò che non avrebbe fornito l'occasione per essere danneggiato dalla sua incostanza e mollezza.

 

XLIV La volpe, avendo invano supplicato con insistenti preghiere il laccio che la teneva avvinta e strettamente legata, affinché la sciogliesse e la liberasse, ruppe infine con i denti il laccio che, senza suo danno, le rifiutava quel favore. Disse il laccio: "O me infelice, che spinto dalla mitezza del mio animo, mi son fatto tanto pregare fino ad essere di necessità ingiusto e spietato verso di me. La morte è il premio della mia condiscendenza".

 

XLV La cornacchia, che si era posata con le unghia sul dorso di un porco, ispezionando tutti gli alberi attorno, gracchiava: "Dove porterò questa preda?". La quercia le disse: "Se vuoi, da me; te la custodirò con molto scrupolo". "Va bene", disse l'altra, "ma riflettevo sul modo di poter sollevare con le mie forze questo immane peso". "Su questo problema", disse il porco, "fatti consigliare da altri"; e, scacciato l'uccello, rise.

 

XLVI Lo sciocco aveva chiesto all'ambra gialla per dove il verme avesse trovato il varco per entrare in essa. "Ma tu", disse la gemma, da dove hai preso la sciocchezza che c'è in te?".

 

XLVII Nello stesso momento un fanciullo trascinava su un ponte un piccolo Mercurio d'argento e otto uomini un Priapo di legno; mentre passavano, il ponte si spezzò e Mercurio sprofondò nelle acque del fiume. Priapo invece galleggiava. "Non è forse incredibile a vedersi", disse il sacerdote, "che quel dio sulla terra così importante sia nell'acqua così insignificante!". Rispose il fiume: "E tu, uomo, credi forse di essere lo stesso quando hai copiosi beni di fortuna e quando, per così dire, sei all'asciutto?".

 

XLVIII Le ruote del carro di Nettuno presero ad amare perdutamente i suoi bellissimi cerulei cavalli; e perciò gridavano: "Dove fuggite mentre noi vi inseguiamo forsennatamente?". Dissero quelli: "Non fuggiamo, ma vi trasciniamo".

 

XLIX La fanciulla aveva chiesto allo zolfo per quale ragione fosse tanto amico del fuoco, che pure esulta quando lo zolfo si consuma. Il fuoco disse: "Non rispondere, se prima la fanciulla non avrà spiegato il motivo per cui tratta con tanta crudeltà e durezza colui che l'ama perdutamente".

 

L Le stoppe, prima trascurate, quando la nave fu tutta squarciata, vennero ricercate; ma esse si nascondevano per vendicarsi e tra loro sussurravano che non era giusto che, dopo aver dato un contributo così importante alla nave, venissero sempre considerate ignobili e meschine tranne che nei momenti di bisogno. Ma la più prudente di loro disse: "Se non portiamo il nostro aiuto moriremo con tutta la nave".

 

LI La capra che era entrata nella bottega del barbiere, cercava di convincere il gallo a lasciarsi radere la barba. "Provalo nel tagliare la tua", disse il gallo, "che non c'è pericolo".

 

LII Disse l'oca: "Abbiamo piedi tanto grandi, per reggere una testa così leggera". Allora dissero i piedi: "Non sai tu che quanto più la testa è leggera tanto più è desiderabile avere i piedi fermi?".

 

LIII Quando l'ottone chiese di essere tenuto nello stesso conto dell'oro, il gioielliere disse: "Sei tu capace di sopportare l'assalto del fuoco che spesso subisce l'oro?". L'ottone disse: "Non mi importa tanto di essere pregiato!".

 

LIV Il fanciullo, che non aveva potuto prendere tra le sue braccia i raggi del sole, si affannava a chiuderli nelle palme della mano. Disse l'ombra: "Smettila, sciocco; le cose divine non possono essere trattenute in alcun modo nel carcere mortale".

 

LV Ai due cespugli che chiedevano alle acque del ruscello la destinazione del loro veloce cammino, le acque risposero che si dirigevano in quei luoghi, dove sarebbero diventate più grandi e più sapienti. Accesi dalla brama di quella gloria, i due cespugli si erano gettati in mezzo alle onde; uno di essi trovò impedimento nel corso accidentato del ruscello e, quando capì che doveva liberarsi da tutti gli ostacoli, rimase fermo in quel luogo. L'altro, invece, messe a nudo le radici, seguì il cammino delle onde; dopo aver patito molti disagi, fu infine lasciato su un fertile suolo dove crebbe diventando un grande e celebre bosco.

 

LVI "O perfido", disse il cacciatore, "tu che ancora poco fa mostravi per tutto il cielo tanta misericordia e pietà per costei, e ti meravigliavi dei cani, ora così in fretta hai lacerato e squarciato le viscere della preda uccisa". "Io facevo in quel modo", disse lo sparviero, " affinché essa si fidasse della mia lealtà e trovasse il coraggio di volare tra i miei artigli".

 

LVII La scimmia, rovistando il carbone, disse: "Povero te; le messi, quando eri tutto splendente nel bosco, ti temevano, a quel che sento dire; come sei ora nero e torpido!". "Anzi", disse il carbone, "sono ormai felice; infatti quel flagello del fuoco mi avrebbe consumato del tutto, se non me lo levavo d'attorno".

 

LVIII Il filosofo, quando vide il pane in mezzo al forno diventare sodo e vigoroso e l'uovo presso la bocca del forno sudare e togliersi l'abito, disse: "Quanto è diversa la vita condotta nell'operosità da quella condotta nell'ozio! Questi che mai ha sopportato fatica suda al più piccolo calore e si rompe; quello, invece, agitato fin dagli anni giovanili e provato dai colpi della fortuna non si è mai intorpidito nell'ozio; infine, nel turbinare degli eventi, acquista bellezza e grandezza".

 

LIX Durante l'inverno al fico nudo, coperto di neve e tutto pallido per il freddo, disse l'ulivo suo vicino: "Non ti avevo predetto questo male, quando in estate ti vantavi della tua veste tanto rigogliosa? Impara da me la parsimonia".

 

LX "Volevo venire da voi", disse la farfalla, "ma ditemi: quale pericolo vi minaccia, perchè io vi vedo tremare?". Il cespo di canne a cui era stata rivolta la domanda rispose: "Tu, dunque, pensa quanto speriamo di essere trattate bene, dal momento che questa che sorreggiamo, essendo priva di senso, oscilla da ogni lato".

 

LXI I voti appesi ad una vecchia statua si lamentavano del fatto che, pur essendo preferita agli altri idoli per merito loro, essa disprezzava nondimeno gli amici più antichi e si protendeva ai voti sempre nuovi che arrivavano. Rispose la statua: "Se vi annoia la mia amicizia, andate dove vi piace". I voti indignati si buttarono giù e infrantisi al suolo caddero a pezzi.

 

LXII La freccia era caduta in una fontana e pendeva con la punta rivolta verso il fondo. Dissero le ninfe: "È incredibile quanto leggero è il suo piede per il piccolissimo peso della sua chioma di bronzo".

 

LXIII Il decurione aveva chiesto al vessillo perché si comportasse in questo modo: quando si andava all'assalto del nemico, egli si ritirava fuggendo per la paura; quando l'esercito si ritirava, allora applaudiva il nemico. "Ti sbagli", disse il vessillo, "non sono né pauroso né traditore, ma mi piace il partito dei vincitori".

 

LXIV La cagnolina raffinata che era abituata a non mettere niente in bocca se prima non l'aveva odorato dieci volte, mentre gli altri cani afferravano, appena cadeva, qualsiasi osso, costretta alla fame, imparò a prendere in aria il pane nero e secco, quando veniva gettato.

 

LXV La scintilla, poiché era agile e lucente, pensava di diventare una stella, ma venne meno.

 

LXVI La nave, quando fu trasportato a Roma un grandissimo obelisco, avendo sentito dire che le navi di Enea, appena salpate dal porto, si erano mutate in dee del mare, con questa speranza andò a morire in alto mare.

 

LXVII Quando il pavone vide in un prato l'asino, l'agnella, la capra, il maiale e il cavallo che pascolavano insieme e nello stesso prato due tori innamorati cozzare tra loro con le corna disse: "È incredibile: questi che appartengono alla stessa famiglia si scontrano con tanto accanimento, quelli di lingua e costumi diversi vivono così affiatati tra loro!". I Fauni risposero: "Non ti ricordi che è diffusa opinione che dall'amore derivano ai mortali l'amicizia e l'inimicizia, ed anche dalla lotta per il cibo?".

 

LXVIII Prassitele, avendo invano chiesto alla statua di Venere, che lo guardava senza ritegno, prima con molte parole persuasive, esortazioni, preghiere e infine con ingiurie e minacce, di correggere il difetto del suo sguardo, finalmente pensò che questo si potesse eliminare con il ferro.

 

LXIX Il corvo loquace abitava la bottega del banchiere e per questo motivo la bottega era chiamata "del corvo". Un contadino assai astuto, avendo dato al corvo molte leccornie in regalo, gli chiese in nome dell'intrapresa amicizia di portare qualcosa per la dote di sua figlia. "Verrei incontro assai volentieri al tuo bisogno", disse il corvo, "ma di tutte le cose che si trovano nella bottega niente, eccetto il nome, mi appartiene".

 

LXX La zanzara che stava per azzuffarsi con la chiocciola, dopo aver provato il pungiglione sulla durissima corazza di quella e dopo aver sentito che l'altra poteva tirare fuori due dardi, aveva paura a scendere in conflitto. Ma la chiocciola, udendo la voce reboante di costei, stava chiusa nei suoi accampamenti. Risero i satiri.

 

LXXI L'amante desiderava ardentemente (e lo chiedeva con insistenti preghiere) di avere nella sua corona uno dei ramoscelli di alloro che ornavano le porte del tempio. Quelli sostennero di non essere destinati a rendere omaggio ai mortali; l'indomani, quando raccolti in un fascio vennero umiliati a spazzare il pavimento, si pentirono della meschinità del giorno precedente.

 

LXXII La volpe, avendo visto la punta della coda di un leone, nascosto dietro un albero per tenderle insidie, pur avendo il dubbio che fosse il bue, scappò ugualmente via a gambe levate e disse: "Preferisco che gli amici si prendano gioco della mia debolezza, piuttosto che piangano sulla mia sciagura".

 

LXXIII L'usignolo aveva detto allo stridulo merlo: "O taci oppure canta qualcosa di melodioso". Quello rispose: "Sei proprio uno stolto ad esprimerti sempre con arte sentita; nel nostro tempo vige infatti questo costume: non chi sa, ma chi sembra sapere viene considerato un gran talento".

 

LXXIV Il pavone in punto di morte, pubblicato il testamento, lasciò la coda per il cimiero di un soldato; i pulcini si lamentavano perché non aveva lasciato ad essi così gran tesoro. Disse il padre: "Dal momento che siete miei figli, non vi mancherà un simile tesoro".

 

LXXV Un tale chiese ad un re che aveva visto dipinto su un'insegna di concedergli, poiché dei re è la munificenza, la veste d'oro di cui era ricoperto. La pittura disse: "Se mi toglierai questa veste, non esisterò più".

 

LXXVI L'arco chiedeva alla corda di evitare le reciproche molestie, o diventando più lunga o rompendosi. Questa invece gli chiedeva di diventare più corto oppure di spezzarsi. Infine, giacché la condizione sembrava inaccettabile ad entrambi, la corda disse: "Dunque difenderemo il nostro diritto, tu con la forza, io con il nervo".

 

LXXVII L'albero, che quell'anno non aveva prodotto frutti, ottenne di non essere tagliato dal contadino, così come egli aveva deciso, avendo promesso per l'anno successivo copioso raccolto. Quindi fra sé disse: "Ecco quanto è importante la pratica della generosità: non è possibile dire di no, senza correre un grandissimo pericolo".

 

LXXVIII Il contadino disse al bue recalcitrante: "Io ti percuoterò con questo mattone di terracotta". Il bue, memore del fatto che esso era alquanto molle (aveva infatti arato la terra da cui proveniva), pensava che il colpo sarebbe stato leggero; infine, quando fu battuto, capì che il mattone era diventato con il fuoco molto duro".

 

LXXIX Il fuco lanciava insistenti invettive contro il re delle api: "Quello inoperoso impigrisce nei piaceri; io passo il mio tempo a percorrere terre e a spremermi le meningi; tuttavia le api preferiscono essere serve di quel pigro". Queste risposero: "Tu sembri operoso perché sei povero, ma nell'ozio saresti apatico e senza freno nel governare; il nostro re, provvedendo ai suoi, preferisce essere buono in casa, piuttosto che sembrare fuori vanaglorioso".

 

LXXX Vulcano, rinchiuso nella lanterna, amica di Plauto il poeta comico, disse a costei: "Tu offuschi il mio splendore". Rispose la lanterna: "Quando io ti salvo dalla violenza del vento e dal pericolo di vita, ti conviene ricordare il detto: non si può evitare un danno senza un danno".

 

LXXXI Il coniglio disse: "Orbene, lepre, passi il tuo tempo ad oziare e sonnecchiare; vuoi fare intendere che sei meditabonda?". Disse la lepre: "Non è forse un non far niente il tuo continuo lavorare?". L'altro rispose: "Entrambi seguiamo il nostro istinto quando non vogliamo sembrare oziosi. A te sarebbe oltremodo faticoso quel che faccio io, a me quel che fai tu".

 

LXXXII Lo scoglio, che si innalzava superbo sopra le basse onde, all'arrivo di onde più alte si nascondeva: a chi gli chiedeva la ragione del suo comportamento rispose: "È sciocco voler sembrare pari a chi è maggiore".

 

LXXXIII Il pesce desiderava ardentemente salire sull'albero e spinto da questo desiderio saltava sulla superficie della fontana verso le immagini riflesse degli alberi; allora le immagini sparivano."Sei a tal segno stolto", dissero gli alberi, "che anche gli alberi finti ti evitano".

 

LXXXIV Una gran catasta di legna si rivoltava nel torrente cresciuto per le piogge. In mezzo ad essa c'era un albero più grande degli altri, a cui si erano attaccati molti arboscelli; e questi era costretto a restare fermo in un luogo sfavorevole e a sostenere da solo tutto l'impeto dell'acqua che montava: "Che gran danno", disse "è la grandezza!". Gli arboscelli risposero: "Tu che hai intercettato per molte ore con la tua ombra il sole dorato, devi accettare con serenità che riposiamo un poco in te nei momenti di emergenza".

 

LXXXV Il bue era trascinato in su per le corna su una nave da carico. Quando i suoi piedi calcavano la terra, egli faceva voti affinché si spezzasse la fune con cui era legato; quando invece era sospeso nell'aria, faceva voti affinché non si spezzasse: "Ecco" - disse la fune - "come costui, a seconda del suo interesse, desidera la mia vita e la mia morte".

 

LXXXVI Il fanciullo voleva uccidere la tartaruga e la scagliava contro la parete. Disse una vecchierella: "O figlio, se vorrai, la ucciderai con quella paglia. Quando si muoverà, percuoti i suoi occhi con la paglia; quella si nasconderà e in questo modo morirà di fame". "Sia questo il tuo compito", disse il fanciullo.

 

LXXXVII Il fango immondo aveva desiderato la grandezza del colosso e l'aspetto di Bacco e aveva ottenuto dall'uomo quasi tutti questi favori; e tuttavia non era stato mai pregiato. "Certo", disse, "dobbiamo nettarci dalle sozzure".

 

LXXXVIII Il lago, quando le nubi si alzarono dai monti nel cielo e si fecero sopra di lui, credendo che fossero montagne, era diventato pallido per la grandissima paura che cadessero nel suo seno. Infine quando le nubi si trasformarono in pioggia e per questo il lago si gonfiò, egli disse: "Quanto ero sciocco ad avere tanto temuto ciò che mi avrebbe tanto giovato".

 

LXXXIX Il fabbro, il nettalatrine e il mugnaio, mentre camminavano attraverso il foro in mezzo ai signori, venivano derisi. Uno di questi disse allora: "Perché mai tutti ridono?". Rispose il fabbro: "Perché sei sporco". "E infatti", disse il nettalatrine, "siamo tutti sporchi". "È di certo come tu dici", disse allora il mugnaio, "ma tu sei sporco e anche molto puzzolente".

 

XC Quando baciò il piede della statua di Minerva posta su un alto monte un uomo di gracile costituzione che era salito con un passo veloce ma moderato e che non era né trafelato né sudato, ricevette le congratulazioni dei sacerdoti. Si dice che la dea abbia dichiarato che nella salita gli zoppi e i deboli sono più numerosi degli aitanti.

 

XCI La lettera, che aveva recato molte notizie assai attese, ma in un passo era stata cancellata, fu per questo lacerata dall'irato destinatario. Disse la lettera: "O malvagia natura degli uomini: infliggono di solito grandi pene per un solo errore e non fanno nessun ringraziamento per i molti benefici ricevuti".

 

XCII A Priapo custode dell'orto che chiedeva un dono il padrone rispose: "Mi meraviglio che tu non abbia saputo approfittare delle ricchezze che hai in sovrabbondanza". "E infatti", disse Priapo "volevo vestiti e toghe". "Forse tu", disse il padrone, "ignori come siano stolti coloro che coi loro doni si sobbarcano a grandi spese, senza arrecare nessun vantaggio a chi riceve il dono".

 

XCIII Quando un leone si accorse che ad un suo simile si era schiusa la porta del cielo, acceso dal desiderio di gloria, compiva ogni sorta di prodezze per avere facile primato su tutti i leoni. "Che sciocchezza fai?", disse l'invidia, "Il posto che spettava ad un esponente della tua specie di animali è stato già assegnato a chi ne era meritevole". Rispose il leone: "Mi basterà averne acquisito il merito".

 

XCIV Il grillo, la rana e simili animali, che o vanno saltando o stanno fermi e distesi per terra, pensavano che il serpente non fosse capace di muoversi. Ma avendolo visto strisciare verso un'altura con incredibile velocità, ammirandone l'agilità, dissero: "O dei, veramente valutiamo l'attitudine e l'indole degli altri in conformità ai nostri sensi e alle nostre forze!".

 

XCV L'asinello diventava di giorno in giorno, man mano che cresceva con gli anni, più lento e intrattabile. Il padre disse: "Come ha deluso le mie aspettative. Infatti, quando era piccolo ed era più villoso del leoncino e sembrava che avesse un torace più largo e una maggiore abilità nella corsa, ho sperato che sarebbe diventato il principe dei quadrupedi". "Non meravigliarti, o padre", disse l'asinello, "dicono che agli esponenti della nostra famiglia accada sempre che da piccoli promettano molto, e che, quando diventano grandi, siano i più deboli di tutti gli animali".

 

XCVI Il leone a cui era stato chiesto perché avesse così grande paura, quando gli gettavano addosso una coperta, disse: "E chi non proverebbe orrore vedendo librato nel cielo questo mostro che non ha né testa né petto".

 

XCVII Il celeberrimo leone amico dell'uomo era condotto per la cavezza attraverso le taverne di Roma dal servo che era stato suo ospite. A chi gli chiedeva perché si comportasse in quel modo e accondiscendesse a servire, egli che nell'arena aveva superato Pegaso nella corsa, i leopardi nel salto, i tori per la forza, gli uomini per l'umanità e che pure tra i leoni non era secondo a nessuno per bellezza e dignità, rispose che occorreva lo stesso animo per aiutare gli amici e infischiarsene di chi abbaia.

 

XCVIII La famosa lepre, di cui parla il poeta Marziale, andata a finire nella bocca del leone, guardando da lontano i cani che latravano e che l'avevano accanitamente rincorsa, disse: "Ecco la gran differenza di essermi affidata a costui!".

 

XCIX Il teatro era preso da non piccola ammirazione nell'osservare un leone che era stato ammaestrato ora a lanciare assai bene un disco nell'aria, ora a rotolare a gran forza un enorme globo di marmo, ora a giocare con molta grazia con un uovo. L'invidioso disse: "Sono prove di nessun valore e, pur sembrando diverse, sono la stessa cosa. Ciascuna di esse consiste nel rotolare qualcosa". Rispose il leone: "Lo ammetto, gran sapiente, è proprio come tu dici; ma non voglio che tu ignori, caro mio, che questo oggetto fragile che io rotolo è un uovo, non una palla".

 

C L'invidioso aveva detto al pavone: "O sciocco, ti sei posto in testa da te stesso la corona?". Rispose il pavone: "Non hai considerato che ho preso pure una collana variopinta?". Risero le ninfe.